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La DIVINA COMMEDIA E DANTE ALIGHIERI - FrancescaDeVincenti ...

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Qual era il contesto storico in cui vive Dante?<br />

<strong>DANTE</strong> <strong>ALIGHIERI</strong><br />

a cura della prof. Giovanna Magi<br />

Il XIII secolo era l’epoca delle lotte tra Papato e Impero e i Comuni. <strong>La</strong> Chiesa voleva il potere<br />

politico oltre che quello spirituale, l’Impero vedeva minato il proprio potere sia da parte della<br />

Chiesa che dalle spinte autonomistiche dei Comuni che reclamavano la libertà di governarsi, di<br />

coniare le proprie monete, di scrivere le proprie leggi. I liberi Comuni erano nell’Italia settentrionale<br />

e centrale, centri economici e culturali di grande importanza, dove si sviluppavano commerci e<br />

traffici di ogni genere. I Comuni erano, inoltre, in lotta tra loro perché alcuni erano di parte guelfa e<br />

altri di parte ghibellina.<br />

In questo clima violento e instabile nacque Dante Alighieri.<br />

<strong>DANTE</strong> <strong>ALIGHIERI</strong> (BIOGRAFIA)<br />

Dante Alighieri nacque a Firenze nel 1265, da una piccola e nobile famiglia fiorentina. <strong>La</strong> madre<br />

Bella morì molto giovane, e il padre, piccolo possidente cittadino, ben presto si risposò.<br />

<strong>La</strong> sua famiglia era di parte guelfa, cioè sostenitrice durante la lotta tra Papato e Impero del Papa.<br />

Alighieri cominciò ad andare a scuola probabilmente nel convento francescano di Santa Croce, poi<br />

alla scuola di Brunetto <strong>La</strong>tini imparò la retorica, cioè l’arte di parlare e scrivere in latino seguendo<br />

le norme di una lingua colta, nel frattempo grazie al suo maestro entrò in contatto con alcuni dei<br />

principali esponenti della vita culturale toscana tra cui i fiorentini, Guido Cavalcanti e <strong>La</strong>po Gianni,<br />

e il bolognese Guido Guinizzelli.<br />

Con questi amici poeti realizzò un nuovo modo di comporre poesia definito il “Dolce Stil Novo”, nel<br />

quale la donna è raffigurata come simbolo di purezza e assume un aspetto angelico che fa da<br />

tramite tra Dio e il poeta. L’amore celebrato da questi poeti è un amore dolce delicato e quasi<br />

trascendentale (spirituale), vedi Beatrice nella Vita Nova.<br />

Si sposò verso il 1285 con Gemma Donati 8fu un matrimonio combinato), dalla quale ebbe quattro<br />

figli.<br />

Dante si dedicò intensamente allo studio della filosofia e della teologia (Dio). Nel giugno 1289<br />

prese parte alla battaglia di Campaldino contro la città ghibellina di Arezzo, dove vinsero i guelfi.<br />

Partecipò alla vita politica del comune di Firenze dalla parte dei guelfi bianchi che volevano<br />

l’indipendenza rispetto al papato e fu inviato nel 1301 a Roma come ambasciatore della città per<br />

mediare con Bonifacio VIII, ma il Papa e i guelfi neri che erano coloro che appoggiavano il Papa,<br />

sostennero quest’ultimo e vinsero. Dante fu condannato, con l’accusa di corruzione,<br />

appropriazione di fondi pubblici, al pagamento di una multa ed esclusione dai futuri incarichi<br />

pubblici, ma una seconda sentenza, in seguito, lo condannò all’esilio. Dante rimase in esilio per<br />

tutta la vita perché non si presentò a discolparsi e fu condannato al rogo, ma poi la pena fu<br />

commutata all’esilio, provò più volte a rientrare a Firenze.<br />

Dopo l’esilio forzato, iniziò un lungo pellegrinaggio presso le principali corti italiane: Forlì, Verona,<br />

Ravenna. In esilio scrisse importanti opere tra cui la Divina Commedia, trascorse i suoi ultimi anni<br />

presso il signore Guido da Polenta a Ravenna, dove morì il 14 settembre 1321 (all’età di 56 anni),<br />

colpito dalla malaria che aveva contratto durante la missione diplomatica a Venezia. Fu sepolto<br />

nella cappella di S. Francesco a Ravenna.<br />

1


Quale fu la produzione poetica di Dante?<br />

Dante scrisse diverse opere. Le prime ripercorrono l’esperienza stilnovistica, in particolare le Rime<br />

(raccolta di poesie in volgare, scritte per differenti occasioni e in stili diversi) e la Vita Nova, cioè la<br />

vita giovanile scritta tra il 1294 e il 1295 in cui Dante vuole raccontare la sua esperienza di vita e<br />

d’amore per Beatrice (una nobildonna fiorentina identificata come Bice Portinari, moglie di Simone<br />

Bardi). Dante racconta di aver conosciuto Beatrice all’età di nove anni e di essersene<br />

immediatamente innamorato, la rivede poi all’età di 18 anni, quando lei è già sposata e rimane di<br />

nuovo folgorato dal suo sguardo e dal suo saluto. Poi preceduta da un sogno e da una visione,<br />

Dante racconta la morte di Beatrice, avvenuta all’età di 24 anni (1290). Il poeta sprofondato nel<br />

suo dolore decide di non parlare più di lei, finchè non potrà farlo più degnamente. Beatrice la<br />

ritroveremo infatti in Paradiso nella Divina Commedia. I critici hanno discusso a lungo<br />

sull’esistenza di Beatrice, poi ne hanno dedotto la reale esistenza dalla costante presenza di lei<br />

nelle sue opere, una donna idealizzata per le sue straordinarie doti di perfezione e di purezza.<br />

Le opere di Dante più maturo sono:<br />

1) il DE VULGARI ELOQUENTIA, opera scritta in latino che si rivolge ai letterati, nella quale Dante<br />

analizza le varie lingue scritte e orali fino ad individuare nel “VOLGARE ILLUSTRE” la lingua da<br />

utilizzare come modello di lingua italiana;<br />

2) il DE MONARCHIA in cui espone le sue teorie politiche fondate sulla separazione tra potere<br />

spirituale e potere temporale, in cui l’autore auspica all’arrivo di un imperatore giusto e un papa<br />

che non pensi alle cose materiali ma alla salvezza delle anime e dei fedeli;<br />

3) il CONVIVIO (significa banchetto) scritto in volgare, realizzato solo in parte, in cui l’autore vuole<br />

offrire la possibilità di avvicinarsi a tutti alla filosofia, cioè alla sapienza, per permettere d’imparare<br />

anche a coloro che sono privi di dottrina. L’opera è concepita come un misto di poesia (sono<br />

presentati testi poetici) e di prosa (cui segue il commento in prosa dell’autore).<br />

LA <strong>DIVINA</strong> <strong>COMMEDIA</strong><br />

1) Che tipo di opera è, perché è così chiamata e da chi, quando è stata scritta?<br />

<strong>La</strong> Divina Commedia è il poema più importante di Dante, scritta negli anni dell’esilio, l’aggettivo<br />

“Divina” sarà aggiunto da Giovanni Boccaccio per indicarne il carattere spirituale. Fu composta<br />

forse a partire dal 1307 e divulgata in parte (Inferno e Purgatorio) durante la vita di Dante, in parte<br />

(Paradiso) dopo la sua morte.<br />

2) Qual è l’argomento trattato?<br />

2


<strong>La</strong> Divina Commedia racconta un viaggio immaginario nell’oltretomba intrapreso da Dante all’età<br />

di 35 ani. Il viaggio inizia attorno all’equinozio di primavera, esattamente il giovedì santo (che allora<br />

cadde il 7 aprile del 1300). <strong>La</strong> durata del viaggio è lunga sei giorni, dalla notte del giovedì 7 aprile<br />

al mercoledì successivo 13 aprile.<br />

3) Qual è lo scopo del viaggio?<br />

Dante vive una realtà di grave sofferenza interiore: la metafora del viaggio esprime il desiderio di<br />

Dante di salvare la sua anima da una situazione di grave pericolo spirituale, attraverso la<br />

conoscenza diretta del Male all’Inferno, delle pene inflitte alle anime del Purgatorio, fino alla<br />

visione del Bene Assoluto in Paradiso.<br />

<strong>La</strong> ricerca di una redenzione individuale avrà uno scopo più universale perché permetterà al poeta<br />

di contribuire alla salvezza di tutta l’umanità macchiatasi del peccato originale.<br />

4) Qual è la struttura del poema?<br />

E’ un poema scritto in volgare fiorentino:<br />

- In versi endecasillabi, (undici sillabe);<br />

- Composto da cento canti in terzine (strofe di tre versi), legate dalla rima incatenata,<br />

secondo lo schema ABA, BCB, CDC, ECC;<br />

- diviso in tre parti o cantiche, che corrispondono ai tre regno dell’oltretomba: Inferno (33<br />

cantiche + 1 per l’introduzione o proemio), Purgatorio (33 cantiche), Paradiso (33 cantiche).<br />

5) Qual è la simbologia utilizzata dal poeta?<br />

Dante ricorre in modo molto frequente all’uso del numero tre e dei suoi multipli, numeri che nel<br />

Medioevo avevano un valore religioso e simbolico, in riferimento alla Santissima Trinità: tre sono<br />

infatti le fiere nel primo canto dell’Inferno, nove i gironi dell’Inferno, nove i cerchi del Purgatorio,<br />

nove i cieli del Paradiso, trentatrè canti, ecc.<br />

6) Quali guide sono scelte da Dante per guidarlo nel suo viaggio e a quale scopo?<br />

Tre sono le guide scelte e sono necessarie nella finzione letteraria, perché il poeta essendo vivo,<br />

non potrebbe compiere da solo un viaggio nell’oltretomba:<br />

- il poeta latino Virgilio, che lo conduce attraverso l’Inferno e il Purgatorio;<br />

- Beatrice, a cui Virgilio, lo consegna, sulla cime della montagna del Purgatorio;<br />

- San Bernardo, che insieme a Beatrice, lo accompagnerà nella visita del Paradiso.<br />

7) Quale immagine del mondo classico è recuperata nella Divina Commedia?<br />

Quella della discesa agli Inferi concessa solo agli eroi come: Achille, Ulisse, Enea.<br />

8) Quali sono l’allegoria e la simbologia medievale, cosa significa il termine allegoria?<br />

<strong>La</strong> Divina Commedia è un’opera allegorica, (allegoria dal greco, significa parlare di altro). <strong>La</strong><br />

vicenda, i personaggi, le situazioni devono essere interpretati in quanto nascondono significati<br />

profondi, per esempio:<br />

- la selva in cui il poeta si perde rappresenta il peccato dal quale si lascia trascinare;<br />

- il pericoloso viaggio nell’oltretomba indica gli ostacoli da superare per ritrovare la Grazia<br />

Divina;<br />

- le bestie feroci (lonza, leone, lupa) che nella selva lo perseguitano, rappresentano i tre<br />

peccati più gravi: la lussuria, la superbia, l’avarizia;<br />

- le tre guide rappresentano Virgilio l’umana ragione, Beatrice la fede, San Bernardo la<br />

grazia divina.<br />

9) Qual è la struttura del cosmo Dantesco?<br />

<strong>La</strong> visione dantesca dell’universo rispecchia la visione del mondo di Dante basata sulla teoria<br />

geocentrica o Tolemaica (Tolomeo geografo greco del II sec. d.C), in base alla quale si sosteneva<br />

che la Terra fosse al centro dell’universo, circondata dalla sfera de fuoco e da nove cieli e che il<br />

3


Sole le girasse intorno, insieme alle stelle e ai pianeti. L’Asia e L’Africa, gli unici continenti<br />

conosciuti oltre all’Europa, erano circondate da un anello di acqua che corrispondeva al cosiddetto<br />

Fiume Oceano.<br />

Dante suppone che la Terra sia immobile al centro dell’universo e divisa in due emisferi: quello a<br />

nord delle acque e quello a sud delle terre emerse.<br />

- L’Inferno è immaginato come una voragine a forma d’imbuto che è stata provocata dalla<br />

caduta dal cielo di Lucifero e dei suoi angeli ribelli, che Dio cacciò dal Paradiso.<br />

L’imboccatura dell’inferno è situata nell’emisfero boreale, presso Gerusalemme, che si<br />

trova alla stessa distanza dai confini del mondo, allora conosciuto, rappresentati dalle<br />

colonne d’Ercole e dalla foce del Gange.<br />

- Il Purgatorio, formatosi nell’emisfero opposto, l’australe, in seguito al contraccolpo<br />

provocato dall’impatto degli angeli con il suolo terrestre. <strong>La</strong> montagna del Purgatorio è<br />

collegata al centro della Terra per mezzo di una stretta galleria sotterranea.<br />

- Il Paradiso vero e proprio. Si trova sopra la montagna del Purgatorio, in cielo, è diviso in<br />

nove cieli concentrici, che girano vorticosamente sospinti dall’amore per Dio, al di sopra dei<br />

quali, immobile, si trova il cielo quieto o Empireo, che è la sede di Dio.<br />

TRATTAZIONE CANTI <strong>DIVINA</strong> <strong>COMMEDIA</strong><br />

I canto: introduzione al poema – Dante si trova disperso in una selva oscura e non sa come vi è<br />

arrivato, il suo animo è molto turbato perché avverte un grave pericolo che lo minaccia.<br />

Dante piomba nello sconforto perché tre belve feroci (lonza, leone, lupa) che nella selva lo<br />

perseguitano, rappresentano i tre peccati più gravi: la lussuria, la superbia, l’avarizia. Esse lo<br />

incalzano, impedendogli di proseguire il viaggio intrapreso. A questo punto compare Virgilio<br />

(simbolo della saggezza e della poesia) che gli promette di portarlo in salvo, anche se ciò avverrà<br />

attraverso una via lunga e pericolosa.<br />

II Canto - scende il tramonto: mentre tutti gli uomini cessano le fatiche del lavoro, per<br />

Dante inizia l’immane fatica del viaggio nell’oltretomba.<br />

Immancabile ma breve la protasi o invocazione alle Muse, nella quale Dante invoca l’aiuto delle<br />

Muse insieme a quello del proprio ingegno e della propria memoria, per poter accuratamente<br />

registrare tutto ciò che incontra. Il poeta è consapevole che, in questa operazione, potrà<br />

dimostrare la sua grandezza di uomo e di poeta (nobilitate).<br />

Dante è indeciso se seguire Virgilio, perché si sente insicuro di sé e chiede come sarà possibile<br />

per lui vivere il privilegio del viaggio ultraterreno, dato che finora è stato concesso solo ai grandi<br />

come Enea (fondatore di Roma e legittimato da Dio perché ha creato la futura sede del pontificato)<br />

e San Paolo( che ha stabilito con la sua predicazione la fede nel Cristo, senza la quale non è dato<br />

4


salvarsi). Virgilio lo rimprovera per la sua viltà e mancanza di fiducia nel volere divino. Lo rassicura<br />

sul fatto che tre donne vogliono la sua salvezza: Beatrice stessa (simbolo della teologia, scienza<br />

che studia la natura di Dio), sollecitata da santa Lucia (simbolo della grazia, cui Dante era<br />

particolarmente devoto per averlo guarito dalla sua malattia agli occhi), su invito della Madonna,<br />

era scesa dal Paradiso al Limbo, dove sostava Virgilio, per incaricarlo di essere la guida al viaggio<br />

di Dante, poi lei lo scorterà in Paradiso. Beatrice è guidata dall’amore: amore di Dante per lei, di<br />

Beatrice per Dante, di Dio per tutta l’umanità sofferente.<br />

A sentir le parole di Virgilio Dante si rianima come un fiore.<br />

III Canto: l’entrata all’Inferno<br />

Virgilio guida Dante all’ingresso di una grotta: è la PORTA DELL’INFERNO. Terribili sono le parole<br />

che la sovrastano: esse rappresentano un ammonimento per coloro che ne oltrepassano la soglia,<br />

cancellano ogni luce di speranza. Nelle tenebre fitte si aggira un tumulto confuso di voci irose e di<br />

alti lamenti, di pianti senza tregua e l’animo di Dante è oppresso dall’angoscia e dalla paura.<br />

Per me si va nella città dolente,<br />

per me si va nell’etterno dolore,<br />

per me si va tra la perduta gente.<br />

Giustizia mosse il mio alto fattore,<br />

fecemi la divina potestate,<br />

la somma sapienza e ‘l primo amore.<br />

Dinanzi a me non fuor cose create<br />

se non etterne, e io etterno duro.<br />

<strong>La</strong>sciate ogni speranza voi ch’entrate.<br />

Nell’ANTINFERNO, di lì a poco Dante si rende conto di essere nell’Antinferno o Vestibolo, la<br />

zona infernale posta al di qua del fiume Acheronte, che la separa dall’Inferno vero e proprio. Qui<br />

incontra gli ignavi coloro che non presero mai una decisione in vita.<br />

Essi sono condannati a correre senza scopo dietro ad una bandiera priva d’insegna, così come,<br />

per vigliaccheria, in vita non ebbero il coraggio di scegliere, di prendere una posizione. Per tale<br />

motivo essi non sono nemmeno ritenuti degni di stare nell’Inferno, sono punti da vespe e mosconi,<br />

che rigano di sangue i loro volti. Il sangue mescolato alle lacrime è raccolto a terra da una<br />

moltitudine di vermi. Evidente è la legge del contrappasso.<br />

Tra queste anime Dante vede o incontra Celestino V, il papa che rinunciò al papato perché si<br />

giudicò privo di quelle qualità occorrenti al governo al governo della Chiesa, abdicazione che aprì<br />

la strada all’elezione di Bonifacio VIII che Dante giudicava la principale causa della rovina di<br />

Firenze e della sua. Forse tra queste anime v’include anche Ponzio Pilato che non seppe risolversi<br />

a condannare Gesù , né a salvarlo o anche il biblico Esaù che cedette al fratello la primogenitura<br />

