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LICEO CLASSICO “ORAZIO” ROMA Miscellanea di Saggi e Ricerche BOTTONI - CARINI - CASTELLAN - DE STEFANO FIERRO - GIANNÌ - MAIONE - MARCHEI - PERETTI - PESCETELLI ROBUSTELLI - VACCHIANO - VALCAVI a cura di Mario Carini N. 6 ANNO SCOLASTICO 2008-2009

LICEO CLASSICO “ORAZIO”<br />

ROMA<br />

Miscellanea<br />

<strong>di</strong> Saggi e Ricerche<br />

BOTTONI - CARINI - CASTELLAN - DE STEFANO<br />

FIERRO - GIANNÌ - MAIONE - MARCHEI - PERETTI - PESCETELLI<br />

ROBUSTELLI - VACCHIANO - VALCAVI<br />

a cura <strong>di</strong> Mario Carini<br />

N. 6<br />

ANNO SCOLASTICO<br />

<strong>2008</strong>-2009


Stampa: Tipolito Istituto Salesiano Pio XI<br />

Via Umbertide, 11 - 00181 Roma<br />

Tel. 06.7827819 - E-mail: tipolito@pcn.net<br />

Finito <strong>di</strong> stampare: Aprile 2010


INDICE<br />

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5<br />

SEZIONE DOCENTI<br />

MARIO CARINI, Cleopatra e le altre: la rappresentazione <strong>di</strong> figure femminili in opposizione<br />

al dominio romano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13<br />

LILLA CONSONI -ANNA MARIA ROBUSTELLI, Medusa mostro-madre-mistero mitopoietico? . . . 25<br />

AMITO VACCHIANO, Zaccaria il papa a cui nessuno sapeva resistere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35<br />

SEZIONE DIDATTICA<br />

(collaborazioni degli studenti)<br />

Prof.ssa Licia Fierro, Introduzione ai progetti realizzati dagli alunni <strong>di</strong> II B e III B nell’anno<br />

scolastico <strong>2008</strong>-2009 (Progetto “Roma per vivere, Roma per pensare”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51<br />

Natura fisica e umana morale nel mondo grecoromano e in alcune moderne rielaborazioni,<br />

progetto realizzato dalla classe II B (anno scolastico <strong>2008</strong>-2009), coor<strong>di</strong>nato dalla<br />

Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione della Prof.ssa Alda Giannì . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54<br />

Il concetto <strong>di</strong> Umanità: Natura, Tra<strong>di</strong>zione, Rivoluzione, progetto realizzato dalla classe III B<br />

(anno scolastico <strong>2008</strong>-2009), coor<strong>di</strong>nato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione<br />

della Prof.ssa Paola Peretti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89<br />

Prof.sse Paola Maione - Stefania Sorrenti, Progetto speciale “La scuola adotta un monumento”<br />

nel cinquecentesimo anniversario del <strong>Liceo</strong> Classico <strong>Orazio</strong> (anno scolastico <strong>2008</strong>-2009) 116<br />

Prof. Stefano De Stefano, Il <strong>Liceo</strong> Classico <strong>Orazio</strong> alla XV e<strong>di</strong>zione delle Olimpia<strong>di</strong> <strong>di</strong> Filosofia 124<br />

Attività <strong>di</strong> ricerca sull’equazione dell’iperbole equilatera riferita agli sintoti, ricerca dello<br />

studente Francesco Lancellotti (III C) presentata dalla Prof.ssa Elisa Valcavi . . . . . . . . . . . . 128<br />

Miscellanea <strong>di</strong> matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132<br />

Prof. Marco Pescetelli, Lezione sul genere poetico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138<br />

Clessidra, racconto <strong>di</strong> Violetta Tulelli (classe V H) presentato dalla Prof.ssa Maria Marchei . . . . . 148<br />

L’inferno bianco <strong>di</strong> mio nonno, Una testimonianza <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> Umberto Ta<strong>di</strong>ello a cura della<br />

Dott.ssa Susanna Ta<strong>di</strong>ello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151<br />

Prof.ssa Anna Paola Bottoni, L’utilizzazione in classe delle fonti memorialistiche: un lavoro<br />

<strong>di</strong> gruppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174<br />

Prof. Mario Carini, Esercizi <strong>di</strong> scrittura creativa per una classe del biennio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178


INTRODUZIONE<br />

In apertura del sesto volume della Miscellanea <strong>di</strong> saggi e ricerche, relativo all’anno scolastico<br />

<strong>2008</strong>-2009, è per noi motivo <strong>di</strong> particolare sod<strong>di</strong>sfazione menzionare l’alto riconoscimento che il<br />

Presidente della Repubblica ha voluto destinare al nostro <strong>Liceo</strong> <strong>Orazio</strong>, in occasione del cinquantesimo<br />

anniversario della sua storia (1959-2009). La medaglia della Presidenza della Repubblica, che riproduciamo<br />

<strong>di</strong> seguito assieme alla lettera <strong>di</strong> accompagnamento in<strong>di</strong>rizzata dal Segretario Generale della<br />

Presidenza al nostro attuale Dirigente Scolastico, Prof. Massimo Bonciolini, giunge a coronamento <strong>di</strong><br />

un lungo e costante impegno speso dai docenti nella educazione <strong>di</strong> generazioni <strong>di</strong> giovani che si sono<br />

succeduti sui banchi delle nostre aule. Un impegno che si è tradotto in molteplici ed encomiabili attività,<br />

alcune delle quali ormai tra<strong>di</strong>zionali: i cicli <strong>di</strong> conferenze su temi <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>mento culturale<br />

che vedono ogni anno come ospiti della scuola, invitati a relazionare e a <strong>di</strong>alogare con gli studenti, i<br />

più importanti esponenti della cultura e delle istituzioni del nostro Paese, le pubblicazioni, le lusinghiere<br />

partecipazioni dei nostri studenti a concorsi e competizioni <strong>di</strong> carattere nazionale e internazionale,<br />

le attività legate ai progetti e ai laboratori, gli scambi culturali, le attività sportive, sono gli aspetti<br />

peculiari <strong>di</strong> una offerta formativa che poche altre scuole possono vantare e che hanno qualificato la<br />

nostra scuola a livello citta<strong>di</strong>no. Il prestigioso riconoscimento del Capo dello Stato premia e incoraggia<br />

il nostro lavoro, ed insieme è un auspicio che il futuro possa essere, come sempre, ricco <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfazioni<br />

e ulteriori riconoscimenti per la nostra comunità scolastica.<br />

Quest’anno la scuola ha voluto celebrare le sue memorie sull’onda dei ricor<strong>di</strong>, riunendo in una<br />

ideale continuità <strong>di</strong> generazioni ex alunni (alcuni dei quali <strong>di</strong>venuti personaggi <strong>di</strong> rilevanza nazionale,<br />

come il sindacalista Guglielmo Epifani e il giornalista Oliviero Beha) ed ex docenti nella serata<br />

culminante delle attività per il cinquantenario, ossia la grande festa del 19 <strong>di</strong>cembre u.s., una serata che<br />

ha avvolto tutti i partecipanti in una atmosfera <strong>di</strong> affetto e forse nostalgico rimpianto, come l’aveva<br />

immaginata l’ex Preside Franza, “con gli attuali studenti a fare gli onori <strong>di</strong> casa ai loro padri... come<br />

in una immaginaria staffetta”. Ma il recupero della memoria può avvenire in modo altrettanto gratificante<br />

anche nella coscienza dei singoli. Scrivevamo, in uno dei precedenti volumi della Miscellanea<br />

che “la memoria del passato è, forse, l’ere<strong>di</strong>tà più importante lasciata alle nuove generazioni da chi ha<br />

già percorso o sta terminando <strong>di</strong> percorrere il <strong>di</strong>fficile cammino della vita”, 1 esortando a non sprecare<br />

i ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> chi è nato prima <strong>di</strong> noi, a non lasciare che l’incuria <strong>di</strong>strugga per sempre esperienze umane<br />

che possono fornire esempi <strong>di</strong> valori morali e impegno civile. Quell’esortazione nasceva non solo<br />

da ricor<strong>di</strong> familiari, ma anche dall’aver avuto la fortuna <strong>di</strong> leggere un denso e bellissimo libro <strong>di</strong> ricor<strong>di</strong><br />

della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, purtroppo stampato in poche copie, a cui l’autore ci lasciò apporre<br />

una nostra, speriamo non indegna, introduzione: Vecchie cicatrici invisibili, ricor<strong>di</strong> della campagna<br />

<strong>di</strong> Albania compilati dal me<strong>di</strong>co e umanista Alberto De Fabritiis. 2 Vorremmo qui citare la parte<br />

conclusiva della prefazione del libro, nella quale l’autore dà il senso del suo pubblicare un <strong>di</strong>ario che<br />

rievoca vicende lontane, a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> cinquant’anni dai fatti, e chiarisce il valore <strong>di</strong> ogni prezioso<br />

recupero della memoria, come un dono <strong>di</strong> noi che facciamo agli altri. Che cosa lo spinse, infatti, a scrivere<br />

un libro sulla guerra? Risponde l’autore: “Il pensiero che i miei genitori avrebbero avuto notizie<br />

della mia scomparsa da un telegramma del Ministero della Guerra e tutto sarebbe finito lì. Volevo<br />

invece che qualcosa <strong>di</strong> me restasse loro, che avessero il conforto sia pure minimo <strong>di</strong> sapere come erano<br />

andate le cose, <strong>di</strong> conoscere i pericoli, i <strong>di</strong>sagi, le sofferenze a cui ero andato incontro prima <strong>di</strong><br />

soccombere. Qualcuno a guerra finita avrebbe bussato alla loro porta (spesso immaginavo la scena) e<br />

avrebbe loro consegnato questo mio <strong>di</strong>ario quasi scusandosi <strong>di</strong> non poter fare <strong>di</strong> più. Avrebbero letto<br />

il mio racconto come ascoltandolo dalla mia voce, avrebbero rivissuto con me le mie avventure e<br />

<strong>di</strong>savventure, era come se avessi loro regalato un periodo della mia vita destinato altrimenti a restare<br />

nell’ombra”. 3 In questo sesto volume abbiamo pertanto dato spazio a un lavoro memorialistico sulla<br />

seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, che ci è venuto tra le mani in modo del tutto casuale, durante una vacanza<br />

1 In Miscellanea <strong>di</strong> Saggi e Ricerche, n. 3, anno scolastico 2005-2006, p. 102.<br />

2 Aldefa (Alberto De Fabritiis), Vecchie cicatrici invisibili, Demian E<strong>di</strong>zioni, Teramo 1995.<br />

3 Aldefa, cit., p. 18.<br />

–5–


ad Arsago Seprio (Va) la scorsa estate. Si tratta delle memorie ine<strong>di</strong>te <strong>di</strong> un anziano reduce della<br />

seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, Umberto Ta<strong>di</strong>ello, che combatté tra le file della <strong>di</strong>visione Tridentina, sul<br />

fronte russo nel 1942, e partecipò alla terribile ritirata dell’armata italiana (ARMIR) dal Don. Riuscito<br />

a superare l’accerchiamento dei russi, dopo l’8 settembre fu fatto prigioniero dai tedeschi e condotto<br />

in un lager, da cui venne liberato grazie agli americani soltanto nel giugno 1945. È un documento<br />

assai drammatico, che rievoca la tragica quoti<strong>di</strong>anità della guerra con il suo carico <strong>di</strong> lutti e sofferenze,<br />

che, assieme al Ta<strong>di</strong>ello, un’intera generazione <strong>di</strong> italiani dovette patire per volontà del Duce. Abbiamo<br />

ritenuto utile presentare nella “Sezione <strong>di</strong>dattica” questa narrazione, raccolta dalla nipote del Ta<strong>di</strong>ello,<br />

la Dott.ssa Susanna Ta<strong>di</strong>ello (che ringraziamo per averci concesso cortesemente <strong>di</strong> pubblicare il<br />

memoriale), oltre che per l’interesse che essa presenta <strong>di</strong> per sé, anche perché costituisce un vali<strong>di</strong>ssimo<br />

e sempre attuale insegnamento, oltre che monito, alle giovani generazioni sull’inutile orrore della<br />

guerra. Siamo sicuri che anche i lettori sapranno apprezzare il valore <strong>di</strong> questa preziosa testimonianza<br />

storica, come abbiamo fatto noi.<br />

Anche questo sesto volume ha conservato la tra<strong>di</strong>zionale bipartizione in “Sezione docenti” e<br />

“Sezione <strong>di</strong>dattica (collaborazioni degli studenti)”. La “Sezione docenti” comprende i seguenti lavori:<br />

il nostro breve saggio Cleopatra e le altre: la rappresentazione <strong>di</strong> figure femminili in opposizione al<br />

dominio romano, seguito da quelli della scrittrice Lilla Consoni e della Prof.ssa Anna Maria Robustelli,<br />

(scrittrice e poetessa, già docente nel nostro istituto) Medusa mostro-madre-mistero mitopoietico?, e<br />

del Prof. Amito Vacchiano, Zaccaria il papa a cui nessuno sapeva resistere.<br />

La “Sezione <strong>di</strong>dattica (collaborazioni degli studenti)”, quest’anno molto nutrita, comprende i<br />

seguenti lavori: l’introduzione della Prof.ssa Licia Fierro ai progetti realizzati dagli alunni <strong>di</strong> II e III B<br />

nell’anno scolastico <strong>2008</strong>-2009 (Progetto “Roma per vivere, Roma per pensare”); la ricerca Natura<br />

fisica e natura morale nel mondo grecoromano e in alcune moderne rielaborazioni, progetto realizzato<br />

dalla classe II B (anno scolastico <strong>2008</strong>-2009), coor<strong>di</strong>nato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la<br />

collaborazione della Prof.ssa Alda Giannì; la ricerca Il concetto <strong>di</strong> Umanità: Natura, Tra<strong>di</strong>zione,<br />

Rivoluzione, progetto realizzato dalla classe III B (anno scolastico <strong>2008</strong>-2009), coor<strong>di</strong>nato dalla Prof.ssa<br />

Licia Fierro, con la collaborazione della Prof.ssa Paola Peretti. Segue la ricerca coor<strong>di</strong>nata dalle Prof.sse<br />

Maria Paola Maione e Stefania Sorrenti, Progetto speciale “La scuola adotta un monumento” nel<br />

cinquantesimo anniversario del <strong>Liceo</strong> Classico <strong>Orazio</strong>, anno scolastico <strong>2008</strong>-2009 e la relazione del<br />

Prof. Stefano De Stefano, Il <strong>Liceo</strong> <strong>Orazio</strong> alla XV e<strong>di</strong>zione delle Olimpia<strong>di</strong> <strong>di</strong> Filosofia. Seguono,<br />

quin<strong>di</strong>, due lavori scientifici: l’Attività <strong>di</strong> ricerca sull’equazione dell’iperbole equilatera riferita agli<br />

asintoti, dello studente Francesco Lancellotti (III C) presentata dalla Prof.ssa Elisa Valcavi, e la ormai<br />

tra<strong>di</strong>zionale Miscellanea <strong>di</strong> matematica a cura del Prof. Maurizio Castellan. A essi fa seguito la Lezione<br />

sul genere poetico del Prof. Marco Pescetelli. È poi la volta del racconto Clessidra, <strong>di</strong> Violetta Tulelli,<br />

alunna della classe V H, che ha ottenuto la menzione <strong>di</strong> merito nel concorso letterario La scienza narrata<br />

- Esperimenti <strong>di</strong> scrittura creativa: il racconto è presentato dalla Prof.ssa Maria Marchei. Quin<strong>di</strong><br />

appaiono il memoriale L’inferno bianco <strong>di</strong> mio nonno, una testimonianza <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> Umberto Ta<strong>di</strong>ello,<br />

e il lavoro della Prof.ssa Anna Paola Bottoni, L’utilizzazione in classe delle fonti memorialistiche:<br />

un lavoro <strong>di</strong> gruppo, che contiene un commento al memoriale elaborato dai suoi alunni (classe IV L).<br />

Concludono la sezione i nostri Esercizi <strong>di</strong> scrittura creativa per una classe del biennio.<br />

A conclusione <strong>di</strong> questa introduzione, ricordando che ancora una volta la rivista “Nuova<br />

Secondaria” ci ha onorato <strong>di</strong> una sua lusinghiera recensione, 4 a testimonianza della qualità del nostro<br />

lavoro, vogliamo ringraziare il Dirigente Scolastico Prof. Massimo Bonciolini, che, come i suoi<br />

precedenti Colleghi, ha consentito la prosecuzione <strong>di</strong> questa iniziativa e<strong>di</strong>toriale, e tutti i collaboratori<br />

del presente numero. Cogliamo altresì l’occasione per ricordare il precedente D.S. Prof. Gregorio<br />

Franza, che proprio con l’anno scolastico <strong>2008</strong>-2009 ha terminato il suo servizio nella scuola. Non<br />

abbiamo bisogno <strong>di</strong> presentare il Preside Franza: quanti lo hanno conosciuto ne ricordano l’infaticabile<br />

de<strong>di</strong>zione alla scuola, la passione per le attività culturali dell’Istituto, e insieme l’umanità, la sensibilità<br />

e la grande signorilità che lo <strong>di</strong>stinguevano. A lui rivolgiamo un grato, deferente e affettuoso saluto.<br />

Roma, 22 febbraio 2010 Mario Carini<br />

4 “Nuova Secondaria”, n. 6, 15 febbraio 2010, p. 109.<br />

–6–


Il Segretario Generale<br />

della Presidenza della Repubblica<br />

Gentile Professore,<br />

ho il piacere <strong>di</strong> trasmetterle l’unita medaglia che il Capo dello Stato ha<br />

voluto destinare, quale suo premio <strong>di</strong> rappresentanza, alle iniziative promosse<br />

dal <strong>Liceo</strong> <strong>Ginnasio</strong> <strong>Statale</strong> “<strong>Orazio</strong>” in occasione del cinquantesimo anniversario<br />

<strong>di</strong> attività.<br />

Il riconoscimento conferma l’apprezzamento del Presidente della<br />

Repubblica per il meritorio impegno dell’istituto scolastico da lei <strong>di</strong>retto<br />

nell’offrire un percorso educativo, che, nei vari ambiti <strong>di</strong>sciplinari, si propone <strong>di</strong><br />

contribuire alla formazione umana, culturale e civile delle nuove generazioni,<br />

trasmettendo loro passione per lo stu<strong>di</strong>o e per la conoscenza e, al tempo stesso,<br />

stimolando la crescita <strong>di</strong> una matura consapevolezza <strong>di</strong> quei valori e principi sui<br />

quali si fonda la Costituzione repubblicana.<br />

In questo spirito, il Presidente Napolitano invia a lei, ai docenti, al personale<br />

tutto della scuola, agli studenti e a tutti i presenti un partecipe saluto e un augurio<br />

<strong>di</strong> buon lavoro, cui unisco i miei personali.<br />

Prof. Massimo Bonciolini<br />

Dirigente scolastico del<br />

<strong>Liceo</strong> <strong>Ginnasio</strong> statale “<strong>Orazio</strong>”<br />

Via Alberto Savino, 40<br />

00141 ROMA<br />

–7–


Sezione docenti


MARIO CARINI<br />

Cleopatra e le altre:<br />

la rappresentazione <strong>di</strong> figure femminili<br />

in opposizione al dominio romano 1<br />

Tra i documenti letterari, che assumono importanza anche per lo storico impegnato<br />

nello stu<strong>di</strong>are le cause e le modalità del complesso passaggio dalla repubblica al principato<br />

augusteo, non può essere non ricordato il celeberrimo trentasettesimo carme dal primo libro<br />

delle O<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong>, scritto per celebrare la morte <strong>di</strong> Cleopatra, regina d’Egitto, avvenuta<br />

all’indomani della vittoria della flotta <strong>di</strong> Ottaviano ad Azio (2 settembre del 31 a.C.; il<br />

suici<strong>di</strong>o della regina d’Egitto seguì pochi mesi dopo, nell’agosto del 30, ad Alessandria).<br />

Il famoso inizio del carme, quella sorta <strong>di</strong> grido gioioso, Nunc est bibendum, nunc pede<br />

libero / pulsanda tellus, che riecheggia l’altrettanto famosa ode <strong>di</strong> Alceo per la morte del<br />

tiranno Mirsilo, e vuol rappresentare il sollievo per l’auspicata cessazione <strong>di</strong> un lungo e doloroso<br />

incubo, evoca la gioia che proruppe irrefrenabile nel cuore dei romani quando ebbero<br />

finalmente la certezza che, con la morte dell’ultima grande nemica <strong>di</strong> Roma, nulla avrebbe<br />

più potuto turbare il desiderio <strong>di</strong> pace che da molti anni covava negli animi e che soltanto<br />

Ottaviano, il futuro Augusto, avrebbe potuto realizzare. Troppi anni erano durate le guerre<br />

civili che avevano insanguinato la città, <strong>di</strong>viso il corpo civico e provocato tanti lutti nelle<br />

famiglie romane: cento anni, praticamente, interrotti da brevi perio<strong>di</strong> <strong>di</strong> intermezzo. Una<br />

lunga sequela <strong>di</strong> lotte che ha origine dallo sfortunato tentativo <strong>di</strong> riforma agraria <strong>di</strong> Tiberio<br />

Gracco (133 a.C.), il coraggioso tribuno della plebe vittima del suo <strong>di</strong>segno <strong>di</strong> rivitalizzare<br />

la depauperata classe dei piccoli proprietari terrieri e <strong>di</strong> rigenerare l’esercito romano, che<br />

proprio nei contingenti <strong>di</strong> conta<strong>di</strong>ni-soldati aveva il suo nerbo, e giunge fino al secondo triumvirato<br />

e allo scontro finale tra Ottaviano e Antonio, passando per la vicenda <strong>di</strong> Caio Mario,<br />

la repressione del movimento del tribuno Apuleio Saturnino, la <strong>di</strong>ttatura <strong>di</strong> Silla e le stragi dei<br />

seguaci <strong>di</strong> Mario, l’accordo tra Cesare, Pompeo e Crasso, le violenze scatenate dalle bande<br />

<strong>di</strong> Clo<strong>di</strong>o e <strong>di</strong> Milone a Roma, lo scontro fra Cesare e Pompeo, la <strong>di</strong>ttatura e la morte <strong>di</strong><br />

Cesare. Tutte vicende contrassegnate da scontri che avevano visto soldati romani combattere<br />

contro altri soldati romani, con i medesimi simboli sulle insegne: la battaglia <strong>di</strong> Porta Collina<br />

dell’84 a.C. fra i seguaci <strong>di</strong> Cinna e le truppe <strong>di</strong> Silla, quella <strong>di</strong> Farsalo del 48 tra Cesare<br />

e Pompeo, quelle <strong>di</strong> Tapso e Munda ove Cesare affrontò gli ultimi pompeiani, e poi la battaglia<br />

<strong>di</strong> Modena nell’aprile del 43, tra l’esercito consolare <strong>di</strong> Irzio e Pansa (a cui si aggiunsero<br />

le truppe <strong>di</strong> Ottaviano, che allora Cicerone sperava <strong>di</strong> ridurre a docile strumento della nobilitas<br />

senatoria) e quello <strong>di</strong> Antonio e Lepido, quella <strong>di</strong> Filippi dell’ottobre del 42, tra i secon<strong>di</strong><br />

triumviri e i cesarici<strong>di</strong>, e poi la guerra <strong>di</strong> Perugia (41 a.C.), che vide Ottaviano contro Fulvia,<br />

moglie <strong>di</strong> Marco Antonio, e suo fratello Lucio, e quella navale <strong>di</strong> Nàuloco, fra Ottaviano e<br />

Sesto Pompeo, figlio del primo triumviro e potente capo della flotta romana. Un lungo elenco<br />

(a cui bisogna aggiungere anche i massacri, gli esili, le proscrizioni e le spoliazioni che colpirono<br />

tanti inermi citta<strong>di</strong>ni) chiuso finalmente dalla battaglia <strong>di</strong> Azio, che virtualmente apre<br />

il periodo della pax Augusta.<br />

1 Ampie parti <strong>di</strong> questo testo sono state oggetto <strong>di</strong> una relazione tenuta il giorno 19 <strong>di</strong>cembre 2009 nella sede <strong>di</strong><br />

Via Isola Bella, nell’ambito delle iniziative intraprese per celebrare il Cinquantenario del <strong>Liceo</strong> <strong>Orazio</strong>.<br />

–13–


Con la vittoria <strong>di</strong> Azio, Ottaviano ottenne un duplice successo definitivo contro chi metteva<br />

in dubbio lo stabilirsi del suo potere supremo: contro, anzitutto, Antonio, l’antico sodale<br />

sopravvissuto al patto dei tre Sullae <strong>di</strong>scipuli (come argutamente Giovenale volle chiamare<br />

i tre secon<strong>di</strong> triumviri, Ottaviano, Antonio e Lepido, alludendo alle ambiguità che rendevano<br />

assai precario quell’accordo per la “lottizzazione” del potere), 2 ma soprattutto contro la donna<br />

che ispirava e guidava i progetti <strong>di</strong> Antonio, ossia colei che forse fu la più pericolosa nemica<br />

