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La mostra di Claudio Magris - Il Rossetti

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Conversazione con Clau<strong>di</strong>o <strong>Magris</strong><br />

Mentre alla Sala Bartoli <strong>La</strong> <strong>mostra</strong> <strong>di</strong> Clau<strong>di</strong>o<br />

<strong>Magris</strong> sta trovando voce, fisicità, la propria<br />

<strong>di</strong>mensione scenica – “tradotto” dalla pagina al<br />

palcoscenico, dal fervido lavoro del regista<br />

Calenda, <strong>di</strong> Roberto Herlitzka, Mario Maranzana<br />

e degli attori e collaboratori dello Stabile regionale<br />

– l’autore ci regala qualche riflessione sul testo<br />

e sull’esperienza <strong>di</strong> questa messinscena, che ha<br />

seguito “da vicino” assistendo spesso alle prove.<br />

«È molto bello – commenta – veder nascere lo<br />

spettacolo, un po’ come vedere un figlio che va<br />

per la sua strada...»<br />

Per quale motivo, per raccontare la storia <strong>di</strong><br />

Timmel ha sentito necessario esprimersi in<br />

forma teatrale?<br />

<strong>Il</strong> primo motivo, forse meno rilevante, è che Fabio<br />

Nieder mi chiese <strong>di</strong> scrivere assieme un’opera su<br />

Timmel, e dunque avrei dovuto concepire <strong>La</strong><br />

<strong>mostra</strong> come un libretto d’opera. Dapprima<br />

rifiutai, poi questa figura mi rimuginava dentro e<br />

ho scritto. Però ognuno <strong>di</strong> noi è andato per la sua<br />

strada e credo che alla fine le nostre opere siano<br />

molto <strong>di</strong>verse: ci siamo reciprocamente debitori<br />

per lo scambio d’idee, d’intuizioni. Ci sono invece<br />

ragioni più profonde. Intanto credo che uno scrittore,<br />

se ha un minimo <strong>di</strong> autenticità, non scelga<br />

mai a priori: fa quello che può. Non ho scelto <strong>di</strong><br />

scrivere Danubio in quel modo, è nato così: ogni<br />

storia nasce in<strong>di</strong>ssolubilmente legata alla propria<br />

forma.<br />

Ci sono poi due tipi <strong>di</strong>versi <strong>di</strong> scrittura. Un conto<br />

è quando scriviamo un articolo per il giornale,<br />

oppure per una ragione politica o morale: quando<br />

<strong>di</strong> <strong>Il</strong>aria Lucari<br />

cioè trattiamo un problema dando un giu<strong>di</strong>zio,<br />

sulla base <strong>di</strong> una visione globale, esprimendo<br />

anche quelle che sono le nostre <strong>di</strong>rette concezioni<br />

del mondo. Tutt’altro è invece se facciamo i conti<br />

con certe esperienze nostre o altrui, capaci <strong>di</strong> provocare<br />

pensieri e sentimenti che emergono senza<br />

che li controlliamo o analizziamo: non esprimiamo<br />

allora le nostre “risposte”, ma le nostre<br />

domande. <strong>Il</strong> teatro è la forma più adatta a dar<br />

voce all’elemento che chiamo “notturno”, a questo<br />

“fluire della vita” che non raccontiamo per<br />

dare un giu<strong>di</strong>zio morale, ma che “ascoltiamo”<br />

quasi e registriamo...<br />

Una scrittura più dell’anima che della<br />

mente?<br />

È una scrittura che non nasce da quanto vogliamo<br />

<strong>di</strong>re responsabilmente sul mondo. Sono piuttosto<br />

brandelli <strong>di</strong> vita, <strong>di</strong> emozioni: per me la<br />

forma teatrale è strettamente legata a questa<br />

scrittura selvaggia, meno analitica, meno ideologica,<br />

più vitale. Espressione delle inquietu<strong>di</strong>ni,<br />

delle domande che ci si pone quando si è sbattuti<br />

faccia a faccia col grado zero dell’esistenza, con la<br />

Medusa. <strong>Il</strong> teatro può testimoniare quel momento,<br />

proprio perché gli appartiene l’hic et nunc, in<br />

ogni gesto, in ogni battuta, in ogni attimo.<br />

Ha potuto seguire le <strong>di</strong>verse fasi della “genesi”<br />

dello spettacolo. Come ha vissuto questa<br />

esperienza?<br />

Mi ha molto interessato, ho seguito <strong>di</strong>verse prove,<br />

fin dall’inizio. Devo <strong>di</strong>re che mi sono sentito<br />

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