(anche se non li cita espressamente) in favore di Giacobbe.<br />

FIUME ACHERONTE Proseguendo il loro cammino Dante e Virgilio arrivano sulla riva triste<br />

dell’Acheronte, dove si accalcano le ombre in attesa di essere traghettate in quella che sarà la loro<br />

eterna dimora. Piangono e bestemmiano la loro sorte, ma la volontà di Dio le stimola ad affrettarne<br />

il compimento e tramuta il timore della punizione in desiderio per elevarsi a Dio. Caronte, il<br />

diabolico nocchiero, un personaggio mitologico figlio della Notte, è presentato come un vecchio<br />

canuto, violento e minaccioso nei confronti dei dannati che lo attendono tremanti. Egli raccoglie le<br />

anime nella sua barca per trasportarle sull’altra riva del fiume, ma si rifiuta di trasportare Dante e<br />

gli ordina di allontanarsi, perché gli spiega non è quello il modo per raggiungere l’aldilà. A Questo<br />

5


punto interviene Virgilio, affermando che il loro viaggio è voluto da Colui che tutto può. Poi la terra<br />

trema e il vapore, che se ne sprigiona, produce un lampo abbagliante così che Dante viene meno.<br />

CANTO IV: Dante riprende i sensi e si ritrova al di là dell’Acheronte sull’altra riva senza sapere<br />

come abbia fatto.<br />

Nel I cerchio o girone dell’Inferno vi è il Limbo dove stanno le anime che sono esenti da colpe<br />

specifiche e talora anche con meriti, ma che non poterono salvarsi perché vissuti prima o fuori dal<br />

Cristianesimo o perché morirono senza essere battezzate e nell’uno o nell’altro caso non furono<br />

elette dalla Grazia. <strong>La</strong> loro pena è tutta spirituale e consiste in un desiderio irrealizzabile<br />

della vista o presenza di Dio. E’ questa una folla di spiriti, di uomini, donne e bambini e fra essi<br />

c’è gente di estremo valore, eroi, capi di governo, filosofi, scienziati, poeti. Per questi ultimi il poeta<br />

immagina una condizione distinta ed eccezionale: dentro le sette mura di un nobile castello, un<br />

prato verde e fiorito, un luogo aperto e luminoso e alto dove si aggirano personaggi<br />

dall’atteggiamento nobile e autorevole, dai gesti rari e dignitosi. Quattro spiriti si fanno incontro ai<br />

poeti sono i maestri della poesia classica: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Dante è accolto, con<br />

Virgilio tra tanto senno benevolmente. I sei camminano insieme, discorrendo, e giungono in un<br />

luogo luminoso, ai piedi di un castello difeso da sette cerchi di muta e da un corso d’acqua, che<br />

essi attraversano come se fosse terraferma. Dopo aver varcato, passando per sette porte, il<br />

settemplice giro di mura, il gruppo dei sei poeti arriva in un prato verdissimo e fresco. Da un’altura<br />

Virgilio indica a Dante alcuni tra i più nobili spiriti dell’antichità e del Medioevo non cristiano. I due<br />

si separano quindi dai loro accompagnatori e, lasciato il limbo, giungono nuovamente in un luogo<br />

privo di luce<br />

CANTO V: dal secondo al quinto cerchio – gli Incontinenti<br />

Proseguendo nel loro cammino, Dante e Virgilio giungono nell’INFERNO vero e proprio. Le<br />

sue pareti sono scavate nella roccia e formano tanti gradini, ognuno dei quali costituisce un girone<br />

o cerchio. In ogni girone è ospitata una certa categoria di peccatori, sorvegliati da diavoli e mostri<br />

infernali, destinati a subire la legge del contrappasso, che stabilisce di volta in volta una<br />

corrispondenza fra il peccato commesso e la pena subita. <strong>La</strong> corrispondenza può essere per<br />

analogia (lussuriosi travolti dalla bufera come in vita furono travolti dalla passione) o per antitesi<br />

(gli indovini per aver voluto in vita vedere oltre nel futuro, ora sono costretti a camminare con la<br />

testa rivolta all’indietro).<br />

L’imbuto è diviso in:<br />

- Alto Inferno diviso a sua volta in 5 cerchi - dove si trovano gli Incontinenti dal secondo<br />

al quinto cerchio (coloro che in vita non hanno saputo controllare i propri istinti<br />

naturali e le proprie passioni) categoria peccaminosa che meno offende Dio:<br />

I CERCHIO (LIMBO) infedeli e bambini non battezzati<br />

A guardia del secondo cerchio sta Minosse, leggendario re di Creta nella mitologia greca,<br />

che qui ha l’aspetto di un mostro enorme, con una coda lunghissima. Egli ha il compito di<br />

confessare le anime dannate e di assegnare loro la pena da scontare. Per indicare il luogo in cui<br />

l’anima dovrà precipitare, utilizza la sua smisurata coda che attorciglia intorno al corpo, formando<br />

una specie di spire corrispondente a quella del cerchio a cui la vuole destinare.<br />

Dante divide gli Incontinenti in:<br />

II CERCHIO: Lussuriosi (canto V)<br />

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Nel secondo ripiano scontano il loro peccato le anime dei lussuriosi: nel buio un’incessante<br />

bufera le travolge, facendole dolorosamente cozzare le une contro le altre, cosicché l’aria è<br />

piena di lamenti.<br />

Pregato dal suo discepolo, Virgilio gli addita i personaggi celebri dell’antichità e del Medioevo che<br />

non seppero vincere in sé la passione, e che per essa perdettero la vita: Semiramide, regina degli<br />

Assiri, presentata come esempio di lussuria sfrenata; Didone, la regina di Cartagine che,<br />

nell’Eneide di Virgilio, per amore di Enea ruppe il giuramento di fedeltà al defunto marito Sicheo;<br />

Cleopatra, regina d’Egitto amata da Cesare e da Antonio che si suicidò per non cadere prigioniera<br />

di Ottaviano; Elena, per la cui causa scoppiò la guerra di Troia; Achille che innamorato di<br />

Polissena, figlia di Priamo, si fece trascinare in un agguato dove morì a a tradimento, Paride che<br />

rapì Elena, Tristano, cavaliere di re Artù, amante di Isotta, la bionda, moglie di suo zio, Marco di<br />

Cornovaglia. Dante esprime il desiderio di parlare con due di queste ombre: esse, diversamente<br />

dalle altre, procedono indissolubilmente unite e sembrano quasi non opporre resistenza al vento.<br />

Sono Francesca da Rimini, figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, e Paolo Malatesta,<br />

colpevoli di adulterio. <strong>La</strong> storia narra che Francesca andò in sposa a Gianciotto Malatesta, uomo<br />

zoppo e deforme, nel 1275, figlio del signore di Rimini e fratello di Paolo Malatesta. Il matrimonio fu<br />

stipulato per sancire la pace tra le due famiglie. Si pensa che a Francesca sia stato presentato<br />

prima Paolo, di bell’aspetto, per convincerla a sposarsi, poi le fu svelato l’inganno. Al castello<br />

Francesca e Paolo hanno modo di stare spesso insieme e s’innamorano, così Gianciotto li spia di<br />

nascosto e poi cogliendoli in flagrante li uccide entrambi.<br />

Chiamati da Dante, i due peccatori si accostano, e Francesca, manifestata al Poeta la sua<br />

gratitudine per aver egli avuto pietà della loro pena, narra di sé e dell’amore che con tanta forza la<br />

legò a Paolo. Dante, turbato, vuole sapere quali circostanze portarono il loro sentimento reciproco<br />

a trasformarsi in amore colpevole, e Francesca si abbandona ai ricordi del tempo felice: erano soli;<br />

leggevano un romanzo che narrava la storia d’amore tra <strong>La</strong>ncillotto e Ginevra; fu quella lettura a<br />

far incontrare i loro sguardi, a farli trascolorare; fu il primo bacio scambiato fra i protagonisti di quel<br />

romanzo a renderli consapevoli della loro passione. Mentre Francesca parla, Paolo piange: a<br />

questa vista, per la profonda pietà, Dante perde i sensi.<br />

( CANTO VI ) III CERCHIO: golosi (la golosità è vista come un istinto bestiale)<br />

Quando Dante si risveglia si trova nel terzo cerchio. Una pioggia nauseabonda, mista a grandine e<br />

neve, tormenta i dannati del terzo cerchio: i golosi. Essi sono sdraiati in un putrido fango, sotto<br />

una pioggia eterna. <strong>La</strong> pena: così come in vita si sono saziati di cibi raffinati ora nell’Inferno sono<br />

costretti allo sporco e al fango.<br />

Il mostro, a guardia di questo cerchio è Cerbero, personaggio mitologico con tre teste canine e<br />

zampe artigliate, con una fame insaziabile, li dilania senza tregua. Alla vista dei due poeti il mostro<br />

dà sfogo al suo furore, ma Virgilio non ha esitazioni: getta nelle fameliche gole una manciata di<br />

fango e la belva, tutta intenta a divorarlo, si placa. Dante, con il maestro, prosegue il suo cammino<br />

calpestando la sozza mistura di fango e ombre di peccatori, quando, all’improvviso, una di esse,<br />

levatasi a sedere, si rivolge a lui esclamando: . Ma tanta è la sofferenza che ne deforma i<br />

lineamenti, da non consentire al Poeta di ravvisare in essi una fisionomia a lui nota. Allora il<br />

dannato rivela il suo nome, Ciacco, è un suo concittadino, e profetizza, richiesto dal suo<br />

interlocutore, il prossimo trionfo in Firenze, covo di‘ ingiustizie e di odio, del partito dei Neri. Ad una<br />

precisa domanda del pellegrino Ciacco rivela che i grandi personaggi politici della Firenze del<br />

passato scontano i loro peccati nel buio dell’inferno. Terminato il suo dire, con un’espressione che<br />

non ha più nulla di umano, cade pesantemente a terra, in mezzo agli altri suoi compagni di pena.<br />

Virgilio, a questo punto, ricorda al suo discepolo che Ciacco, al pari degli altri dannati, riavrà il suo<br />

corpo nel giorno del Giudizio Universale e che, dopo la risurrezione della carne, le sofferenze dei<br />

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eprobi aumenteranno d’intensità. Giunti nel punto ove è il passaggio dal terzo al quarto cerchio, i<br />

due viandanti s’imbattono nel demonio Pluto.<br />

(CANTO VII) IV CERCHIO: avari e prodighi per troppo vigore, coloro che non seppero usare in<br />

modo giusto la loro ricchezza.<br />

Con voce stridula e il volto gonfio d’ira, il guardiano del quarto cerchio, dove avari e prodighi<br />

scontano la loro pena eterna, grida parole incomprensibili all’indirizzo dei due poeti. Ma non<br />

appena Virgilio gli ricorda che il loro viaggio si compie per volontà di Dio, il suo furore svanisce; il<br />

mostro, come privato delle sue forze, si accascia al suolo. Essi possono così discendere nel quarto<br />

ripiano, dove due fitte schiere di dannati(avari da una parte) e prodighi dall’altra spingono, in<br />

direzioni contrarie, grandi pesi. Due sono i punti del cerchio, diametralmente opposti, in cui le<br />

schiere si scontrano, rinfacciandosi a vicenda i peccati che le accomunano nel tormento disumano.<br />

Poi ciascun dannato si volge indietro e riprende a rotolare il proprio macigno fino all’altro punto<br />

d’incontro. <strong>La</strong> giostra beffarda è destinata a ripetersi in eterno. Questi peccatori sono irriconoscibili:<br />

la mancanza di discernimento che li spinse ad accumulare o sperperare il denaro, li<br />

confonde ora tutti in una massa indifferenziata ed anonima. "Nessuno dei beni che sono<br />

affidati al governo della Fortuna ricorda Virgilio - potrebbe dar loro pace nemmeno per un attimo.<br />

"Dante coglie, da questa affermazione del maestro, l’occasione per interrogarlo sulla natura della<br />

Fortuna. Essa non è - spiega il poeta latino - una potenza capricciosa e cieca che distribuisce i<br />

suoi favori a caso, ma una esecutrice dei disegni di Dio, poiché da Dio è voluto che i beni si<br />

trasferiscano, con alterna vicenda, da una famiglia all’altra, da un popolo all’altro. Spesso proprio<br />

quelli che dovrebbero ringraziarla la coprono di insulti. Ma essa, intelligenza celeste, assolve il suo<br />

compito imperturbabile e serena. Tra gli avari vi sono chierici, papi, cardinali. Dante e Virgilio<br />

scendono nel<br />

(CANTO VIII) V CERCHIO (Stige): dove stanno gli iracondi e gli accidiosi per poco vigore. Essi<br />

si trovano in un lago paludoso e la loro pena consiste nello stare immersi nelle acque putride della<br />

palude Stigia, azzuffandosi, colpendosi, insultandosi. Da vivi, infatti gli iracondi furono violenti e<br />

offensivi, gli accidiosi non apprezzarono le gioie della vita, quindi ora non vedono più nulla e sono<br />

costretti a stare sotto gli iracondi incapaci di reagire attivamente al male.<br />

Già prima di arrivare ai piedi della torre, i due poeti vedono accendersi sulla sua sommità due<br />

segnali luminosi, ai quali, da molto lontano, appena percettibile, risponde un terzo. Ed ecco<br />

avvicinarsi sulla sua antica barca, veloce al par di saetta, il custode della palude stigia, l’iroso<br />

Flegiàs, il quale, rivolto a Dante, grida: "Ti ho finalmente in mio potere, anima malvagia!" Virgilio<br />

delude questa speranza del nocchiero infernale: egli e il suo discepolo non sono venuti per<br />

rimanere nel cerchio degli iracondi, ma solo per attraversarlo. Mentre, sulla navicella di Flegiàs, i<br />

due solcano le acque melmose, ecco farsi avanti uno dei dannati della palude, il fiorentino Filippo<br />

Argenti, che apostrofa sarcasticamente il suo concittadino. Dante replica con espressioni di duro<br />

scherno, suscitando l’ammirazione di Virgilio che si compiace della nobile ira del discepolo. Ma<br />

questi non è ancora contento: vuole vedere il suo borioso antagonista immerso nel fango.<br />

Attraversato lo Stige, i due pellegrini sbarcano ai piedi delle mura di ferro rovente che<br />

cingono la città di Dite. Qui, più di mille seguaci di Lucifero si oppongono minacciosi all’ingresso<br />

di colui che, ancora in vita, impunemente è entrato nel regno dei morti.<br />

Il poeta latino esorta Dante a non perdersi d’animo e si reca a parlamentare con i diavoli. Ma poco<br />

dopo ritorna con i segni della sfiducia sul volto: la sua missione non è riuscita. Solo qualcuno più<br />

forte di lui potrà aprire la porta che immette nei cerchi formanti il basso inferno.<br />

CANTO IX Dopo essere tornato presso Dante, Virgilio riacquista la propria serenità e incoraggia il<br />

suo discepolo ricordandogli di essere già disceso una volta fino al fondo dell’inferno.<br />

All’improvviso, sull’alto delle mura fortificate di Dite compaiono le tre Furie, le Erinni, mostri con<br />

sembianze di donna e chiome formate da un intrico di serpenti. Esse manifestano la loro ira per la<br />

8


presenza dei due poeti, dilaniandosi con le unghie, percuotendosi e gridando in maniera<br />

terrificante. Ma da sole sono impotenti a punire il vivo che ha osato violare la dimora della morte;<br />

per questo invocano a gran voce Medusa, la Gorgone, figlia del dio marino Forco, che ha il potere<br />

di trasformare in pietra chiunque la guardi. Virgilio invita il suo discepolo a volgere le spalle, ed egli<br />

stesso gli copre gli occhi con le mani. Ma da lontano si preannuncia ormai l’arrivo del messo<br />

celeste. Lo precede un fragore d’uragano, mentre davanti a lui, che avanza sereno sulla palude<br />

Stigia senza nemmeno bagnarsi le piante dei piedi, i dannati, in numero sterminato, si danno alla<br />

fuga. Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi, ma l’angelo non degna i due pellegrini di uno sguardo:<br />

altre preoccupazioni sembrano dominare il suo animo. Giunto davanti alla porta della città di Dite,<br />

la tocca con un piccolo scettro ed essa si apre senza difficoltà. Prima di ripercorrere il cammino per<br />

il quale è venuto, il messo rimprovera i diavoli per l’opposizione ai voleri dell’Onnipotente e ricorda<br />

la sorte toccata a Cerbero per aver voluto opporsi ad Ercole che era disceso negli Inferi.<br />

CITTA’ DI DITE dove stanno nel VI CERCHIO: gli eretici<br />

Allontanatosi l’angelo, i due viandanti penetrano nell’interno della città: davanti a loro si apre<br />

una grande pianura cosparsa di tombe, che richiama alla memoria di Dante le necropoli romane<br />

di Arles e di Pola. Ma qui i sepolcri, tutti aperti, sono arroventati dalle fiamme. In essi si<br />

trovano le anime degli eretici. I due poeti si incamminano lungo un sentiero che corre tra le mura<br />

e le tombe infuocate. Gli eretici sono coloro che hanno creduto in altre religioni o epicurei negatori<br />

dell’immortalità dell’anima o si sono posti in aperto contrasto con la Chiesa, essi scontano la loro<br />

pena dentro sepolcri infuocati.<br />

Improvvisamente, da uno degli avelli infuocati, una voce prega Dante di fermarsi: è quella del capo<br />

Farinata degli Uberti che, dal suo modo di parlare, ha riconosciuto nel Poeta un compatriota.<br />