<strong>di</strong> Roma dopo Annibale: Cleopatra, regina d’Egitto e figlia <strong>di</strong> Tolomeo XII Aulete.<br />

Andata al potere all’età <strong>di</strong> soli <strong>di</strong>ciott’anni, nel 51 a.C., già sposa <strong>di</strong> suo fratello Tolomeo<br />

XIII e amante <strong>di</strong> Cesare (da cui aveva avuto nel 47 a.C. un figlio, Tolomeo Cesare, ribattezzato<br />

dal popolo <strong>di</strong> Alessandria Cesarione), quin<strong>di</strong> amante <strong>di</strong> Antonio (a cui aveva dato tre figli,<br />

i due gemelli Cleopatra Selene e Alessandro Elios, nati nel 40, e poi Tolomeo Filadelfo, nel<br />

36), Cleopatra si era rivelata un’abilissima calcolatrice capace <strong>di</strong> concepire un astuto <strong>di</strong>segno<br />

politico, tanto vantaggioso per lei quanto terribile per Roma. Tutto aveva osato pur <strong>di</strong> attirare<br />

a sé i signori <strong>di</strong> Roma, troppo potenti per lei. Verso Antonio aveva dato fondo a tutte le arti<br />

della seduzione per stupire e affascinare irresistibilmente il rozzo triumviro ed ex luogotenente<br />

<strong>di</strong> Cesare. Emblematico il loro primo incontro, nel 41. Venuto in Oriente a chiederle conto<br />

delle truppe mandate in aiuto, a Filippi, al cesaricida Cassio, Cleopatra, che si era fatta molto<br />

desiderare e aveva accettato <strong>di</strong> incontrarlo solo dopo un lungo scambio epistolare, preparò<br />

l’incontro con Antonio allestendo un vero spettacolo <strong>di</strong> forme, colori, suoni e aromi.<br />

L’incontro fatale avvenne sul fiume Cidno, presso Tarso in Cilicia. La regina d’Egitto<br />

ideò un arrivo spettacolare, presentandosi nelle forme <strong>di</strong> una Afro<strong>di</strong>te Ana<strong>di</strong>omene su un<br />

battello dalla prua dorata – è Plutarco che ci ha lasciato la narrazione dell’evento 3 –, con le<br />

vele purpuree spiegate, mentre i rematori vogavano con remi d’argento al suono del flauto e<br />

delle cetre. Stava sdraiata sotto un pa<strong>di</strong>glione ricamato d’oro, ornata come appare Afro<strong>di</strong>te<br />

nei <strong>di</strong>pinti, mentre fanciulli simili agli Amori dei quadri le facevano vento da una parte e<br />

dall’altra. Le più belle tra le sue ancelle, vestite da Nerei<strong>di</strong> e Grazie, stavano chi al timone<br />

chi alle funi. Il meraviglioso aroma delle essenze che ardevano in più punti profumava<br />

le sponde. Così la regina, allora ventottenne, seppe avvincere a sé il più anziano generale<br />

(Antonio aveva allora quarantadue anni), la cui fama in Oriente cresceva giorno dopo giorno.<br />

Si sa cosa avvenne dopo: Antonio invitò Cleopatra a cena, ma fu la regina a pretendere e<br />

ottenere che l’arrogante romano andasse sul suo battello, ove gli fu offerto un abbondante<br />

e lussuoso banchetto, illuminato da migliaia <strong>di</strong> fiaccole <strong>di</strong>sposte a formare artistiche figure<br />

<strong>di</strong> cerchi e quadrati.<br />

Antonio, che peraltro aveva bisogno dell’aiuto finanziario <strong>di</strong> Cleopatra per allestire la<br />

sua campagna militare contro i Parti, sperando <strong>di</strong> ripetere i successi <strong>di</strong> Cesare in Gallia e <strong>di</strong><br />

ven<strong>di</strong>care al contempo la sconfitta <strong>di</strong> Crasso a Carre nel 53 a.C., cadde nella voluttuosa rete<br />

e restò irresistibilmente sedotto. Da allora, visse ad Alessandria la sua “vita inimitabile”,<br />

come la chiama Plutarco, all’insegna <strong>di</strong> feste e piaceri, con al fianco la regina d’Egitto che<br />

non lo lasciava mai da solo un momento e che era <strong>di</strong>venuta l’inseparabile compagna <strong>di</strong><br />

bagor<strong>di</strong> e <strong>di</strong>vertimenti più o meno innocenti. 4 Ma Cleopatra alle spalle dell’ex triumviro,<br />

2 Iuv. 2,28.<br />

3 Plutarco, Vita <strong>di</strong> Antonio 26.<br />

4 Rappresenta bene il carattere <strong>di</strong> Antonio, dominato da un’ossessiva ricerca del piacere unita a una pressoché<br />

totale in<strong>di</strong>fferenza per l’arte e la cultura il von Wertheimer (Oscar von Wertheimer, Cleopatra, trad. <strong>di</strong> Ervino Pocar,<br />

dall’Oglio E<strong>di</strong>tore, Milano 1974, pp. 178-180, che in<strong>di</strong>vidua nel legame sentimentale <strong>di</strong> Antonio la fonte della potenza<br />

<strong>di</strong> Cleopatra). Con grande scandalo per i Romani (che la propaganda <strong>di</strong> Ottaviano aveva amplificato), Cleopatra aveva<br />

legato a sé il triumviro <strong>di</strong>ventando la sua compagna nel gioco dei da<strong>di</strong>, nella caccia, negli esercizi militari, nei vagabondaggi<br />

notturni per le vie <strong>di</strong> Alessandria (Plutarco, Vita <strong>di</strong> Antonio 29).<br />

–14–


lentamente ma inevitabilmente esautorato e scre<strong>di</strong>tato da Ottaviano, covava un progetto tanto<br />

spregiu<strong>di</strong>cato quanto esiziale per Roma: <strong>di</strong>ventare lei la regina dell’orbis Romanus e dunque<br />

la padrona del mondo, una volta che Antonio avesse unificato il potere nelle sue mani, ora<br />

gestito in condominio con il figlio adottivo <strong>di</strong> Cesare (mentre il terzo triumviro, Marco Emilio<br />

Lepido, era stato ridotto alla posizione marginale <strong>di</strong> pontifex maximus). Una regina che<br />

avrebbe comandato sul regno avendo come sede non più Roma, ma Alessandria, la città che<br />

le era assai più cara – vi era nata – e da cui non intendeva spostarsi. Solo così, ci sembra, può<br />

giustificarsi la ragione per cui Antonio procedette alle famose “donazioni <strong>di</strong> Alessandria”,<br />

all’indomani della vittoria sugli Armeni nel 34 a.C. Dopo i festeggiamenti del trionfo armeno,<br />

infatti, Antonio aveva fatto pubblicamente donazione dei territori conquistati da lui e <strong>di</strong> quelli<br />

<strong>di</strong>pendenti dall’Egitto ai tre figli avuti da Cleopatra e a quello <strong>di</strong> Cleopatra e Cesare, Cesarione.<br />

Cleopatra e Cesarione ricevettero l’Egitto, la Celesiria e Cipro, Alessandro Elios<br />

l’Armenia, la Me<strong>di</strong>a e il regno dei Parti, allorché fosse stato conquistato, Cleopatra Selene<br />

la Libia e la Cirenaica, Tolomeo Filadelfo la Siria settentrionale, la Fenicia e la Cilicia. Tutti<br />

questi territori, però, finirono per essere gestiti da Cleopatra, che venne a trovarsi nelle mani<br />

un vasto regno orientale. Chi può <strong>di</strong>re che Cleopatra non abbia allora concepito anche l’idea<br />

<strong>di</strong> impadronirsi <strong>di</strong> Roma, <strong>di</strong>ventando così signora del mondo? La capitale del regno d’Egitto,<br />

la più fiorente città dell’Ellenismo, insuperato modello <strong>di</strong> centro culturale con le prestigiosissime<br />

istituzioni della Biblioteca (<strong>di</strong>strutta peraltro nell’incen<strong>di</strong>o del 48 a.C., allorché<br />

Alessandria <strong>di</strong>venne teatro dello scontro fra le truppe <strong>di</strong> Cesare e quelle <strong>di</strong> Tolomeo XIII) e<br />

del Museo, ben si prestava a essere degna rivale <strong>di</strong> Roma. E lo stesso Antonio l’aveva ancor<br />

più valorizzata eleggendola a sua perenne residenza e scegliendo <strong>di</strong> celebrarvi il trionfo per<br />

la vittoria sugli Armeni, nel 34.<br />

Fu quello, come giu<strong>di</strong>ca il Bradford nella sua biografia su Cleopatra, 5 un madornale<br />

errore politico. Il trionfo era, com’è noto, il massimo onore concesso al generale vittorioso<br />

dal senato in considerazione <strong>di</strong> un’impresa davvero degna <strong>di</strong> encomio (già a giu<strong>di</strong>care dal<br />

numero dei nemici uccisi): 6 era praticamente l’unica occasione per il comandante <strong>di</strong> varcare<br />

il pomoerium, il limite sacro della città, con l’esercito in armi, e per tra<strong>di</strong>zione era celebrato<br />

a Roma. Scegliendo <strong>di</strong> celebrarlo ad Alessandria, Antonio mostrò a tutti i Romani (che ne<br />

furono terribilmente offesi) in che conto teneva la capitale dell’impero (ormai non era più<br />

il caso <strong>di</strong> parlare <strong>di</strong> repubblica, essendo definitivamente tramontato il vecchio or<strong>di</strong>namento<br />

imperniato sul ruolo del senato), ma soprattutto svelò il progetto celato <strong>di</strong>etro quella scelta:<br />

rendere Alessandria la futura capitale del Me<strong>di</strong>terraneo, ossia <strong>di</strong> uno stato romano spostato<br />

decisamente a Oriente, nell’ambito del quale Roma e l’Italia avrebbero avuto un ruolo decisamente<br />

marginale. E questo progetto era coltivato soprattutto da Cleopatra, che aveva reso<br />

Antonio un mero esecutore, illudendolo però <strong>di</strong> avere una certa autonomia politica. Ma che<br />

sorgesse una capitale in Oriente a surrogazione <strong>di</strong> Roma era intollerabile per i Romani. Dovevano<br />

passare vari secoli e sarebbe occorsa l’abilità politica <strong>di</strong> Costantino per far accettare<br />

un’altra Roma, nel 337, sorta in luogo <strong>di</strong> Bisanzio, come nuova capitale dell’impero.<br />

Ottaviano aveva ben compreso il gioco politico <strong>di</strong> Cleopatra e non ebbe fatica a <strong>di</strong>pingere,<br />

dopo il 34 a.C., ossia dopo il trionfo <strong>di</strong> Antonio celebrato ad Alessandria e soprattutto<br />

quando si seppe che l’ex triumviro aveva <strong>di</strong>sposto dei territori acquisiti formalmente da Roma<br />

come donazioni per i figli suoi e <strong>di</strong> Cleopatra, il suo ex compagno <strong>di</strong> potere come un fan-<br />

5 Ernle Bradford, Cleopatra (Cleopatra, 1971), trad. <strong>di</strong> Maria Schejola Adami, Rusconi Libri, Milano 1994,<br />

pp. 189-190.<br />

6 Tre erano i requisiti necessari per ottenere il trionfo: essere magistrati cum imperio, aver vinto una battaglia<br />

decisiva in terra o in mare, aver ucciso almeno cinquemila nemici.<br />

–15–


toccio nelle mani della regina d’Egitto. Sicché, quando ebbe rinnovato il potere, deponendo<br />

la carica <strong>di</strong> triumviro ma facendosi assegnare un imperium supremo sull’Italia e tutte le province<br />

occidentali (secondo quella che fu la sua politica <strong>di</strong> crescente gestione del potere: rinunciare<br />

a una carica già assegnatagli per averne in cambio un’altra <strong>di</strong> portata ben maggiore),<br />

rafforzato da un giuramento che impegnava alla fedeltà tutti i Romani, gli Italici e gli abitanti<br />

delle province occidentali, 7 Ottaviano non perse tempo a <strong>di</strong>chiarare la guerra – cosa che<br />

fece personalmente, vestito da feziale, nel Circo Massimo – alla regina d’Egitto, e soltanto a<br />

lei, come un nemico straniero. Non <strong>di</strong>chiarò guerra anche o solo ad Antonio (che soltanto in<br />

un secondo momento fu <strong>di</strong>chiarato hostis publicus), per l’ovvia ragione che se lo avesse fatto<br />

avrebbe dato formalmente origine a un’ennesima guerra civile e, in caso <strong>di</strong> vittoria, non<br />

avrebbe potuto celebrare il trionfo. Invece, il giorno della commemorazione della vittoria nel<br />

bellum Actiacum, proprio perché considerata una vittoria contro una potenza straniera, <strong>di</strong>venne<br />

una delle date fondanti del principato augusteo. 8<br />

Il 2 settembre del 31 a.C. avvenne finalmente la battaglia navale ad Azio (un promontorio<br />

presso il golfo <strong>di</strong> Ambracia, a sud dell’Epiro), che si risolse nella sospirata vittoria <strong>di</strong> Ottaviano,<br />

ossia <strong>di</strong> Roma, contro Antonio e Cleopatra, ossia l’Oriente. Era stato debellato l’incubo<br />

che per mesi aveva attanagliato i Romani, era stata vinta la regina d’Egitto, la più pericolosa<br />

nemica <strong>di</strong> Roma. L’Urbe era sopravvissuta allo scontro e avrebbe conosciuto, con la<br />

fine della guerra civile nel segno della vittoria su una regina straniera, un’epoca nuova <strong>di</strong> pace<br />

e prosperità, grazie all’opera <strong>di</strong> Ottaviano (che avrebbe assunto poi il titolo <strong>di</strong> Augusto, nel<br />

27 a.C.). Un’altra, forse più felice notizia, giunse a rallegrare ancor più i Romani <strong>di</strong> lì a poco:<br />

il suici<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Cleopatra nell’estate del 30, ad Alessandria, ove era appena entrato Ottaviano.<br />

Di questi sentimenti <strong>di</strong> gioia e sollievo per lo scampato pericolo, ossia il pericolo che<br />

una civiltà e una cultura estranee alle tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> Roma arcaica e al mos maiorum si impiantassero<br />

in Italia, è specchio l’ode 1,37 <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong>. Di essa esamineremo alcuni peculiari<br />

aspetti relativi alla rappresentazione <strong>di</strong> Cleopatra. 9<br />

Essa, come <strong>di</strong>cevamo prima, trae occasione dalla notizia della morte della regina. Il poeta<br />

esorta i suoi sodali a far festa, a bere vino, a danzare, a ornare un lussuoso banchetto: Cleopatra,<br />

vinta, si è uccisa! Prima, quando la regina minacciava Roma, non si poteva trarre dalla cantina<br />

il Cecubo (vv. 1-11). Ma l’azione vittoriosa <strong>di</strong> Ottaviano l’ha costretta a rinunciare al suo folle<br />

proposito e a fuggire, inseguita come una colomba da uno sparviero, per scampare a Ottaviano<br />

che la incalzava (vv. 12-21). Ed essa ha scelto <strong>di</strong> morire con gesto magnanimo, bevendo l’atro<br />

veleno dei serpenti, per togliere al vincitore il piacere <strong>di</strong> trascinarla in catene nel giorno del suo<br />

trionfo (vv. 21-32). Citiamo l’ode nella traduzione <strong>di</strong> Luca Canali: 10<br />

7 Res gestae <strong>di</strong>vi Augusti 25. Ottaviano astutamente, in vista dello scontro finale con Antonio e Cleopatra, si fece<br />

attribuire nel 32 a.C. il comando supremo me<strong>di</strong>ante giuramento (che poi costituì il motivo propagan<strong>di</strong>stico della<br />

coniuratio Italiae), non me<strong>di</strong>ante una legge comiziale, che avrebbe avuto una portata legittimativa assai minore. Sui<br />

risvolti costituzionali del giuramento <strong>di</strong> fedeltà prestato ad Ottaviano vd. Salvatore Tondo, Profilo <strong>di</strong> storia costituzionale<br />

romana, vol. II, Giuffrè e<strong>di</strong>tore, Milano 1993, pp. 244-245.<br />

8 Dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, Ottaviano ingrandì il tempo <strong>di</strong> Apollo ad Azio, fondò sulla costa <strong>di</strong><br />

fronte al promontorio la città <strong>di</strong> Nicopoli e istituì solenni giochi celebrativi, svolti ogni quattro anni nell’anniversario del<br />

2 settembre (giochi analoghi, quinquennali, vennero organizzati anche a Roma, a partire dal 29 a.C.). La vittoria <strong>di</strong> Azio<br />

fu convenientemente esaltata anche dai poeti augustei quale scontro <strong>di</strong> civiltà: basti citare la splen<strong>di</strong>da rappresentazione<br />

degli Actia bella nello scudo <strong>di</strong> Enea in Virgilio, Eneide 8,675 e ss., ove alla flotta romana sono contrapposte le schiere<br />

egiziane e la loro regina con il seguito <strong>di</strong> <strong>di</strong>vinità teriomorfe.<br />

9 Abbiamo utilizzato in proposito un nostro precedente lavoro (Un’interpretazione <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong>, Carm. 1,37: Nunc<br />

est bibendum, in “Annali del <strong>Liceo</strong> Classico A. Di Savoia”, n. 2, 1989, pp. 47-67), al quale riman<strong>di</strong>amo per un <strong>di</strong>scorso<br />

più approfon<strong>di</strong>to.<br />

10 Da <strong>Orazio</strong>, tutte le opere, trad. <strong>di</strong> Luca Canali e Marco Beck, Mondadori, Milano 2007, pp. 105-107.<br />

–16–


Ora si beva, ora con lieto piede Nunc est bibendum, nunc pede libero<br />

si batta la terra. Questo pulsanda tellus, nunc Saliaribus<br />

era il momento <strong>di</strong> ornare, o amici, il letto degli dei ornare pulvinar deorum<br />

con vivande degne dei Salii! tempus erat dapibus, sodales.<br />

Atto nefando era finora estrarre il cecubo Antehac nefas depromere Caecubum<br />

dalle celle degli avi, mentre una regina cellis avitis, dum Capitolio<br />

forsennata apprestava rovine regina dementis ruinas<br />

e morte al Campidoglio e all’impero funus et imperio parabat<br />

con il suo gregge contagiato d’uomini contaminato cum grege turpium<br />

turpi <strong>di</strong> vizio, ebbra morbo virorum, quidlibet impotens<br />

nella fortuna prospera a tutto sperare sperare fortunaque dulci<br />

con cuore sfrenato. Ma spense ebria; sed minuit furorem<br />

la sola nave sfuggita all’incen<strong>di</strong>o, vix una sospes navis ab ignibus,<br />

e le ridusse al pauroso vero mentemque lymphatam Mareotico<br />

l’animo stravolto dal vino redegit in veros timores<br />

mareotico Cesare a volo dall’Italia Caesar ab Italia volantem<br />

a incalzarla con le navi (quale avvoltoio remis adurgens, accipiter velut<br />

le tenere colombe o un veloce mollis columbas aut leporem citus<br />

cacciatore la lepre sui campi nevosi venator in campis nivalis<br />

d’Emonia) per mettere in catene haemoniae, daret ut catenis<br />

quel mostro fatale. Ma ella, volendo morire fatale monstrum; quae generosius<br />

più nobilmente, non temette, pur perire quaerens, nec muliebriter<br />

donna, la spada, né con veloce nave expavit ensem, nec latentis<br />

cercò rifugio fra celate rive, classe cita reparavit oras,<br />

osando anche visitare con volto sereno ausa et iacentem visere regiam<br />

la reggia vinta, e impavida tenere crudeli vultu sereno, fortis et asperas<br />

serpenti fra le mani per imbevere tractare serpentes, ut atrum<br />

il suo corpo <strong>di</strong> tetri veleni, corpore combiberet venenum,<br />

ancora più fiera dopo aver deciso la morte, deliberata morte ferocior,<br />

certo sdegnando d’esser tratta, lei, saevis Liburnis scilicet invidens<br />

donna regale, come una qualsiasi, privata deduci superbo<br />

dalle impietose navi liburniche in superbo trionfo. non humilis mulier triumpho.<br />

L’ode è composta <strong>di</strong> due parti ben <strong>di</strong>stinte, nelle quali <strong>Orazio</strong> tratteggia con toni e<br />

immagini la figura <strong>di</strong> Cleopatra. All’esultanza per la morte della regina, seguono termini<br />

ed espressioni denotanti il personaggio in modo chiaramente negativo, e rispondenti alla<br />

condanna della sua memoria quale nemica <strong>di</strong> Roma. Enucleiamone i più significativi.<br />

Consideriamo anzitutto i versi, nella traduzione del Canali, ...mentre una regina / forsennata<br />

apprestava rovine / e morte al Campidoglio e all’impero: al v. 7 del testo originale<br />

l’espressione dementis ruinas è un’ipallage, efficacemente resa dal Canali attribuendo forsennata<br />

a regina. L’aggettivo demens rappresenta un’invettiva <strong>di</strong> carattere politico per Nisbet-<br />

Hubbard: 11 <strong>Orazio</strong> vuol <strong>di</strong>re che <strong>di</strong>struggere Roma sarebbe stata impresa folle. V’è proba-<br />

11 A Commentary on Horace, Odes book I, by R.M.G. Nisbet and M. Hubbard, Oxford 1970, p. 413.<br />

–17–


ilmente l’eco <strong>di</strong> Cicerone, che attribuisce la follia ai nemici <strong>di</strong> Roma, come Catilina (vd., ad<br />

esempio, Cic. Cat. 1,1 quam <strong>di</strong>u etiam furor iste tuus nos eludet?).<br />

Altro punto da considerare è ebbra / nella fortuna prospera a tutto sperare / con cuore<br />

sfrenato. Ai vv. 10-11 del testo originale, l’espressione quidlibet impotensvsperare (lett.<br />

“sfrenata nell’avere ogni speranza”), che presenta l’aggettivo impotens come calco del greco<br />

¢krat»j, rende l’idea della folle ambizione della regina (come doveva apparire agli occhi<br />

dei Romani) che, ebbra della dolce fortuna, coltiva l’impossibile sogno della caduta <strong>di</strong> Roma.<br />

Ebria del v. 12 allude all’inclinazione al bere della regina, com’è peraltro testimoniato<br />

in Plutarco (Vita <strong>di</strong> Antonio 29,2), ma soprattutto a quella, più famosa e vituperata (da Cicerone<br />

nelle Filippiche), del suo compagno, che amava mostrarsi nelle vesti <strong>di</strong> Dioniso, come<br />

in occasione del trionfo sull’Armenia.<br />

Da notare ancora che nei versi e le ridusse al pauroso vero / l’animo stravolto dal vino<br />

mareotico compare l’aggettivo mareotico (mentem lymphatam Mareotico al v. 14 del testo<br />

originale). La palude Mareotide (Mareotis) era il luogo ove si produceva il famoso vino d’Egitto,<br />

un vino bianco e dolce. Questo è l’unico luogo del carme ove <strong>Orazio</strong> allude esplicitamente<br />

all’Egitto e tale allusione è connessa al motivo del vino; con ciò si sottolinea l’ebbrezza<br />

(ebrietas), come con<strong>di</strong>zione abituale della regina e dunque la sua conseguente follia,<br />

che la porta a concepire il megalomane e folle progetto <strong>di</strong> abbattere Roma. Il vino prodotto<br />

nella regione della Mareotide, non lontana da Alessandria, era però piuttosto leggero e non<br />

atto a dare quell’ebbrezza che <strong>Orazio</strong> attribuisce a Cleopatra, a rendere la sua mente “impazzita<br />

per il vino <strong>di</strong> Marea” (come traduce il La Penna). 12 È evidente che <strong>Orazio</strong> accoglie,<br />

amplificandolo e rivolgendolo a Cleopatra, un motivo della propaganda contro Antonio, ossia<br />

l’inclinazione al bere. L’amplificazione sta, a nostro giu<strong>di</strong>zio, nel fatto che per ubriacarsi<br />

bevendo vino Mareotico erano necessarie parecchie bevute e i simposi <strong>di</strong> Antonio e Cleopatra<br />

dovevano certamente degenerare, come lascia sospettare <strong>Orazio</strong>. A noi sembra, inoltre,<br />

che accostando il vino <strong>di</strong> Mareotide al Cecubo del v. 5, che era atto nefando estrarre dalle cantine<br />

finché Roma era sotto la minaccia <strong>di</strong> Cleopatra, <strong>Orazio</strong> voglia stabilire un confronto, o<br />

meglio una contrapposizione tra due vini espressioni <strong>di</strong> ambienti geografici e contesti culturali<br />

assolutamente, in quel momento, opposti. E il Cecubo era un vino ben più pregiato <strong>di</strong><br />

quello egiziano: una citazione che andava nel senso <strong>di</strong> sottolineare che tutto ciò che proveniva<br />

dall’Oriente era <strong>di</strong> scarso valore o pericoloso o nocivo per i costumi romani, come la corte<br />

