54 Vito Timmel - “il viandante” collezione privata
I cinque personaggi della “Timmel & Co.” Fino ad almeno due decenni dopo la fine della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, gli artisti triestini – soprattutto quelli figurativi, pittori e scultori – avevano mantenuto la tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> ritrovarsi in “santuari” benevolmente – e generosamente – accoglienti. L’ultimo, forse, è stata quella “spezieria” che Velic aveva aperto in via della Geppa e dove – attorno ai pochi tavoli e sulle pareti – si ritrovava quella che allora era l’ultima generazione, dei pittori Livio Rosignano e Marino Sormani e dello scultore Marino Carne. <strong>La</strong> “spezieria” aveva introdotto una caratteristica ignota a Trieste, ma largamente <strong>di</strong>ffusa in tutto il Friuli, <strong>di</strong> tenere solo vino <strong>di</strong> qualità e <strong>di</strong> aprire una bottiglia anche per servire soltanto un bicchiere (non pagato – nel caso degli artisti). Meno raffinato il panorama enologico <strong>di</strong> un’osteria, tra le due gallerie, in via Risorta, dove la personalità <strong>di</strong> maggiore spicco era quella del musicista Mario Bugamelli con i “sodali” Glauco Del Basso, pianista e critico musicale, e Fabio Todeschini, poeta, figlio dell’autore del libretto de <strong>Il</strong> trittico musicato da Antonio <strong>Il</strong>lesberg. Anche Del Basso e Bugamelli avevano scritto e musicato una “comme<strong>di</strong>a musicale” intitolata “Luluria” (c’è qualcuno che pensa <strong>di</strong> recuperare questo spartito <strong>di</strong> uno dei maggiori compositori triestini <strong>di</strong> tutti i tempi?). Ma il ritrovo più rinomato – e celebrato – nell’imme<strong>di</strong>ato primo dopoguerra era il ristorante “Venturi alla luce”, nella centralissima Piazza Goldoni (ove vi è subentrata una grande torrefazione): il “maitre” era celebre per i suoi piatti “alla fiamma” (non so con quanto senso <strong>di</strong> Guido Botteri dell’umorismo manderà tutti due i suoi figli, e collaboratori, a fare il servizio militare nei vigili del fuoco). Rimaneva aperto fino a notte inoltrata e i giornalisti che uscivano dalla tipografia <strong>di</strong> via Silvio Pellico, per un “piatto caldo” e l’ultimo bicchiere <strong>di</strong> vino vi ritrovavano i rappresentanti della più fertile stagione dell’arte figurativa, a Trieste: Nino Perizi, Federico Righi, Dino Predonzani e quello che ormai era <strong>di</strong>ventato il “guru” dell’Arte a Trieste, lo scultore Marcello Mascherini. Le altissime pareti del “Ristorante alla luna” erano tutte tappezzate o da fotografie con autografo e de<strong>di</strong>ca <strong>di</strong> cantanti lirici e attori <strong>di</strong> prosa (quello <strong>di</strong> piazza Goldoni era uno dei pochi ristoranti aperti “dopoteatro”) o <strong>di</strong> opere firmate dagli artisti triestini, alcune delle quali nate proprio sulle tavole imban<strong>di</strong>te (dove è andato a finire questo patrimonio <strong>di</strong> memoria e d’arte?), a “saldo” delle consumazioni. Se nel secondo dopoguerra i “santuari” erano rappresentati da più o meno prestigiose osterie, a cavallo della prima grande guerra – come ci <strong>di</strong>ce Giani Stuparich, nel suo Trieste nei miei ricor<strong>di</strong> – gli artisti, pittori e scultori, ma anche scrittori e poeti si ritrovano al mitico “Caffè Garibal<strong>di</strong>”, aperto al pianterreno del municipio, in Piazza Grande (nel dopoguerra “dell’Unità”), per poi passare tutti al vicino “Bar Nazionale”, per collettiva solidarietà con un cameriere ingiustamente – secondo gli artisti – licenziato dal gestore. <strong>Il</strong> “cenacolo” del “Caffè Garibal<strong>di</strong>” vede presenti, oltre agli Stuparich, Italo Svevo, Umberto Saba, Virgilio Giotti, Bobi Bazlen, lo scultore Ruggero Rovan (che Stuparich, nel suo volume uscito nel 1948 giu<strong>di</strong>cava non adeguatamente apprezzato) 55