Dante si avvicina al sepolcro nel quale Farinata sta in piedi, visibile dalla cintola in su. Tutti i<br />

pensieri di questo dannato sono rivolti al mondo dei vivi, a Firenze, al suo partito: egli vuole<br />

anzitutto sapere se Dante appartiene a una famiglia guelfa o ghibellina. Non appena il Poeta gli<br />

rivela il nome dei suoi avi, si vanta di averli per ben due volte debellati. Dante ribatte che essi non<br />

furono vinti, ma solo mandati in esilio e che dall’esilio seppero tornare sia la prima sia la seconda<br />

volta, laddove gli Uberti furono banditi per sempre dalla città.<br />

A questo punto il dialogo è interrotto dall’angosciosa domanda che un altro eretico, egli pure<br />

fiorentino, Cavalcante dei Cavalcanti, rivolge a Dante: " Se la tua intelligenza ti ha valso il<br />

privilegio di visitare, vivo, il regno dei morti, perché mio figlio Guido non è con te?" Il Poeta indugia<br />

nel rispondere e Cavalcante, credendo che il figlio sia morto, ricade, senza una parola, nel suo<br />

sepolcro. Riprende a parlare Farinata, che vuole sapere il motivo di tanto accanimento contro la<br />

sua famiglia. Dante gli fa il nome di un fiume - l’Arbia - le cui acque furono arrossate dal sangue<br />

dei Fiorentini che nel 1260 morirono combattendo contro i fuoriusciti ghibellini comandati appunto<br />

da lui, Farinata degli Uberti, e questi ricorda allora, a suo merito, come fu lui solo, dopo quella<br />

sanguinosa giornata, ad opporsi a viso aperto al progetto, avanzato dagli altri ghibellini, di radere<br />

al suolo la vinta Firenze. L’episodio si conclude con la spiegazione che Farinata fornisce a Dante<br />

sulla conoscenza che i dannati hanno del corso degli eventi terreni.<br />

Dante stima Farinata degli Uberti, perché riconosce in lui un valido rivale, un uomo fiero e<br />

dignitoso, che continua a soffrire per la sconfitta della sua fazione, e lo tratta con estremo rispetto.<br />

I due pellegrini riprendono quindi il loro cammino dirigendosi verso la zona centrale del cerchio.<br />

Inizia il Basso Inferno diviso in tre cerchi:<br />

VII CERCHIO (violenti contro gli altri, contro la propria persona e le cose) categoria peccaminosa<br />

grave diviso in tre gironi:<br />

I girone: omicidi e predoni (violenti contro gli altri e contro le cose)<br />

II girone: suicidi e scialacquatori (violenti contro se stessi e contro le cose)<br />

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III girone: bestemmiatori, sodomiti e usurai (violenti contro Dio, contro la natura –<br />

omosessuali, contro l’arte attraverso la quale l’uomo realizza i suoi bisogni ed è figlia della natura e<br />

a Dio è quasi nipote)<br />

CANTO XII I due poeti scendono per un dirupo dal sesto al settimo cerchio. Qui trovano, a<br />

sbarrare il cammino, il frutto dell’innaturale connubio di Parsifae, moglie del re di Creta Minosse,<br />

con un toro di cui si era invaghita, il Minotauro. Nel vederli, accecato dall’ira, il mostro morde se<br />

stesso, poi, quando ode rievocati da Virgilio la propria uccisione ad opera di Teseo e il tradimento<br />

della sorella Arianna, saltella qua e là come toro colpito a morte. I due ne approfittano per<br />

scendere ai piedi della frana. Virgilio spiega a Dante come essa sia la conseguenza del terremoto<br />

che precedette la discesa di Cristo nel limbo, allorché l’intero universo sembrò per un attimo volersi<br />

nuovamente convertire nel caos originario.<br />

Il settimo cerchio è tutto occupato da un fiume, il Flegetonte, di sangue bollente, in cui sono<br />

immersi i violenti contro il prossimo, poiché in vita sparsero il sangue degli altri. Fra loro si<br />

trovano assassini, vandali, tiranni. A guardia dei dannati sono posti i centauri, per metà cavalli e<br />

per metà uomini. Armati di arco e di frecce, come quando, in terra, solevano andare a caccia,<br />

hanno il compito di impedire alle ombre di emergere dal sangue più di quanto la loro pena<br />

comporti. Il centauro Nesso scambia i viandanti per due anime e chiede loro a quale pena siano<br />

destinati. Ma Virgilio vuole parlare soltanto con Chirone, il leggendario maestro di Achille; giunto in<br />

sua presenza, gli fornisce esaurienti spiegazioni sul loro viaggio nel regno delle ombre: " Sì, Dante<br />

è vivo e devo mostrargli l’inferno; l’itinerario che percorre è necessario alla salvezza della sua<br />

anima; dall’alto dei cieli un’anima beata scese per affidarmi l’incarico di guidarlo nel cammino; non<br />

siamo anime di peccatori ". Poi chiede a Chirone una guida che mostri loro il punto dove si può<br />

guadare il fossato, e il saggio centauro designa a questo incarico Nesso. A mano a mano che i tre<br />

avanzano lungo la riva, Nesso elenca i dannati che sono immersi nel sangue: dei tiranni sono<br />

visibili soltanto i capelli, degli omicidi l’intera testa, dei predoni la testa e il petto. Giunti al guado, i<br />

tre passano sulla riva opposta; poi Nesso, adempiuto il suo compito, torna indietro.<br />

CANTO XIII I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio (vi sono i violenti<br />

contro se stessi), in un bosco di piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose<br />

Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti.<br />

Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la<br />

ferita, incomincia a sanguinare e a parlare e chiede a Dante “Perché mi strappi?”. Virgilio scusa il<br />

suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a rivelare il suo nome. E il tronco parla: fu<br />

Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore Federico II, si uccise perché, ingiustamente accusato<br />

(nel 1240) dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Fu<br />

accusato di tradimento, arrestato e fatto accecare e lui in prigione si tolse la vita nel 1249 per<br />

l’ingiustizia subita. Davanti a Dante, che in terra potrà riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la<br />

fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi, dopo essere cadute<br />

nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie, così come in<br />

vita questi uomini straziarono il proprio corpo. Dopo il Giudizio Universale i corpi di questi<br />

peccatori saranno appesi ciascuno all’albero nel quale è incarcerata la loro anima. Il discorso di<br />

Pier delle Vigne è interrotto dall’apparizione delle ombre di due scialacquatori (coloro che<br />

sperperano in vita il loro patrimonio) e, dietro loro, di una muta di nere cagne fameliche. Mentre<br />

uno di questi due dannati riesce a sottrarsi alla caccia, l’altro, esausto, cerca riparo in un cespuglio,<br />

ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente (così come essi in vita<br />

dilapidarono le loro sostanze). <strong>La</strong> loro violenza non risparmia neppure il cespuglio, dal quale una<br />

voce si leva a protestare contro tanto scempio. Quella che adesso parla è l’anima di un suicida<br />

fiorentino: prega i due pellegrini di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è<br />

stato mutilato e lamenta le sventure abbattutesi sulla sua città.<br />

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CANTO XIV Dopo aver radunato le fronde intorno al cespuglio del suo concittadino, Dante giunge<br />

insieme a Virgilio, sul limitare del terzo girone. In questa parte del settimo cerchio una lenta,<br />

inesorabile pioggia di fiamme si riversa sopra una distesa di sabbia infuocata, terra<br />

desolata e desertica. Tre gruppi di anime soggiacciono a tre diversi tormenti: i<br />

bestemmiatori, violenti contro Dio, supini, espongono tutto il loro corpo al fuoco che cade; i<br />

sodomiti, (omosessuali) violenti contro natura, devono camminare senza tregua sotto la<br />

pioggia di fuoco; gli usurai, violenti contro l’arte, stanno seduti. I bestemmiatori sono i meno<br />

numerosi, ma i loro lamenti soverchíano quelli degli altri. Fra loro spicca una figura gigantesca, che<br />

sembra incurante del castigo divino. E’ Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, ucciso<br />

per la sua empietà dalla folgore di Giove. Egli non ha perduto la sua arroganza e sfida,<br />

deridendolo, il signore dell’Olimpo a colpirlo ancora una volta con le armi forgiate da Vulcano e dal<br />

Ciclopi, ma Virgilio lo redarguisce duramente.<br />

I due poeti proseguono il loro cammino finché arrivano nel punto in cui dalla selva dei suicidi esce<br />

un fiumicello rosso e bollente. I fiumi infernali hanno la loro origine - spiega Virgilio - in terra. In<br />

mezzo al Mediterraneo c’è un’isola, un tempo ricca di vegetazione e felice, ora deserta: Creta. Ivi,<br />

in una grotta all’interno del monte Ida, c’è l’enorme statua di un vecchio, che volge le spalle<br />

all’Egitto e tiene lo sguardo fisso in direzione di Roma. <strong>La</strong> sua testa è d’oro, il petto d’argento, il<br />

ventre di rame, le gambe di ferro, il piede destro, sul quale il simulacro poggia, di terracotta.<br />

All’infuori del capo, ogni altra parte della statua presenta fessure dalle quali sgorgano lagrime. Il<br />

pianto di questa statua forma i fiumi infernali e lo stagno Cocito. Il canto si conclude con i<br />

chiarimenti che Virgilio dà al discepolo sull’ubicazione del Flegetonte, il fiume di sangue che<br />

occupa il primo girone e dal quale il fiumicello deriva, prendendone anche il nome, e del Letè, il<br />

fiume dell’oblio, le cui acque bagnano il paradiso terrestre, in cima al monte del purgatorio.<br />

CANTO XV Per evitare la pioggia di fiamme i due pellegrini avanzano su uno degli argini del<br />

fiumicello che attraversa il terzo girone e s’imbattono in una schiera di anime di dannati, uno dei<br />

quali afferra Dante per il lembo della veste e manifesta la propria meraviglia nel vederlo in quel<br />

luogo. Il Poeta lo riconosce, nonostante abbia il volto devastato dal fuoco: Brunetto <strong>La</strong>tini, il suo<br />

maestro, che esprime il desiderio di affiancarsi a lui nel cammino. Nessuno, infatti, dei violenti<br />

contro natura può interrompere il proprio andare: chi infrange questa legge è poi condannato a<br />

giacere cento anni sotto la pioggia di fuoco senza poter scuotere da sé le fiamme che lo<br />

colpiscono. Dante continua pertanto a camminare sull’argine e riceve da Brunetto la predizione<br />

della sorte che il futuro gli riserva: "Se rimani fedele ai principii che hanno fin qui ispirato le tue<br />

azioni, la tua opera ti darà la gloria". Poi il discorso cade su Firenze e la faziosità dei Fiorentini, in<br />

massima parte discendenti dai rozzi abitanti di Fiesole, avari, invidiosi, superbi. Sia l’uno sia l’altro<br />

Partito in cui la città è divisa - aggiunge Brunetto - cercherà di avere Dante in suo potere, ma non<br />

riuscirà in questo intento. Il Poeta a sua volta tesse l’elogio del suo maestro, dal quale ha appreso<br />

come l’uomo ottiene gloria fra i posteri, e dichiara che questa profezia, come quella di un altro<br />

spirito, Farinata, verrà sottoposta all’interpretazione di Beatrice. Per il resto si dice pronto a far<br />

fronte ai colpi del destino. Pregato dal Poeta, Brunetto nomina alcuni fra gli spiriti condannati alla<br />

sua stessa pena, quindi si accommiata, raccomandandogli la sua opera maggiore, il Tesoro,<br />

attraverso la quale sopravviverà nel ricordo degli uomini.<br />

CANTO XVI Mentre i due pellegrini continuano a camminare sull’argine del fiumicello, da una<br />

schiera di sodomiti si staccano tre ombre e corrono verso di loro. Poiché ai violenti contro natura<br />

non è concesso neppure un attimo di sosta, questi dannati si dispongono in cerchio, in modo da<br />

continuare a camminare senza allontanarsi da Dante e Virgilio. Uno di loro, Jacopo Rusticucci, si<br />

rivolge al Poeta, parlando di sé e dei suoi compagni, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi.<br />

11


Furono cittadini illustri di Firenze e contribuirono, in pace e in guerra alla prosperità della loro<br />

patria. Dante esprime il proprio dolore per averli incontrati fra i reprobi del settimo cerchio e il<br />

profondo rispetto che nutre per la loro memoria; poi dichiara che in Firenze non albergano più le<br />

virtù di un tempo: orgoglio e intemperanza hanno sostituito, nel cuore dei suoi abitanti, cortesia e<br />

valore. Dileguatisi i tre, Dante prosegue con il maestro verso l’orlo del ripiano, dove le acque del<br />

Flegetonte precipitano nel cerchio ottavo. Il Poeta consegna una corda che gli cinge i fianchi a<br />

Virgilio, il quale la getta nel profondo abisso che si apre ai loro piedi. Poco dopo ecco salire dalla<br />

buia voragine una figura simile, nel suoi movimenti a quella del marinaio che torna a galla dopo<br />

aver disincagliato l’ancora della nave.<br />

CANTO XVII Virgilio indica a Dante il mostro che è salito dall’abisso e che, ad un suo cenno, si<br />

pone con la testa e il tronco sull’orlo interno del settimo cerchio. L’aspetto di questa belva, che<br />

simboleggia la frode e che ha il nome di un re crudelissimo ucciso da Ercole, Gerione, è di uomo<br />

nel volto, di serpente nel corpo, di leone nelle zampe e di scorpione nella coda biforcuta, è<br />

simbolo della frode. Mentre Virgilio si dirige verso Gerione per chiedergli di trasportare lui e il suo<br />

discepolo sul fondo del baratro, Dante si avvicina ad un gruppo di peccatori che, seduti sulla<br />

sabbia rovente e colpiti dalla pioggia di fuoco, cercano inutilmente di alleviare il loro tormento<br />

agitando le mani. Sono gli usurai. Il Poeta non ne riconosce alcuno, ma nota che tutti portano<br />

appesa al collo una borsa sulla quale è dipinto uno stemma gentilizio: questi dannati non hanno<br />

dunque soltanto offeso Dio, ma anche avvilito la dignità del loro nome. Uno di essi rivolge a Dante<br />

la parola: si proclama padovano, dice che tutti i suoi compagni di pena sono fiorentini e annuncia<br />

la prossima venuta di un altro usuraio, nobile anch’egli e famosissimo. Tornato sui suoi passi,<br />

Dante trova Virgilio già salito in groppa a Gerione. Esortato dal maestro, vince la sua paura e si<br />

pone anch’egli a cavalcioni del mostro, che, ad un comando del poeta latino, inizia a scendere<br />

lentamente, a larghe spirali, mentre appare, sempre più vicino, lo spettacolo dei tormenti del<br />

ripiano infernale che si apre sotto i loro occhi. Gerione, dopo aver deposto i due pellegrini sul fondo<br />

del precipizio che separa il settimo cerchio dall’ottavo, si dilegua con la rapidità di una freccia.<br />

CANTO XVIII Scesi dalla groppa di Gerione, i due pellegrini si trovano sull’argine più esterno<br />

dell’ottavo cerchio, detto Malebolge e diviso in dieci avvallamenti concentrici, dove sono<br />

puniti i fraudolenti, coloro che hanno commesso il male con l’inganno. Nel primo di questi<br />

avvallamenti o bolge sono puniti i seduttori per conto altrui e quelli per conto proprio. Divisi in<br />

due gruppi avanzano in direzioni opposte, corrono nudi e sono implacabilmente frustati dal diavoli,<br />

come hanno commesso in vita azioni vergognose, ora devono subire una colpa altrettanto<br />

vergognosa. Nella schiera dei ruffiani Dante riconosce il bolognese, Venedico Caccianemico, che<br />

indusse con discorsi fraudolenti la propria sorella ad una condotta disonesta, e lo costringe a<br />

confessare la sua colpa. Tra i seduttori per conto proprio Virgilio gli addita Giasone; il leggendario<br />

eroe, colpevole nel confronti dell’inesperta Isifile e di Medea, entrambe da lui tratte in inganno,<br />

incede incurante delle sferzate dei diavoli, con atteggiamento regale, senza manifestare il suo<br />

dolore. Passati sul secondo argine attraverso un ponte naturale che scavalca il primo<br />

avvallamento, i due poeti vedono aprirsi davanti al loro occhi la bolgia degli adulatori. Tra questi<br />

Dante riconosce, immerso nello sterco come i suoi compagni di pena, il lucchese Alessio<br />

Interminelli e violentemente lo apostrofa. Poco oltre Virgilio gli mostra una donna che con le<br />

proprie unghie si dilania e non trova pace né in piedi né seduta: è la meretrice Taide, che in vita fu<br />

maestra nell’arte di ingannare con l’adulazione.<br />

CANTO XIX <strong>La</strong> terza bolgia, dall’alto del ponte che la sovrasta, appare interamente disseminata<br />

di buche circolari. Da ciascuna di queste spuntano le gambe di un dannato confitto in essa<br />

a testa in giù e con le piante dei piedi lambite dalle fiamme. I peccatori che la giustizia divina<br />

12


cosi punisce sono i simoniaci, coloro cioè che hanno fatto commercio delle cose sacre, così<br />

chiamati perché seguaci di Simon Mago di Samaria, il quale chiese a Pietro di vendergli il potere<br />

d’infondere lo Spirito Santo. Dante ferma la sua attenzione su di uno che agita le gambe con<br />

impeto più disperato degli altri e che è tormentato da un fuoco più doloroso. Perché il suo<br />

discepolo possa apprendere da questo dannato i motivi che lo indussero ad infrangere la legge di<br />