<strong>di</strong> eunuchi che, secondo la moda orientale, costituiva il seguito della sovrana (concetto<br />

che Virgilio, d’altra parte, sottolinea con il tono dell’incubo, descrivendo la barbarie e la mostruosità<br />

delle schiere egiziane, <strong>di</strong>vinità comprese, al seguito della regina nella descrizione<br />

della battaglia <strong>di</strong> Azio, in Eneide 8,675 e ss.).<br />

Con l’espressione mostro fatale (fatale monstrum al v. 21 del testo originale) si chiude<br />

la serie <strong>di</strong> espressioni ed epiteti connotanti in senso negativo la figura <strong>di</strong> Cleopatra, come la<br />

regina viene raffigurata nella prima parte dell’ode. Il mostro fatale è per <strong>Orazio</strong> Cleopatra,<br />

vista come monstrum, ossia “creatura malvagia”, che il fatum, il destino cieco e ineluttabile<br />

ha portato a scontrarsi con la potenza <strong>di</strong> Roma: donde l’immagine gran<strong>di</strong>osa della donna,<br />

vittima del suo stesso destino, cioè del suo progetto <strong>di</strong> portare la rovina a Roma. Gli antichi<br />

commentatori provvidero a connettere all’espressione fatale monstrum, in senso negativo,<br />

l’dea <strong>di</strong> fato, destino, e in ciò sono stati seguiti da alcuni tra i moderni. Per i commentatori<br />

antichi basti citare un luogo <strong>di</strong> Porfirione, Porph. Hor. carm. 1,37,20-21: fatale monstrum aut<br />

a fato sibi servatum aut detestabile. An <strong>di</strong>ctus hoc accipiamus: ‘Quasi decreto fatorum nobis<br />

obiectum’? Tra i moderni, ha rilevato la pregnanza semantica dell’espressione fatale mon-<br />

12 A. La Penna, in <strong>Orazio</strong>, le opere. Antologia, La Nuova Italia, Firenze 1988, rist., p. 265.<br />

–18–


strum soprattutto la stu<strong>di</strong>osa J. V. Luce. 13 L’autrice riconduce l’uso oraziano del termine<br />

monstrum a Cicerone, che lo adoperò spesso, come invettiva in ambito politico, ad esempio<br />

contro Catilina, a significare il “mostro” apportatore <strong>di</strong> rovina. Ma altre valenze, oltre quella<br />

politica, avrebbe per la Luce il termine monstrum, risultando pertanto straor<strong>di</strong>nariamente<br />

carico <strong>di</strong> contenuti semantici e autentica parola-chiave, necessaria per penetrare il vero<br />

significato dell’ode: 1) una valenza religiosa (fatale monstrum inteso come creatura portatrice<br />

<strong>di</strong> sfortuna, e perciò da sopprimere, aggiungiamo noi, come il farmakÒj nel mondo greco);<br />

2) una valenza mitologica (con l’espressione daret ut catenis fatale monstrum, ai vv. 20-21<br />

del testo originale, <strong>Orazio</strong> evocherebbe i mostri dei miti greci, l’Idra, la Gorgone e la Chimera,<br />

e Ottaviano assumerebbe il ruolo <strong>di</strong> un mitico uccisore <strong>di</strong> mostri, probabilmente Bellerofonte);<br />

14 3) una valenza etica (monstrum sarebbe utilizzato da <strong>Orazio</strong> anche per definire il<br />

regime <strong>di</strong>spotico tipico dell’Oriente, antitetico e abnorme, “mostruoso” rispetto alla costituzione<br />

romana: il Venosino dovrebbe pertanto aver avuto presente Platone, che nella sua<br />

Repubblica 9,588c in<strong>di</strong>cava il tiranno come un mostro variopinto e dalle molte teste, qer…on<br />

poik…lon kaˆ polukšfalon).<br />

Però, al v. 21, subito dopo il fatale monstrum inaspettatamente <strong>Orazio</strong> cambia il tono e<br />

il carattere delle sue allusioni a Cleopatra: la regina ebbra e folle per il suo progetto impossibile<br />

<strong>di</strong> vittoria su Roma, apportatrice <strong>di</strong> rovina non tanto a Roma quanto a se stessa, <strong>di</strong>viene,<br />

in virtù della scelta <strong>di</strong> morire pur <strong>di</strong> sottrarsi all’ignominia dell’esser trascinata in catene<br />

<strong>di</strong>etro il carro del vincitore, una vera e propria eroina degna dei Romani antichi. <strong>Orazio</strong> ne<br />

esalta il virile coraggio con un’aggettivazione adeguata a costituire un vero e proprio<br />

momento laudativo nella struttura del carme. Compaiono, infatti, espressioni da cui trapela<br />

indubitabilmente l’ammirazione del poeta: Ma ella, volendo morire / più nobilmente, non<br />

temette, pur / donna, la spada, né con veloce nave / cercò rifugio fra celate rive.In questi versi<br />

<strong>Orazio</strong> condensa gli ultimi eventi della vita della regina egiziana rendendo omaggio alla<br />

sua determinazione e alla sua forza d’animo. Volendo morire più nobilmente, come traduce<br />

il Canali, corrisponde nel testo originale a quae generosius perire quaerens. L’aggettivo<br />

generosus, “nobile”, collegabile al comparativo avverbiale generosius (dall’avv. generose),<br />

esprime una tipica qualità del comportamento romano, fondata sulla morale stoica, che si<br />

manifestava nei più gravi frangenti e, come in questo caso, <strong>di</strong> fronte alla morte. È l’atteggiamento<br />

del vir bonus, del sapiens che sa resistere ai colpi dell’avversa fortuna e che sceglie<br />

eroicamente <strong>di</strong> morire pur <strong>di</strong> non venir meno alla propria <strong>di</strong>gnità e al proprio onore. <strong>Orazio</strong><br />

ci <strong>di</strong>ce che Cleopatra, mostrando inaspettatamente tempra virile, non temette le armi <strong>di</strong><br />

Ottaviano né cercò scampo in terre lontane, nella regione più interna dell’Egitto o sulle rive<br />

del Mar Rosso, come intesero gli antichi commentatori. <strong>Orazio</strong> rivelerebbe qui l’autentico<br />

carattere, orgogliosamente regale, della regina, che, unica fra i monarchi dei regni ellenistici,<br />

si rifiutò <strong>di</strong> venire a patti umilianti con il vincitore Romano (la conservazione <strong>di</strong> un piccolo<br />

dominio nell’entroterra in cambio della cessione della potente flotta: questa sarebbe stata<br />

l’ultima proposta <strong>di</strong> Ottaviano, secondo l’originale esegesi del Paoli), 15 come invece avevano<br />

fatto i sovrani <strong>di</strong> Siria e <strong>di</strong> Macedonia. Plutarco però ci <strong>di</strong>ce che Cleopatra, dopo la sconfitta<br />

<strong>di</strong> Azio, avrebbe progettato <strong>di</strong> condurre la flotta attraverso l’istmo <strong>di</strong> Suez, verso l’Oceano<br />

In<strong>di</strong>ano, ma ne sarebbe stata <strong>di</strong>ssuasa dopo che gli Arabi della Petreia incen<strong>di</strong>arono alcune<br />

sue navi (Plutarco, Vita <strong>di</strong> Antonio 69, 3-6). Anche Antonio, per parte sua, avrebbe pensato<br />

257.<br />

13 J. V. Luce, Cleopatra as fatale monstrum (Horace, Carm. 1,37,21), in “Classical Quarterly”, XIII, 1963, pp. 251-<br />

14 Sulla base <strong>di</strong> Hor. Carm. 2,27,23-24.<br />

15 Ugo Enrico Paoli, Un accenno d’<strong>Orazio</strong> alla flotta <strong>di</strong> Cleopatra, in “Atene e Roma”, 4, 1923, pp. 46-51.<br />

–19–


<strong>di</strong> fuggire in Spagna, dove aveva truppe fedeli. Ma, seguendo il Pasquali, 16 riteniamo che<br />

<strong>Orazio</strong> non abbia voluto accogliere queste notizie che egli reputava alla stregua <strong>di</strong> <strong>di</strong>cerie, nell’intento,<br />

ovviamente, <strong>di</strong> esaltare con coerenza la fermezza della donnna. Perché è indubbio<br />

che <strong>Orazio</strong> nella seconda parte dell’ode esalti la nemica <strong>di</strong> Roma, anche se forse era al <strong>di</strong> là<br />

delle sue intenzioni assimilarla in qualche modo, ad<strong>di</strong>rittura a un sapiens stoico.<br />

Anche ai vv. 25-26 (Ausa et iacentem visere regiam), resi dal Canali con osando anche<br />

visitare con volto sereno / la reggia vinta, <strong>Orazio</strong> ci presenta un nuovo atteggiamento della<br />

regina d’Egitto, che conferma ulteriormente il recupero del personaggio sul piano etico. Dopo<br />

aver esaltato la virile fermezza della donna, che sdegna <strong>di</strong> accettare un vergognoso compromesso<br />

con il nemico, il poeta <strong>di</strong> Venosa, raffigurando Cleopatra che osa guardare con volto<br />

sereno, senza lasciarsi andare a una giustificabile <strong>di</strong>sperazione, la reggia abbattuta, le attribuisce<br />

i tratti <strong>di</strong> un filosofo stoico, impassibile <strong>di</strong> fronte alla sventura e alla morte. Un simile<br />

atteggiamento, <strong>di</strong> cui la storiografia romana ci offre numerosi esempi, non avrebbe certo<br />

mancato <strong>di</strong> suscitare simpatia nel lettore dell’ode e, in proposito, viene alla mente la raffigurazione<br />

<strong>di</strong> Socrate in Cicerone, Tusc. 3,31, ove il grande Arpinate delinea il voltus semper<br />

idem e la frons tranquilla et serena dell’Ateniese nel momento supremo della morte.<br />

Ai vv. 26-28 (fortis et asperas / tractare serpentes, ut atrum / corpore combiberet<br />

venenum), resi dal Canali con e impavida tenere crudeli / serpenti fra le mani per imbevere /<br />

il suo corpo <strong>di</strong> tetri veleni, <strong>Orazio</strong> completa il ritratto <strong>di</strong> questa seconda, nuova Cleopatra, aggiungendo<br />

alla generositas (v. 21) e alla serenitas (v. 26) il carattere della fortitudo, il<br />

virile coraggio nello scegliere il mezzo <strong>di</strong> morte, il velenoso aspide. È noto che la morte <strong>di</strong><br />

Cleopatra rimase per qualche tempo avvolta nel mistero. <strong>Orazio</strong> segue la tra<strong>di</strong>zione che vuole<br />

che la regina si sia fatta uccidere dal morso <strong>di</strong> un aspide, ma non allude al particolare del<br />

serpente celato nel paniere <strong>di</strong> fichi (citato in Plutarco, Vita <strong>di</strong> Antonio 86,1). È ancora da<br />

notare che il duplice serpente era un simbolo regale dell’antico Egitto e nel trionfo <strong>di</strong><br />

Ottaviano venne esibita una pittura raffigurante Cleopatra morsa dall’aspide. La regina scelse<br />

dunque un mezzo <strong>di</strong> morte, il serpente, perfettamente adeguato al suo rango sociale e in linea<br />

con la tra<strong>di</strong>zione del suo paese.<br />

Deliberata morte ferocior (v. 29), nel testo originale, espressione resa dal Canali con<br />

ancora più fiera dopo aver deciso la morte, sono le parole con cui <strong>Orazio</strong> suggella l’ultimo<br />

atto <strong>di</strong> Cleopatra, il suici<strong>di</strong>o, che è nello stesso tempo ultimo atto <strong>di</strong> lotta contro il Romano<br />

e, stoicamente, definitiva affermazione della propria libertà. È attraverso la morte che la regina<br />

<strong>di</strong>viene immortale, è con il suici<strong>di</strong>o che essa trionfa sul nemico vincitore, frustrandone<br />

l’orgoglio <strong>di</strong> trascinarla prigioniera a Roma ed evitando per lei l’insopportabile umiliazione.<br />

Ferocior, in fine <strong>di</strong> verso, mette in risalto la fierezza della donna, ma anche la sua prontezza<br />

nello scegliere e attuare il proposito, senza tentennamenti né resipiscenze. Una lunga tra<strong>di</strong>zione<br />

topica provvede ad attribuire il termine ferox a chi non si dà per vinto anche dopo aver<br />

subito la più grave sconfitta e cede virilmente al destino. È un termine connesso con l’inflessibilità,<br />

quell’inflessibilità <strong>di</strong> cui danno prova anche molti famosi nemici <strong>di</strong> Roma, come,<br />

ad esempio, Catilina, che mostra la sua ferocia animi <strong>di</strong> fronte alla morte, nella battaglia <strong>di</strong><br />

Pistoia (Sallustio, Cat. 61,4).<br />

Non humilis mulier, al v. 32, ossia donna regale nella traduzione del Canali, è l’ultima<br />

espressione che <strong>Orazio</strong> rivolge a Cleopatra. La trasformazione si è compiuta: la regina, prima<br />

<strong>di</strong>sprezzata con i peggiori epiteti, ora è definitivamente consacrata come un’eroina magnificamente<br />

superba, altera e incrollabile, <strong>di</strong> fronte alla potenza (e prepotenza) del vincitore, una<br />

donna il cui ultimo atto <strong>di</strong>viene una sorta <strong>di</strong> regale “martirio”. Plutarco, nella Vita <strong>di</strong> Antonio<br />

16 Giorgio Pasquali, <strong>Orazio</strong> lirico, Firenze 1964, rist., p. 59.<br />

–20–


(85,8), ricorda le ultime parole della schiava Charmion, morente ai pie<strong>di</strong> della regina suicida,<br />

rivolte a chi deprecava il suo suici<strong>di</strong>o: “Bellissima azione, conveniente a una donna <strong>di</strong> tale<br />

stirpe regale!” La litote non humilis mulier è accostata per contrasto al triumpho del v. 32<br />

(definito superbo al v. 31), proprio in chiusura dell’ode. Il verso finale sembra così condensare<br />

il giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong> sui personaggi della vicenda: da una parte il vincitore superbo, in<br />

procinto <strong>di</strong> celebrare il suo magnifico trionfo, dall’altra una regina non meno orgogliosa, che<br />

<strong>di</strong> quel trionfo non intende essere l’orpello.<br />

La Cleopatra che lasciamo, alla fine del carme, è dunque molto <strong>di</strong>fferente dalla donna introdotta<br />

al principio. La sconfitta subita le ha fatto abbandonare le folli speranze, l’ha costretta<br />

a guardare la triste realtà, l’ha fatta <strong>di</strong>venire più umana, ed è proprio in questa recuperata<br />

(e <strong>di</strong>sperata) umanità che risalta la sua grandezza, il suo virile coraggio, la sua virtus ormai<br />

tipicamente romana. Le accuse che le venivano mosse per conto della propaganda politica<br />

sono state puntualmente rovesciate e il personaggio pienamente recuperato, almeno dal punto<br />

<strong>di</strong> vista etico, sicché, come è stato scritto, l’ode si fa panegirico della regina vinta. 17 Al furor,<br />

alla impotentia, alla ebrietas della prima parte del carme, si sostituiscono nella seconda parte,<br />

come qualità caratterizzanti il personaggio, la fortitudo, la ferocia animi, la aequanimitas.<br />

Fu molto probabilmente il suici<strong>di</strong>o della donna, suici<strong>di</strong>o che impressionò non poco l’opinione<br />

pubblica, ciò che spinse <strong>Orazio</strong>, il quale ancora nell’epodo IX, scritto subito dopo Azio, aveva<br />

<strong>di</strong>pinto in modo ostile Antonio e Cleopatra, a presentare <strong>di</strong>versamente gli ultimi fatti e a<br />

rivalutare perciò la regina orientale. Nel tripu<strong>di</strong>o generale per la morte della nemica <strong>di</strong> Roma,<br />

la voce del poeta si <strong>di</strong>stacca dal coro ed esprime una sua riflessione, che trasforma l’intento<br />

iniziale in vero e proprio atto <strong>di</strong> omaggio a una grande nemica <strong>di</strong> Roma.<br />

Potremmo però osservare che l’iconografia <strong>di</strong> Cleopatra non risulta in fondo <strong>di</strong>ssimile,<br />

per l’intento celebrativo che promana dalle parole del poeta, da quella <strong>di</strong> altre figure, che la<br />

tra<strong>di</strong>zione storiografica ha tratteggiato come nemiche <strong>di</strong> Roma, della res publica o dell’impero.<br />

La condanna degli storici ne investe l’atteggiamento <strong>di</strong> ostilità al dominio romano, ma<br />

ne riscatta l’umana personalità, trasfigurata dalla luce eroica, <strong>di</strong>gnitosissima, che rischiara la<br />

fine. E sono tutte figure <strong>di</strong> donne, a cui la gloria arride comunque in virtù dell’eroica scelta<br />

del suici<strong>di</strong>o o del mostrarsi orgogliose e fiere anche nel momento del trionfo del nemico.<br />

Pensiamo a donne regine come Teuta, Bu<strong>di</strong>cca e Zenobia, <strong>di</strong> cui Polibio, Tacito e la Historia<br />

Augusta ci hanno lasciato il ricordo improntato a rispetto se non ammirazione per le loro<br />

qualità, che in<strong>di</strong>rizzarono la vicenda personale verso un destino glorioso. 18 Polibio (2,4-11)<br />

ci presenta Teuta, la “regina corsara” degli Illiri, una donna piena <strong>di</strong> orgoglio e ambizione che<br />

osò sfidare i Romani, conquistando la città epirota <strong>di</strong> Phoinike e maltrattando e uccidendo<br />

alcuni mercanti italici che là si trovavano. Le imprese brigantesche <strong>di</strong> Teuta, i continui attacchi<br />

dei pirati illirici al suo servizio contro le navi mercantili che transitavano per l’Adriatico<br />

avevano da tempo esasperato i Romani. Ora con quest’ultima azione aveva passato il segno<br />

e si decise <strong>di</strong> fermarla. Ma Teuta commise un grave errore politico, facendo attaccare la nave<br />

che portava i due fratelli Gaio e Lucio Coruncanio, venuti nell’autunno del 230 a.C., a trattare<br />

con la regina come ambasciatori <strong>di</strong> Roma. La grave violazione dello ius gentium (Lucio<br />

Coruncanio era rimasto ucciso durante l’attacco) non rimase senza conseguenze e la risposta<br />

<strong>di</strong> Roma fu l’invio <strong>di</strong> una potente flotta al comando dei consoli Gneo Fulvio Centumalo e Lucio<br />

Postumio Albino (229 a.C.), che sgominò la flotta <strong>di</strong> agili lembi della regina illirica. La<br />

quale fu costretta ad accettare l’umiliante pace che le imposero i Romani e visse fino ai suoi<br />

17 S. Commager, Horace, Carmina 1,37, in “Phoenix”, XII, 1958, p. 52.<br />

18 Abbiamo tenuto presente, per questa parte della relazione, un nostro precedente lavoro: Figure <strong>di</strong> donne nella<br />

storiografia romana, in “Cultura e Scuola”, n. 116, 1990, pp. 75-81.<br />

–21–


ultimi giorni nel piccolo dominio <strong>di</strong> Rhizon oltre le bocche <strong>di</strong> Cattaro. La vicenda <strong>di</strong> Teuta è<br />

una somma <strong>di</strong> errori <strong>di</strong> valutazione dell’orgogliosa regina, che evidentemente aveva sottovalutato<br />

le risorse <strong>di</strong> una potenza in inarrestabile espansione qual’era Roma dopo la prima<br />

guerra punica. Fu Teuta, che nulla aveva patito dai Romani, a provocarli e, quin<strong>di</strong>, a perdere<br />

il suo regno. Un’altra donna, invece, Bu<strong>di</strong>cca, la regina degli Iceni, popolazione della<br />

selvaggia Britannia, aveva subito un terribile sopruso dalle armi romane: come narra Tacito<br />

(Ann. 14,31-37), che pone la vicenda nell’età neroniana, le sue due figlie erano state violentate<br />

e lei stessa colpita con le verghe. Va chiarito che in genere i Romani rispettavano le<br />

donne <strong>di</strong> stirpe regale, quando appartenevano a un’etnia nemica. Nel caso <strong>di</strong> Bu<strong>di</strong>cca, sia<br />

che l’episo<strong>di</strong>o fosse un <strong>di</strong>sgraziato incidente avvenuto durante una scorreria <strong>di</strong> soldati sia<br />

che fosse stato invece or<strong>di</strong>nato dai comandanti romani a scopo politico (mostrare, con la<br />

violenza come atto rituale perpetrata sulla regina Bu<strong>di</strong>cca e le sue figlie, l’assoggettamento<br />

degli Iceni all’autorità dei Romani), vi fu un errore <strong>di</strong> valutazione, questa volta da parte dei<br />

Romani, che non tennero conto della tempra della regina e dell’orgoglio nazionalistico dei<br />

Britanni. Come narra Tacito, dopo la terribile umiliazione subita, Bu<strong>di</strong>cca, lungi dall’avvilirsi,<br />

si <strong>di</strong>ede a incitare il suo popolo e le altre tribù alla ribellione contro gli aborriti invasori.<br />

Alla testa <strong>di</strong> ottantamila Britanni che risposero al suo appello, la regina devastò città come<br />

Camulodunum, Verulamium, Lon<strong>di</strong>nium, <strong>di</strong>ventando in breve un incubo per gli occupanti,<br />

fino a che il legato Svetonio Paolino con le sue truppe non ebbe la meglio sui rivoltosi.<br />

Bu<strong>di</strong>cca, vistasi perduta e per evitare l’umiliazione del trionfo nemico (aveva l’illustre precedente<br />

<strong>di</strong> Cleopatra), vitam veneno finivit (Tacito, Ann. 14,37,3). Nella vicenda <strong>di</strong> Bu<strong>di</strong>cca<br />

possiamo cogliere almeno quattro aspetti che l’apparentano a Cleopatra: la sua stirpe regale<br />

(era vedova del re Prasutago), il suo carattere fiero e indomito (secondo i ritratti che ce ne hanno<br />

lasciato Dione Cassio, LVI, e Tacito), il ricorso al veleno per non cadere prigioniera del<br />

nemico, la scomparsa della sua tomba (che alcuni stu<strong>di</strong>osi avrebbero in<strong>di</strong>viduato a<br />

Stonehenge: ma è un’ipotesi improbabile). 19 Un’ultima grande figura <strong>di</strong> eroina, tra le nemiche<br />

<strong>di</strong> Roma, è Zenobia, la regina <strong>di</strong> Palmira, che il destino portò a scontrarsi con l’imperatore<br />

Aureliano (270-275). Alla morte del marito, Settimio Odenato, Zenobia si trovò a reggere,<br />

in nome dei suoi due figli, il regno orientale <strong>di</strong> Palmira, città della Siria. Il regno era nato in<br />

seguito ad una secessione e Aureliano, restitutor dell’ormai vacillante impero romano, non<br />

poteva permettere l’esistenza <strong>di</strong> una entità ad esso estranea. Egli le mosse quin<strong>di</strong> contro (272),<br />

sconfisse il suo esercito e la catturò, facendole grazia della vita: Zenobia finì i suoi giorni a<br />

Tivoli, in un azona chiamata Concae, non lontano dalla villa <strong>di</strong> Adriano. 20 In tutte queste<br />

vicende Zenobia tiene un comportamento fermissimo, tratta da pari a pari con Aureliano, gli<br />

ricorda che <strong>di</strong>scende da Cleopatra, dunque l’imperatore non speri che essa si arrenda (Hist.<br />

Aug. 26,27,3). Il biografo della Historia Augusta (raccolta <strong>di</strong> biografie <strong>di</strong> imperatori, da<br />

Adriano a Numeriano, pervenutaci sotto i nomi <strong>di</strong> sei autori, ma opera probabilmente <strong>di</strong><br />

un anonimo scrittore del V secolo d.C.) che ha scritto la sua vita, ‘Trebellio Pollione’, esalta<br />

le magnifiche qualità della regina, la constantia, la prudentia, la gravitas, congiunte alla<br />

splen<strong>di</strong>da bellezza: le forme armoniose, la carnagione scura, gli occhi neri, i denti can<strong>di</strong><strong>di</strong><br />

come perle. Zenobia sembra una Cleopatra re<strong>di</strong>viva, e appunto dalla regina egiziana si vanta<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>scendere. Ma il destino le risparmiò il veleno. L’imperatore, che pure la volle mostrare<br />

nel suo trionfo riservandole il privilegio <strong>di</strong> essere avvolta da catene d’oro, le permise <strong>di</strong> finire<br />

i suoi giorni in una villa del suburbio romano. Cleopatra, Teuta, Bu<strong>di</strong>cca e Zenobia: quattro<br />

19 Sulla vicenda <strong>di</strong> Bu<strong>di</strong>cca, ampi ragguagli in Antonia Fraser, Regine guerriere, trad. <strong>di</strong> Paola Mazzarelli, Rizzoli,<br />

Milano 1990, pp. 51-110.<br />

20 Lo storico greco Zosimo (1,59) afferma invece che la regina morì durante il viaggio da Palmira a Roma.<br />

–22–


donne che il destino pose sulla strada <strong>di</strong> Roma, accomunate dal rifiuto <strong>di</strong> accettare il dominio<br />

<strong>di</strong> una potenza straniera o per mero orgoglio o in <strong>di</strong>fesa della patria oppressa. Spinte da varie<br />

motivazioni, tutte però ebbero il coraggio <strong>di</strong> resistere alle armi <strong>di</strong> Roma, <strong>di</strong> non venire a patti<br />

con il nemico e i ritratti che ce ne hanno lasciato gli storici affascinano ancora il lettore<br />

moderno. Potremmo anche affermare che esse sembrano incarnare, in epoche <strong>di</strong>fferenti, il medesimo<br />

spirito femminile che si ribella al predominio <strong>di</strong> un potere che tende a relegare<br />

la donna in una posizione <strong>di</strong> soggezione all’autorità maschile, incarnata a Roma dal pater<br />

familias della tra<strong>di</strong>zione. O non si tratterà piuttosto dello spirito dell’avventuriera, della<br />

seduttrice che porta l’uomo alla rovina? 21 Ma questo <strong>di</strong>scorso ci porterebbe lontano. Torniamo<br />

dunque all’ode <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong>.<br />

Vi è, nell’ode 1,37 <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong>, un ultimo punto su cui vorremmo richiamare l’attenzione,<br />

un punto che va letto assieme al proposito del Venosino <strong>di</strong> recuperare, sul piano etico, il<br />

personaggio <strong>di</strong> Cleopatra, chiaramente mostrato nella seconda parte. Al v. 13 (Vix una sospes<br />

navis ab ignibus: la sola nave sfuggita all’incen<strong>di</strong>o, traduce il Canali) <strong>Orazio</strong> allude alla<br />

battaglia <strong>di</strong> Azio, ricordando l’incen<strong>di</strong>o che <strong>di</strong>strusse la flotta <strong>di</strong> Antonio e Cleopatra. Ad<br />

Azio, com’è noto, le liburne romane, navi molto agili, ebbero ragione dei pesanti galeoni<br />

della flotta egiziana. Le fonti storiografiche assegnano il merito della vittoria all’abilità <strong>di</strong><br />

Ottaviano e del suo collaboratore Marco Vipsanio Agrippa e accusano l’incompetenza, come<br />

navarca, <strong>di</strong> Antonio (così Plutarco nella Vita <strong>di</strong> Antonio, 65-66). In realtà sappiamo che la<br />

vittoria fu per buona parte resa possibile dall’accortezza del praefectus fabrum Cornelio<br />

Gallo, che or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> scatenare la forza <strong>di</strong> fuoco delle sue navi nel momento in cui Antonio<br />

e Cleopatra compivano una pericolosa manovra tentando <strong>di</strong> rompere il blocco navale, in<br />

<strong>di</strong>rezione sud. Le fonti tendono a mettere in ombra i meriti <strong>di</strong> Cornelio Gallo, perché questi<br />

nel 27 a.C. cadde in <strong>di</strong>sgrazia presso Ottaviano (il quale proprio in quell’anno, nella seduta<br />

senatoria del 15 gennaio, aveva assunto il nome <strong>di</strong> Augusto, <strong>di</strong>etro proposta del fido Munazio<br />

Planco) 22 a seguito <strong>di</strong> calunnie mossegli contro quand’era prefetto d’Egitto.<br />

Ora, con Vix una sospes navis ab ignibus <strong>Orazio</strong> ricorda l’opera <strong>di</strong> Cornelio Gallo nello<br />

scontro <strong>di</strong> Azio, i proiettili <strong>di</strong> fuoco scagliati dalle sue navi, <strong>di</strong>cendo che solo una nave nemica<br />

scampò al fuoco <strong>di</strong>struttore. È chiaramente un’iperbole, una voluta esagerazione, perché le<br />

fonti storiche come Cassio Dione e Plutarco ci <strong>di</strong>cono che Cleopatra era riuscita a mettere<br />

in salvo più <strong>di</strong> sessanta navi, forzando il blocco romano. 23 Perché <strong>Orazio</strong> esagera l’effetto<br />

della manovra <strong>di</strong> Cornelio Gallo, <strong>di</strong>cendo che l’incen<strong>di</strong>o scatenato dalle sue navi <strong>di</strong>strusse<br />

pressoché tutta la flotta egiziana? E perché tace dell’azione <strong>di</strong> Ottaviano, che si prese tutto<br />

il merito della vittoria? Il cenno alla battaglia <strong>di</strong> Azio ci sembra assolutamente estraneo alla<br />

volontà <strong>di</strong> celebrare Ottaviano, paragonato poi ai v. 17 e 18, allorché il Venosino lo rappresenta<br />

all’inseguimento <strong>di</strong> Antonio e Cleopatra, come un avvoltoio che insegue le tenere<br />

colombe o un cacciatore che incalza la lepre. Il signore <strong>di</strong> Roma qui è mostrato nella dura<br />

inflessibilità dl vincitore che attende <strong>di</strong> regolare una resa dei conti da lungo tempo rimandata,<br />

ma non come l’artefice della vittoria che gli permette <strong>di</strong> regolarla. Va da sé che se <strong>Orazio</strong> avesse<br />

realmente voluto comporre un’ode celebrativa per Ottaviano, una specie <strong>di</strong> breve panegirico<br />

in versi, avrebbe molto probabilmente usato <strong>di</strong>verso tono nelle similitu<strong>di</strong>ni e dato maggior<br />

spazio alla sua figura. Cosa che invece non è, come abbiamo notato. Ottaviano, infatti,<br />

21 Ha interpretato la figura <strong>di</strong> Cleopatra come capostipite storica della categoria delle “cattive”, para<strong>di</strong>gma del potere<br />

e del peccato, Massimo Tosti, Cleopatra, l’ultimo faraone, Bevivino e<strong>di</strong>tore, Milano 2003.<br />

22 Volendo così mostrare anche nell’onomastica ufficiale il particolare carisma, l’auctoritas, <strong>di</strong> cui era dotato e che<br />

poneva il signore dell’impero in una posizione <strong>di</strong> assoluta supremazia su tutti, persone e istituzioni, del mondo romano.<br />

23 Cassio Dione, Storia romana 50,34-35; Plutarco, Vita <strong>di</strong> Antonio 66.<br />

–23–


ci appare come il generale che coglie i frutti <strong>di</strong> una vittoria preparata e realizzata dai suoi<br />

soldati e Cleopatra, la mollis columba ghermita dall’incalzante accipiter, ci spira in fondo un<br />

senso <strong>di</strong> umana compassione, quasi <strong>di</strong> solidarietà nella sventura. Tale è l’effetto che riceve il<br />

lettore da questa rappresentazione della nemica <strong>di</strong> Roma nella seconda parte dell’ode, giacché<br />

il poeta sembra scostarsi dalla figura del Romano vincitore per avvicinarsi con umana<br />

comprensione alla donna orientale, vittima del suo destino. Non avrà allora giocato, sarebbe<br />

lecito chiedersi, in questo modo <strong>di</strong> presentare la vicenda <strong>di</strong> Cleopatra un residuo dell’antico<br />

spirito repubblicano, <strong>di</strong> quello spirito e <strong>di</strong> quegli ideali che avevano portato il giovane <strong>Orazio</strong><br />

a partecipare allo scontro <strong>di</strong> Filippi accanto a Bruto e Cassio e il maturo poeta a rifiutare, poi,<br />

la richiesta <strong>di</strong> Ottaviano <strong>di</strong> un poema epico che esaltasse le sue gesta? Al lettore la risposta.<br />

Non possiamo però non ammettere che, anche dalla lettura del carme 1,37, l’acquiescenza<br />

<strong>di</strong> <strong>Orazio</strong> alle <strong>di</strong>rettive politiche <strong>di</strong> Ottaviano (ci riferiamo alla politica culturale intrapresa<br />

dal princeps con la preziosa opera <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione <strong>di</strong> Mecenate) non sembra essere così solida<br />

come appare e che, per verificarne l’effettiva consistenza, l’ode per la morte <strong>di</strong> Cleopatra si<br />

<strong>di</strong>mostra come una delle più interessanti e inquietanti testimonianze. 24<br />

Conclu<strong>di</strong>amo la nostra relazione con un’ultima curiosità. Cosa sarebbe avvenuto se, per<br />

ipotesi, lo scontro <strong>di</strong> Azio si fosse deciso nel senso <strong>di</strong> una vittoria <strong>di</strong> Antonio e Cleopatra?<br />

L’affascinante ipotesi <strong>di</strong> storia alternativa (o ucronia) è stata affrontata in un articolo <strong>di</strong> Eva<br />

Cantarella. 25 Il possibile esito <strong>di</strong> una vittoria della flotta egiziana, sul piano politico, culturale<br />

e religioso, prospettato dalla stu<strong>di</strong>osa sembra in effetti dar ragione ai timori e alle angosce<br />

<strong>di</strong> <strong>Orazio</strong> e <strong>di</strong> quanti hanno esaltato in Azio un giorno risolutivo e fondamentale per la salvezza<br />

<strong>di</strong> Roma e dell’Occidente.<br />

24 Priva <strong>di</strong> cortigianeria si mostra dunque la lode <strong>di</strong> Cleopatra, come ha notato il La Penna (Antonio La Penna,<br />

<strong>Orazio</strong> e l’ideologia del principato, Torino 1963, p. 56. E che <strong>Orazio</strong>, per altro verso, con il suo profondo senso della<br />

solitu<strong>di</strong>ne, della caducità delle cose, della morte, con la sua demistificazione del trionfalismo retorico voluto dal regime,<br />

sia il poeta “meno augusteo” del suo tempo, è stato acutamente osservato dal Canali (Luca Canali, Identikit dei padri<br />

antichi, Milano 1976, p. 100).<br />

25 Eva Cantarella, Se Marco Antonio e Cleopatra avessero sconfitto Ottaviano, in «Corriere della Sera», 1° agosto<br />

2004. Sull’ucronia o storia alternativa riman<strong>di</strong>amo al nostro lavoro Gli orizzonti dell’ucronia, in “Miscellanea <strong>di</strong> Saggi<br />

e Ricerche”, n. 4, anno scolastico 2006-2007, pp. 49-103.<br />

–24–


LILLA CONSONI - ANNA MARIA ROBUSTELLI<br />

Medusa mostro-madre-mistero mitopoietico 1<br />

“Ma ecco, i nostri mari sono come noi li facciamo, pescosi o meno, opachi o<br />

trasparenti, rossi o neri, profon<strong>di</strong> o senza spessore, stretti o senza rive, e noi stesse<br />

siamo mare, sabbia, coralli, alghe, spiagge, maree, nuotatrici, bambine, onde”.<br />

Hélène Cixous, Il riso della Medusa<br />

IL RACCONTO D’UN RACCONTO<br />

Che ci fa la testa serpentina <strong>di</strong> Medusa sullo scudo <strong>di</strong> Atena, la dea razionale e guerriera,<br />

la vergine del Partenone, la figlia del padre, dalla <strong>di</strong> lui testa fuoriuscita? Che fa lì quel volto<br />

tremendo, poco sensato e poco educato, con la linguaccia tirata fuori e i dentoni da cinghiale?<br />

“I simboli sono lettere d’amore scritte dalla vita”: non è un bigliettino dei Baci Perugina,<br />

è una frase tratta dal libro “La luna nera” <strong>di</strong> Jutta Voss (Red E<strong>di</strong>zioni). Il problema è che noi<br />

spesso non conosciamo la lingua in cui queste missive sono state vergate: il simbolo, se non<br />

lo si sa decifrare, è muto, se non ad<strong>di</strong>rittura fuorviante. Però, facendo un po’ <strong>di</strong> “archeologia<br />

culturale” (marmi, cocci, pitture vascolari, libri rotoli scartafacci...), a volte possiamo mettere<br />

insieme le tessere del puzzle e deco<strong>di</strong>ficare così il messaggio misterioso.<br />

E allora, per cominciare, un corso accelerato <strong>di</strong> simbologia spicciola:<br />

• Serpenti sulla testa della Gorgone = saggezza, rapporto con l’al<strong>di</strong>là, vita eterna, potere <strong>di</strong><br />

guarigione. Il serpente, facendo la muta, si rinnova, così come la natura nell’alternarsi<br />

delle stagioni e il corpo femminile nel ciclo uterino. Quest’animale, inoltre, potendo<br />

con facilità infilarsi sotto la terra, e da essa sbucare, rappresentava lo stare a cavallo<br />

fra i due mon<strong>di</strong>, il visibile e l’invisibile. Tutti conosciamo il serpente che s’arrampica<br />

sul bastone; per noi moderni, significa “Farmacia”: niente <strong>di</strong> orrido, quin<strong>di</strong>, solo un rimando,<br />

appunto, ad un vecchio simbolo me<strong>di</strong>co-religioso.<br />

• Dentoni da cinghiale = una caratteristica della Grande Madre nella sua funzione <strong>di</strong><br />

dea-scrofa, la dea della fase al nero, cioè della morte, dell’inverno e della mestruazione.<br />

• Lingua penzoloni = rosso liquido fuoriuscente. Un altro, inequivocabile rimando al<br />

ciclo della vita.<br />

Ed ora alcuni brevi cenni <strong>di</strong> mitologia arcaica:<br />

Le civiltà primitive, nei <strong>di</strong>versi continenti, adoravano la Grande Madre, che era una<br />

proiezione della Terra, della Luna e della Donna. Le stagioni, le fasi lunari e il ciclo femminile<br />

venivano riassunte (o “sussunte”, se si vuol usare un termine filosofico) nella Grande Dea,<br />

che era una e trina: Vita/Morte/Vita, o, in un altro tipo <strong>di</strong> rappresentazione, Dea Bianca, Dea<br />

Rossa, Dea Nera. All’orizzonte <strong>di</strong> riferimento Vita/Morte/Vita si possono ricondurre tutte le<br />

tria<strong>di</strong> dette in tedesco “Schicksalgöttinnen”, dee del destino (le Parche, le Moire, ecc.). Qui<br />

il tema dominante è: la vita include la morte, ma da questa nasce altra vita, come si può<br />

osservare nella natura (frutti marciti che concimano il terreno, animali che mangiano e sono<br />

1 La prima parte del lavoro (sul mito arcaico) è stata curata da Lilla Consoni, la seconda parte (<strong>di</strong> analisi letteraria)<br />

da Anna Maria Robustelli.<br />

–25–


mangiati, e così via). Quando si parla della Dea nelle sue fasi bianca, rossa e nera, ci si<br />

riferisce alla donna come Fanciulla, Donna Matura e Vecchia, alle stagioni (che in origine<br />

erano tre, primavera, estate, inverno) e alla luna, il cui ciclo <strong>di</strong> quattro fasi viene ritualmente<br />

semplificato in tre. Questa mitologia “arcaica” è, come si vede, abbastanza complessa, tanto<br />

più che simboli e temi s’intrecciano e si sovrappongono l’un l’altro. Così, ad esempio, la<br />

Dea nel suo aspetto “nero” non è solo vecchiaia, ma anche inverno, morte e mestruazione.<br />

Noi oggi assoceremmo quest’ultima alla ragazza, o alla donna matura, ma mai alla vecchia!<br />

Eppure per gli antichi l’accostamento era chiarissimo. Il sangue che fluisce è la fine <strong>di</strong> una<br />

fase uterina, il <strong>di</strong>sfacimento del “nido” preparato per un eventuale feto, la stagione non<br />

feconda del corpo. Un momento, si ba<strong>di</strong> bene, altrettanto sacro della fecon<strong>di</strong>tà, giacché le<br />

tre facce della Dea erano rispettate e venerate alla stessa maniera, in una visione “olistica” dell’esistenza.<br />

E a questo punto entriamo...<br />

...in me<strong>di</strong>as res:<br />

In Libia, la triplice Dea, il cui nome al nero era Medusa, veniva invocata come ANATH<br />

o ATH-enna, per i Greci... ATENA!!! Medusa significa “la saggezza femminile”, in sanscrito<br />

medha, in greco metis, in egiziano met o Maat; ella altro non era se non l’aspetto terribile dell’antica<br />

Madre Atena (= ho origine da me stessa). Ormai lo sappiamo: la Dea come <strong>di</strong>struttrice<br />

non era un mostro sanguinario, bensì la raffigurazione del necessario “finire allo scopo<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>venire”, una forza positiva, quin<strong>di</strong>, utile alla continuazione e allo sviluppo della vita, ma<br />

inevitabilmente carica <strong>di</strong> buio e <strong>di</strong> dolore. Per questo solo la totalità delle tria<strong>di</strong> <strong>di</strong>vine ne<br />

esprime il senso: la Dea spaccata, separata nelle sue componenti, non è più comprensibile.<br />

Si capisce allora come, nell’Africa del Nord, Ath-enna, nella sua interezza, fosse considerata<br />

“la madre <strong>di</strong> tutti gli dei, tutto ciò che era, è, e sarà” (Iscrizione <strong>di</strong> Sais).<br />

Anche i Greci, dunque, cominciarono ad adorare questa lontana “dea dei serpenti” (molte<br />

dee dell’antichità erano legate al culto dei serpenti, ed erano esse stesse dee-serpenti), questa<br />

madre una e trina dell’Africa Settentrionale, ma, nel passaggio dalla religione pre-olimpica<br />

a quella olimpica, le tolsero grandezza e molteplicità. Atena subì la stessa sorte delle altre<br />

gran<strong>di</strong> madri, degradate a mogli (Era), a dee dell’amore (Afro<strong>di</strong>te), a dee della caccia (Artemide),<br />

e così via. Si trasformò nella dea della guerra e della saggezza (interessante accoppiata),<br />

nata dalla testa del padre, che s’era ingoiato la gravida madre <strong>di</strong> lei, Metis. Nell’Olimpo,<br />

cioè, Medusa è madre <strong>di</strong> se stessa (v.sopra: Metis = Medusa), solo che... Non si<br />

chiama neanche più Medusa! Si chiama Atena, appunto. Medusa <strong>di</strong>venta un mostro coi ricci<br />

serpentini, la terza <strong>di</strong> tre sorelle, le Gorgoni (dal sanscrito garj, “gridare, minacciare”). Il tre,<br />

quando appare nella mitologia posteriore, è sempre una traccia, un ricordo, un rimasuglio<br />

della Triplice Dea (le tre Grazie, le tre Furie, le tre Arpie, e mille altre).<br />

Il mutato assetto celeste postula una nuova narrazione che marchi le <strong>di</strong>stanze fra la<br />

Grecia e la Libia, che cancelli ogni associazione non gra<strong>di</strong>ta, ogni allusione pericolosa. Anche<br />

l’effigie sullo scudo <strong>di</strong> Atena, quel capoccione aureolato da serpi, non deve più suggerire il<br />

collegamento con una dea Bianca/Rossa/Nera. Bisogna inventarsi qualcosa! E via con gelosie,<br />

stupri nel tempio, vendette, metamorfosi e rancori, fino alla decapitazione <strong>di</strong> Medusa da parte<br />

<strong>di</strong> Perseo (= il Distruttore), la cui mano è guidata dalla stessa Atena. Il killer infila in un sacco<br />

la testa mozzata (con corollario <strong>di</strong> altre pittoresche vicissitu<strong>di</strong>ni) e la regala infine alla vergine<br />

guerriera, che spiaccica sul proprio scudo l’orrendo trofeo. Gli dei delle vecchie religioni<br />

sono i demoni delle nuove (o seminuove).<br />

E noi ci ritroviamo all’inizio della nostra storia. Il nostro serpente s’è morso la coda, il<br />

mito è stato ritessuto, il racconto è stato <strong>di</strong> nuovo raccontato.<br />

–26–


Bibliografia minima:<br />

VOSS, JUTTA, La luna nera, Red E<strong>di</strong>zioni, 1996.<br />

RANKE-GRAVES, ROBERT, I miti greci, Longanesi, 1983.<br />

RANKE-GRAVES, ROBERT, La dea bianca, Adelphi, 1992.<br />

WALKER, BARBARA, The Woman’s Encyclope<strong>di</strong>a of Myths and Secrets, HarperOne, Harper<br />

Collins Publishers, New York, 1983.<br />

* * *<br />

–27–<br />

Lilla Consoni<br />

Un volto offeso e addolorato quello della Medusa della Sala delle Oche nell’appartamento<br />

dei Conservatori al Campidoglio. La gorgone ci appare come una donna bellissima sul<br />

cui volto è <strong>di</strong>pinta l’angosciosa consapevolezza della sua metamorfosi. Lei stessa sta <strong>di</strong>ventando<br />

<strong>di</strong> pietra, dopo essersi rispecchiata in uno specchio immaginario. Non capisce il colpo<br />

sinistro della sorte, i capelli le sfuggono dalla testa sotto forma <strong>di</strong> serpenti corposi – ma nella<br />

parte posteriore della scultura è stato scoperto dai restauratori che ci sono ancora i suoi capelli<br />

finora nascosti dalla posizione del busto stesso, che era addossato al muro –, il viso è atteggiato<br />

a un interrogativo intenso che non trova risposta, come qualcuno che sia stato tra<strong>di</strong>to e<br />

la cui ferita non si ricomporrà mai. Ma è una donna, una singola donna a cui sta accadendo<br />

qualcosa <strong>di</strong> inaspettato, non è un simbolo pietrificato della storia, non è una leggenda statica,<br />

inerte che tramanda un messaggio <strong>di</strong> conquista perpetrato a danno del genere femminile da<br />

uno dei tanti eroi del mito classico. Partiamo dalla meravigliosa testa <strong>di</strong> Gianlorenzo Bernini<br />

per sapere come mai Medusa sia finita così, sia stata tra<strong>di</strong>ta e rifletta nel volto il proprio<br />

insaziato stupore.<br />

Sembra che questa rivisitazione del mito sia stata operata dal grande artista barocco sulla<br />

scia <strong>di</strong> alcuni versi <strong>di</strong> Giovan Battista Marino tratti da La galeria:<br />

Non so se mi scolpì scarpel mortale,<br />

o specchiando me stessa in chiaro vetro<br />

la propria vista mia mi fece tale.<br />

Bernini scolpì Medusa per se stesso, “per suo stu<strong>di</strong>o e gusto”, in un periodo in cui era<br />

stato allontanato dalla corte pontificia. Si propose <strong>di</strong> lasciare “impietriti” i propri nemici con<br />

la sua abilità <strong>di</strong> scultore. Come nota Adele Cambria in un articolo comparso sull’Unità<br />

nel 2006: “È l’emozione il frutto del primo impatto con la testa <strong>di</strong> Medusa”. Del busto la<br />

giornalista nota non la spaventosità del personaggio tramandato dal mito ma il fatto che è<br />

“... una giovane donna dai minuti denti infantili, le labbra morbide e dolci, e quegli occhi il<br />

cui sguardo doveva pietrificare chiunque sembrano piuttosto gonfiarsi <strong>di</strong> lacrime, pervasi da<br />

un’umanissima angoscia”.<br />

La delicata mobilità dei tratti del viso <strong>di</strong> Medusa, la capacità <strong>di</strong> trasmettere l’umbratilità<br />

dei sentimenti sono un grande raggiungimento dell’arte <strong>di</strong> Bernini che consegna al ritratto<br />

barocco una morbidezza e una vulnerabilità senza pari. Medusa schiude se stessa all’occhio<br />

del suo spettatore con l’inarcarsi dei muscoli oculari, con l’impercettibile svolta della testa,<br />

con le labbra semiaperte che lasciano trasparire il suo <strong>di</strong>lagante stupore. Sarà una delle celebri<br />

“statue parlanti” del periodo barocco.