Dio, Virgilio lo porta sul fondo della bolgia. Invitato a parlare, il peccatore apostrofa Dante<br />

chiedendogli il motivo del suo arrivo nel regno dell’eterno dolore prima del termine a lui prescritto lo<br />

ha infatti scambiato per Bonifacio VIII, destinato a prendere il suo posto all’apertura della buca dei<br />

papi simoniaci, qui Dante evidenzia il suo desiderio di vendetta personale. Dopo aver compreso il<br />

suo errore, rivela la propria identità: fu Niccolò III, della stirpe rapace degli Orsini. E’ dannato per<br />

aver favorito in modo fraudolento i propri familiari. Il posto di Bonifacio VIII sarà poi occupato da un<br />

altro pontefice, ancora più scellerato, Clemente V. Travolto dall’indignazione, Dante prorompe in<br />

una violenta invettiva contro la sete di beni materiali che ha allontanato i vicari di Cristo dai compiti<br />

che loro assegnò il divino Maestro e ravvisa nella Chiesa avida di potere e di ricchezze il mostro<br />

dalle sette teste e dalle dieci corna di cui parla l’Apocalisse. Ricorda quindi con dolore la<br />

donazione di alcuni territori che l’imperatore Costantino fece a papa Silvestro, origine prima del<br />

potere temporale dei pontefici e delle discordie che travagliano l’umanità. Poi Virgilio lo riporta<br />

sull’argine che separa la terza bolgia dalla quarta e di lì sul ponte che scavalca quest’ultima.<br />

CANTO XX Dall’alto del ponte Dante dirige il suo sguardo verso il fondo della quarta bolgia, dove<br />

una moltitudine di anime - quelle degli indovini (che con le loro arti magiche hanno spesso<br />

ingannato o illuso gli uomini) - avanza in silenzio piangendo. Ciascuna di esse ha il viso<br />

completamente rivolto all’indietro, in modo che le lagrime bagnano la parte posteriore del<br />

corpo. Nel vedere la figura umana così stravolta Dante non riesce a trattenere un moto di<br />

commozione, ma Virgilio lo rimprovera aspramente, facendogli notare che essere pietosi verso<br />

siffatti peccatori significa ignorare la vera pietà. Poi gli rivela il nome di alcuni di loro: Anfiarao, che<br />

la terra inghiottì sotto le mura di Tebe assediata, Tiresia, che un arcano prodigio trasformò in<br />

donna e che poi riprese le sembianze maschili, Arunte, che contemplava il cielo e il mare da una<br />

spelonca nel monti dell’Etruria, Manto, la figlia di Tiresia, la quale, dopo aver errato a lungo per il<br />

mondo, si stabilì in una regione deserta dell’Italia, nel punto in cui il Mincio, alimentato dalle acque<br />

del Garda, formava una palude. Qui l’indovina morì e qui gli abitanti sparsi nei luoghi vicini<br />

fondarono, dopo la sua morte, una città che chiamarono Mantova. Tra gli indovini dell’antichità<br />

Virgilio addita ancora al suo discepolo Euripilo, che insieme a Calcante dette alla flotta greca<br />

ancorata in Aulíde il segnale della partenza per Troia, poi menziona alcuni tra i dannati che si<br />

resero celebri nel Medioevo per aver esercitato l’arte della magia.<br />

CANTO XXI I due pellegrini giungono sul ponte che scavalca la quinta bolgia, straordinariamente<br />

buia a causa della pece bollente che ne occupa il fondo e nella quale sono immersi i barattieri,<br />

coloro cioè che fecero commercio dei pubblici uffici. Mentre Dante è intento a guardare in basso,<br />

sopraggiunge veloce un diavolo e, dall’alto del ponte, getta nella pece uno degli «anziani» di<br />

Lucca, città nella quale, a suo dire, tutti sono barattieri. Il dannato, dopo il tuffo violento, viene a<br />

galla, ma i custodi della bolgia, i Malebranche, lo costringono ad immergersi nuovamente. A<br />

questo punto Virgilio, dopo aver fatto nascondere Dante dietro uno spuntone roccioso, si dirige<br />

verso i diavoli e fa presente al loro capo, Malacoda, che il viaggio intrapreso da lui e dal suo<br />

discepolo è voluto dal cielo; poi invita Dante ad uscire dal suo nascondiglio. Alla sua vista i<br />

Malebranche tentano di uncinarlo; occorre che Malacoda faccia ricorso a tutta la sua autorità<br />

perché desistano dal loro proposito. Malacoda fornisce quindi a Virgilio indicazioni riguardo allo<br />

scoglio che porta alla sesta bolgia, essendo crollato, su quest’ultima, il ponte posto in<br />

continuazione di quelli che i due poeti hanno fino a questo punto percorso. Dà poi loro come scorta<br />

13


un gruppo di dieci suoi sottoposti (Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicocco, Draghignazzo,<br />

Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante), comandati da Barbariccia. I dieci diavoli si mettono in<br />

fila e Barbariccia, attraverso uno sconcio segnale, impartisce loro l’ordine della partenza. Dante ha<br />

paura, vorrebbe procedere da solo, ma Virgilio lo rassicura.<br />

CANTO XXIII A mano a mano che il drappello guidato da Barbariccia si avvicina, i barattieri che<br />

affiorano con l’arco della schiena alla superficie della palude bollente e quelli che, disseminati<br />

lungo le sue rive, stanno come rane sull’orlo di un fossato, si tuffano in essa con rapidità fulminea.<br />

Uno di loro tuttavia non fa in tempo a nascondersi. E’ Ciampolo di Navarra, che Graffiacane è<br />

riuscito a prendere con il suo uncino. Il barattiere, dopo avere narrato di sé e dei suoi compagni di<br />

pena, promette di farne venire molti nel punto in cui si trova, purché i Malebranche si tengano un<br />

po’ in disparte. Su consiglio di Alichino la sua proposta viene accettata, ma non appena i diavoli si<br />

volgono verso uno degli argini della bolgia, Ciampolo spicca un salto e scompare sotto la pece.<br />

Alichino, dopo aver tentato vanamente di raggiungerlo volando, è afferrato da un altro dei<br />

Malebranche, Calcabrina, il quale, adirato per lo smacco subìto, si azzuffa con lui. I due diavoli<br />

finiscono per cadere nella pece bollente. Mentre Barbariccia, addolorato, dà disposizioni al suoi<br />

sottoposti perché si adoperino a salvare i loro compagni, Dante e Virgilio si avviano per lasciare la<br />

quinta bolgia.<br />

CANTO XXIII Gli ipocriti della sesta bolgia (avanzano lenti piangendo sotto il peso di una cappa<br />

di piombo dorato, poiché in vita nascosero i loro malvagi pensieri dietro falsi atteggiamenti),<br />

circondano i due poeti. Fra di essi l’occhio di Dante cade, sconcertato su un corpo crocefisso, a<br />

terra, con tre pali. Si tratta di Caifas, il sommo sacerdote, che fece condannare Gesù, nel Sinedrio,<br />

in nome del presunto bene della collettività. E’ messo di traverso, nudo, sulla via, e calpestato da<br />

tutti: il responsabile del più grande delitto del mondo, l’uccisione di Cristo, è destinato ad essere<br />

calpestato da tutta l’ipocrisia dell’umanità.<br />

CANTO XXIV Il turbamento di Virgilio per la menzogna di Malacoda ha fatto sbigottire Dante, ma<br />

egli riprende coraggio non appena il poeta latino, prima di iniziare la salita lungo la frana che porta<br />

sulla sommità del settimo argine, si volge a lui con volto benigno. L’ascesa è ardua: nonostante i<br />

consigli e l’aiuto del maestro, Dante giunge stremato sul ponte della settima bolgia e occorre che<br />

Virgilio gli ricordi che la fama si conquista soltanto vincendo gli ostacoli e trionfando delle difficoltà,<br />

perché riprenda il cammino. Dall’alto del ponte di roccia lo spettacolo che si mostra alla vista dei<br />

due pellegrini è strano e orrido: il fondo della bolgia pullula di serpenti e di anime spaventate<br />

con le mani legate dietro la schiena da lacci fatti di serpi (perché le usarono per rubare) che<br />

fuggono senza speranza. All’improvviso un dannato, trafitto al collo da un serpente, brucia, si<br />

trasforma in cenere e dalla cenere risorge con le fattezze di prima. Interrogato da Virgilio, dice<br />

di essere il pistoiese Vanni Fucci, di aver condotto una vita più consona ad una bestia che ad un<br />

uomo, di trovarsi nella settima bolgia, fra i ladri, per un furto sacrilego compiuto nella sua<br />

città. Poi profetizza, perché Dante ne soffra, una sanguinosa vittoria dell’esercito dei Neri, guidato<br />

dal marchese Moroello Malaspina, su quello dei Bianchi di Pistoia e di altre città.<br />

CANTO XXV Dopo aver predetto a Dante la sconfitta dei Bianchi ad opera di Moroello Malaspina,<br />

Vanni Fucci alza le mani in un gesto osceno contro Dio, ma due serpenti si avventano<br />

immediatamente contro di lui, ponendo termine all’ostentazione di tanta superbia. Il ladro pistoiese,<br />

con le braccia e il collo chiusi, nelle loro spire, fugge inseguito dal centauro Caco, colpevole<br />

anche quest’ultimo di furto eseguito con frode. Tre dannati vengono nel frattempo a fermarsi sotto<br />

l’argine roccioso dal quale i due pellegrini hanno assistito alla trasformazione di Vanni Fucci in<br />

cenere, alla sua riconversione in figura di uomo, alla sua punizione ad opera dei serpenti. Nuove,<br />

più allucinanti metamorfosi si svolgono sotto i loro occhi. Un serpente munito di sei piedi si lancia<br />

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contro uno di questi ladri e si abbarbica al suo corpo come l’edera ad un albero. Come se fosse di<br />

cera la forma umana si trasferisce in quella del serpente, mentre questa, a sua volta, si perde in<br />

quella dell’uomo. Il risultato di questa innaturale fusione è un mostro dall’aspetto indefinibile, che<br />

incomincia a percorrere in silenzio, con lento passo, il fondo della bolgia. Non appena questa<br />

metamorfosi si è compiuta, un serpentello - che è uno dei peccatori già trasformati - con la velocità<br />

di un fulmine trafigge l’ombelico ad un altro dei tre ladri, ricadendo poi a terra davanti a lui come<br />

privo di forze, stregato. Mentre il serpente e l’uomo si guardano negli occhi attraverso il fumo che,<br />

uscendo dalla bocca del rettile si scontra con quello che si sprigiona dalla ferita dell’uomo, avviene<br />

la terza delle trasformazioni della settima bolgia, quella che nessuno dei poeti antichi è riuscito ad<br />

immaginare: l’uomo assume a poco a poco le fattezze del serpente che gli sta davanti, questo si<br />

trasforma nel dannato che ha ferito. <strong>La</strong> pena di coloro che in vita privarono il prossimo di beni<br />

materiali sui quali non potevano accampare alcun diritto, è di essere privati del solo bene<br />

inalienabile di cui, per legge di natura, un uomo può disporre: la propria figura umana.<br />

CANTO XXVI I due pellegrini lasciano la bolgia dei ladri e riprendono il faticoso cammino. Dante<br />

entrato nell’ottava bolgia quella dei consiglieri fraudolenti lancia un’invettiva contro Firenze,<br />

città da lui amata, ma dalla quale è stato esiliato, il cui nome si diffonde per tutto l’Inferno. Dante si<br />

vergogna di trovare tra i dannati che si sono macchiati dell’inganno molti fiorentini. In questa<br />

bolgia Dante trova coloro che usarono la loro intelligenza per compiere azioni malvagie. Così<br />

poiché in vita i consiglieri fraudolenti hanno alimentato le fiamme della discordia con i loro consigli<br />

ingannatori, all’Inferno sono condannati a soffrire avvolti nelle fiamme. Dall’alto del ponte che<br />

sovrasta l’ottava bolgia questa appare loro percorsa da fiamme simili alle lucciole che il<br />

contadino vede nella valle quando si riposa, alla sera, sulla sommità della collina. Ogni<br />

fiamma nasconde un peccatore. In una di esse, che si distingue dalle altre per il fatto di<br />

terminare con due punte, scontano le loro colpe due Greci: Ulisse e Diomede. Entrambi complici<br />

nell’organizzare l’inganno del cavallo di Troia e riuniti in una sola fiamma con due punte. Poiché<br />

Dante ha manifestato il desiderio di udirli parlare, Virgilio si rivolge alla fiamma biforcuta pregando<br />

affinché uno dei due eroi riveli il luogo della sua morte. Dalla punta più alta esce allora la voce di<br />

Ulisse. Egli racconta la storia dalla sua fine, quando cioè ormai vecchio, dopo tanto peregrinare, e<br />

spinto dal suo desiderio di conoscenza, osò sfidare Dio oltrepassando le colonne d’Ercole, limite<br />

del mondo conoscibile. Dante ci presenta Ulisse con simpatia, non lo condanna pienamente<br />

perché è stato un eroe coraggioso oltre ogni limite, disposto ad andare contro le leggi divine, pur di<br />

appagare il suo desiderio di conoscenza ed elevarsi al di sopra dei suoi simili. Giunto alle colonne<br />

d’Ercole Ulisse si rivolse ai fedeli compagni, come lui invecchiati nelle fatiche e nei rischi: "Fratelli,<br />

nel poco tempo che ci rimane da vivere, non vogliate che ci resti preclusa la possibilità di<br />

conoscere il mondo disabitato. Seguiamo il sole nel suo cammino. <strong>La</strong> vita non ci fu data perché<br />

fosse da noi consumata nell’inerzia, ma perché l’arricchissimo attraverso la validità delle nostre<br />

azioni e delle conoscenze da noi raggiunte". Questo breve discorso infiammò a tal punto i membri<br />

dell’equipaggio, che i remi parvero trasformarsi in ali e la nave volare sulla superficie dell’oceano<br />

inesplorato. Cinque mesi dopo il passaggio attraverso lo stretto di Gibilterra una montagna<br />

altissima si mostrò all’orizzonte. Da questa ebbe origine un turbine; la nave girò tre volte nel vortice<br />

delle onde, poi si inabissò; il mare si chiuse sopra di essa.<br />

CANTO XXVII Appena l’Ulisse ha finito di parlare, un’altra fiamma attira l’attenzione dei due poeti,<br />

agitandosi e rumoreggiando. Quando infine il sibilo riesce a trasformarsi in parole, la fiamma( è<br />

Guido da Montefeltro, capo dei ghibellini romagnoli, guerriero astuto e pieno di accorgimenti e di<br />

espedienti, più volte scomunicato, si era convertito da vecchio, entrando nei francescani) chiede a<br />

Virgilio, che ha riconosciuto per italiano dal modo di parlare, notizie sulla Romagna. Su invito del<br />

maestro, Dante delinea un quadro delle condizioni politiche di quella regione, dominata da tiranni<br />

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sempre pronti alla guerra; poi chiede al peccatore chi egli sia. E quello si fa conoscere, certo di<br />

parlare a chi mai potrà tornare fra i vivi, per riferire intorno alla sua pena eterna. "Fui guerriero -<br />

dice - e poi frate francescano, credendo in tal modo di riparare al male da me fatto. E non sarei qui<br />

fra i dannati, se non fosse stato il pontefice stesso a farmi ricadere nella vita malvagia alla quale<br />

avevo voltato le spalle. Nel periodo in cui, con somma ipocrisia, aveva bandito una crociata contro<br />

gli stessi cristiani (la famiglia romana dei Colonna), senza alcun ritegno, fattomi chiamare,<br />

Bonifacio VIII mi chiese che gli suggerissi il modo migliore per impadronirsi della roccaforte di<br />

Palestina. Le sue parole mi parvero quelle di un uomo fuori di senno. Tacqui. Allora, dopo avermi<br />

ricordato che era in suo potere aprire e chiudere le porte del cielo, mi assolse dal peccato che<br />

avrei commesso dandogli il consiglio richiesto. Fu così che gli suggerii di promettere molto ai suoi<br />

nemici per poi non tenere fede alle promesse. Quando morii, San Francesco venne per portare la<br />

mia anima in cielo, ma il diavolo lo fermò con queste parole: "Quest’anima deve seguirmi nel regno<br />

dell’eterna dannazione, poiché è contraddittorio che ci si possa pentire di una colpa che si ha<br />

l’intenzione di compiere. Io sono uno spirito logico". Quando fui davanti a Minosse questi avvolse<br />

otto volte la coda intorno al suo corpo, destinandomi in tal modo nel cerchio ottavo." Ciò detto, la<br />

fiamma si allontana. I due pellegrini procedono oltre e giungono sul ponte che sovrasta la bolgia<br />

dei seminatori di discordia.<br />

CANTO XXVIII ( i seminatori di discordia) <strong>La</strong> nona bolgia appare ai due pellegrini come un<br />

immenso carnaio: nessun discorso umano potrebbe suggerire un’idea della sterminata<br />

moltitudine di feriti e mutilati che si affollano in essa. I dannati fanno il giro della bolgia, in<br />

eterno; le loro piaghe, che via via si rimarginano, vengono nuovamente aperte, ad ogni<br />

nuovo giro, da un diavolo armato di spada. Davanti agli occhi dei due poeti passano dapprima<br />

Maometto, il fondatore della religione islamica, ed Alì, uno dei suoi primi seguaci. Il primo ha il<br />

corpo squarciato, il secondo la testa spaccata in due. In tal modo essi scontano, insieme agli altri<br />

peccatori della bolgia, la loro colpa: quella di aver introdotto la discordia nel mondo. Quindi un<br />

altro dannato si fa avanti: è Pier da Medicina, un contemporaneo di Dante, il quale predice la<br />

sanguinosa fine, ad opera di Malatestino da Verrucchio, signore di Rimini, di due cittadini di Fano.<br />

Poi, su richiesta del Poeta, fa il nome di un suo compagno di sventura, che, avendo la lingua<br />

recisa, non può parlare. E’ il tribuno della plebe Curione, colui che vinse le ultime esitazioni di<br />

Cesare e lo indusse ad attraversare il Rubicone, dando così inizio alla guerra civile contro<br />

Pompeo. Sopraggiunge un dannato con le mani tagliate e i moncherini grondanti sangue: è Mosca<br />

dei <strong>La</strong>mberti, il responsabile della divisione dei Fiorentini in Guelfi e Ghibellini e della distruzione<br />

della propria famiglia. Dante vede infine avanzare l’ombra di un decapitato. Costui porta la sua<br />

testa in mano, reggendola per i capelli, come se fosse una lanterna. Giunto sotto il ponte sul quale<br />

si trovano Dante e Virgilio, leva il braccio, in modo che i due poeti possano ascoltare le sue parole,<br />

e dice: "lo sono Bertran de Born, colui che indusse Enrico III d’lnghilterra a ribellarsi al padre<br />