È qui che il mito si <strong>di</strong>sfa, sfida la vendetta <strong>di</strong> Minerva, che vuole la gorgone destinata<br />

a impietrire gli osservatori per l’eternità e ad essere <strong>di</strong> nuovo posseduta nella decapitazione<br />

<strong>di</strong> Perseo; qui Medusa acquisisce le parvenze <strong>di</strong> una donna moderna turbata dai colpi<br />

inclementi e imprevisti della sorte. Il motivo dell’orrore espresso dalla bocca spalancata<br />

(forse iniziato da un quadro perduto <strong>di</strong> Leonardo) e che si riaffaccia tra gli altri in Caravaggio<br />

e in Rubens, è giunto a una caratterizzazione più personalizzata e sottile. Nella sua vibrante<br />

in<strong>di</strong>vidualità il busto <strong>di</strong> Medusa dà inizio a un percorso più aperto, più variegato che nel<br />

passato, si inoltra in una <strong>di</strong>mensione in cui la donna che è Medusa parla <strong>di</strong> se stessa e della<br />

propria pena.<br />

Da questo punto <strong>di</strong> vista alcuni versi <strong>di</strong> Gabriele D’Annunzio (Gorgon, La Chimera), in<br />

realtà ispirati ad un quadro attribuito a Leonardo, combaciano intimamente con l’espressività<br />

del busto <strong>di</strong> Bernini:<br />

...Un fiore<br />

doloroso era la bocca,<br />

e un misterioso odore<br />

esalava ne’l respiro<br />

Nell’arte figurativa il personaggio <strong>di</strong> Medusa sembra arricchirsi <strong>di</strong> significati più complessi<br />

rispetto al mondo classico man mano che i secoli si <strong>di</strong>panano.<br />

Di un pittore fiammingo del XVII secolo è una testa <strong>di</strong> Medusa che giace sul terreno <strong>di</strong><br />

un bosco, in una prospettiva insolita, avviluppata da un groviglio <strong>di</strong> serpi su cui si concentra<br />

l’attenzione prima <strong>di</strong> <strong>di</strong>vagare sulle altre piccole e gran<strong>di</strong> forme animali (rospi, pipistrelli,<br />

ramarri, topi e insetti) che abitano l’oscurità della selva. Come ben nota Simone Giordano,<br />

nel catalogo della Mostra Medusa, Il mito, l’antico e i Me<strong>di</strong>ci, che fa parte delle mostre chiamate<br />

i “mai visti”, opere ospitate nei depositi degli Uffizi che non fanno parte del patrimonio<br />

comunemente <strong>di</strong>vulgato, il pittore “concilia il tema classico con la curiosità per la natura,<br />

ovvero la pittura <strong>di</strong> storia con il soggetto <strong>di</strong> genere”.<br />

Verso la metà del settecento Innocenzo Spinazzi nel suo busto <strong>di</strong> Medusa incornicia<br />

intorno alla testa della gorgone due serpenti quasi a mo’ <strong>di</strong> trecce, le abbassa le palpebre e le<br />

pone quasi una voglia affabulatoria tra le labbra socchiuse. Questa immagine, <strong>di</strong> una rara<br />

dolcezza, sfata l’orrore in cui è inscritto il personaggio mitico, sottolineando la bellezza e<br />

l’amabilità della donna.<br />

Anche il poeta romantico inglese P. B. Shelley scompaginerà l’immagine <strong>di</strong> Medusa insinuando<br />

che sia più la sua grazia, la sua bellezza che il suo orrore a impietrire lo spettatore.<br />

Sulla Medusa <strong>di</strong> Leonardo da Vinci nella Galleria <strong>di</strong> Firenze<br />

Giace, fissando il cielo della mezzanotte,<br />

supina su una vetta annuvolata;<br />

sotto, lontane terre si intravedono;<br />

l’orrore e la bellezza in lei sono <strong>di</strong>vini.<br />

Sulle sue palpebre e le labbra, sembra,<br />

la grazia posa come un’ombra da cui splendono<br />

livide e ardenti, sotto <strong>di</strong>battendosi<br />

le agonie dell’angoscia e della morte.<br />

Ma è più la grazia che l’orrore a volgere<br />

lo spirito <strong>di</strong> chi la fissa in pietra,<br />

... 2<br />

–28–


La descrizione, estraniata, della grazia mista all’incontenibile capacità <strong>di</strong> spaventare ci<br />

riporta al sublime, questa categoria estetica teorizzata da Edmund Burke nella seconda metà<br />

del settecento che alcuni poeti romantici hanno assunto e elaborato. L’attrazione per la bellezza<br />

che va a braccetto con la <strong>di</strong>struttività e la morte è un modo convulso per Shelley <strong>di</strong> vivere<br />

ed esprimere l’ineffabile della vita inestricabile dal dolore e dalla trage<strong>di</strong>a.<br />

La poesia, ispirata da un <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> Leonardo <strong>di</strong> cui si è persa la traccia, finisce con questa<br />

<strong>di</strong>chiarazione:<br />

il volto <strong>di</strong> una donna, con trecce <strong>di</strong> serpenti,<br />

che nella morte fissa il Cielo da quelle umide rocce. 3<br />

Robert G. Griffin sottolinea come in questi versi sia dato risalto al tropo del lettore pietrificato<br />

dalla bellezza che aveva già scavato un suo percorso nella letteratura inglese precedente.<br />

Per la seconda generazione <strong>di</strong> poeti romantici inglesi il potere della bellezza è importante<br />

e tende ad identificarsi con il potere della poesia e dell’arte. Sulla stessa onda si muove Walter<br />

Pater che scrive, nella seconda metà dell’ottocento, ne Il Rinascimento: 4<br />

Quel che può essere chiamato il fascino della corruzione pervade ogni tratto della sua bellezza<br />

squisitamente compiuta. Intorno ai vaghi lineamenti della guancia svolazza in<strong>di</strong>sturbato il<br />

pipistrello. I delicati serpenti paion letteralmente strozzarsi l’un l’altro in un’atterrita lotta per<br />

svincolarsi dal cervello <strong>di</strong> Medusa. Il colore proprio della morte violenta è nelle sue fattezze;<br />

fattezze singolarmente ampie e massicce, come noi le osserviamo invertite, in un abile scorcio,<br />

<strong>di</strong> sotto in su, come una gran pietra immobile contro cui s’infrange l’onda delle serpi.<br />

Per quanto riguarda l’interpretazione del mito in questa poesia, possiamo <strong>di</strong>re che non<br />

sfugge a quella classica (co<strong>di</strong>ficata per esempio in modo brutale dal Perseo <strong>di</strong> Benvenuto<br />

Cellini), ma è come se il poeta inglese smuovesse le acque profonde <strong>di</strong> questa configurazione<br />

e ne facesse scaturire un significato più complesso e ambiguo. La Medusa dello Shelley,<br />

da questo punto <strong>di</strong> vista, è la ferita aperta che i gran<strong>di</strong> poeti romantici hanno con il mondo,<br />

angoscia, dolore insanabili mentre gli occhi colgono la bellezza del creato e le parole si<br />

affannano per mettere a fuoco le contrad<strong>di</strong>zioni.<br />

Medusa, ripresa innumerevoli volte da scrittori antichi e moderni tende a veicolare il messaggio<br />

dell’orrore suscitato dalla capacità <strong>di</strong> impietrire fin negli anfratti del novecento e tra le<br />

donne. Ne è un esempio lampante la Medusa <strong>di</strong> Sylvia Plath che trasmette un incontestabile<br />

messaggio <strong>di</strong> soffocamento e che quin<strong>di</strong> è vista solo in modo negativo, secondo i dettami del<br />

mito classico. È una madre che stritola i propri figli e quin<strong>di</strong> deciso è il rifiuto della figlia:<br />

...<br />

Non t’ho chiamata.<br />

Non ti ho chiamata proprio.<br />

Eppure, eppure<br />

via mare a me sei arrivata,<br />

grassa e rossa, placenta<br />

2 On the Medusa of Leonardo da Vinci, in the Florentine Gallery<br />

It lieth, gazing on the midnight sky, / Upon the cloudy mountain peak supine; / Below, far lands are seen tremblingly;<br />

/ Its horror and its beauty are <strong>di</strong>vine. / Upon its lips and eyelids seem to lie / Loveliness like a shadow, from which shrine, /<br />

Fiery and lurid, struggling underneath, / The agonies of anguish and of death. / Yet it is less the horror than the grace / Which<br />

turn the gazer’s spirit into stone; / ...La traduzione è riportata ne Il Sito <strong>di</strong> Medusa, Università degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Bergamo.<br />

3 A woman’s countenance, with serpent’s locks, / Gazing in death on heaven from those wet rocks. Ibidem.<br />

4 W. Pater, Il Rinascimento, a cura <strong>di</strong> Mario Praz, E<strong>di</strong>zioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1965.<br />

–29–


che paralizza i riottosi amanti.<br />

Luce <strong>di</strong> cobra<br />

che alle sanguigne campane della fucsia<br />

spreme il fiato. Non potevo prender fiato,<br />

morta e senza un quattrino,<br />

sovraesposta, come un raggio X.<br />

Chi cre<strong>di</strong> mai <strong>di</strong> essere?<br />

Ostia da comunione? Madonna addolorata?<br />

Non prenderò un boccone del tuo corpo,<br />

bottiglia nella quale<br />

io vivo, Vaticano spettrale.<br />

Questo sale bollente mi nausea da morire.<br />

Ver<strong>di</strong> eunuchi, le tue brame<br />

fischiano ai miei peccati.<br />

Vade retro, anguilloso tentacolo!<br />

Non c’è niente fra noi. 5<br />

Come sempre, nelle poesie della scrittrice americana, fioriscono le metafore che servono<br />

a trasmettere un all-perva<strong>di</strong>ng <strong>di</strong>sagio: la placenta grassa e rossa, la luce <strong>di</strong> cobra, l’ostia<br />

da comunione, la Madonna addolorata, il Vaticano spettrale, il sale bollente e le brame ver<strong>di</strong><br />

eunuchi (si noti come qui il verde ha una connotazione totalmente negativa!), l’anguilloso tentacolo<br />

per la madre e, d’altro canto, le sanguigne campane della fucsia, che rispecchiano il<br />

dolore della figlia, il rifiuto a cibarsi del cibo offerto dalla madre (quanto spesso il rapporto<br />

con la madre è visto in termini <strong>di</strong> cibo) e <strong>di</strong> nuovo la nausea per il sale bollente e l’asessualità<br />

della madre che sanziona in modo prevaricatorio sulla figlia. Si noti infine il tono lapidario<br />

del verso finale della poesia, un accorgimento a cui la poetessa ricorre spesso, che sancisce<br />

un fatto in modo definitivo.<br />

Anche Italo Calvino nella prima delle sue lezioni americane, nel de<strong>di</strong>carsi all’opposizione<br />

leggerezza-peso, analizza il rapporto fra Perseo e Medusa misurando il pro e il contro<br />

<strong>di</strong> questi due elementi. Per capirlo spostiamoci per un momento <strong>di</strong> nuovo nel campo delle arti<br />

figurative e in particolare della scultura e proviamo a guardare il Perseo del Bargello <strong>di</strong> Benvenuto<br />

Cellini. Un bellissimo corpo maschile muscoloso ma affusolato si staglia nello spazio<br />

proiettato verso l’alto dal movimento del braccio alzato che ostende la testa <strong>di</strong> Medusa<br />

decapitata dal corpo giacente ai pie<strong>di</strong> dell’eroe. Perseo è quasi una figura alata, che sembra<br />

si stia per <strong>di</strong>staccare dal suolo. Medusa si sta incancrenendo sotto i suoi pie<strong>di</strong> e il volto<br />

mostrato è quasi piatto, è un simulacro che d’ora in poi servirà per <strong>di</strong>fendere l’eroe dai suoi<br />

nemici. Che cosa ha fatto qui il figlio <strong>di</strong> Danae? Ha amputato la pesantezza che Medusa<br />

sparge intorno a sé in uno slancio <strong>di</strong> coraggio e vitalità. Di lì a poco il cavallo alato Pegaso,<br />

5 ...<br />

I <strong>di</strong>dn’t call you. / I <strong>di</strong>dn’t call you at all. / Nevertheless, nevertheless / You steamed to me over the sea, / Fat and red,<br />

a placenta // Paralysing the kicking lovers. /Cobra light /Squeezing the breath from the blood bells /Of the fuchsia. I could<br />

draw no breath. / Dead and moneyless, // Overexposed, like an X-ray. / Who do you think you are? / A Communion wafer?<br />

Blubbery Mary? / I shall take no bite of your body, / Bottle in which I live, // Ghastly Vatican. / I am sick to death of hot<br />

salt. / Green as eunuchs, your wishes / Hiss at my sins. / Off, off, eely tentacle! // There is nothing between us.<br />

Sylvia Plath, Ariel, Faber and Faber,1968. Trad. italiana a cura <strong>di</strong> G. Giu<strong>di</strong>ci e Anna Ravano. Corriere della Sera,<br />

2004, RCS Quoti<strong>di</strong>ani S.p.A.<br />

–30–


simbolo della poesia, spiccherà il suo volo e con un colpo <strong>di</strong> zoccolo lo stesso cavallo farà<br />

nascere la fonte sul Monte Elicona da cui berranno le Muse. Calvino, la cui visione <strong>di</strong> Medusa,<br />

mi sembra combaciare con questa opera d’arte, ci <strong>di</strong>ce:<br />

Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima<br />

e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura, c’era un <strong>di</strong>vario che mi<br />

costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia,<br />

l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo <strong>di</strong><br />

sfuggirle. 6<br />

Riguardo al fatto che Perseo porta la testa tagliata della gorgone con sé, Calvino commenta,<br />

traslando:<br />

È sempre in un rifiuto della visione <strong>di</strong>retta che sta la forza <strong>di</strong> Perseo, ma non in un rifiuto della<br />

realtà del mondo <strong>di</strong> mostri in cui gli è toccato <strong>di</strong> vivere, una realtà che egli porta con sé, che<br />

assume come proprio fardello. 7<br />

L’arte come un modo in<strong>di</strong>retto <strong>di</strong> guardare alla vita, per stemperarne i contorni brucianti<br />

e devastanti e conquistare la <strong>di</strong>stanza della visione e della raccontabilità. In<strong>di</strong>rettamente il mito<br />

<strong>di</strong> Medusa ci riporta a Pegaso, alle Muse, all’arte.<br />

Tuttavia questa celebre figura mitica acquista finalmente una vita propria, capace <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>staccarsi dal percorso del mito classico, in alcune poetesse americane del novecento, fra cui<br />

possiamo ricordare Ann Stanford nel suo Medusa, The Women of Perseus, in cui la voce<br />

narrante, dopo aver ricordato lo stupro subito da Poseidone (Mi afferrò e mi stuprò davanti<br />

all’altare <strong>di</strong> Atena), descrive l’accesso <strong>di</strong> collera incontrollata che <strong>di</strong>ede il via alla trasformazione<br />

degli splen<strong>di</strong><strong>di</strong> capelli in serpenti:<br />

...<br />

Non è gran cosa per un <strong>di</strong>o. Per me fu collera –<br />

nessun consenso da parte mia, nessun corteggiamento, tutto aspro<br />

rude come un bifolco. Non mi piacque.<br />

I capelli mi si attorcigliarono per la rabbia; la mente trattenne solo l’o<strong>di</strong>o.<br />

Pensai alla vendetta, cominciai a vivere solo per quella.<br />

I capelli <strong>di</strong>ventarono serpenti, gli occhi videro il mondo <strong>di</strong> pietra.<br />

Qualsiasi cosa vedessi <strong>di</strong>veniva un deserto.<br />

Gli ulivi sulla collina mentre scendevo<br />

furono scossi dal vento, poi restarono fermi – come se una mano<br />

li avesse forgiati <strong>di</strong> bronzo. Vi<strong>di</strong> la città<br />

dove ero cresciuta <strong>di</strong>ventare una pietra. I ragazzi<br />

scorrevano come su un fregio, l’auriga<br />

che frustava i cavalli, con la mano a mezz’aria.<br />

I cavalli colti nel momento del galoppo. I capelli<br />

cominciarono a sibilare. Mi affrettai verso la porta.<br />

La serva con la brocca d’acqua sollevata<br />

sta lì per sempre. Di fretta attraversai il pavimento.<br />

Il mio sguardo infuriato <strong>di</strong>strusse tutte le cose vive che vi erano.<br />

6 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar Mondatori, 2002.<br />

7 Ibidem.<br />

–31–


Ero sola. Sono sola. I miei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> fare<br />

mi separano dal mondo, mi imprigionano in uno sguardo.<br />

... 8<br />

La poesia è in fondo una razionalizzazione al femminile del mito classico <strong>di</strong> Medusa.<br />

Spiega lo sguardo pietrificante come l’onda travolgente della rabbia <strong>di</strong> questo personaggio<br />

dopo che ha subito la violenza. Pur essendo un’interpretazione dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> una donna,<br />

il mito rimane però nel solco <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione negativa. La Stanford veicola l’ira devastante<br />

delle donne che hanno subito un sopruso che non si placa e imprigiona la donna stessa:<br />

...<br />

imprigionata all’interno della mia prigione, lasciata sola,<br />

<strong>di</strong>sprezzata, abbandonata, il mio sangue <strong>di</strong>venuto pietra. 9<br />

Forse una delle poetesse che è stata capace <strong>di</strong> rivivere il mito della gorgone con più originalità,<br />

riconducendola <strong>di</strong> fatto al senso della sbrigliata flui<strong>di</strong>tà che le apparteneva sin dalle origini<br />

è May Sarton, che ne tratteggia le caratteristiche nella poesia del 1971 The Muse as Medusa:<br />

Ti ho visto una volta, Medusa; eravamo sole.<br />

Ti ho guardato dritto negli occhio freddo, freddo.<br />

Non sono stata punita, né trasformata in pietra –<br />

Come credere alle leggende che mi sono state raccontate?<br />

Sono venuta nuda come qualsiasi pesciolino,<br />

pronta a essere uncinata, sbudellata, presa;<br />

ma ti ho visto, Medusa, ho espresso il desiderio,<br />

e quando ti ho lasciata ero pensierosa...<br />

con il permesso, forse, <strong>di</strong> farmi strada nuotando<br />

attraverso l’abisso profondo e sulla marea montante,<br />

guizzando su fiumi selvaggi, libera e ricca come loro,<br />

sebbene tu avessi il potere ai tuoi or<strong>di</strong>ni.<br />

Il pesce è fuggito verso molte magiche scogliere;<br />

Il pesce ha esplorato molti mari pericolosi –<br />

Il pesce, Medusa, non si è fatto male,<br />

Ma nuota ancora in un mistero fluido.<br />

Dimentica l’immagine: il tuo silenzio è il mio oceano,<br />

e anche ora brulica <strong>di</strong> vita. Hai scelto<br />

<strong>di</strong> ab<strong>di</strong>care per mancanza totale <strong>di</strong> movimento,<br />

ma ha funzionato, dal momento che niente veramente si è congelato?<br />

8 ...<br />

It is no great thing to a god. For me it was anger – / no consent on my part, no wooing, all harsh / rough as a field<br />

hand. I <strong>di</strong>dn’t like it. / My hair coiled in fury; my mind held hate alone. / I thought of revenge, began to live on it. / My<br />

hair turned to serpents, my eyes saw the world in stone. // Whatever I looked at was wasteland. / The olive trees on<br />

the hill as I walked down / rattled in the wind, then stood – as if a hand / had fashioned them of bronze. I saw the town /<br />

where I was raised become a stone. The boys / ran by as on a frieze, the charioteer / whipping his horses, held his arm,<br />

mid-air. / His horses stopped to stride. My hair / started to hiss. I hurried to my door. / The servant with his water jar<br />

upraised / stands there forever. I strode across the floor. / My furious glance destroyed all live things there. / I was alone.<br />

I am alone. My ways / <strong>di</strong>vide me from the world, imprison me in a stare. / ...Citato ne Il Sito <strong>di</strong> Medusa. Traduzione <strong>di</strong><br />

Anna Maria Robustelli.<br />

9 ...<br />

prisoned within my prison, left alone, / despised, uncalled for, turning my blood into stone. Ibidem.<br />

–32–


È ancora tutto fluido, quel mondo <strong>di</strong> sentimento<br />

dove i pensieri, quei pesci, silenziosi, si alimentano e vagano;<br />

e, fluido, è anche pieno <strong>di</strong> capacità <strong>di</strong> sanare,<br />

poiché amore è sanare, anche l’amore senza ra<strong>di</strong>ci.<br />

Volto il viso! È il mio viso.<br />

Quella rabbia congelata è ciò che devo esplorare –<br />

Oh luogo segreto, chiuso in sé e devastato!<br />

Questo è il dono <strong>di</strong> cui ringrazio Medusa. 10<br />

L’io poetico giunge a Medusa come un pesciolino in<strong>di</strong>feso, nudo in una marea montante,<br />

a ridosso <strong>di</strong> abissi profon<strong>di</strong>. È un io inesplorato che naviga in un elemento liquido, foriero <strong>di</strong><br />

vita, altrettanto insondato. Nuota per arrivare a sentire, a capire, a raggiungere se stessa in un<br />

silenzio in cui riesce a non aver paura. Qui la dea della vita e della morte subisce la metamorfosi<br />

che abbiamo assegnato all’arte: la capacità <strong>di</strong> penetrare il silenzio, l’ignoto e <strong>di</strong> sovvertire<br />

il mondo statico in cui viviamo. Come ci ricorda J. Clair “Ogni arte... è una metafora<br />

della visione, sia come attitu<strong>di</strong>ne fisiologica della vista, sia come emblema del nostro potere<br />

<strong>di</strong> trasformare il caos in kosmos”. 11<br />

A ben pensarci, nella modernità, la Medusa dei primor<strong>di</strong>, resiste solo come rappresentazione<br />

<strong>di</strong> un’arte che, scavando dentro se stessa, rimpasta il passato per rincontrare i traumi<br />

che lo hanno segnato e dare espressione alle grida <strong>di</strong> dolore o al desiderio <strong>di</strong> riparazione.<br />

La grande artista francese Louise Bourgeois non nomina Medusa, ma le sue enormi sculture<br />

<strong>di</strong> ragni, in qualche caso con il corpo <strong>di</strong> donna, ci rimandano a una figura <strong>di</strong> madre che<br />

tesse la tela, che costruisce qualcosa ma che, nel tentativo <strong>di</strong> proteggere, può anche rivelarsi<br />

troppo protettiva e <strong>di</strong>struggere il figlio o la figlia.<br />

Della conoscenza poi lei ci ha detto:<br />

La spirale è il tentativo <strong>di</strong> controllare il caos. Ha due <strong>di</strong>rezioni. Dove ci si colloca, alla periferia<br />

o al vortice? Cominciare dall’esterno è paura <strong>di</strong> perdere il controllo; l’avvolgimento è serrarsi,<br />

ritirarsi, comprimersi fino a sparire. Cominciare dal centro è affermazione, muoversi verso<br />

l’esterno rappresenta il dare e l’abbandonare il controllo; la fiducia, l’energia positiva, la vita<br />

stessa. 12<br />

Si potrebbe notare che la spirale è un segno del serpente raggomitolato, quel visitatore<br />

– ricordate? – del visibile e dell’invisibile, testimone <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> morte e esploratore dell’in-<br />

10 The Muse as Medusa<br />

I saw you once, Medusa; we were alone. / I looked you straight in the cold eye, cold. / I was not punished, was not<br />

turned to stone – / How to believe the legends I am told? // I came as naked as any little fish, / Prepared to be hooked,<br />

gutted, caught; / But I saw you, Medusa, made my wish, / And when I left you I was clothed in thought ... // Being<br />

allowed, perhaps, to swim my way / Through the great deep and on the rising tide, / Flashing wild streams, as free and<br />

rich as they / Though you had power marshalled on your side. // The fish escaped to many a magic reef; / The fish<br />

explored many a dangerous sea – / The fish, Medusa, <strong>di</strong>d not come to grief, / But swims still in a fluid mystery. // Forget<br />

the image: your silence is my ocean, / And even now it teems with life. You chose / To ab<strong>di</strong>cate by total lack of motion,<br />

/ But <strong>di</strong>d it work, for nothing really froze? // It is all fluid still, that world of feeling / Where thoughts, those fishes, silent,<br />

feed and rove; / And, fluid, it is also full of healing, / For love is healing, even rootless love. // I turn my face around!<br />

It is my face. / That frozen rage is what I must explore – / Oh secret, self-enclosed, and ravaged place! / This is the gift<br />

I thank Medusa for. Ne Il Sito <strong>di</strong> Medusa, Università degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Bergamo. Traduzione <strong>di</strong> Anna Maria Robustelli.<br />

11 Jean Clair, Méduse, Contribution à une anthropologie des arts du visuel, Paris 1989, Gallimard. Trad. ital.<br />

Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Milano, 1992, Leonardo.<br />

12 tratto da un articolo comparso su “Lapis”, 1996, n. 18 su Louise Bourgeois, Designing for Free Fall <strong>di</strong> Christiane<br />

Meyer-Thoss, Amman Verlag AG, Zurigo, 1992. Traduzione dall’inglese <strong>di</strong> Maria Nadotti.<br />

–33–


conscio, il che quin<strong>di</strong> ci riporta all’arte. Il serpente, o i serpenti, d’altra parte, ci riportano<br />

a Medusa. La Femme 2007 <strong>di</strong> Luise Bourgeois è una gouache che traccia la figura <strong>di</strong> una<br />

donna nuda dai capelli lunghi quanto il corpo – <strong>di</strong> nuovo un rinvio alla figura <strong>di</strong> Medusa? –.<br />

E che sono quei capelli esorbitanti se non un tentativo <strong>di</strong> relazione con il tutto, filamenti che<br />

vanno a congiungersi con qualcosa che è fuori da lei?<br />

Vari anni fa ho chiamato una mia scultura One and Others. Potrebbe essere il titolo <strong>di</strong> molti miei<br />

lavori successivi: la relazione tra l’in<strong>di</strong>viduo e ciò che gli sta intorno è un pensiero che non mi<br />

abbandona mai. Può essere casuale o stretta, semplice o complessa, sottile o ottusa. Può essere<br />

dolorosa o piacevole. Soprattutto può essere reale o immaginaria. È su questo terreno che cresce<br />

tutto il mio lavoro. I problemi <strong>di</strong> realizzazione – tecnici e persino formali e estetici – sono<br />

secondari; vengono in un secondo momento e possono essere risolti. 13<br />

In Louise Bourgeois l’arte è un tentativo <strong>di</strong> sopravvivere alla vita, come lei stessa ci ha<br />

rivelato, esplorando il rapporto profondo con la madre e i traumi dell’infanzia che – lei ci<br />

<strong>di</strong>ce – restano irrisolti. Il rapporto intenso con la madre è esplicato da queste citazioni:<br />

Non è un’immagine che cerco. Non è un’idea. È un’emozione che si vuole ricreare, l’emozione<br />

<strong>di</strong> volere, <strong>di</strong> dare e <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere.<br />

Mia madre sedeva al sole per ore a aggiustare arazzi. Le piaceva davvero. Questo senso <strong>di</strong><br />

riparazione è profondamente ra<strong>di</strong>cato dentro <strong>di</strong> me. Rompo tutto ciò che tocco perché sono<br />

violenta. Distruggo le mie amicizie, l’amore, i miei figli. La gente in genere non lo sospetta, ma<br />

la crudeltà è presente nel lavoro. Rompo le cose perché ho paura e passo il tempo a riparare. Sono<br />

sa<strong>di</strong>ca perché ho paura. Eppure la riconciliazione tra persone non funziona mai veramente. 14<br />

Da questa grande artista del novecento, tuttora vivente, ci viene una rappresentazione<br />

tragica dell’esistente, che genera e <strong>di</strong>strugge e quin<strong>di</strong> implicitamente, e forse inconsapevolmente,<br />

ci viene una Medusa che, se<strong>di</strong>mentando i segni che l’hanno attraversata per secoli,<br />

rivive come mostro, madre e mistero mitopoietico.<br />

13 Ibidem.<br />

14 Ibidem.<br />

–34–<br />

Anna Maria Robustelli


AMITO VACCHIANO<br />

Zaccaria<br />

il papa a cui nessuno sapeva resistere<br />

Nel corso della sua storia bimillenaria la Chiesa ha visto avvicendarsi sul trono <strong>di</strong><br />

Pietro, l’umile “pescatore” <strong>di</strong> Galilea, moltissimi pontefici. Fra questi una buona parte<br />

furono insignificanti o me<strong>di</strong>ocri e il loro pontificato non ha lasciato traccia; alcuni, invece,<br />

per levatura umana e culturale, lasciarono un buon ricordo <strong>di</strong> sé e della loro opera; ma solo<br />

pochissimi furono i “gran<strong>di</strong>”, cioè quelle personalità <strong>di</strong> altissimo livello che non solo si<br />

<strong>di</strong>stinsero per fede ed elevate virtù cristiane, ma giunsero ad incidere profondamente nella<br />

storia e nella cultura della loro epoca. Il sensus Ecclesiae ha voluto “santi” quest’ultimi e li<br />

ha meritatamente fregiati dell’altisonante titolo <strong>di</strong> Magnus, cioè “grande” (ad esempio, san<br />

Leone Magno, san Gregorio Magno, ecc.). I gran<strong>di</strong> papi, spesso uomini assai <strong>di</strong>versi per<br />

lingua, nazionalità, cultura ed esperienze personali, sono riusciti a coniugare, nella propria<br />

vita, gli alti valori spirituali, derivanti dalla specifica missione evangelica, con qualità e<br />

virtù, forse più “umane” e “terrene”, ma non per questo meno stimolanti e proficue, come<br />

una raffinata cultura personale unitamente a grande acume politico e consumata abilità<br />

<strong>di</strong>plomatica. Sono questi i papi che hanno “cambiato la Storia”, figure sulle quali spesso<br />

si focalizza non solo l’attenzione degli storici “<strong>di</strong> alto livello”, ma anche la curiosità <strong>di</strong><br />

un pubblico più vasto, con interessi meno specifici, ma non per questo meno legittimi e<br />

apprezzabili.<br />

Vi sono poi molti papi che, pur essendo stati davvero “gran<strong>di</strong>”, non hanno beneficiato <strong>di</strong><br />

questo appellativo. I motivi possono essere <strong>di</strong>versi, ma spesso sono limitati alla circostanza<br />

che non si sa quasi nulla delle loro vicende, o perché vissero durante le gran<strong>di</strong> persecuzioni<br />

della Chiesa o nei cosiddetti “secoli bui” dell’Alto Me<strong>di</strong>oevo, perio<strong>di</strong> che, per ragioni <strong>di</strong>verse,<br />

non videro fiorire gran<strong>di</strong> scrittori. Alcuni poi non sono stati celebrati semplicemente perché<br />

i loro contemporanei non compresero i meriti speciali e la grandezza della loro azione, che<br />

solo a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> secoli, grazie ad una riflessione più pacata, sine ira et stu<strong>di</strong>o, come <strong>di</strong>rebbe<br />

Tacito, possono essere valutati compiutamente in tutta la loro ampiezza. Alcuni papi, infatti,<br />

ad un esame più attento <strong>di</strong> quel poco che traspare dalle fonti contemporanee, risultano, a noi<br />

moderni, figure non meno gran<strong>di</strong> <strong>di</strong> altri pontefici che ebbero la fortuna <strong>di</strong> essere celebrati<br />

(a volte a sproposito) da storici, poeti e letterati <strong>di</strong> fama.<br />

A questo proposito è interessante soffermare la nostra attenzione sulla figura <strong>di</strong> Zaccaria,<br />

un papa poco conosciuto, vissuto nel Me<strong>di</strong>oevo più profondo. Fu papa dal 741 al 752, in<br />

anni assai <strong>di</strong>fficili e delicati per i futuri sviluppi della storia d’Italia e d’Europa. Di lui abbiamo<br />

soltanto il breve profilo biografico tracciato nel Liber Pontificalis (una raccolta <strong>di</strong> biografie<br />

<strong>di</strong> pontefici da san Pietro fino alla fine del me<strong>di</strong>oevo) ed altre testimonianze sparse lasciateci<br />

da varie fonti contemporanee. Zaccaria, pur essendo sempre stato considerato “santo” dalla<br />

Chiesa, non ha mai ottenuto il titolo <strong>di</strong> magnus: eppure si tratta <strong>di</strong> un papa <strong>di</strong> altissimo livello,<br />

che, grazie al suo coraggio, cultura e intelligenza politica, ha segnato, molto più <strong>di</strong> altri, le<br />

vicende dei suoi tempi e quelle dei secoli successivi.<br />

Visse in un periodo in cui l’Italia si stava lentamente riprendendo da secoli <strong>di</strong> invasioni<br />

barbariche, guerre devastanti e pestilenze, che l’avevano prostrata e trasformata profondamente.<br />

Era nettamente <strong>di</strong>visa in due entità politiche contrapposte: il regno longobardo e<br />

–35–


l’esarcato bizantino <strong>di</strong> Ravenna. Il primo, incentrato nel Nord, con capitale a Ticinum<br />

(l’o<strong>di</strong>erna Pavia) e propaggini che giungevano fin nell’Italia centro-meri<strong>di</strong>onale (i ducati <strong>di</strong><br />

Spoleto e Benevento), sotto la guida del saggio ed energico re Liutprand, viveva il momento<br />

del suo massimo splendore. Il secondo, invece, raccogliendondo tutti i territori della penisola<br />

che si trovavano ancora sotto la dominazione bizantina (ducato <strong>di</strong> Venezia, Romagna, Pentapoli,<br />

ducati <strong>di</strong> Perugia, Roma, Terracina, Gaeta, Cuma, Napoli e Calabria), attraversava un<br />

periodo <strong>di</strong> profonda crisi. Il suo <strong>di</strong>retto sovrano, l’imperatore Leone III <strong>di</strong> Bisanzio – un<br />

eretico che aveva proibito in tutto l’impero il culto delle immagini sacre – era impegnato in<br />

una lotta vitale in Asia Minore per <strong>di</strong>fendere l’Impero dall’espansionismo aggressivo dell’Islam<br />

e non era assolutamente in grado <strong>di</strong> intervenire in Italia. I suoi sud<strong>di</strong>ti italiani, invece,<br />

in piena ripresa, erano insofferenti del fiscalismo oppressivo <strong>di</strong> Bisanzio e ambivano a forme<br />

sempre più marcate <strong>di</strong> autonomia, se non ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza politica, nei confronti<br />

<strong>di</strong> un impero a cui pagavano le tasse, ma che li lasciava praticamente soli nella lotta contro i<br />

Longobar<strong>di</strong>, i quali, dal canto loro, miravano, ormai palesemente, al dominio <strong>di</strong> tutta l’Italia.<br />

Primi anni e formazione<br />

Per comprendere la early life <strong>di</strong> Zaccaria, cioè la sua vita prima dell’elezione a pontefice<br />

romano, è necessario saper leggere le scarne e, apparentemente, contrad<strong>di</strong>ttorie notizie<br />

che che ci sono pervenute a suo riguardo.<br />

Il Liber Pontificalis lo definisce «natione Grecus» e aggiunge solo che suo padre si<br />

chiamava Policronio. 1 L’imperatore bizantino Costantino Porfirogenito nel De administrando<br />

imperio afferma che era ’Aqhna‹oj, cioè “ateniese”, ovvero “<strong>di</strong> origine ateniese”. 2 Antiche<br />

tra<strong>di</strong>zioni, infine, accolte come fededegne da molti stu<strong>di</strong>osi (Domenico Bartolini, 3 Giuseppe<br />

Cozza-Luzi, 4 Germano Giovanelli, 5 Alexander P. Kazdhan 6 ), lo vogliono originario della<br />

Calabria e precisamente <strong>di</strong> Santa Severina, pittoresco borgo me<strong>di</strong>evale, che sorge su uno<br />

sperone roccioso alle falde orientali della Sila.<br />

Non c’è nulla che ci autorizzi a ritenere inatten<strong>di</strong>bili o manipolate tali notizie, e dal fatto<br />

che sono molto <strong>di</strong>fferenti fra loro non ne consegue necessariamente che siano anche incompatibili.<br />

Ma an<strong>di</strong>amo per or<strong>di</strong>ne.<br />

Innanzitutto il fatto che un papa sia greco o genericamente orientale a Roma in quest’epoca<br />

– il periodo a cavallo fra i secoli VII e VIII – è un dato quasi normale: Roma, infatti,<br />

non solo appartiene all’impero bizantino (che ormai, a partire dalla sua capitale, Costantinopoli,<br />

ha definitivamente assunto una fisionomia linguistica e culturale sostanzialmente<br />

greca), ma è anche <strong>di</strong>ventata rifugio <strong>di</strong> molti stranieri (peregrini) <strong>di</strong> origine orientale.<br />

Alcuni sono chierici, monaci o semplici laici che giungono a Roma, solo per “pellegrinaggio”,<br />

cioè per visitare “i trofei degli Apostoli”, vale a <strong>di</strong>re le gran<strong>di</strong> chiese che conserva-<br />

1 Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire par l’abbé L. Duchesne, vol. I, Paris 1955, p. 426.<br />

2 Costantino VII Porfirogenito, De administrando imperio, 27, p. 114 rr. 15-16 ed. Gy. Moravcsik: «Zacar…aj,<br />

Ð p£paj ’Aqhna‹oj, kr£tei t¾n `Rèmhn».<br />

3 Domenico Bartolini, Di S. Zaccaria Papa e degli anni del suo pontificato. Commentarii storico-critici, Ratisbona<br />

1879, p. 3.<br />

4 Giuseppe Cozza-Luzi, Historia S.P.N. Bene<strong>di</strong>cti a SS. Pontificibus Romanis Gregorio I descripta e Zacharia<br />

graece red<strong>di</strong>ta [...] cura Iosephi Cozza-Luzi, Tusculani 1880, p. XXXI.<br />

5 Germano Giovanelli, Vita <strong>di</strong> s. Nilo fondatore e patrono <strong>di</strong> Grottaferrata. Versione e note a cura dello Jeromonaco<br />

Germano Giovanelli, Ba<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Grottaferrata 1966, p. 170, nota 149.<br />

6 Alexander P. Kazhdan, s.v. Zacharias, pope, in The Oxford Dictionary of Byzantium, III, Oxford-New York 1991,<br />

p. 2218: «He was the son of a Greek from Calabria».<br />

–36–


vano le spoglie mortali dei santi Pietro e Paolo, cioè del “principe degli apostoli” e dell’“apostolo<br />

delle genti”.<br />

Cessate da secoli le persecuzioni degli imperatori pagani, placatisi gli sconvolgimenti<br />

delle invasioni barbariche che provocarono la caduta dell’impero romano d’Occidente, convertiti<br />

ormai alla fede cattolica persino i fieri Longobar<strong>di</strong>, Roma comincia a riprendersi il<br />

suo ruolo <strong>di</strong> guida <strong>di</strong> tutto il mondo cristiano: nei luoghi più remoti, così come nelle gran<strong>di</strong><br />

metropoli dell’Oriente, molti pii fedeli riscoprono in Roma – una città ormai spogliata del suo<br />

splendore e del suo ruolo <strong>di</strong> capitale politica, circondata da barbari e oppressa persino dai<br />

Romani d’Oriente – il baluardo dell’ortodossia e l’interprete più fedele e autorevole del<br />

depositum fidei trasmesso dagli apostoli. Riscoprono cioè nel pellegrinaggio ad limina non<br />

solo una pratica <strong>di</strong> fede, devozione ed espiazione nello stesso tempo, ma anche l’occasione<br />

<strong>di</strong> abbeverarsi <strong>di</strong>rettamente alla “fonte <strong>di</strong> vita” e chiedere all’apostolo Pietro, il “Pastore delle<br />

genti”, la “luce vera”, quella che illumina tutti i cristiani e smaschera gli pseudoprofeti e gli<br />

eretici.<br />

A Roma, inoltre, nonostante le ristrettezze dei tempi esistevano strutture statali (ospedali),<br />

ecclesiastiche (le <strong>di</strong>aconie) e private (i monasteri) finalizzate ad accogliere i pellegrini,<br />

ristorarli dal lungo viaggio, curare le loro infermità e offrire loro anche quell’assistenza<br />

spirituale <strong>di</strong> cui soprattutto avevano bisogno. Altri orientali si trovavano a Roma per motivi<br />

più gravi: erano profughi dalle regioni orientali e africane invase prima dai Persiani e poi<br />

dagli Arabi musulmani. Altri infine, soprattutto monaci, singoli o intere comunità, cercavano<br />

il sostegno della Chiesa romana e del suo capo visibile, il papa, nella lotta contro le eresie che<br />

<strong>di</strong> volta in volta travagliavano l’Oriente: arianesimo, nestorianesimo, monofisismo, monotelismo<br />

e, last but not least, l’iconoclastia.<br />

A quell’epoca la Chiesa romana, guidata da pontefici <strong>di</strong> grande altezza – ad esempio san<br />

Gregorio Magno – lottava strenuamente su due fronti: in primo luogo a <strong>di</strong>fesa del primato<br />

del vescovo <strong>di</strong> Roma contro le ambizioni dei patriarchi “ecumenici” <strong>di</strong> Costantinopoli, che<br />

in qualità <strong>di</strong> vescovi della capitale dell’impero, non solo guardavano con cupi<strong>di</strong>gia ai territori<br />

<strong>di</strong> lingua greca ancora sottoposti alla giuris<strong>di</strong>zione romana, ma ormai puntavano palesemente<br />

a rimpiazzare Roma nella leadership del mondo cristiano; in seconda istanza, il successore<br />

<strong>di</strong> Pietro doveva intervenire in modo risoluto e intransigente contro tutte le eresie che,<br />

come la “zizzania”, spuntavano soprattutto in Oriente e che spesso trovavano simpatia e<br />

sostegno proprio in coloro che, in qualità <strong>di</strong> guide e maestri, avrebbero dovuto ostacolarle e<br />

reprimerle, vale a <strong>di</strong>re i patriarchi orientali e in molti casi, ad<strong>di</strong>rittura, i “cristianissimi”<br />

imperatori <strong>di</strong> Bisanzio.<br />

Che Zaccaria fosse <strong>di</strong> origine greca, dunque, come abbiamo visto, è un fatto non solo<br />

ammissibile, ma ad<strong>di</strong>rittura frequente in quest’epoca. Resta tuttavia da chiarire il problema<br />

<strong>di</strong> come conciliare la sua origine ateniese – attestata da Costantino Porfirogenito 7 – con la<br />

solida tra<strong>di</strong>zione che lo vuole nativo della Calabria e <strong>di</strong> Santa Severina in particolare.<br />

Per risolvere il <strong>di</strong>lemma, a mio avviso, bisogna calarsi in quel preciso contesto storico e<br />

avanzare un’ipotesi suggestiva e che potrebbe anche essere verosimile.<br />

A quell’epoca il limes, cioè il confine tra i territori bizantini e quelli longobar<strong>di</strong>, si era<br />

consolidato sulle propaggini meri<strong>di</strong>onali e orientali della Sila, il più grande sistema montuoso<br />

della Calabria. La parte settentrionale della regione attuale, infatti, era da tempo sotto il<br />

dominio dei Longobar<strong>di</strong> che avevano le loro teste <strong>di</strong> ponte nei gastaldati <strong>di</strong> Laino, Cassano<br />

e Cosenza. Nella Calabria orientale e meri<strong>di</strong>onale, invece, dominavano i Romani d’Oriente<br />

7 Non c’è motivo <strong>di</strong> dubitare <strong>di</strong> questa notizia, a meno che non si tratti <strong>di</strong> un errore derivato dalla tra<strong>di</strong>zione<br />

manoscritta del testo <strong>di</strong> Costantino Porfirogenito.<br />

–37–


(o Bizantini, per usare un termine più familiare a noi moderni). Questi ultimi poi, mirando<br />

a consolidare questi posse<strong>di</strong>menti, secondo una prassi che <strong>di</strong>venne normale a partire dal VII<br />

secolo, concedevano la proprietà ere<strong>di</strong>taria <strong>di</strong> fon<strong>di</strong> <strong>di</strong> proprietà statale – frutto <strong>di</strong> conquiste<br />

o espropriazioni forzate – a soldati (stratiîtai) appartenenti a unità orientali, generalmente<br />

Greci o Armeni, ma anche <strong>di</strong> altre etnie (Slavi, Albanesi, Valacchi, Arabi, Mardaiti, Turchi,<br />

ecc.). Le famiglie <strong>di</strong> questi soldati erano dette “militari” (o koi stratiwtiko…) e in cambio della<br />

terra erano obbligate a fornire un servizio militare ere<strong>di</strong>tario, cioè almeno un figlio che prestasse<br />

servizio nella cavalleria per sopperire alle necessità della <strong>di</strong>fesa locale.<br />

La maggior parte <strong>di</strong> queste famiglie erano <strong>di</strong> lingua greca, che era ormai l’i<strong>di</strong>oma<br />

dominante nell’Impero bizantino, da quando cioè le invasioni avevano portato via ai Romani<br />

d’Oriente la Penisola Balcanica, l’Africa e gran parte dell’Italia, vale a <strong>di</strong>re gli ultimi territori<br />

dell’Impero dove la lingua e la cultura latina erano ancora prevalenti. Il tramonto dell’elemento<br />

latino favorì l’elevazione del greco a lingua ufficiale dell’Impero. Fin dall’età<br />

ellenistica, infatti, nel bacino orientale del Me<strong>di</strong>terraneo il greco si era <strong>di</strong>ffuso come lingua<br />

franca del mondo del commercio e come lingua colta delle élites intellettuali, ma il suo vero<br />

trionfo si realizzò quando entrò nell’uso come lingua della liturgia cristiana dei quattro troni<br />

patriarcali dell’Oriente: cioè le Chiese <strong>di</strong> Antiochia, Alessandria, Gerusalemme e Costantinopoli.<br />

Nell’Italia meri<strong>di</strong>onale e in Sicilia queste famiglie greche andarono a rivitalizzare l’antico<br />

elemento ellenico, presente nel Sud fin dall’antichità, ma che ormai correva seriamente<br />

il rischio <strong>di</strong> scomparire, sommerso dalle parlate romanze. 8<br />

Nulla vieta <strong>di</strong> pensare, dunque, che Policronio, padre <strong>di</strong> Zaccaria, soldato <strong>di</strong> lingua e<br />

cultura greca, fosse originario proprio <strong>di</strong> Atene. 9 Giunto in Calabria con il suo reparto nel<br />

corso del VII secolo, in cambio dell’impegno a <strong>di</strong>fendere stabilmente il confine, potrebbe aver<br />

ottenuto una proprietà terriera a Santa Severina. 10<br />

Più <strong>di</strong>fficile è spiegare dove e in che modo il rampollo <strong>di</strong> una famiglia militare greca<br />

<strong>di</strong> Santa Severina si sarà procurato quella solida formazione intellettuale e spirituale che<br />

probabilmente gli fruttò l’ingresso nel clero romano e, successivamente, gli permise <strong>di</strong><br />

ascendere ad<strong>di</strong>rittura al soglio pontificio; restano anche avvolti nel mistero i motivi che lo<br />

spinsero a lasciare la sua terra e a trasferirsi in pianta stabile proprio a Roma. Su questo punto,<br />

dal momento che le fonti sono completamente mute, sarà necessario procedere ancora una<br />

volta per via <strong>di</strong> ipotesi.<br />

Una prima potrebbe essere che la sua famiglia (o un suo membro, ad esempio, il padre<br />

Policronio), come molte altre in quell’epoca (tra la fine del VII secolo ed i primi decenni<br />

8 Com’è noto, la lingua greca della Calabria e della Puglia meri<strong>di</strong>onale, forse proprio grazie alla nuova linfa<br />

ricevuta in epoca me<strong>di</strong>evale e alla forza unificante tipica della cultura bizantina, assunse un aspetto più “moderno” e fu<br />

in grado <strong>di</strong> sopravvivere in con<strong>di</strong>zioni quasi miracolose fino ai nostri giorni.<br />

9 A partire dalla fine del VI secolo e per tutto il VII la Grecia, come tutta la Penisola Balcanica era stata invasa<br />

ripetutamente da tribù slave che si stanziarono stabilmente nelle zone continentali, mentre punte avanzate, i Melingi e<br />

gli Ezeriti, giunsero persino a occupare ampie parti del Peloponneso. Da una fonte tarda, la Cronaca <strong>di</strong> Monembasia,<br />

abbiamo notizia che gli abitanti <strong>di</strong> Patrasso si stabilirono a Reggio in Calabria, ma che anche la Sicilia, Roma e il resto<br />

d’Italia <strong>di</strong>vennero meta dei profughi orientali.<br />

10 Questo centro era destinato più tar<strong>di</strong> ad avere un ruolo <strong>di</strong> primio piano nella storia della Calabria bizantina.<br />

Nell’885/86, infatti, sotto le sue mura, le armate imperiali, guidate dal m£gistroj Niceforo Foca, nonno dell’imperatore<br />

Niceforo II Foca, infransero definitivamente il sogno degli Arabi <strong>di</strong> trasformare tutta la Calabria in emirato musulmano<br />

e riaffermarono perentoriamente la sovranità imperiale sulla regione. L’imperatore Leone VI il Sapiente ribattezzò Santa<br />

Severina con il nome <strong>di</strong> Nikópolis (cioè “città della vittoria”) e il suo vescovo fu elevato al rango <strong>di</strong> metropolita, segno<br />

che nella stessa Costantinopoli questa fortezza <strong>di</strong> confine, a lungo roccaforte della lingua e del rito greco, veniva riconosciuta<br />

come un baluardo della civiltà bizantina in Occidente.<br />

–38–


dell’VIII), si sia trasferita a Roma <strong>di</strong>rettamente dall’Oriente, per ricoprire uffici nell’amministrazione<br />

della città, che faceva parte dell’impero bizantino, o per sfuggire alle persecuzioni<br />

religiose che accompagnarono l’imposizione della dottrina iconoclasta da parte dell’imperatore<br />