Enrico II; poiché ho reso nemiche due persone che un vincolo così stretto legava, porto la mia<br />

testa separata dal corpo. In tal modo è applicata, in me, la legge del contrappasso".<br />

CANTO XXIX Prima di lasciare la nona bolgia Dante cerca con gli occhi in essa un suo congiunto,<br />

Geri del Bello, seminatore di discordia, la cui morte violenta è rimasta invendicata, ma Virgilio<br />

gli ricorda che l’ombra di questo suo parente è passata sotto il ponte, mostrando sdegno e<br />

minacciandolo col dito, quando egli era tutto intento ad osservare Bertran de Born. Ripreso il<br />

cammino, i due pellegrini giungono sopra l’ultima bolgia (10) dell’ottavo cerchio, nella quale si<br />

trovano i falsatori, divisi in quattro categorie: falsatori di metalli con alchimia, falsatori di<br />

persone, falsatori di monete, falsatori di parole. Orribili sono le loro pene: essi giacciono a<br />

terra, malati, chi con devastanti croste pruriginose su tutto il corpo, chi con il ventre<br />

smisuratamente gonfio, sebbene assetato, chi colpito da una febbre altissima, emana vapore e<br />

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fetore, chi corre invece per la bolgia mordendo gli altri dannati. / Con il corpo deformato da orribili<br />

morbi giacciono a mucchi o si trascinano carponi gli alchimisti. Due di questi dannati attirano<br />

l’attenzione di Dante: stanno seduti, appoggiandosi l’uno alla schiena dell’altro, e cercano, con<br />

furiosa impazienza, di liberarsi delle croste che li ricoprono interamente. Furono arsi sul rogo dai<br />

Senesi, il primo, Griffolino d’Arezzo, per non avere mantenuto fede alla promessa di far alzare in<br />

volo, novello Dedalo, uno sciocco; il secondo, Capocchio, per aver falsificato i metalli, da<br />

quell’eccellente imitatore della natura che fu in vita/.<br />

CANTO XXX Appena Capocchio ha finito di parlare, Gianni Schicchi, un peccatore che si trova<br />

nella decima bolgia per essersi sostituito, fingendosi infermo e moribondo, a Buoso Donati già<br />

morto ed aver dettato il testamento di quest’ultimo in proprio favore, lo addenta furiosamente.<br />

Insieme a Gianni Schicchi percorre la bolgia correndo, Mirra, colpevole di aver alterato le proprie<br />

sembianze per soddisfare una insana passione. Dopo che le due ombre rabbiose si sono<br />

dileguate, Dante scorge un dannato il cui corpo, deformato dall’idropisia, ha la forma di un liuto. E’<br />

maestro Adamo, che coniò, per incarico dei conti Guidi di Romena, fiorini di Firenze aventi tre<br />

carati di metallo vile. Questo suo reato gli valse la condanna al rogo e la dannazione eterna.<br />

Pregato da Dante, fa il nome di due suoi compagni di pena che una febbre altissima tormenta.<br />

Sono la moglie dell’egiziano Putifar, che accusò ingiustamente Giuseppe di averla insidiata, e il<br />

greco Sinone, reo di aver persuaso Priamo a fare entrare in Troia il cavallo di legno escogitato da<br />

Ulisse. Sinone, forse indispettito per la menzione poco onorevole che di lui ha fatto maestro<br />

Adamo, sferra sul ventre dell’idropico un pugno vigoroso, ma il coniatore di falsi fiorini non tarda a<br />

rispondergli colpendolo violentemente sul volto. I due cominciano allora a rinfacciarsi a vicenda sia<br />

le colpe passate, sia i morbi che attualmente deformano le loro fattezze. Virgilio interviene infine a<br />

distogliere il discepolo dall’assistere a un così plebeo spettacolo.<br />

CANTO XXXI Mentre i due pellegrini, voltate le spalle all’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, si<br />

avviano in silenzio verso l’orlo del pozzo in cui sono puniti i fraudolenti contro chi si fida, alto,<br />

terribile, lacera l’aria il suono di un corno. Dante volge lo sguardo nella direzione dalla quale il<br />

suono è provenuto; crede di vedere molte torri, per cui domanda al maestro verso quale città si<br />

stiano dirigendo. Virgilio risponde che quelle che a Dante sembrano, da lontano, le torri di una<br />

cerchia di mura sono in realtà le forme immani dei corpi dei giganti; questi sovrastano con la<br />

parte superiore del corpo l’orlo del pozzo dei traditori. I due poeti s’imbattono dapprima in<br />

Nembrot, l’ideatore della torre di Babele, per la cui colpa gli uomini non parlano più la medesima<br />

lingua. Poiché le parole da lui pronunciate sono incomprensibili, Virgilio lo schernisce, esortandolo<br />

a sfogare la sua ira con il corno che porta appeso al collo. Alla distanza di un tiro di balestra da<br />

Nembrot si trova, saldamente avvinto da una catena, un altro gigante: è Fialte, distintosi nella lotta<br />

dei titani contro gli dei; ora non può più muovere le braccia che si avventarono contro i signori<br />

dell’Olimpo. Allorché i due giungono presso Anteo, Virgilio si rivolge cortesemente a questo<br />

gigante, adulandolo: gli ricorda i leoni innumerevoli catturati nella valle poi divenuta insigne per la<br />

vittoria di Scipione su Annibale e ne elogia la forza. Il poeta latino prega quindi Anteo di<br />

deporre lui e il suo discepolo sulla superficie ghiacciata di Cocito, promettendogli in<br />

cambio fama nel mondo dei vivi. Senza pronunciare parola il gigante acconsente alla richiesta di<br />

Virgilio. Nell’attimo in cui si china per afferrare i due pellegrini, la sua figura richiama alla mente di<br />

Dante l’immagine della torre della Garisenda, minacciosamente incombente su chi la contempla<br />

dal basso; ma delicato è il movimento eseguito dalla sua mano per posarli sul fondo della voragine<br />

infernale.<br />

CANTO XXXII Nella prima zona del nono cerchio (la Caina), confitti nel ghiaccio fino al collo si<br />

trovano i traditori dei congiunti. Due di essi appaiono a tal punto vicini che i loro capelli si<br />

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confondono: sono i fratelli Napoleone ed Alessandro degli Alberti che l’odio di parte e motivi<br />

d’interesse inimicarono a tal punto da portarli ad uccidersi l’un l’altro. Nella seconda zona,<br />

detta Antenora, nella quale sono puniti i traditori della patria, Dante colpisce col piede una delle<br />

teste che emergono dalla superficie ghiacciata. Il dannato chiede con asprezza il motivo di tanta<br />

crudeltà: « Se non lo fai a ragion veduta, al fine di accrescere la punizione inflittami a causa di<br />

Montaperti, perché infierisci contro di me? » A tali parole Dante domanda al peccatore di rivelargli<br />

il suo nome e gli promette, in cambio, fama tra i vivi. Ma è desiderio del traditore proprio quello di<br />

non essere ricordato, per cui intima duramente al Poeta di non importunarlo. Dante allora,<br />

afferratolo per i capelli, gliene strappa diverse ciocche, senza che per questo il dannato<br />

acconsenta a dichiarare il proprio nome. E’ un suo compagno di pena che appaga il desiderio del<br />

pellegrino: il traditore è Bocca degli Abati, colui che a Montaperti recise con un colpo di spada la<br />

mano del portainsegna della cavalleria fiorentina. Allontanatisi da Bocca, i poeti scorgono due<br />

dannati confitti in una medesima buca, in modo che la testa di uno sovrasta, come cappello, quella<br />

dell’altro. A colui che rode, come per fame, il cranio del suo compagno di pena, Dante rivolge la<br />

preghiera di manifestare la causa di un accanimento così disumano, promettendo che, tornato nel<br />

mondo dei vivi, rivelerà il misfatto resosi a tal punto meritevole di odio.<br />

CANTO XXXIII E’ Ugolino della Gherardesca che, già potentissimo a Pisa, fu fatto prigioniero dal<br />

Ghibellini e fu lasciato morire di fame insieme a due figli e a due nipoti. L’altro è l’arcivescovo<br />

Ruggieri degli Ubaldini, alla cui frode e alla cui crudeltà egli dovette la cattura e la fine<br />

orribile. Traditori ambedue (il conte Ugolino era accusato di avere consegnato a Lucca ed a<br />

Firenze alcuni castelli pisani), scontano la colpa nello stesso luogo, ma le loro pene non sono certo<br />

pari: Ruggieri oltre al tormento del gelo eterno ha quello che gli infligge la rabbia del suo nemico;<br />

per Ugolino al dramma della dannazione si aggiunge l’ira e la sete inesausta di vendetta contro il<br />

suo nemico. Solo la cattura, la prigionia, la morte inflitta in forma orrenda a lui e ai quattro giovani<br />

innocenti occupano l’animo di Ugolino; le vicende culminate in quella tragedia sono troppo note<br />

perché sia necessario ricordarle. Lo sdegno che la narrazione di Ugolino accende nel Poeta lo fa<br />

prorompere in una fiera invettiva contro Pisa. Nella terza zona di Cocito, la Tolomea, dove sono<br />

puniti i traditori degli ospiti, Dante e Virgilio trovano il faentino Alberigo dei Manfredi, che invitò<br />

a banchetto alcuni consanguinei per ucciderli. Il dannato spiega a Dante, meravigliato perché<br />

sapeva Alberigo ancora nel mondo dei vivi, che per una legge propria della Tolomea egli è<br />

all’inferno solo con l’anima, mentre il suo corpo sulla terra è governato da un demonio. Nella<br />

medesima condizione è anche il genovese Branca d’Oria, reo di avere ucciso il suocero Michele<br />

Zanche mediante una frode dello stesso genere. Il canto si conclude con una dura invettiva di<br />

Dante contro i Genovesi.<br />

CANTO XXXIV Dante e Virgilio entrano nella quarta zona di Cocito, chiamata Giudecca, dove<br />

soffrono coloro che tradirono i loro benefattori. Qui nessuna delle anime dannate parla,<br />

nessuna e’ identificata: imprigionate totalmente nel ghiaccio, si possono appena intravedere,<br />

immobili nelle più diverse posizioni: supine, ritte in piedi, capovolte, piegate ad arco. Nell’aria<br />

opaca che grava sulla palude gelata comincia a delinearsi un’enorme sagoma, come un mulino le<br />

cui pale girino nel vento: è la mole gigantesca di Lucifero piantato fino a mezzo il petto nella<br />

palude. Il re dell’inferno ha tre facce, quella anteriore è rossa, quella sinistra è nera e quella destra<br />

è gialla; le tre bocche maciullano senza posa tre peccatori, che tradirono le due supreme autorità,<br />

la spirituale e la temporale: Giuda, Bruto e Cassio; Giuda, per maggiore tormento, è straziato di<br />

continuo dagli artigli del mostro. Agitando le sue tre paia d’ali di pipistrello Lucifero genera il vento<br />

che fa ghiacciare Cocito. Ormai i due poeti hanno visto tutto l’inferno ed è tempo di uscire; Dante si<br />

avvinghia al collo di Virgilio che scende aggrappandosi ai peli di Lucifero nello spazio tra il corpo<br />

villoso di Satana e il ghiaccio che lo imprigiona. Giunto al centro del corpo del mostro<br />

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(corrispondente al centro della terra) Virgilio si capovolge e prosegue con il suo discepolo<br />

attraverso una stretta galleria, mentre Dante gli chiede alcune spiegazioni, finché giungono alla<br />

superficie della terra.<br />

Il viaggio infernale è ormai concluso, un nuovo paesaggio più sereno e un nuovo mondo, dove<br />

regnano speranza e consolazione, attendono i due pellegrini.<br />

IL PURGATORIO<br />

<strong>La</strong> montagna del Purgatorio è simmetrica alla voragine infernale: essa sorge in mezzo alle acque<br />

dell’emisfero australe ed è cinta alla base da una spiaggia che corrisponde all’Antipurgatorio, dove<br />

sostano, in attesa di essere ammessi al Purgatorio vero e proprio, coloro che hanno tardato a<br />

pentirsi i Negligenti.<br />

Il Purgatorio è diviso in sette cornici, corrispondenti ai sette vizi capitali:<br />

I CORNICE : SUPERBIA - CUSTODE è l’ANGELO DELL’UMANITA’ devono imparare l’UMILTA’<br />

poiché in vita tennero la testa alta, ora sono curvi a capo chino, sotto il peso di macigni.<br />

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II CORNICE : INVIDIA - CUSTODE è l’ANGELO DELLA MISERICORDIA devono imparare <strong>La</strong><br />

FRATERNITA’ poiché in vita sciuparono la loro vita per invidiare gli altri, ora stanno seduti con gli<br />

occhi cuciti con un fil di ferro.<br />

III CORNICE : IRA - CUSTODE è l’ANGELO DELLA PACE devono imparare LA<br />

MANSUETUDINE poichè in vita furono accecati dall’ira, ora vanno, senza vedere nulla, avvolti in<br />

un denso fumo.<br />

IV CORNICE : ACCIDIA - CUSTODE è l’ANGELO DELLA SOLLECITUDINE devono imparare LA<br />

SOLLECITUDINE poiché in vita furono lenti e pigri, ora corrono senza tregua.<br />

V CORNICE : AVARIZIA e PRODIGALITÀ CUSTODE è l’ANGELO DELLA GIUSTIZIA devono<br />

imparare LA PRODIGALITA’ Poiché in vita corsero dietro ai beni terreni, ora sono distesi,<br />

faccia a terra, mani e piedi legati.<br />

VI CORNICE : GOLA - CUSTODE è l’ANGELO DELL’ASTINENZA devono imparare LA<br />

TEMPERANZA poiché in vita si saziarono oltremisura, ora sono pelle e ossa per la fame e per<br />

la sete.<br />

VII CORNICE : LUSSURIA - CUSTODE è l’ANGELO DELLA CASTITA’ devono imparare LA<br />

CASTITA’ poiché in vita furono travolti dalle passioni, ora camminano tra le fiamme.<br />

A mano a mano che si sale il peccato è meno grave e i penitenti devono attendere un periodo di<br />

tempo sempre più breve per accedere al Paradiso. I sorvegliati delle cornici sono Angeli.<br />

L’atmosfera del PURGATORIO è di speranza, quella di poter accedere al Paradiso dopo aver<br />

espiato i propri peccati, predominano colori chiari, calma e serenità per la consapevolezza del<br />

premio divino.<br />

I CANTO: L’ANTIPURGATORIO<br />

Uscito salvo dall’inferno, Dante si trova sulla spiaggia del Purgatorio, ANTIPURGATORIO, dove<br />

stanno le anime dei negligenti, coloro che sono morti scomunicati e che si sono pentiti solo in fin<br />

di vita, essi sono divisi in 4 schiere (1 morti scomunicati, 2 pigri, 3 morti di morte violenta, 4 principi<br />

negligenti).<br />

Dante e Virgilio, usciti dalla voragine infernale attraverso la natural burella, si trovano sulla<br />

spiaggia di un'isola situata nell'emisfero antartico, nella quale si innalza la montagna del<br />

purgatorio. Inizia il secondo momento del viaggio di Dante nell'oltretomba, durante il quale<br />

argomento del suo canto sarà la purificazione delle anime prima di salire in paradiso: necessaria è<br />

perciò la protezione delle Muse, che egli invoca prima che la sua poesia affronti il tema dell'ascesa<br />

alla beatitudine eterna. L'alba è prossima e i due pellegrini procedono in un'atmosfera ormai<br />

limpida e serena; dove brillano le luci delle quattro stelle che furono viste solo da Adamo ed Eva<br />

prima che fossero cacciati dal paradiso terrestre, situato per Dante sulla vetta del monte del<br />

purgatorio. Volgendo lo sguardo verso il polo artico Dante scorge accanto a sé la figura maestosa<br />

di un vecchio con la barba e i lunghi capelli brizzolati: è Catone Uticense, che Dio scelse a custode<br />

del purgatorio. Fu un uomo politico, romano, che combattè fino all’ultimo in difesa della libertà<br />

repubblicana, minacciata dal potere assoluto di Cesare. Si uccise perché aveva perso la speranza<br />

di veder realizzato il suo pensiero e per non sottostare alla tirannide. Egli rappresenta la DIGNITA’<br />

UMANA, LA LIBERTA’ E LE VIRTU’ MORALI. Poiché egli li crede due dannati fuggiti dall'inferno,<br />

Virgilio spiega la loro condizione e prega che venga loro concesso di entrare nel purgatorio,<br />

promettendo a Catone di ricordarlo alla moglie Marzia, che si trova con Virgilio nel limbo. Ma,<br />