Leone III Isaurico. Questa ricostruzione, però, mal si concilia con la tra<strong>di</strong>zione, forte e<br />

ra<strong>di</strong>cata, che concordemente fa <strong>di</strong> Zaccaria un calabrese <strong>di</strong> Santa Severina.<br />

Una seconda soluzione – a mio avviso più coerente – presupporrebbe che Zaccaria,<br />

nato in una famiglia militare greca <strong>di</strong> Santa Severina, avesse abbracciato la vita monastica,<br />

all’epoca in forte espansione, in qualche monastero della stessa Calabria (o eventualmente<br />

anche della Sicilia). Qui avrebbe ricevuto un’istruzione solida e completa, molto al <strong>di</strong> sopra<br />

dei livelli allora normali in altre parti d’Italia.<br />

La Calabria meri<strong>di</strong>onale, infatti, godeva <strong>di</strong> una situazione privilegiata rispetto ad altre<br />

regioni: era rimasta ininterrottamente territorio romano sin dall’epoca dell’imperatore<br />

Giustiniano (527-565) e aveva dovuto subire devastazioni da parte <strong>di</strong> barbari in misura inferiore<br />

rispetto ad altre zone dell’Impero. 11 Il cristianesimo vi era giunto assai presto, come<br />

anche in Sicilia, forse proprio grazie alla presenza consistente <strong>di</strong> una popolazione greca e <strong>di</strong><br />

numerose <strong>di</strong> comunità giudaiche, anche queste <strong>di</strong> lingua greca e <strong>di</strong> cultura giudaico-ellenistica.<br />

Il monachesimo, poi, grazie anche ai frequenti contatti con l’Oriente, vi doveva esser giunto<br />

assai presto, certo prima del VI secolo, epoca delle prime testimonianze <strong>di</strong> vita religiosa<br />

associata in Calabria: il celeberrimo cenobio <strong>di</strong> Vivarium, fondato da Cassiodoro presso Stalettì,<br />

e la comunità monastica costituitasi presso il luogo <strong>di</strong> culto <strong>di</strong> san Fantino il Giovane a<br />

Tauriana. Queste fondazioni testimoniano anche la ricchezza e la vivacità culturale della<br />

Calabria in un periodo in cui non era ancora sorta quella netta frattura fra il monachesimo<br />

greco-bizantino e quello latino-occidentale, che si determinò soltanto quando l’Occidente <strong>di</strong><br />

lingua latina trovò in san Benedetto da Norcia il suo grande legislatore e riformatore monastico.<br />

In Calabria, però, come del resto in tutto il théma <strong>di</strong> Sicilia (dalla metà del VI secolo d.C.<br />

sottomesso a Costantinopoli), 12 la famosa Regula <strong>di</strong> san Benedetto, nonostante gli sforzi<br />

<strong>di</strong> san Gregorio Magno, 13 non fece in tempo a mettere ra<strong>di</strong>ci profonde. In seguito il monachesimo<br />

assumerà in Calabria quella fisionomia greco-bizantina, così marcata e profonda,<br />

che gli consentirà <strong>di</strong> sopravvivere a lungo anche dopo la fine della dominazione bizantina in<br />

Italia. L’antico monachesimo calabro-siculo, tuttavia, prima <strong>di</strong> scomparire, giocò un ruolo<br />

decisivo: guidò senza traumi nella regione in passaggio dalla cultura tardo-antica a quella<br />

bizantina, favorendo la cristianizzazione soprattutto delle zone rurali, che erano rimaste a<br />

lungo tenacemente pagane, e salvaguardando i culti e le tra<strong>di</strong>zioni religiose locali, in modo da<br />

permettere il loro graduale adattamento alle nuove forme della spiritualità orientale; trasmise,<br />

inoltre, alle nuove generazioni <strong>di</strong> monaci l’amore per i libri e la scrittura, sicché ancora oggi<br />

le biblioteche <strong>di</strong> tutto il mondo sono ricche <strong>di</strong> manoscritti prodotti, in epoche <strong>di</strong>verse, negli<br />

scriptoria calabresi. Il nuovo monachesimo italogreco, da parte sua, sviluppatosi gradualmente<br />

nei secoli VII e VIII in forme tipicamente orientali, anche per impulso delle gran<strong>di</strong> figure<br />

ascetiche che fiorirono in Oriente, non rappresentò dunque una frattura con il passato, ma<br />

il graduale adeguamento del monachesimo <strong>di</strong> queste province alla nuova sensibilità ispirata<br />

da Bisanzio. Pertanto, quando nell’VIII secolo, con un atto d’autorità l’imperatore Leone III<br />

11 Com’è noto, la Calabria entrò a far parte dei domini bizantini all’epoca dell’imperatore Giustiniano I (527-565)<br />

e vi rimase per oltre mezzo millennio fino alla definitiva conquista normanna nel 1060, ma la cultura greco-bizantina, che<br />

vi aveva messo solide ra<strong>di</strong>ci, resistette a lungo, lasciandovi tesori d’arte e <strong>di</strong> cultura che in parte sono giunti fino a noi.<br />

12 Il ducato <strong>di</strong> Calabria, che incluse anche l’antico Bruttium, era strettamente <strong>di</strong>pendente dallo stratego del tema<br />

<strong>di</strong> Sicilia.<br />

13 Cfr. Silvano Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meri<strong>di</strong>onale prenormanne (Istituto<br />

italiano per gli stu<strong>di</strong> storici, 14), Napoli 1963, p. 34.<br />

–39–


strappò a Roma le <strong>di</strong>ocesi dell’Italia meri<strong>di</strong>onale (così come quelle dell’Illirico) e le sottopose<br />

al patriarcato ecumenico <strong>di</strong> Costantinopoli, le conseguenze più traumatiche e dolorose<br />

<strong>di</strong> questo provve<strong>di</strong>mento furono evitate: e benché questo atto segnasse la fine del processo<br />

<strong>di</strong> “bizantinizzazione”, non permise che i legami della Calabria con Roma si spezzassero<br />

completamente.<br />

Più tar<strong>di</strong>, per motivi che ancora ci sfuggono, ma probabilmente già monaco, Zaccaria si<br />

trasferisce a Roma. Forse, però, non siamo obbligati a ricercare motivi speciali per giustificare<br />

questo viaggio: come molti all’epoca, anche Zaccaria potrebbe essersi recato a Roma<br />

semplicemente per un pellegrinaggio. I monaci, in particolare, avevano ampia libertà <strong>di</strong><br />

movimento e, con il consenso dell’abbate, potevano compiere qualsiasi pellegrinaggio. A<br />

Roma possiamo immaginare che si sia fermato per qualche tempo, probabilmente ospite <strong>di</strong><br />

uno dei tanti monasteri orientali che vi sorgevano. Sempre qui avrà avuto occasione <strong>di</strong> farsi<br />

notare dall’entourage del papa (o dal papa stesso) per la sua solida formazione culturale e le<br />

capacità intellettuali. Si tenga presente che in quell’epoca, a causa della controversia iconoclastica,<br />

la tensione tra Roma da una parte e l’Impero e la Chiesa bizantina dell’altra era<br />

salita in modo preoccupante: si temevano altre ritorsioni dell’imperatore nei confronti della<br />

refrattaria Chiesa romana, ma ciò che soprattutto allarmava i papi era il basso livello culturale<br />

del clero latino. Era <strong>di</strong>fficile, infatti, non solo trovare persone che comprendessero il greco,<br />

ma soprattutto chierici in grado <strong>di</strong> addentrarsi nei meandri delle sottili <strong>di</strong>spute teologiche che<br />

tanto appassionavano gli orientali. Pertanto, un intellettuale in grado <strong>di</strong> padroneggiare la<br />

lingua greca e dotato <strong>di</strong> profonda preparazione teologica, era un bene troppo prezioso e raro<br />

per lasciarselo sfuggire.<br />

Ci si potrebbe meravigliare, dunque, che una persona dotata <strong>di</strong> tali requisiti sia stato ben<br />

presto apprezzato e annoverato fra il clero romano? Zaccaria, infatti, può essere identificato,<br />

assai verosimilmente, con il <strong>di</strong>acono omonimo che sottoscrisse gli atti del sinodo romano<br />

del 732. Certamente fu tra i più stretti collaboratori <strong>di</strong> papa Gregorio III, giacché in questa<br />

funzione lo conobbe l’evangelizzatore della Germania, Bonifacio, probabilmente durante il<br />

suo terzo viaggio a Roma, avvenuto nel 737-738.<br />

Questa seconda teoria, che potremo definire “monastica”, nonostante le indubbie <strong>di</strong>fficoltà<br />

per l’assenza <strong>di</strong> prove certe, ha tuttavia il merito <strong>di</strong> dare ragione non solo della raffinata<br />

formazione culturale e spirituale <strong>di</strong> Zaccaria, a quell’epoca conseguibile esclusivamente<br />

in ambienti ecclesiastici o monastici, ma anche della considerazione e della stima che questo<br />

papa ebbe per il monachesimo in generale e per quello benedettino in particolare, come<br />

vedremo meglio più avanti.<br />

I rapporti con i Longobar<strong>di</strong><br />

Quando, il 3 <strong>di</strong>cembre 741, pochi giorni dopo la morte <strong>di</strong> Gregorio III, Zaccaria venne<br />

elevato al pontificato, ere<strong>di</strong>tò una situazione politica particolarmente <strong>di</strong>fficile sia per l’Italia<br />

che per l’Europa e l’Impero bizantino. Nel corso <strong>di</strong> quell’anno erano morti tre dei protagonisti<br />

della scena politica fino a quel momento: l’imperatore Leone III detto “l’Isaurico”<br />

(18 giugno), il maestro <strong>di</strong> palazzo del regno dei Franchi Carlo Martello (22 ottobre) ed infine<br />

lo stesso papa Gregorio III (29 novembre).<br />

Al momento della sua elezione Zaccaria trova l’Italia «valde turbata», come <strong>di</strong>ce il suo<br />

biografo. Il pericolo maggiore è Liutprand, re dei Longobar<strong>di</strong>, che governava insieme al<br />

nipote Hildeprand (associato nel potere durante una malattia del re che aveva fatto temere per<br />

la sua vita). Approfittando abilmente delle lotte iconoclastiche che avevano compattato e<br />

contrapposto nettamente il clero e il popolo dell’Italia bizantina all’autorità imperiale, sentita<br />

–40–


ormai come incompatibile ed estranea, Liutprand si era inserito nel conflitto. Presentandosi<br />

come il campione dell’ortodossia cattolica e ritenendo che i tempi fossero maturi per dare<br />

la spallata finale al dominio bizantino in Italia, aveva iniziato una politica <strong>di</strong> aggressione<br />

militare contro i posse<strong>di</strong>menti bizantini dell’Italia centrale: l’esarcato (Romagna), la Pentapoli<br />

(Marche) e lo stesso ducato romano (un territorio corrispondente grosso modo all’attuale<br />

Lazio), su cui i papi avevano recentemente acquistato un’influenza politica e un “protettorato”<br />

che probabilmente comportava anche funzioni <strong>di</strong> governo, esercitate talvolta in<br />

accordo con le autorità bizantine, talvolta in netto <strong>di</strong>ssenso. Infatti l’esarca <strong>di</strong> Ravenna,<br />

rappresentante dell’imperatore in Italia, non era più in grado <strong>di</strong> governare efficacemente tutte<br />

le province imperiali, né <strong>di</strong> opporsi efficacemente all’aggressione dei re longobar<strong>di</strong>. Anche<br />

per questo il predecessore <strong>di</strong> Zaccaria, Gregorio III, aveva stabilito intese con i duchi longobar<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong> Spoleto e <strong>di</strong> Benevento, tra<strong>di</strong>zionalmente ostili al rafforzamento dell’autorità regia,<br />

sperando col loro aiuto <strong>di</strong> poter <strong>di</strong>fendere il ducato romano, o <strong>di</strong> salvaguardare almeno la sua<br />

in<strong>di</strong>pendenza.<br />

Nel 739 Liutprand, dopo aver occupato Narni e aver spezzato così la pericolosa continuità<br />

territoriale fra Ravenna (capitale politico-amministrativa) e Roma (capitale morale e<br />

religiosa), attendeva solo un pretesto qualsiasi per marciare su Roma. Questo gli venne<br />

offerto allorché Trasimund, duca longobardo <strong>di</strong> Spoleto e ribelle al suo re, aveva ottenuto<br />

rifugio a Roma dal patrizio Stefano, duca <strong>di</strong> Roma, che agiva <strong>di</strong> comune accordo con papa<br />

Gregorio III. Liutprand invia ambasciatori a chiedere la consegna del ribelle ma, <strong>di</strong> fronte al<br />

netto rifiuto, muove guerra contro Roma, occupando quattro città ai confini del ducato: Amelia,<br />

Orte, Polimarzio e Blera. Quin<strong>di</strong> in agosto fa ritorno al suo palazzo a Pavia.<br />

Zaccaria viene eletto papa proprio mentre il re Liutprand stava preparando una nuova<br />

spe<strong>di</strong>zione militare contro il ducato romano, quella decisiva. In questo drammatico frangente<br />

egli dà subito prova della notevole dose <strong>di</strong> spregiu<strong>di</strong>catezza politica che caratterizzerà le<br />

sue principali iniziative: abbandonando la politica <strong>di</strong> alleanza con i duchi longobar<strong>di</strong>, perseguita<br />

tra<strong>di</strong>zionalmente dai suoi predecessori, offre al re Liutprand il proprio sostegno contro<br />

il duca ribelle Trasimund, in cambio della pace e della restituzione dei quattro castelli della<br />

valle del Tevere, che il re aveva occupato nel 739.<br />

Nel 742, pertanto, su <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> Zaccaria, l’esercito romano partecipa alla spe<strong>di</strong>zione<br />

<strong>di</strong> Liutprand contro Trasimund. Il duca <strong>di</strong> Spoleto, per aver salva la vita, è costretto ad arrendersi<br />

e a farsi monaco, mentre al suo posto è nominato Agiprand, nipote del re. Sistemate<br />

le cose a Spoleto, Liutprand si <strong>di</strong>rige verso Benevento, il cui duca, Godescalc, terrorizzato,<br />

tenta <strong>di</strong> fuggire, ma è catturato e ucciso: al suo posto viene scelto l’energico Gisulf, nipote<br />

<strong>di</strong> Aurona, sorella del re.<br />

L’autorità esercitata in quest’occasione da Zaccaria sull’esercito romano è una conferma<br />

del fatto che, nell’ormai avanzata crisi del governo bizantino in Italia, il papa aveva<br />

assunto chiaramente poteri politici in Roma ed esercitava funzioni <strong>di</strong> governo <strong>di</strong> una Res<br />

publica Sancti Petri, d’intesa con il duca, il quale, sebbene nominato dall’esarca, agiva ormai<br />

come un subor<strong>di</strong>nato del papa.<br />

Dopo la sottomissione <strong>di</strong> Spoleto, poiché Liutprand indugiava a consegnare le quattro<br />

città, Zaccaria, «ut vere pastor populi sibi a Deo cre<strong>di</strong>ti», 14 non esita a lasciare Roma per<br />

incontrarlo personalmente e raccogliere i frutti dell’accordo, facendo valere nei confronti del<br />

re tutto il prestigio morale e carismatico che gli derivava dal presentarsi come il successore<br />

<strong>di</strong> san Pietro. L’incontro avvenne a Terni, probabilmente nell’estate del 742, e per Zaccaria<br />

fu un vero successo sotto tutti i punti <strong>di</strong> vista. Liutprand accolse il papa con gran<strong>di</strong> onori e<br />

14 «Veramente come un buon pastore del popolo affidatogli da Dio»: Liber Pontificalis, cit., I, p. 247.<br />

–41–


Zaccaria «omnia quaecumque ab eo petiit per gratia Spiritus sancti obtinuit». 15 Le trattative<br />

durarono alcuni giorni, accompagnate da cerimonie religiose, e alla fine il re restituì le quattro<br />

città sottratte al ducato <strong>di</strong> Roma nel 739, insieme a Narni e ad almeno una parte dei patrimoni<br />

della Chiesa in Sabina, conquistati dagli Spoletini oltre trenta anni prima. Furono restituite<br />

anche le città pentapolitane <strong>di</strong> Osimo, Ancona e Umana, nonché la regione <strong>di</strong> Sutri. 16<br />

Tutte queste donazioni furono fatte «per donationis titulo», vale a <strong>di</strong>re con un formale atto<br />

regio, e in tutti questi casi il destinatario era «beato Petro apostolorum principi». 17 I prigionieri<br />

e gli ostaggi in mano dei Longobar<strong>di</strong> furono inviati tutti in patria e l’accordo fu sanzionato<br />

da una pace ventennale tra il re longobardo e il ducato romano, i cui destini venivano così<br />

<strong>di</strong>stinti da quelli delle altre province bizantine nell’Italia centro-settentrionale.<br />

Lo stesso giorno, essendo domenica, terminate le cerimonie religiose, il pontefice invitò<br />

a pranzo il re Liutprand per ricevere la bene<strong>di</strong>zione apostolica. In questa occasione Zaccaria<br />

mise in evidenza un aspetto particolare del suo carattere: il re, infatti, pranzò con tanto<br />

piacere e allegria <strong>di</strong> cuore che <strong>di</strong>chiarò <strong>di</strong> non ricordare <strong>di</strong> essersi mai <strong>di</strong>vertito tanto. 18<br />

Rientrato in Roma, Zaccaria fu accolto con gran<strong>di</strong> festeggiamenti e celebrò il successo<br />

della sua missione con una solenne processione del popolo romano che si snodò da Santa Maria<br />

ad Martyres (il Pantheon) fino alla basilica <strong>di</strong> san Pietro.<br />

L’incontro <strong>di</strong> Terni, dunque, si caratterizza come un evento <strong>di</strong> grande portata storica: per<br />

la prima volta il ducato <strong>di</strong> Roma fu chiamato apertamente res publica, cioè ‘Repubblica, Stato’,<br />

con san Pietro come capo eponimo e il papa come suo vicario. Inoltre sempre per la prima<br />

volta il papa agisce <strong>di</strong>rettamente come il capo <strong>di</strong> uno stato sovrano e in<strong>di</strong>pendente.<br />

I rapporti con Bisanzio<br />

Questi eventi si intrecciarono con le vicende interne dell’impero bizantino. Zaccaria<br />

giunse al papato mentre da poco (741) era salito al trono Costantino V, dopo la morte del<br />

padre, mentre Anastasio era patriarca <strong>di</strong> Costantinopoli (730-754): entrambi erano fautori<br />

dell’iconoclastia, che i papi predecessori <strong>di</strong> Zaccaria, in particolare Gregorio III, avevano<br />

duramente condannato. Nonostante ciò, Zaccaria, dando prova <strong>di</strong> grande tatto e accortezza<br />

politica, inviò al patriarca Anastasio la consueta syno<strong>di</strong>ca, cioè la lettera sinodale con cui i<br />

patriarchi informavano i loro colleghi orientali dell’avvenuta elezione contenente anche la<br />

professione <strong>di</strong> fede del nuovo eletto: purtroppo il testo <strong>di</strong> questa syno<strong>di</strong>ca non ci è pervenuto,<br />

ma certamente riaffermava la fede ortodossa e condannava nuovamente l’iconoclastia. Inviò<br />

anche uno scritto esortatorio (suggestio), anche questo perduto, al giovane imperatore.<br />

Zaccaria, dunque, non solo fu il primo papa a non richiedere l’approvazione imperiale né a<br />

Ravenna, né a Costantinopoli, ma non venne meno neppure al suo dovere <strong>di</strong> custode dell’ortodossia,<br />

rinfacciando finemente al vecchio patriarca i suoi errori dottrinali e cercando, con<br />

il dovuto ossequio e la massima deferenza, <strong>di</strong> riportare il giovane imperatore sulla retta via.<br />

I messi papali dovettero giungere a Costantinopoli nel 742, mentre era in corso una<br />

ribellione contro Costantino V ad opera del cognato Artavasdo, che in ottobre si inse<strong>di</strong>ò a<br />

Costantinopoli mostrando <strong>di</strong> voler restaurare il culto delle immagini. Sembra che il patriarca<br />

15 «Per grazia dello Spirito Santo ottenne tutto ciò che a lui chiese»: Liber Pontificalis, cit., I, p. 247.<br />

16 Il castrum (città) <strong>di</strong> Sutri, invece, era stato occupato e restituito nel 727-728 a papa Gregorio II.<br />

17 CDL, 3.1, cur. Brühl, n. 5, pp. 299-300.<br />

18 «Eodem uero <strong>di</strong>e dominico post peracta missarum solemnia ad pran<strong>di</strong>um eundem regem ad apostolicam<br />

bene<strong>di</strong>ctionem suscipiendam ipse beatissimus pontifex inuitauit. Vbi cum tanta suauitate esum sumpsit et hilaritate<br />

cor<strong>di</strong>s, ut <strong>di</strong>ceret ipse rex tantum se numquam meminisse commessurum»: Liber Pontificalis, cit., I, p. 428.<br />

–42–


lo assecondasse prudentemente, consentendo il ripristino delle icone della Madre <strong>di</strong> Dio e dei<br />

santi. Zaccaria, informato degli sviluppi dai suoi messi o dall’apocrisiario, 19 nel 743 inviò al<br />

patriarca Anastasio una lettera in cui si felicitava per la caduta dell’“apostata” e per il ripristino,<br />

ancorché parziale, delle icone, esortandolo con una serie <strong>di</strong> considerazioni dottrinali<br />

ad accogliere in pieno l’orientamento iconodulo 20 restaurando anche le icone <strong>di</strong> Cristo. 21<br />

Da quel momento il papato dovette anche riconoscere Artavasdo come imperatore. Tuttavia<br />

Costantino V, che aveva conservato basi in Asia Minore, in quegli stessi mesi sconfiggeva in<br />

battaglia Artavasdo e suo figlio, e il 2 novembre 743 riconquistava Costantinopoli. A Roma<br />

però si continuò per più <strong>di</strong> un anno a considerare Artavasdo come imperatore legittimo,<br />

datando col suo nome i documenti ufficiali e le lettere pontificie. Più che a <strong>di</strong>sinformazione,<br />

ciò fu probabilmente dovuto all’incertezza su come sarebbe evoluta la situazione in Oriente,<br />

dove Artavasdo restava un soggetto politico importante, mentre erano in corso nuove ribellioni<br />

militari e il patriarca Anastasio, sebbene sottoposto a pubblica umiliazione, conservava<br />

la sua carica. È possibile anche che i messi papali trattassero il riconoscimento <strong>di</strong> Costantino,<br />

chiedendo garanzie per il papato e per il culto delle immagini in Italia. Solo alla fine del 745<br />

i documenti papali figurano nuovamente datati con riferimento all’impero <strong>di</strong> Costantino V,<br />

che nel frattempo aveva eliminato definitivamente Artavasdo facendolo accecare insieme<br />

con i figli. La situazione politica si era così definitivamente chiarita, ma si doveva essere<br />

raggiunta anche, tra imperatore e papato, un’intesa che venne sanzionata dalla donazione alla<br />

Chiesa <strong>di</strong> Roma <strong>di</strong> due gran<strong>di</strong> proprietà fiscali site nella pianura pontina: le cosiddette<br />

“masse” <strong>di</strong> Ninfa e <strong>di</strong> Norma. È probabile che contemporaneamente l’imperatore accettasse<br />

l’accantonamento <strong>di</strong> fatto dei provve<strong>di</strong>menti iconoclastici in Italia, dei quali non si fa più parola<br />

durante il pontificato <strong>di</strong> Zaccaria. La corte papale fece cadere il silenzio sulla transitoria<br />

adesione ad Artavasdo, tanto che il biografo <strong>di</strong> Zaccaria esplicitamente la nega.<br />

Il “caso” <strong>di</strong> Cesena<br />

I termini della pace <strong>di</strong> Terni erano stati molto vantaggiosi per Liutprand, o almeno così<br />

egli riteneva: aveva ottenuto la fine delle alleanze fra il papa e i duchi ed era convinto che,<br />

in cambio del riconoscimento dell’in<strong>di</strong>pendenza del ducato <strong>di</strong> Roma, avrebbe avuto mano<br />

libera a Ravenna. Di conseguenza nel 743, mentre l’Impero attraversava uno dei suoi frequenti<br />

perio<strong>di</strong> <strong>di</strong> crisi a causa dell’usurpazione <strong>di</strong> Artavasdo, riaprì le ostilità contro i territori<br />

bizantini in Romagna, conquistando Cesena, un castrum situato in prossimità della frontiera<br />

fra Ravenna e il regnum in un punto strategico sulla via Emilia, 22 e pre<strong>di</strong>sponendosi ad asse<strong>di</strong>are<br />

la stessa capitale dell’esarcato. L’esarca Eutichio e l’arcivescovo <strong>di</strong> Ravenna Giovanni,<br />

sapendo del successo riportato da Zaccaria nella precedente trattativa con Liutprand, invia-<br />