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isponde il veglio, una legge divina separa definitivamente le anime dell'inferno da quelle ormai<br />

salve; del resto non è necessaria nessuna lusinga, dal momento che il viaggio è voluto da una<br />

donna del ciel. Infine ordina a Virgilio di cingere Dante con un giunco (simbolo d'umiltà) e di<br />

detergergli il volto da ogni bruttura infernale. I due pellegrini si avviano verso la spiaggia del mare<br />

per compiere i due riti prescritti da Catone. In questa cantica e nella seconda l’argomento<br />

principale sarà la libertà, in quanto l’anima avendo ben compreso il suo peccato, impara a<br />

superare i condizionamenti, le false ambizioni che in vita l’hanno intrappolata, per cogliere il<br />

piacere della libertà assoluta, che coincide con la disposizione al Bene.<br />

CANTO II: L'aurora sorge sull'orizzonte del purgatorio mentre i due pellegrini sostano, pensosi ed<br />

incerti del cammino, lungo la riva del mare. All'improvviso appare lontano, sulle acque, una luce<br />

rosseggiante che si avvicina velocemente alla spiaggia: Virgilio riconosce l'angelo nocchiere del<br />

purgatorio ed esorta il discepolo ad inginocchiarsi in segno di omaggio. L'uccel divino giunge su<br />

una veloce navicella ché trasporta più di cento anime, le quali, ad una voce, cantano il salmo "In<br />

exitu Israel de Aegypto". Dopo averle benedette con il segno di croce, l'angelo riparte lasciando<br />

sulla spiaggia le anime, le quali chiedono consiglio a Dante e Virgilio sul cammino da<br />

intraprendere. Allorché si accorgono che Dante è vivo, grande è la loro meraviglia, finché una di<br />

esse, che aveva tentato di abbracciare il Poeta, viene da questo riconosciuta: è l'anima di Casella,<br />

un musico e cantore amico di Dante. Dopo avere spiegato ché le anime destinate al purgatorio si<br />

raccolgono alle foci del Tevere in attesa dell'angelo nocchiere, su preghiera dell'amico, che ricorda<br />

quanto fosse per lui rasserenante il suo canto, Casella intona una canzone del Convivio. Tutti<br />

ascoltano intenti, ma Catone li scuote, rimproverando questo indugio nell'espiazione dei loro<br />

peccati. Le anime e i due pellegrini si dirigono correndo verso il monte come colombi spaventati da<br />

un rumore improvviso.<br />

CANTO III : dopo il rimprovero di Catone, mentre Dante e Virgilio si avviano verso il monte, il<br />

poeta latino in una lunga esortazione invita gli uomini ad accettare il mistero di cui avvertono<br />

l'esistenza: i saggi antichi che vollero spiegarlo, scontano ora nel limbo il loro folle desiderio.<br />

Mentre sostano ai piedi dell'erta parete rocciosa, compare una schiera che avanza lentamente e<br />

verso la quale essi si dirigono, per chiedere informazioni. Sono le anime dei negligenti, degli<br />

scomunicati, che sono condannati a camminare lentamente attorno alla montagna trenta volte il<br />

tempo che è durata la scomunica.<br />

Dalla schiera si stacca un’anima è quella di Manfredi, figlio naturale dell’imperatore Federico II di<br />

Svevia, fiero capo ghibellino, ostile alla Chiesa, che si fece nominare re , usurpando il trono al<br />

giovane nipote Corradino, posto sotto la tutela di Innocenzo III. Si inimicò in questo modo il papa e<br />

i guelfi. Fu ucciso in battaglia a Benevento, nel 1266, dove si scontrò con Carlo d’Angiò,<br />

sostenitore del papa. Nonostante la diversa fede politica, Dante lo descrive con rispetto e<br />

ammirazione e qui lo colloca immaginandolo pentito dei suoi peccati e che abbia ottenuto il<br />

perdono divino. <strong>La</strong> rabbia del papa però continua a perseguitarlo anche dopo la morte: ha infatti<br />

ordinato di dissotterrare i suoi resti e disperderli. Egli prega Dante di riferire alla figlia Costanza la<br />

vera storia della sua morte; ricevute le due ferite che ancora deturpano la sua figura, si affidò<br />

pentendosi, prima di morire, alla misericordia divina. Ebbe dapprima sepoltura sotto un cumulo di<br />

sassi, secondo l'uso guerriero, ma i suoi nemici guelfi; e in particolare il vescovo di Cosenza<br />

Bartolomeo Pignatelli, legato del papa Clemente IV, vollero disseppellire il suo corpo e lo<br />

abbandonarono fuori del territorio della Chiesa (dove gli scomunicati non potevano essere sepolti),<br />

lungo le rive Garigliano. Chiede infine che Costanza preghi per lui, perché le preghiere dei vivi<br />

aiutano ed abbreviano il tempo della purificazione.<br />

CANTO IV : I PIGRI Più di tre ore sono trascorse dall'apparizione dell'angelo nocchiero quando<br />

Dante e Virgilio, in seguito all'indicazione delle anime degli scomunicati, iniziano la salita lungo uno<br />

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stretto sentiero, la cui ripidità è tale che solo il grande desiderio di purificazione può aiutare a<br />

percorrerlo. Durante l'ascesa Dante può rendersi conto, meglio che non quando si trovava ancora<br />

lungo la spiaggia, dell'altezza e dell'asperità del monte del purgatorio: ha un momento di<br />

scoraggiamento, dal quale il maestro lo scuote esortandolo a raggiungere un ripiano sul quale<br />

potranno riposare. Qui giunti, Virgilio spiega al discepolo perché i raggi del sole nel purgatorio<br />

provengono da sinistra, mentre nell'emisfero artico chi guarda verso levante vede il sole salire nel<br />

cielo alla sua destra. Ma Dante teme l'altezza del monte e Virgilio lo rassicura: l'ascesa è difficile<br />

solo all'inizio, quando si è ancora sotto il peso del peccato, poi si presenterà man mano<br />

sempre più facile ed agevole. Non appena il poeta latino termina di parlare, si leva<br />

improvvisamente una voce verso la quale i due pellegrini si dirigono, finché si trovano davanti a<br />

una grande roccia alla cui ombra giacciono le anime dei negligenti, che, per pigrizia, si<br />

pentirono solo all'estremo della vita e che, per questo, devono restare nell'antipurgatorio<br />

tanto tempo quanto vissero. Chi ha parlato è il fiorentino Belacqua, che Dante conobbe e con il<br />

quale il Poeta stabilisce un affettuoso colloquio finché Virgilio gli ingiunge di proseguire il cammino.<br />

CANTO V: I MORTI DI MORTE VIOLENTA<br />

I due pellegrini, procedendo sempre nell'antipurgatorio, lasciano la schiera delle anime negligenti,<br />

una delle quali, mostrando vivacemente la sua meraviglia nell'accorgersi che Dante è vivo, fa<br />

volgere il Poeta, che rallenta il suo passo. Virgilio lo invita a non perdere di vista la propria meta,<br />

consacrando ad essa tutte le energie. Intanto lungo la costa del monte avanza, cantando il salmo<br />

«Miserere», un gruppo di anime, che notano subito l'ombra proiettata dal corpo di Dante: due di<br />

esse, come messaggeri, si accostano ai poeti per chiedere spiegazioni intorno alla loro condizione<br />

e infine tutta la schiera si lancia verso di loro in una corsa senza freno. Sono coloro che furono<br />

uccisi con la violenza e che si pentirono solo all'ultimo istante di vita: ora chiedono<br />

preghiere per affrettare la purificazione. Nella seconda parte del canto tre di queste anime<br />

narrano come avvenne la loro morte: Jacopo del Cassero fu ucciso dai sicari di Azzo VIII d'Este,<br />

signore di Ferrara, del quale era stato fiero avversario; il ghibellino Bonconte da Montefeltro<br />

scomparve durante la battaglia di Campaldino e le potenze infernali, non avendo potuto<br />

impadronirsi della sua anima, si vendicarono sul suo corpo, suscitandogli contro le forze della<br />

natura, che trascinarono il cadavere di Bonconte nell'Arno, dove fu coperto dai detriti del fiume; Pia<br />

dei Tolomei fu fatta uccidere dal marito, prega Dante di ricordarla in vita e di non affaticarsi.<br />

CANTO VI – VII Sordello, dopo il primo momento di commozione nell'udire il nome della patria,<br />

vuole notizie precise sui due pellegrini: Virgilio risponde rivelando la propria identità al poeta<br />

mantovano, che si rivolge allora a lui chiamandolo gloria de' <strong>La</strong>tin. Dopo aver spiegato che il loro<br />

viaggio è permesso da Dio e che egli proviene dal limbo, Virgilio chiede la strada più breve per<br />

giungere al vero purgatorio, ma Sordello ricorda che la legge del mondo della penitenza vieta di<br />

salire il monte durante la notte. Occorrerà cercare un luogo dove attendere l'alba. I tre poeti si<br />

avviano verso la "valletta fiorita", dove si trovano i principi negligenti; coloro che, troppo presi<br />

dalle cure mondane, si pentirono solo alla fine della vîta. Circondati da una natura<br />

splendente di fiori e di profumi, essi cantano l'inno "Salve, Regina", mentre Sordello,<br />

rimanendo sull'orlo della valle, indica ai due pellegrini i personaggi più noti: l'imperatore Rodolfo<br />

d'Asburgo, al quale Dante rivolge l'accusa di avere trascurato la situazione politica italiana,<br />

Ottocaro II di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III d'Aragona con il<br />

figlio Pietro, Carlo I d'Angiò, Arrigo III d'Inghilterra, Guglielmo VII di Monferrato. Sottolinea<br />

infine la degenerazione dei loro discendenti, perché raramente la virtù si tramanda di padre in<br />

figlio, volendo Dio che tutti capiscano che essa non si riceve per eredità, ma proviene direttamente<br />

dal cielo.<br />

CANTO VIII Mentre scende il crepuscolo una delle anime della "valletta fiorita" intona l'inno «Te<br />

lucis ante terminum», subito seguita da tutte le altre, che volgono i loro occhi verso il cielo. Dante,<br />

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seguendo la direzione di quello sguardo, scorge due angeli splendenti che si dirigono verso<br />

l'orlo della valle, ciascuno con una spada fiammeggiante e priva della punta. Sordello, dopo<br />

avere spiegato ai due pellegrini che essi provengono dal cielo per difendere quel gruppo di<br />

penitenti dall'assalto del demonio che fra poco li tenterà, invita Dante e Virgilio a scendere in<br />

mezzo ai principi. Un'anima osserva fissamente il Poeta: è il pisano Nino Visconti, al quale egli<br />

fu legato da affettuosa amicizia. A lui Dante rivela di essere ancora vivo, suscitando l'attonito<br />

stupore di tutte le anime, mentre Nino invita uno dei principi ad avvicinarsi ai due pellegrini, per<br />

osservare da vicino quel prodigio; poi, rivolto all'amico, lo prega di ricordarlo alla figlia Giovanna,<br />

dal momento che troppo presto la moglie si è dimenticata di lui, passando a seconde nozze. Ad un<br />

certo momento Sordello indica a Virgilio il serpente tentatore che avanza nella valle, ma i due<br />

angeli, calando come sparvieri, lo mettono in fuga. Parla poi l'ombra che Nino aveva chiamato<br />

accanto a sé. È Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, che chiede notizie della sua<br />

famiglia, offrendo a Dante l'occasione di esaltarne la liberalità e la prodezza. Il canto si chiude<br />

con la solenne profezia dell'esilio del Poeta fatta dal Malaspina.<br />

CANTO IX Al termine del primo giorno di viaggio nel secondo regno, Dante si addormenta nella<br />

"valletta" dei principi. Poco prima dell'alba, quando i sogni, secondo una credenza medievale, sono<br />

più veritieri, al Poeta appare la visione di un'aquila dalle penne d'oro che scende improvvisa<br />

su di lui, trasportandolo nella sfera del fuoco, posta tra la sfera dell'aria e il cielo della luna,<br />

dove entrambi bruciano in un unico, grande fuoco. Destatosi pieno di paura, viene rassicurato da<br />

Virgilio, il quale gli rivela che durante il sonno era sopraggiunta una donna, Lucia, che aveva<br />

trasportato Dante dalla "valletta", dove erano rimaste tutte le altre anime, alla porta del<br />

purgatorio propriamente detto. I due pellegrini scorgono, sull'ultimo dei tre gradini che portano<br />

all'ingresso, un angelo splendente, armato di una spada, il quale rivolge loro la parola per chiedere<br />

che cosa vogliono e quale è stata la loro guida. Poiché (uguale fu la risposta a Catone) è stata una<br />

donna del ciel a condurli, l'angelo li invita a salire i tre gradini, dei quali il primo è bianco, il secondo<br />

quasi nero, il terzo rosso, ad indicare i successivi momenti del sacramento della confessione. A<br />

Dante, che si era inginocchiato, l'angelo incide sulla fronte sette P, come simbolo dei sette<br />

peccati capitali che dovrà espiare in ciascuna delle sette cornici del purgatorio. Dopo aver<br />

loro spiegato la funzione delle due chiavi, una gialla e una bianca, che ha ricevuto da San Pietro,<br />

apre la porta: si ode dapprima un suono cupo, che si trasforma poi nel canto dell'inno «Te Deum<br />

laudamus»<br />

CANTO X Dopo essere entrati nel purgatorio propriamente detto, Dante e Virgilio iniziano una dura<br />

salita attraverso un sentiero stretto e ripido, che li conduce infine su un ripiano deserto, dove la<br />

parete del monte appare di marmo bianco, adorno di artistici bassorilievi. Sono rappresentati<br />

esempi di umiltà, che le anime dei superbi, i penitenti di questa prima cornice o girone, devono<br />

meditare prima di quelli di superbia punita, che appariranno scolpiti sul pavimento. <strong>La</strong> prima<br />

scultura presenta l'arcangelo Gabriele che annuncia la nascita di Cristo alla Vergine, la quale<br />

sembra rispondere con le stesse parole del testo evangelico: «Ecce ancilla Dei». Il secondo<br />

esempio ricorda un episodio biblico, il trasporto dell'arca santa ordinato, da Davide, che<br />

precede la solenne processione cantando e ballando in segno di umile gioia. L'ultima scena<br />

è tratta dal mondo romano e riprende una leggenda molto diffusa nel Medioevo, l'incontro di<br />

Traiano e della vedova che invoca da lui giustizia contro gli uccisori del figlio prima che egli<br />

parta per la guerra: alla fine l'imperatore, riconoscendo giusta questa richiesta, accontenta la<br />

donna. Mentre Dante è ancora intento ad osservare queste opere, create direttamente dalla mano<br />

di Dio, avanza verso di loro una schiera di anime oppresse da pesanti massi: sono coloro che<br />

in vita si abbandonarono alla superbia, contro la quale il Poeta prorompe in una fiera invettiva.<br />

CANTO XI Nel primo girone, dove si sconta il peccato di superbia, i penitenti recitano la preghiera<br />

del « Pater Noster », invocando l'aiuto di Dio per sé e per coloro che sono rimasti sulla terra. A<br />

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Virgilio, che ha chiesto la strada più breve per giungere al passaggio che porta al secondo girone,<br />

risponde una delle anime, che, in un secondo tempo, rivela di essere Omberto Aldobrandeschi,<br />

appartenente ad una delle più note famiglie nobili della Toscana: l'orgoglio per l'antichità della sua<br />

stirpe e la grandezza delle azioni dei suoi antenati gli fecero dimenticare che la terra è la madre<br />

comune di tutti, spingendolo a disprezzare il suo prossimo. Intanto un altro penitente, girandosi con<br />

penosa fatica sotto il masso che lo opprime, riconosce Dante, che ritrova così, nella prima cornice,<br />

l'amico Oderisi da Gubbio, famoso miniatore del tempo, Dopo avere ricordato che la sua fama è<br />

ora stata oscurata da un altro artista, il bolognese Franco, Oderisi enuncia una legge alla quale<br />

nessuno si può sottrarre: vana è la gloria alla quale gli uomini tendono con tutte le loro forze,<br />

perché essa scompare subito se non è seguita da un periodo di decadenza. Così nella pittura<br />

Giotto ha sostituito Cimabue, e nella poesia Guido Cavalcanti è ora più famoso di Guido Guinizelli,<br />

ed è forse già nato chi sovrapporrà la sua alla loro voce. Un altro esempio storico della brevità del<br />

mondan romore è offerto dalla vicenda di Provenzano Salvani, un tempo signore di Siena e ora<br />

pressoché dimenticato. Il canto si chiude con il ricordo di una grande azione di umiltà compiuta da<br />

Provenzano per salvare la vita di un amico.<br />

CANTO XII In seguito all'invito del maestro, Dante, che finora aveva camminato al fianco di<br />

Oderisi, lascia la schiera dei superbi e procede oltre, osservando sul pavimento del primo girone<br />

numerosi bassorilievi, che rappresentano esempi di superbia punita e nei quali gli episodi sono<br />

presi alternativamente dal mondo ebraico-cristiano e da quello pagano: da Lucifero, che dopo il<br />

suo atto di ribellione precipita dal cielo, alla città di Troia, che a causa dell'orgogliosa superbia dei<br />

suoi cittadini fu dagli dei punita con la distruzione totale. Dopo aver ammirato l'arte somma con la<br />

quale le raffigurazioni sono state eseguite, Dante rimprovera con durezza la superbia degli<br />

uomini, che impedisce loro di vedere il male che compiono. I due pellegrini continuano il<br />

cammino, finché appare loro, splendente di luce, l'angelo dell'umiltà, che indica la scala per<br />

accedere al secondo girone, cancellando dalla fronte di Dante il primo dei sette P incisi<br />

dall'angelo guardiano alla porta del purgatorio, e intonando, mentre i poeti salgono una ripida<br />

scala, la prima delle beatitudini: "Beati pauperes spiritu!" Poiché Dante avverte meno fatica di<br />

prima, chiede spiegazione di questo fatto al maestro: man mano che egli avanza nel regno della<br />

penitenza, dice Virgilio, la volontà di purificazione aumenta e scompare ogni senso di<br />

difficoltà e di pena; ma il Poeta, per essere sicuro che il primo P è scomparso, ha bisogno<br />

di toccare la sua fronte, quasi incredulo di tanto miracolo.<br />

CANTO XIII Nel secondo girone, dove sono punite le anime degli invidiosi, i due pellegrini odono<br />

gridare, da voci misteriose che attraversano l'aria, tre esempi di carità: il miracolo di Cristo alle<br />

nozze di Cana, l'amicizia profonda che legava due famosi eroi greci. Oreste e Pilade, il comando<br />

evangelico all'amore fraterno. I penitenti, addossati a una nuda parete e coperti da ruvidi<br />

manti, si sorreggono gli uni alle spalle degli altri: i loro occhi appaiono chiusi, cuciti da un<br />

filo di ferro che impedisce loro di scorgere la luce del ciel. Dante, che teme di mostrarsi<br />

scortese passando dinanzi alle anime senza rivelare la sua presenza, chiede se in mezzo a loro<br />

c'è qualche italiano: ma, risponde una voce, ogni uomo ha una sola patria, che è quella celeste.<br />

Dante avanza verso l'ombra che ha parlato per conoscerne il nome o il luogo di nascita; appare<br />

così la figura della nobildonna senese Sapia, la quale confessa il suo peccato di invidia, che la<br />

portò a gioire più del male altrui che del proprio bene personale, spingendola a chiedere a Dio<br />

anche la rovina della sua patria. Alla fine della vita si convertì, ma solo le preghiere di un umile<br />

venditore di pettini della sua città le evitarono una lunga sosta nell'antipurgatorio. Durante il<br />

colloquio con Sapia, che non rinuncia a colpire, anche nell'al di là, con dura ironia i suoi<br />

concittadini, il Poeta riconosce che il suo animo è occupato non tanto dal peccato di invidia, quanto<br />

da quello della superbia, che egli sconterà sotto il peso dei macigni del primo girone.<br />

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CANTO XIV Il secondo canto dedicato agli invidiosi si apre con un dialogo fra le anime di due<br />

nobili romagnoli, vissuti nel secolo XIII, Guido del Duca e Rinieri da Calboli. Il primo, avendo<br />

notato che Dante è ancora vivo, lo prega di rivelargli la patria e il nome: il Poeta, per mezzo di una<br />

lunga perifrasi, spiega che la sua città di nascita è situata lungo le rive di un fiumicel che per<br />

mezza Toscana si spazia, ma tace il suo nome che non è ancora sufficientemente conosciuto.<br />

Guido del Duca pronuncia contro gli abitanti delle località (il Casentino e le città di Arezzo, Firenze<br />

e Pisa) percorse dall'Arno una dura requisitoria, accusandoli di avere abbandonato ogni virtù e, di<br />

avere trasformato la valle del fiume in un covo di malizia. Per sottolineare la gravità della<br />

degenerazione dilagante in questi luoghi, il romagnolo inizia una fosca predizione intorno al nipote<br />

di Rinieri, Fulcieri da Calboli, che tiranneggerà la città di Firenze spargendovi il terrore. Dopo aver<br />

confessato il proprio peccato e dopo aver rivolto una breve apostrofe all'umanità che si lascia<br />

traviare dall'invidia, Guido, nell'ultima parte del suo discorso, ricordata la corruzione presente della<br />

Romagna, rievoca con nostalgia e rimpianto il tempo passato, nel quale le virtù, il valore e la<br />

cortesia guidavano la vita di ciascuno. Quando i pellegrini riprendono il viaggio, voci misteriose<br />

ricordano due esempi di invidia punita.<br />

CANTO XV Mancano tre ore al tramonto del sole e i due pellegrini procedono sempre nel secondo<br />

girone, allorché una luce improvvisa colpisce con particolare intensità gli occhi di Dante: appare<br />

l'angelo guardiano del terzo girone, quello degli iracondi, il quale indica ai due poeti la scala<br />

per salire, e li accompagna con il canto di « Beati rnisericordes » e « Godi tu che vinci! ». Dante,<br />

per mettere a profitto il tempo del cammino, chiede al maestro chiarimenti intorno all'uso dei due<br />

termini, divieto e consorte, fatto da Guido del Duca nel canto precedente. Ha inizio una lunga<br />

spiegazione filosofica, nella quale Virgilio dimostra che l'invidia nasce dall'amore dei beni terreni,<br />

mentre coloro che ormai hanno conquistato, in paradiso, quelli spirituali, sono uniti da un profondo<br />

affetto reciproco, nel quale si riflette l'infinita carità di Dio verso le sue creature. Giunti nel terzo<br />

girone, appaiono in visione a Dante tre scene di mansuetudine:- il ritrovamento di Gesù nel<br />

tempio mentre discute con i dottori, l'episodio che ha per protagonisti il tiranno Pisistrato e la<br />

moglie, la lapidazione di Santo Stefano. Il canto termina con un'esortazione di Virgilio al discepolo,<br />

affinché questi, dopo essersi riscosso dalle visioni, affretti il suo passo, mentre avanza sempre più<br />

verso di loro un denso fumo, quello che avvolge le anime degli iracondi.<br />

CANTO XVI Il terzo girone appare avvolto da un fumo densissimo e acre, che circonda le anime<br />

degli iracondi, secondo una evidente legge di contrappasso. Dante, che avanza guidato da<br />

Virgilio, ode la preghiera dell' "Agnus Dei", che viene recitata in armonico accordo da tutti i<br />

penitenti, uno dei quali si rivolge improvvisamente al Poeta, essendosi accorto che egli si comporta<br />

come un vivo: è Marco Lombardo, il quale dichiara la sua profonda conoscenza del bene e del<br />

male degli uomini e il suo amore per la virtù. Poiché Marco ha ricordato la corruzione morale che si<br />

è diffusa nel mondo, Dante chiede che gli venga risolto un dubbio nato in lui durante il colloquio<br />

con Guido del Duca: il male che dilaga sulla terra è dovuto a malefici influssi degli astri o all'azione<br />

umana? Attraverso una lunga esposizione, Marco dimostra che i cieli muovono nell'uomo gli istinti,<br />

ma nulla possono contro la ragione e la libera volontà di cui egli è dotato e che dipendono<br />

direttamente da Dio, loro creatore. Perciò la causa del male risiede negli uomini stessi: infatti<br />

l'anima, che esce dalle mani di Dio senza nulla conoscere, viene attirata solo da ciò che dà gioia e<br />

incomincia a seguire i beni terreni, se non è frenata da una guida (l'imperatore e le leggi che egli<br />

ha il compito di far osservare). Ma l'intervento in campo temporale della Chiesa ha provocato una<br />

confusione di poteri che è all'origine dell'attuale degenerazione, la quale è particolarmente<br />

avvertibile nell'Italia settentrionale, dove pochi sono i rappresentanti rimasti della nobile<br />

generazione passata.<br />

CANTO XVII A Dante, uscito con Virgilio dal denso fumo che avvolge le anime degli iracondi,<br />

mentre è ormai prossimo il tramonto, compaiono in visione tre esempi di ira punita, che gli<br />

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presentano per prima la vicenda di Progne, mutata in uccello per aver imbandito al marito le carni<br />

del figlio in un eccesso di folle gelosia. Appare poi la figura di Aman, ministro del re persiano<br />

Assuero, che fu crocifisso dopo aver tramato la distruzione totale degli Ebrei, contro cui era<br />

adirato, e subito dopo Dante vede <strong>La</strong>vinia che piange sul cadavere della madre Amata, suicidatasi<br />

in un impeto d'ira, per non vedere la figlia andare in sposa ad Enea. Scomparse all'improvviso<br />

queste visioni, il Poeta ode la voce dell'angelo della pace che indica la strada per salire al quarto<br />

girone e che gli cancella dalla fronte la terza P, cantando la beatitudine evangelica «Beati pacifici<br />

». Frattanto i due pellegrini giungono sul ripiano deserto della quarta cornice, e Virgilio, in seguito a<br />

una domanda precisa del discepolo, spiega le caratteristiche del peccato che, lì viene espiato,<br />

l'accidia. L'ultima parte del canto è occupata dall'esposizione, da parte del poeta latino, della<br />

dottrina dell'amore nella sua duplice forma - naturale (o istintivo) e voluto con libera scelta dalla<br />

volontà e dall'intelletto - e della struttura morale del purgatorio.<br />

CANTO XVIII Virgilio, sempre rimanendo nel quarto girone, continua la trattazione del tema<br />

dell'amore per chiarire al suo discepolo in che modo questa affezione possa essere inizio di ogni<br />

bene e di ogni male. L'animo per natura è disposto all'amore, e ogni volta che la facoltà<br />

conoscitiva gli presenta una cosa piacevole, si dirige verso di essa: questa inclinazione è<br />

amore. Nasce tuttavia, in Dante un dubbio intorno alla libertà dell'uomo, guidato da impulsi che<br />

vengono dall'esterno e spinto da forze naturali; non soggette alla sua volontà. Ma Virgilio afferma<br />

che nella creatura umana agisce anche la ragione, che ha il compito di studiare, scegliere e<br />

guidare le tendenze naturali. Intanto la luna è già comparsa nel cielo e Dante, preso da improvvisa<br />

sonnolenza, viene riscosso dal sopraggiungere di una turba di anime che avanzano in corsa<br />

affannosa: sono gli accidiosi, che per contrappasso devono ora mostrare lo zelo che non<br />

ebbero in vita. Gli esempi di sollecitudine, che ricordano la visita della Vergine ad Elisabetta e la<br />

fulminea rapidità delle imprese militari di Cesare; sono gridati da due anime, come quellî di accidia<br />

punita, anch'essi ispirati dal mondo ebraico-cristiano e da quello romano. Dante in questo girone<br />

presenta un solo penitente: l'abate del monastero veronese di San Zeno, che rimprovera ad<br />

Alberto della Scala di aver ora concesso quella carica ad un figlio degenere.<br />

CANTO XIX Dante si trova nella cornice degli accidiosi allorché, mentre l'alba è ormai prossima,<br />

riceve in sogno una visione: gli appare l'immagine di una donna deforme, che in un secondo<br />

tempo si trasforma, agli occhi del pellegrino, in una bellissima sirena, che cerca di attirarlo<br />

con il fascino del suo canto. Ma un'altra figura femminile, comparsa all'improvviso a fianco<br />

del Poeta, rivela il male nascosto in quella femmina balba, riscuotendo Dante dal suo<br />

sonno. I due pellegrini possono così riprendere il cammino, guidati verso il passaggio che porta al<br />

girone superiore dalla voce dell'angelo del quarto girone, che assolve Dante dal peccato di accidia.<br />

Subito dopo Virgilio spiega al discepolo che la mostruosa apparizione del sogno era simbolo dei<br />

peccati di avarizia, gola e lussuria, che vengono espiati negli ultimi tre gironi del purgatorio. Nella<br />

quinta cornice, dove le anime degli avari giacciono bocconi a terra, legate nelle mani e nei<br />

piedi, Dante incontra l'ombra di Ottobuono dei Fieschi, che fu papa col nome di Adriano V: dopo<br />

aver rivelato al pellegrino la sua dignità di un tempo, il pontefice confessale proprie colpe,<br />

dichiarando però di essersi convertito subito dopo essere asceso alla cattedra di Pietro; solo allora,<br />

infatti, comprese che nessun possesso terreno può placare la sete di conquista dell'uomo e che la<br />

vera felicità è data solo dai beni spirituali.<br />

CANTO XX Dante prosegue il viaggio nel quinto girone, ma è tutto preso dal desiderio di<br />

conoscere la causa del terremoto che ha scosso il monte del purgatorio e del canto del «Gloria »<br />

che le anime hanno innalzato subito dopo. All'improvviso compare alle spalle dei due pellegrini<br />

un'ombra che rivolge loro un augurio di pace: a quest'anima Virgilio chiede spiegazione dei fatti<br />

misteriosi prima avvenuti. Il monte del purgatorio - spiega quello spirito è soggetto a leggi ben<br />

precise, diverse da quelle che regolano la vita della natura sulla terra, perché, al di sopra dei tre<br />

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gradini sui quali si apre la porta del mondo della penitenza, non si formano più grandine, neve,<br />

rugiada, brina, nuvole, lampi, arcobaleni, né tanto meno, terremoti. Il monte del purgatorio viene<br />

scosso solo in una occasione: quando una anima ha compiuto la sua purificazione ed è<br />

diventata degna di entrare in paradiso; contemporaneamente tutti gli spiriti penitenti<br />

ringraziano Dio con il canto del «Gloria». L'ombra, a una domanda di Virgilio, rivela finalmente il<br />

suo nome: è Stazio, il famoso poeta latino, autore della Tebaide e della Achilleide, vissuto nel I<br />

secolo d. C. Subito dopo aver spiegato che a Roma ebbe la consacrazione a poeta, Stazio inizia<br />

una commossa esaltazione di Virgilio e della sua opera, affermando che l'Eneide non solo<br />

alimentò ed educò il suo spirito poetico, ma ne fu anche mamma: ignaro di essere davanti a colui<br />

che considera il suo maestro, dichiara che egli acconsentirebbe a restare un anno di più nel<br />

purgatorio, pur di essere vissuto al tempo del grande mantovano. Dopo queste parole Dante,<br />

vincendo l'umiltà e la ritrosia di Virgilio, rivela il nome della sua guida.<br />

CANTO XXII Virgilio interroga Stazio mentre, in compagnia di Dante, stanno salendo verso il sesto<br />

girone. Vuole sapere il motivo per il quale un'anima di grande nobiltà, come la sua, può essersi<br />

macchiata della colpa dell'avarizia. In realtà l'autore della Tebaide e dell'Achilleide è rimasto più di<br />

cinquecento anni nel quinto girone per essere caduto nel vizio contrario, in quello della<br />

prodigalità: infatti - chiarisce Stazio - nel purgatorio vengono puniti nello stesso luogo i due tipi<br />

opposti di peccato. <strong>La</strong> seconda spiegazione richiesta da Virgilio riguarda il modo nel quale<br />

avvenne la conversione di Stazio dal paganesimo al cristianesimo. Un passo delle Bucoliche<br />

virgiliane, che accennava al rinnovamento del mondo, coincideva con il messaggio della nuova<br />

fede che veniva diffusa dovunque proprio in quel tempo; questo fatto spinse Stazio ad avvicinare i<br />

predicatori cristiani, che, con la santità della loro vita, lo convinsero ad abbandonare ogni altra<br />

posizione religiosa o filosofica per diventare cristiano attraverso il battesimo. Tuttavia, per timore<br />

delle persecuzioni, tenne sempre nascosta la sua conversione: per questo motivo dovette<br />

rimanere più di quattrocento anni nel girone degli accidiosi. Infine è Stazio che interroga Virgilio,<br />

per sapere in quale cerchio dell'inferno si trovano alcuni poeti latini. Il cammino dei tre viandanti<br />

continua finché essi incontrano, posto in mezzo alla strada, un albero carico di frutti odorosi, dalle<br />

cui fronde una voce ignota grida alcuni esempi di temperanza.<br />

CANTO XXIII <strong>La</strong> schiera delle anime dei golosi procede nel sesto girone cantando un versetto<br />

del Salmo L, "<strong>La</strong>bia mea, Domine". L'aspetto di questi penitenti è tale da suscitare in Dante la più<br />

profonda compassione: nel volto pallidissimo spiccano, profondamente incavate, le orbite<br />

degli occhi, il corpo appare di una magrezza spaventosa, tanto che la pelle, disseccata e<br />

squamosa, modella il loro scheletro. Mentre il Poeta sta cercando di individuare la causa di<br />

tanta magrezza, un'anima lo riconosce e lo interroga: è Forese Donati, l'amico più caro durante il<br />

periodo della vita dissoluta di Dante. Dalla sua voce il pellegrino viene a sapere la causa del<br />

dimagrimento delle anime dei golosi. Il Poeta tuttavia si stupisce di trovare l'amico, morto da<br />

appena cinque anni, già nel purgatorio vero e proprio, senza alcuna lunga sosta nell'antipurgatorio<br />

fra le anime che si pentirono solo alla fine della vita. Ad accelerare la sua ascesa sul monte della<br />

penitenza furono le preghiere di Nella, la sua dolce sposa, che Forese ora ricorda con amore,<br />

contrapponendone la virtù alla corruzione delle sfacciate donne fiorentine,- per le quali aggiunge lo<br />

spirito penitente - il cielo già prepara durissime punizioni. Dante, per soddisfare un'affettuosa<br />

preghiera dell'amico, rivela che solo da pochi giorni egli ha lasciato la vita viziosa alla quale si era<br />

abbandonato anni prima con lui: la sua guida verso il bene è ora Virgilio, in attesa della futura<br />

venuta di Beatrice.<br />

CANTO XXIV I tre poeti percorrono il sesto girone in compagnia di Forese Donati, il quale,<br />

rispondendo a Dante, rivela che la sorella Piccarda é già tra le anime beate del paradiso, e che tra<br />

i suoi compagni di pena nella cornice dei golosi ci sono alcuni nobili, alcuni ecclesiastici e un poeta<br />

lucchese, Bonaggiunta Orbicciani. Quest'ultimo profetizza a Dante che a Lucca, durante il periodo<br />

27


del suo esilio, una donna di nome Gentucca gli dimostrerà una profonda gentilezza e una delicata<br />

amicizia. In un secondo tempo Bonaggiunta affronta con Dante il problema della nuova poesia -<br />

quella del dolce stil novo - che si sta diffondendo, la quale ha una sola guida, il sentimento d'amore<br />

che fornisce l'ispirazione. Continuando nel cammino, poiché il Poeta ha ricordato la triste<br />

situazione in cui si trova la città di Firenze a causa delle lotte interne, Forese preannuncia<br />

l'imminente morte violenta del fratello Corso, capo del partito dei Neri e uno dei principali<br />

responsabili delle discordie civili. Subito dopo l'ombra del goloso fiorentino si allontana dai tre poeti<br />

per rientrare nella sua schiera, mentre appare un albero carico di frutti verso i quali gruppi di anime<br />

tendono con impaziente avidità le mani: allorché Dante si avvicina, una voce misteriosa grida dalle<br />

fronde alcuni esempi di golosità punita. I due pellegrini e Stazio, tutti assorti nella meditazione di<br />

quanto hanno appena udito, giungono alla fine del sesto girone, dove l'angelo della temperanza<br />

assolve Dante dal peccato di gola.<br />

CANTO XXV Sono circa le due pomeridiane mentre Dante, Virgilio e Stazio continuano l'ascesa<br />

dal sesto girone, quello dei golosi, all'ultimo, dove subiscono la loro pena i lussuriosi. Il Poeta,<br />

tuttavia, è tormentato da un dubbio, che il timore di riuscire fastidioso ai suoi due maestri gli vieta<br />

di esprimere. Ma, in seguito a una paterna esortazione di Virgilio, egli chiede come avviene il<br />

dimagrimento delle anime dei golosi, se esse non hanno bisogno di cibo. Virgilio, dopo un primo<br />

tentativo di chiarire questo problema attraverso due esempi, prega Stazio di fornire una<br />

dimostrazione più completa e convincente del fenomeno. Questi accosta il problema in modo<br />

ampio e generale, iniziando una sistematica dissertazione che possiamo dividere in quattro parti.<br />

1) Teoria della generazione umana: formazione dell'embrione dall'unione dell'uomo e della donna<br />

e, nell'embrione, formazione dell'anima vegetativa e sensitiva (versi 37-60). 2) Infusione dell'anima<br />

razionale nel corpo: quando nel feto la struttura del cervello è completa, Dio, con un atto creativo<br />

diretto, vi infonde l'anima razionale, che assimila le altre due, formando una sola anima (versi 61-<br />

78). 3) Modo dell'esistenza dell'anima dopo la morte: l'anima, uscendo dal corpo dopo la morte di<br />

questo, porta con sé le tre facoltà - vegetativa, sensitiva, razionale - e si dirige alle rive<br />

dell'Acheronte, se è dannata, o alla foce del Tevere, se è destinata alla salvezza (versi 79-87). 4)<br />

Genesi e condizione delle ombre: l'anima, giunta nel luogo assegnatole, opera nell'aria che la<br />

circonda e si costruisce con questa aria una specie di forma corporea, che è dotata degli organi<br />

dei sensi e può esprimere tutta la gamma dei sentimenti. Questa è la ragione per cui può avvenire<br />

nei golosi il dimagrimento. Appaiono poi, in mezzo a un grande fuoco, le anime dei lussuriosi, che<br />

cantano « Summae Deus clementiae » e gridano alcuni esempi di castità.<br />

CANTO XXVI ll settimo e ultimo girone del purgatorio è occupato da un grande fuoco, nel quale<br />

purificano il loro peccato le anime dei lussuriosi. L'attenzione del pellegrino è attirata dal<br />

sopraggiungere improvviso di una turba di anime, procedenti in direzione opposta rispetto a quella<br />

della prima schiera apparsa ai tre viandanti alla fine del canto XXV. Quando i due gruppi si<br />

incontrano, le anime, senza fermarsi, si baciano festosamente fra di loro; allorché si<br />

separano, le ombre della seconda schiera gridano il nome delle due città bibliche di Sodoma e<br />

Gomorra, quelle della prima ricordano la lussuria della regina cretese Pasifae. Dopo aver rivelato<br />

di essere ancora vivo, Dante chiede che gli venga spiegata la duplice divisione delle anime dei<br />

lussuriosi. Superato il primo momento di stupore, l'ombra che già precedentemente si era rivolta al<br />

Poeta, riprende a parlare: la schiera che si allontana gridando « Sodoma e Gomorra » è quella dei<br />

sodomiti, l'altra è quella dei lussuriosi secondo natura, i quali però non seppero frenare con la<br />

ragione i loro istinti. Soltanto ora Dante ci fa conoscere il nome del suo interlocutore: Guido<br />

Guinizelli, il famoso iniziatore della scuola poetica del, dolce stil novo, il quale presenta il poeta<br />

che, a suo giudizio, seppe usare ancora meglio di lui, nei suoi versi, la lingua materna al posto<br />

dell'ormai superato latino. Appare così la figura del maggiore trovatore provenzale, Arnaldo<br />

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Daniello, che, parlando nella lingua della propria terra, chiede a Dante di ricordarlo nelle sue<br />

preghiere.<br />

CANTO XXVII Il sole sta tramontando sul monte del purgatorio quando l'angelo della castità, dopo<br />

aver cantato la sesta beatitudine evangelica « Beati mundo corde! », invita i tre poeti ad entrare<br />

nelle fiamme che occupano il settimo girone, per poter proseguire il loro viaggio, Ma Dante esita,<br />

pieno di paura, e Virgilio deve intervenire per far presente al discepolo che nel purgatorio le pene<br />

possono tormentare, ma non uccidere. Tuttavia solo quando il maestro gli ricorda che al di là di<br />

quel muro di fiamme egli potrà finalmente vedere Beatrice, Dante si decide e segue la sua guida<br />

nel fuoco, mentre Stazio chiude il piccolo gruppo. Virgilio, per esortare il discepolo e sostenerlo nel<br />

difficile momento, continua a parlar di Beatrice finché, guidati da un canto, i tre poeti escono dalle<br />

fiamme, trovandosi davanti a un angelo, che li invita a salire prima che sopraggiunga la notte.<br />

Poco dopo, tuttavia, essendo tramontato il sole, essi si coricano su tre gradini tagliati nella roccia,<br />

per aspettare il nuovo giorno. Il Poeta, mentre osserva il cielo stellato, viene preso dal sonno;<br />

quando l'alba è vicina egli sogna una giovane donna, bella e leggiadra, che percorre la<br />

campagna cogliendo fiori e che, cantando, rivela il proprio nome: è Lia, che fu la prima<br />

moglie di Giacobbe e rappresenta il simbolo della vita attiva, mentre Rachele, che fu la<br />

seconda moglie del patriarca ebraico, è simbolo della vita contemplativa. Ogni tenebra è<br />

scomparsa quando Dante si riscuote dal sonno; subito dopo il maestro gli spiega che è ormai<br />

vicina quella felicità che tutti i mortali cercano ansiosamente e che è simboleggiata dal paradiso<br />

terrestre. Virgilio, dopo aver accompagnato Dante fino al termine della scala che conduce<br />

all'Eden, si congeda da lui: il suo compito si è concluso, il discepolo ha raggiunto la totale<br />

purificazione e non gli resta che attendere la venuta di Beatrice.<br />

CANTO XXVIII Dante, lasciato da Virgilio alla soglia del paradiso terrestre, sì dirige verso il bosco,<br />

folto e ricco di verde, che occupa gran parte dell'Eden. Entrato nella selva, il Poeta si trova la<br />

strada interrotta da un ruscello, le cui acque, benché prive di ogni impurità, appaiono tutte scure<br />

sotto l'ombra perpetua della divina foresta. Sulla sponda opposta appare una figura di straordinaria<br />

dolcezza: una donna cammina sulla riva del fiumicello cantando e cogliendo i fiori più belli.<br />

Dante la prega di avvicinarsi di più a lui, affinché gli sia possibile udire le parole del suo canto, e la<br />

donna, muovendosi con la stessa grazia di una figura danzante, ne esaudisce la richiesta.<br />

Matelda, questo è il nome (che sarà rivelato solo nel canto XXXIII, verso 119) della dolce<br />

apparizione, dichiara di essere giunta per soddisfare ogni domanda di Dante, il quale subito le<br />

chiede una spiegazione: come possono esserci nel paradiso terrestre l'acqua e il vento, dal<br />

momento che al di sopra della porta del purgatorio non esistono alterazioni atmosferiche? Il monte<br />

del purgatorio - incomincia Matelda - fu scelto da Dio per essere la dimora dell'uomo, il quale ne fu<br />

privato dopo il peccato originale; esso fu creato altissimo, affinché le perturbazioni atmosferiche<br />

non nuocessero alla creatura umana, ma la sfera dell'aria, che si muove con il muoversi dei cieli,<br />

colpisce gli alberi della selva facendoli stormire. Questi ultimi impregnano dei loro semi l'aria<br />

intorno, la quale, muovendosi, li sparge dovunque sulla terra. Quanto al ruscello che Dante ha<br />

visto, esso non nasce da una sorgente alimentata dalle piogge, ma da una fonte che riceve<br />

direttamente da Dio tanta acqua, quanta ne perde. Infatti due sono i fiumi del paradiso terrestre: il<br />

primo, già incontrato dal Poeta, è il Letè, la cui acqua dona l'oblio dei peccati commessi, il<br />

secondo è l'Eunoè, che fa ricordare solo le opere buone compiute.<br />

CANTO XXIX Dante espone, per mezzo di Beatrice, i problemi principali riguardanti le gerarchie<br />

angeliche: dove, quando, come furono creati gli angeli; quando e perché avvenne la ribellione di<br />

alcuni di essi; quale fu il premio per quelli rimasti fedeli; per quale motivo sbagliano quei pensatori<br />

che attribuiscono alle creature angeliche le tre facoltà umane dell’intelligenza, volontà e memoria; il<br />

numero sterminato degli angeli e la diversa intensità con la quale godono la visione diretta di Dio.<br />

A Dante interessa soprattutto mettere in rilievo che la creazione degli angeli fu un atto gratuito<br />

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dell’amore divino, che volle estrinsecarsi in altri esseri, e che le intelligenze angeliche, i cieli e la<br />

materia prima furono creati da Dio istantaneamente e simultaneamente. a proposito delle facoltà<br />

umane attribuite agli angeli, il discorso di Beatrice diventa polemico e le sue parole raggiungono un<br />

tono particolarmente aspro e duro. I cattivi predicatori del Vangelo, che hanno sostituito alle verità<br />

della fede cristiana le loro inutili ciance, sono rappresentati attraverso la grottesca figura del frate<br />

che predica dal pulpito con motti e con iscede, mentre il diavolo si annida nel bacchetto del suo<br />

cappuccio. Il canto si chiude con la visione di Dio che, pur rispecchiandosi in migliaia di creature<br />

angeliche, conserva la sua eterna unità.<br />

CANTO XXX Alla fine del canto XXIX un tuono improvviso ha fatto fermare la processione che<br />

avanzava lentamente lungo il Letè. Mentre tutti i personaggi del corteo si volgono verso i carro,<br />

uno dei ventiquattro seniori ripete per tre volte, cantando, le parole « Veni, sponsa de Libano »,<br />

subito seguito da tutti gli altri: è invocata, in questo momento, la presenza di Beatrice.<br />

Immediatamente dopo compare sul carro un gruppo di angeli, che pronuncian le parole: «<br />

Benedictus qui venis! » e gettano ovunque fiori, dicendo: « Manibus, oh, date lilia plenis! » .<br />

All'improvviso, in mezzo a questa nuvola di fiori, vestita di rosso, coperta di un manto verde, con il<br />

capo circondato da un velo bianco, che è sostenuto da una ghirlanda di ulivo, appare Beatrice.<br />

Davanti a lei, benché siano passati dieci anni dalla sua morte Dante sente, con la stessa intensità<br />

di un tempo, la forza dell'amore. Per rivelare questo momento di smarrimento si volge verso<br />

Virgilio, accorgendosi solo ora che il maestro lo ha lasciato: nessuna bellezza del paradiso<br />

terrestre può allora impedire al Poeta di dare libero sfogo al suo dolore attraverso il pianto. Ma<br />

Beatrice lo richiama, lo esorta a conservare le sue lagrime per una sofferenza più profonda, che fra<br />

poco egli proverà. L'atteggiamento della donna è fiero e regale, e le sue parole severe provocano<br />

nel pellegrino un penoso senso di vergogna e di abbattimento, dal quale sembra riscuotersi<br />

allorché gli angeli intervengono in suo aiuto di fronte a Beatrice. Ma ella dichiara che il dolore del<br />

pentimento deve essere pari alla gravità delle pene commesse, poiché - continua - Dante, pur<br />

essendo dotato di ogni più felice disposizione al bene, si lasciò traviare nella sua giovinezza,<br />

abbandonandosi al peccato. Infatti, finché visse Beatrice, la presenza della donna amata gli fu<br />

guida sufficiente sulla strada del bene, ma dopo la sua morte egli si incamminò per via non vera e<br />

a nulla valsero i tentativi da lei compiuti per ricondurlo sul retto cammino. L'unico rimedio efficace<br />

consisteva nell'ispirargli orrore per il peccato, mostrandogli tutte le brutture e le sofferenze<br />

dell'inferno: per questo Beatrice stessa discese nel limbo per chiedere l'aiuto di Virgilio in questa<br />

impresa.<br />

CANTO XXXI Continua il rimprovero che Beatrice, nel canto precedente, ha incominciato a<br />

rivolgere al Poeta per il traviamento morale al quale egli si era abbandonato dopo la morte della<br />

donna amata. Da quali allettamenti, da quali piaceri - vuole sapere Beatrice Dante si è lasciato<br />

attrarre, tanto da dimenticare ogni dovere spirituale? Furono - risponde, piangendo, il pellegrino - i<br />

beni fallaci del mondo che influenzarono il suo animo dopo la morte di chi in terra rappresentava<br />

per lui la bellezza, l'amore, la virtù. Anche se, agli occhi di Dio, è sommamente meritoria la<br />

confessione del proprio peccato, è necessario che il Poeta senta fino in fondo la vergogna delle<br />

sue colpe: poiché la natura o l'arte non offrirono mai a Dante una bellezza pari a quella di Beatrice<br />

e questa bellezza andò distrutta con la morte, nessun'altra realtà materiale - conclude la donna -<br />

avrebbe dovuto attirare la sua attenzione, dal momento che ogni bene terreno, anche il più alto,<br />

risulta sempre caduco; anzi, proprio in base a questa constatazione, il suo animo avrebbe dovuto<br />

volgersi verso l'alto. Ad un invito di Beatrice, Dante solleva lo sguardo per osservarla: la celestiale<br />

bellezza della donna, anche se ancora celata dal velo, è tale che il Poeta, avvertendo con estrema<br />

intensità il pentimento per le sue colpe, perde conoscenza. Allorché si riprende, si trova immerso<br />

nel Letè per opera di Matelda, la quale lo conduce sull'altra riva, dove Dante viene circondato dalle<br />

quattro virtù cardinali. Ma sono le tre virtù teologali che hanno il compito di portarlo davanti a<br />

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Beatrice: gli occhi del Poeta fissano quelli splendenti della donna, il cui sguardo è però rivolto al<br />

grifone. Solo in seguito alla preghiera delle tre virtù teologali ella acconsente a liberare il suo volto<br />

dal velo che lo ricopre, affinché Dante la possa vedere in tutta la sua bellezza<br />

CANTO XXXII Le figure femminili che simboleggiano le sette virtù invitano Dante a distogliere il<br />

suo sguardo da Beatrice per volgerlo alla processione, la quale, in questo momento, riprende a<br />

muoversi in direzione opposta rispetto a quella prima seguita; finché tutti i suoi membri si fermano<br />

intorno a un albero altissimo e spoglio di fronde. Dopo che il grifone vi ha legato il suo carro, la<br />

pianta rinasce a nuova vita, coprendosi di fiori e di foglie. Il canto dolcissimo innalzato dai<br />

personaggi del corteo provoca in Dante una specie di tramortimento, e, quando si risveglia,<br />

Matelda gli indica Beatrice che siede sotto l'albero circondata dalle sette virtù, mentre i ventiquattro<br />

seniori, il grifone e gli altri componenti del corteo risalgono al cielo. <strong>La</strong> seconda parte del canto è<br />

occupata dalla rappresentazione delle vicende del carro della Chiesa attraverso successive<br />

allegorie. Dante ricorda - con la figura dell'aquila - le persecuzioni portate contro i primi cristiani e<br />

con l'immagine della volpe il diffondersi delle eresie; in un secondo tempo l'aquila - simbolo<br />

dell'Impero - ritorna e lascia sul carro una parte delle sue penne, per indicare il potere temporale di<br />

cui fu investita la Chiesa dopo la donazione territoriale fatta dall'imperatore Costantino a papa<br />

Silvestro. Poi un drago, che rappresenta Satana, esce improvvisamente dalla terra e, dopo aver<br />

colpito con la coda maligna il carro, si allontana pieno di soddisfazione. L'immagine della Chiesa si<br />

trasforma infine in una figura mostruosa, dotata di sette teste e dieci corna: su di lei siede una<br />

sfrontata meretrice, a fianco della quale compare un gigante, che flagella ferocemente la donna<br />

subito dopo che questa ha volto il suo sguardo verso Dante. Il canto termina mostrando il gigante<br />

che stacca dall'albero il carro della Chiesa per trascinarlo nella selva.<br />

CANTO XXXIII Le quattro virtù cardinali e le tre teologali iniziano, di fronte alle tristi vicende del<br />

carro della Chiesa, il canto del Salmo LXXIX: «Deus, venerunt gentes », al quale Beatrice risponde<br />

con le stesse parole rivolte da Gesù ai discepoli per annunziare loro la sua morte e la sua<br />

risurrezione: « Modicum, et non videbitis me... » . In un secondo momento Beatrice invita Dante a<br />

camminare al suo fianco, affinché possa meglio udire le sue parole. Ella ora intende spiegare i<br />

misteriosi prodigi avvenuti intorno e sul carro della Chiesa e contemporaneamente preannunziare<br />

la punizione di coloro che si sono resi colpevoli della corruzione morale della Chiesa. Al Poeta -<br />

continua Beatrice - toccherà il compito di riferire agli uomini ciò che ha udito. E poiché Dante<br />

osserva che il linguaggio da lei usato è troppo oscuro ed esige uno sforzo non comune per poterlo<br />

comprendere. Beatrice rivela che ciò avviene per dimostrare all'uomo che ogni dottrina terrena è<br />

insufficiente a penetrare la scienza divina. È mezzogiorno allorché le figure delle sette virtù si<br />

fermano nella zona in cui termina l'ombra della foresta, di fronte alla sorgente dei due fiumi del<br />

paradiso terrestre, il Letè, nelle cui acque il Poeta è già stato immerso per dimenticare il male<br />

passato, e l'Eunoè. Matelda - in seguito a un comando di Beatrice - invita Dante e Stazio a seguirla<br />

per bere l'acqua di questo fiume, che ravviva la memoria del bene compiuto. Con questo ultimo rito<br />

la purificazione del Poeta è completa: egli è ormai puro e disposto a salire alle stelle.<br />

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