19 L’apocrisiario (lat. apocrisiarius o responsalis, dal gr. ¢pokrisi£rioj, der. <strong>di</strong> ¢pÒkrisij “risposta”) nell’Alto<br />

Me<strong>di</strong>oevo era sostanzialmente un antenato del moderno nunzio apostolico. In genere era un ecclesiastico scelto fra il<br />

clero romano, inviato dal papa a Costantinopoli, dove risiedeva nel palazzo <strong>di</strong> Placi<strong>di</strong>a, attiguo a quello imperiale, e,<br />

dovendo <strong>di</strong>sbrigare sia affari politici sia delicate questioni religiose, le sue mansioni erano così intense e molteplici, che,<br />

a detta <strong>di</strong> papa Pelagio II, non poteva allontanarsi nemmeno un’ora dal palazzo imperiale.<br />

20 Con il termine “iconodulo” (e„konÒdouloj ‘schiavo delle immagini’) gli iconoclasti designavano i loro avversari<br />

ortodossi.<br />

21 La lettera al patriarca Anastasio, attribuita dalla tra<strong>di</strong>zione a Gregorio II, è stata recentemente riven<strong>di</strong>cata a<br />

Zaccaria e datata all’estate 743; è conservata negli atti del secondo concilio <strong>di</strong> Nicea (787), e<strong>di</strong>ti in I.D. Mansi, Sacrorum<br />

conciliorum nova et amplissima collectio, XIII, Venetiis 1767, coll. 91-9.<br />

22 Liutprand probabilmente desiderava assicurarsi Cesena anche per controllare una via d’accesso a Spoleto.<br />

–43–


ono un appello supplichevole al papa, chiedendogli <strong>di</strong> intervenire anche in <strong>di</strong>fesa dell’esarcato.<br />

Zaccaria inviò un’ambasceria, composta dal vescovo Benedetto, che era anche vicedominus<br />

papale, e da Ambrogio, primicerius notariorum, insieme a ricchi doni per il vecchio<br />

re. Ancora una volta Zaccaria si rivela il solo in Italia in grado <strong>di</strong> trattare con i Longobar<strong>di</strong>.<br />

Ma questa volta Liutprand non si rivela tanto malleabile e rifiuta <strong>di</strong> cedere. Senza indugi,<br />

allora, Zaccaria affida il governo <strong>di</strong> Roma al duca Stefano, che sembra ormai essere un subor<strong>di</strong>nato<br />

del papa, e si mette in viaggio verso Ravenna, «sicut vere pastor, relictis ovibus, ad<br />

ea quae periturae erant re<strong>di</strong>mendas cucurrit». 23 È da notare che a Ravenna è l’esarca stesso<br />

ad andare incontro al papa, mentre il protocollo imperiale prevedeva il contrario. Per ricevere<br />

gli esarchi, per <strong>di</strong> più, il papa era tenuto ad allontanarsi da Roma un miglio, mentre in questo<br />

caso l’esarca fece ben cinquanta miglia.<br />

Da Ravenna il papa invia una seconda ambasceria a Liutprand, per chiedergli un incontro.<br />

Ad Imola i suoi messi vennero però a sapere che il re intendeva impe<strong>di</strong>re la venuta del papa,<br />

e avvertirono Zaccaria, che prese l’audace risoluzione <strong>di</strong> forzare il re a riceverlo. Lasciata<br />

Ravenna, entrò infatti nel Regno longobardo, raggiungendo il Po il 28 <strong>di</strong> giugno. Liutprand,<br />

che «dolore perpulsus» 24 aveva appena rifiutato <strong>di</strong> ricevere i messi del papa, fu costretto ad inviargli<br />

incontro i gran<strong>di</strong> della sua corte, che lo condussero a Pavia, dove il re si trovava. L’incontro<br />

si svolse con la massima formalità, tra cerimonie liturgiche e banchetti. Le trattative politiche<br />

furono invece molto <strong>di</strong>fficili: il papa, senza mezzi termini, <strong>di</strong>sse a Liutprand che doveva<br />

restituire le città sottratte ai ravennati. Dopo aver riflettuto sulla questione, il re decise <strong>di</strong><br />

restituire due terzi <strong>di</strong> Cesena “ad partem reipublicae” e <strong>di</strong> conservare il restante terzo fino al<br />

primo giugno dell’anno successivo (il 744) o fino al ritorno del suo inviato da Costantinopoli.<br />

Ottorino Bertolini ritiene che a Terni Zaccaria si comportò come un sovrano che opera<br />

per il bene del suo Stato, mentre a Pavia agì come un rappresentante dell’esarca. 25 In realtà,<br />

il papa agì da sovrano in entrambe le occasioni. 26<br />

A queste vicende seguì un periodo <strong>di</strong> relativa tranquillità nei rapporti con i Longobar<strong>di</strong>.<br />

Morto agli inizi del 744 Liutprand, il suo collega e successore Hildeprand venne deposto dopo<br />

pochi mesi e il nuovo re Ratchis manifestò un atteggiamento conciliante nei confronti del<br />

papato e delle popolazioni delle province bizantine; ricevette i messi che Zaccaria gli aveva<br />

subito inviato e rinnovò con loro la pace ventennale probabilmente estendendola a tutti i territori<br />

bizantini.<br />

L’amministrazione della “Res publica Sancti Petri”<br />

Attenuatosi il pericolo longobardo, e ristabilita insieme la pace con l’Impero bizantino,<br />

sembra che Zaccaria si de<strong>di</strong>casse a restaurare ed abbellire le principali chiese romane; una<br />

cura che era <strong>di</strong>venuta parte qualificante del governo dei papi. Restaurò e rinnovò il complesso<br />

lateranense ove aveva sede l’amministrazione papale: vi costruì tra l’altro una torre,<br />

con porte e cancelli <strong>di</strong> bronzo e un’immagine del Salvatore all’ingresso, ed una nuova sala<br />

23 «Come un vero pastore per recuperare il resto del suo gregge e ciò che esso aveva smarrito»: Liber Pontificalis,<br />

cit., I, p. 429.<br />

24 Liber Pontificalis, cit., I, p. 429. Il vecchio re, infatti, non godeva <strong>di</strong> buona salute (sarebbe morto l’anno successivo),<br />

ma forse la sua sofferenza derivava anche e soprattutto dal fatto che non aveva previsto che il papa intervenisse<br />

a favore della città da cui i suoi predecessori avevano subito tante umiliazioni; e un papa poi, come Zaccaria, al quale<br />

nessuno poteva <strong>di</strong>re <strong>di</strong> no!<br />

25 Ottorino Bertolini, Roma e longobar<strong>di</strong>, Roma 1972, pp. 57-58.<br />

26 Cfr. Thomas F. X. Noble, La Repubblica <strong>di</strong> San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova 1998,<br />

p. 76.<br />

–44–


per cerimonie, decorata <strong>di</strong> marmi, mosaici e pitture. Donò parati e vasellame liturgico alle<br />

basiliche degli apostoli e a molte altre chiese romane. Sembra che creasse una biblioteca <strong>di</strong><br />

testi liturgici in San Pietro, donando co<strong>di</strong>ci appartenenti alla sua famiglia. Zaccaria si preoccupò<br />

anche dell’approvvigionamento delle istituzioni ecclesiastiche romane, per garantire<br />

il quale creò una serie <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> aziende agricole, chiamate domuscultae, poste nel territorio<br />

circostante Roma, per lo più in prossimità delle gran<strong>di</strong> strade che raggiungevano la città.<br />

La peculiarità <strong>di</strong> queste aziende, che si estendevano per centinaia <strong>di</strong> ettari, consisteva nelle<br />

modalità <strong>di</strong> gestione. I numerosi patrimoni che la Chiesa romana possedeva fin dall’antichità<br />

nel Lazio e in altre regioni italiane, comprese quelle longobarde, erano per lo più affittati, con<br />

contratti a lunga scadenza, a persone che coltivavano <strong>di</strong>rettamente; la Chiesa traeva da essi<br />

red<strong>di</strong>ti in denaro, senza avere però la <strong>di</strong>sponibilità delle terre né dei prodotti agricoli. Le<br />

domuscultae vennero invece gestite <strong>di</strong>rettamente, facendole lavorare da conta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong>pendenti,<br />

organizzati in forme <strong>di</strong> semi-schiavitù. I raccolti e il bestiame prodotti nelle aziende erano<br />

utilizzati <strong>di</strong>rettamente dalla casa papale, oppure destinati ai consumi <strong>di</strong> determinati uffici<br />

ecclesiastici o <strong>di</strong> istituzioni de<strong>di</strong>te all’assistenza dei bisognosi (<strong>di</strong>aconie, ospedali). Oltre al<br />

vettovagliamento <strong>di</strong>retto, probabilmente <strong>di</strong>venuto necessario per la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> importare<br />

derrate alimentari da lontano, l’istituto delle domuscultae consentiva il controllo del territorio<br />

e della popolazione rurale. Forse per questo esse non furono ben viste dai proprietari fon<strong>di</strong>ari<br />

<strong>di</strong> Roma e del territorio circostante; ciò nonostante l’istituzione venne salvaguardata dalla<br />

Chiesa, che riuscì per lungo tempo ad evitarne lo snaturamento. È possibile che anche le<br />

“masse” <strong>di</strong> Ninfa e Norma, donate dall’imperatore Costantino V, fossero sfruttate in gestione<br />

<strong>di</strong>retta. Nell’insieme sembra che Zaccaria mirasse a ricostituire all’interno del ducato romano<br />

quel complesso <strong>di</strong> patrimoni fon<strong>di</strong>ari riservati che la Chiesa romana aveva perduto con le<br />

confische dell’imperatore Leone III circa <strong>di</strong>eci anni prima.<br />

Attività pastorale e missionaria<br />

Gli orizzonti politici e pastorali <strong>di</strong> Zaccaria non furono comunque limitati alle questioni<br />

locali e alle relazioni con i Longobar<strong>di</strong> e con l’Impero bizantino. Fin dall’inizio del pontificato,<br />

egli de<strong>di</strong>cò grande attenzione all’opera <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusione e organizzazione della Chiesa<br />

in Germania e nel Regno franco condotta dall’evangelizzatore anglosassone Bonifacio, che<br />

Gregorio II aveva già costituito “vescovo della Germania”. Bonifacio si tenne continuamente<br />

in contatto con Zaccaria, informandolo sui progressi della sua attività e sollecitando istruzioni<br />

in materia <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto ecclesiastico, <strong>di</strong> costume e <strong>di</strong> liturgia. Zaccaria fornì le istruzioni richieste;<br />

inviò la conferma papale ai nuovi vescovi creati in Germania da Bonifacio; su richiesta<br />

<strong>di</strong> questi trasmise il pallio anche agli arcivescovi <strong>di</strong> fresca istituzione <strong>di</strong> Sens, <strong>di</strong> Reims e <strong>di</strong><br />

Rouen. Nel 745 celebrò a Roma un sinodo nel quale si condannarono i sacerdoti Adelberto<br />

e Clemente, che in Germania pre<strong>di</strong>cavano dottrine lesive dell’autorità ecclesiastica ed erano<br />

stati perciò incarcerati da Bonifacio.<br />

I rapporti con i Franchi<br />

Probabilmente proprio per il tramite <strong>di</strong> Bonifacio Zaccaria entrò in rapporto con i maestri<br />

<strong>di</strong> palazzo Pipino (III) e Carlomanno, figli <strong>di</strong> Carlo Martello, che esercitavano l’autorità<br />

regia nel Regno franco, in nome e in vece dei decaduti re dell’antica <strong>di</strong>nastia merovingia. Per<br />

motivi politici non meno che religiosi, i due principi favorivano sia l’azione missionaria <strong>di</strong><br />

Bonifacio in Germania, sia l’opera <strong>di</strong> riforma ecclesiastica nel Regno franco; in particolare<br />

essi promossero sino<strong>di</strong> in cui lo stesso Bonifacio avviò la riforma dei costumi e dell’educa-<br />

–45–


zione del clero franco, che versava in con<strong>di</strong>zioni deplorevoli. Zaccaria scambiò messaggi<br />

con i due maestri <strong>di</strong> palazzo, dando suggerimenti e <strong>di</strong>rettive in materia <strong>di</strong> <strong>di</strong>sciplina ecclesiastica<br />

e <strong>di</strong> morale. Quando, nel 747, Carlomanno rinunciò al potere per abbracciare la vita<br />

monastica, Zaccaria lo accolse a Roma, e lo inse<strong>di</strong>ò nel monastero <strong>di</strong> Sant’Andrea al Monte<br />

Soratte, <strong>di</strong> cui gli fece dono. Nel 749 Pipino, rimasto unico capo politico dei Franchi, inviò<br />

dal papa il vescovo Burcardo <strong>di</strong> Würzburg ed il cappellano Fulrado per sollecitare un responso<br />

su un quesito <strong>di</strong> natura politica ed etica: era bene o male che vi fossero in Francia re privi del<br />

potere effettivo? Zaccaria, offrendo un’ulteriore prova <strong>di</strong> spregiu<strong>di</strong>catezza intellettuale e<br />

politica, <strong>di</strong>ede una risposta destinata ad avere gran<strong>di</strong> conseguenze nella storia dell’Europa e<br />

del papato: era meglio che avesse nome <strong>di</strong> re chi esercitava realmente il potere, anziché chi<br />

ne era privo, “perché non fosse turbato l’or<strong>di</strong>ne”. Il responso papale fornì la legittimazione<br />

morale e religiosa al colpo <strong>di</strong> Stato con cui, nel novembre del 751, Pipino si fece proclamare<br />

re dei Franchi, deponendo l’ultimo sovrano <strong>di</strong> stirpe merovingia, Childerico. Dopo l’elezione,<br />

l’arcivescovo Bonifacio unse Pipino col crisma benedetto per conferirgli una consacrazione<br />

religiosa sostitutiva della sacralità pagana del sangue merovingio. La Chiesa legittimava così<br />

il cambiamento <strong>di</strong> <strong>di</strong>nastia e offriva sostegno al nuovo re; non è però attestato un ruolo <strong>di</strong>retto<br />

<strong>di</strong> Zaccaria in tali vicende. Alcuni anni più tar<strong>di</strong>, peraltro, papa Stefano II rinnovò l’unzione<br />

<strong>di</strong> Pipino estendendola anche ai figli che dovevano succedergli nel regno.<br />

Il monachesimo benedettino e la cultura altome<strong>di</strong>evale<br />

I canoni dei sino<strong>di</strong> Romani, che Zaccaria celebrò nel 743 e nel 745, attestano le sue<br />

capacità in campo ecclesiastico e civile. Così come le sue numerose lettere inviate a prelati<br />

dell’Europa settentrionale risolvono con competenza e autorevolezza i quesiti che gli venivano<br />

sottoposti. Tutto ciò conferma quanto sappiamo sulle capacità culturali <strong>di</strong> questo pontefice.<br />

Come abbiamo visto, già prima <strong>di</strong> essere eletto papa Zaccaria ebbe modo <strong>di</strong> ricevere<br />

un’istruzione <strong>di</strong> livello elevato per l’epoca. Forse in famiglia dovette ricevere un’apprezzabile<br />

istruzione che certo perfezionò nei monasteri in cui risedette e nella stessa Roma. Aveva,<br />

infatti, ottima competenza oltre che in greco anche in latino e possedeva una biblioteca privata<br />

<strong>di</strong> co<strong>di</strong>ci liturgici, esegetici e teologici che in seguito donò alla Chiesa romana. Tradusse (o<br />

fece tradurre) in greco, per un pubblico che non conosceva il latino, i Dialoghi <strong>di</strong> Gregorio<br />

Magno, forse nella stessa Roma. L’opera, che gli è ascritta da una tra<strong>di</strong>zione consolidata, ebbe<br />

largo successo. Il genere letterario, infatti, la qualità del testo originale e indubbiamente<br />

anche la perfetta riuscita della traduzione ne garantirono la <strong>di</strong>ffusione e la circolazione fra i<br />

lettori nel mondo bizantino. La vita <strong>di</strong> san Benedetto, contenuta nel secondo libro, una volta<br />

tradotta in greco, fece conoscere il santo <strong>di</strong> Norcia in Oriente dove ancora oggi è venerato<br />

come santo (insieme all’autore della sua vita, san Gregorio Magno). Zaccaria stimava moltissimo<br />

l’archegeta del monachesimo latino e riteneva che non sfigurasse certo <strong>di</strong> fronte alle<br />

gran<strong>di</strong> personalità che avevano <strong>di</strong>ffuso il monachesimo in Oriente, ma fu anche un grande<br />

estimatore del monachesimo benedettino, nato dalla celebre Regula, <strong>di</strong> cui incoraggiò la<br />

<strong>di</strong>ffusione in tutta Europa: ne aveva compreso evidentemente il valore nella promozione dell’evangelizzazione<br />

e nella conservazione del patrimonio culturale del mondo antico.<br />

Gli ultimi anni<br />

Al tempo dell’elevazione regia <strong>di</strong> Pipino, Zaccaria era nuovamente alle prese con il problema<br />

longobardo in Italia. Nel 749 il re Ratchis, per ragioni che sfuggono, aveva rotto la tregua<br />

con l’Impero, assalendo la città <strong>di</strong> Perugia ed altri centri della Pentapoli. Zaccaria ripre-<br />

–46–


se subito il ruolo <strong>di</strong> protettore dei territori imperiali; recatosi coraggiosamente a Perugia,<br />

accompagnato da esponenti del clero romano, pose nuovamente in atto quelle sperimentate<br />

tecniche <strong>di</strong> persuasione alle quali sembra che i re longobar<strong>di</strong> non sapessero resistere. Infatti<br />

riuscì ancora una volta ad ottenere che il re togliesse l’asse<strong>di</strong>o alla città. Pochi giorni più<br />

tar<strong>di</strong>, anzi, Ratchis rinunciò al Regno e recatosi a Roma prese dalle mani del papa l’abito<br />

monastico, ritirandosi a Montecassino (così come Carlomanno si era ritirato a Sant’Andrea<br />

al Monte Soratte), mentre anche la moglie e la figlia entravano in monastero. In entrambe le<br />

iniziative <strong>di</strong> Ratchis influirono problemi interni del Regno longobardo, dove i fautori della<br />

lotta contro l’Impero bizantino dovevano essere forti. Subito dopo la sua ab<strong>di</strong>cazione, venne<br />

infatti eletto re suo fratello Astolfo, che riprese la politica aggressiva contro i territori bizantini<br />

e contro i ducati <strong>di</strong> Spoleto e Benevento. Agli inizi del 751 Astolfo conquistò Ravenna,<br />

apparentemente senza incontrare resistenza, ponendo fine così alla sovranità bizantina nell’Italia<br />

centrale. Non si ha notizia delle reazioni <strong>di</strong> Zaccaria a questi drammatici eventi; egli<br />

morì pochi mesi più tar<strong>di</strong>, il 15 marzo (giorno in cui ne viene festeggiata la memoria) del 752.<br />

Fu sepolto in San Pietro «in porticu pontificum».<br />

Del papa “a cui nessuno sapeva resistere”, ci resta il bel ritratto, eseguito mentr’egli era<br />

in vita, scoperto nella chiesa <strong>di</strong> Santa Maria Antiqua, ai pie<strong>di</strong> del Palatino: qui è raffigurato<br />

con il nimbus quadratus, i paramenti liturgici e in mano un libro incastonato da gemme preziose,<br />

capelli e barba nerissimi, sguardo penetrante. Ma il più bel ritratto <strong>di</strong> lui ce lo ha lasciato<br />

il Liber Pontificalis: «Vir mitissimus atque suavis, omnique bonitate ornatus, amator cleri et<br />

omni populi Romanorum, tardus ad irascendum et velox ad miserendum, nulli malum pro malo<br />

reddens, neque vin<strong>di</strong>cta secundum meritum tribuens, sed pius ac misericors, a tempore or<strong>di</strong>nationis<br />

suae omnibus factus, etiam et his qui ante sui fuerunt persecutores bona pro malis<br />

red<strong>di</strong><strong>di</strong>t, eosque honoribus promovens simul et facultate <strong>di</strong>tavit».<br />

–47–


Sezione <strong>di</strong>dattica<br />

(collaborazioni degli studenti)


LICIA FIERRO<br />

Introduzione ai progetti<br />

realizzati dagli alunni <strong>di</strong> II e III B<br />

per l’anno scolastico <strong>2008</strong>-2009<br />

Il Dipartimento XImo del Comune <strong>di</strong> Roma che da molti anni si occupa <strong>di</strong> progetti<br />

speciali per la scuola superiore, ha presentato per il corrente anno scolastico il tema:<br />

“Natura e natura umana, arti e pensiero”. Sulla base <strong>di</strong> tale traccia è stata costruita e<br />

proposta una vera e propria rete <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>menti particolari in modo che gli insegnanti<br />

fossero in grado <strong>di</strong> renderli omogenei e integrabili nei vari ambiti curricolari a seconda dell’in<strong>di</strong>rizzo<br />

delle scuole e delle esigenze <strong>di</strong> inter<strong>di</strong>sciplinarietà. I seminari cui si poteva partecipare<br />

hanno riguardato la musica, la letteratura, la storia, la politica, attraverso il filtro<br />

unificante della filosofia.<br />

Infatti l’iniziativa del Dipartimento XImo ha la sua ragion d’essere nella collaborazione<br />

con la Società Filosofica e le facoltà <strong>di</strong> Storia e Filosofia dell’Università Roma Tre che mette<br />

a <strong>di</strong>sposizione molti suoi docenti e materiale <strong>di</strong> ricerca.<br />

L’organizzazione del progetto ha previsto, come negli anni precedenti, un seminario <strong>di</strong><br />

formazione della durata <strong>di</strong> due giorni con carattere introduttivo e formativo presso l’Università<br />

<strong>di</strong> Roma Tre nel mese <strong>di</strong> ottobre. In quella occasione i partecipanti hanno potuto usufruire<br />

<strong>di</strong> lezioni specialistiche utili per orientare la scelta dei singoli percorsi con molti spunti per<br />

correlare e articolare le possibili connessioni inter e pluri<strong>di</strong>sciplinari in vista dello svolgimento<br />

<strong>di</strong> un lavoro comune. Alle relazioni frontali, si è accompagnata un’ampia documentazione<br />

bibliografica, dossier, filmati e molti contribuiti adattati con gli strumenti della multime<strong>di</strong>alità<br />

alle esigenze della <strong>di</strong>dattica.<br />

I docenti del corso B, coinvolti nel progetto, hanno poi raccolto e or<strong>di</strong>nato tutto il materiale<br />

messo a loro <strong>di</strong>sposizione. Essi hanno concordato l’argomento specifico su cui le due<br />

classi avrebbero lavorato tenendo conto delle scelte curricolari e dei settori in cui si richiede<br />

una maggiore integrazione dei contenuti culturali.<br />

Le professoresse hanno organizzato lezioni in copresenza per presentare e spiegare agli<br />

alunni i termini del progetto, le modalità e i tempi <strong>di</strong> svolgimento <strong>di</strong> esso anche in orario<br />

extra-scolastico.<br />

Tutto il lavoro preliminare ha consentito <strong>di</strong> sud<strong>di</strong>videre i compiti tra gli studenti stabilendo<br />

le varie fasi del monitoraggio dei risultati parziali dell’indagine.<br />

Tra le varie proposte del Dipartimento e dell’Università Roma Tre abbiamo scelto, con<br />

i ragazzi, <strong>di</strong> aderire ad incontri con professori universitari nella forma <strong>di</strong> conferenze e le visite<br />

ad alcune mostre con la guida <strong>di</strong> personale specializzato. Gli studenti, fin da subito, hanno<br />

fotocopiato il materiale necessario alla ricerca e si sono anche abituati a frequentare biblioteche,<br />

ad utilizzare in modo intelligente Internet, specie per arricchire l’apparato bibliografico<br />

<strong>di</strong> riferimento.<br />

La classe II B ha in<strong>di</strong>viduato come argomento specifico <strong>di</strong> ricerca “Natura fisica e natura<br />

morale nel mondo greco-romano e in alcune moderne rielaborazioni”.<br />

Di fronte alla rielaborazione <strong>di</strong> un tema così complesso qual è quello della natura umana,<br />

i ragazzi hanno voluto anzitutto leggerne lo sviluppo entro alcune coor<strong>di</strong>nate <strong>di</strong> fondo per<br />

uscire da astrattezze teoriche e facili generalizzazioni.<br />

–51–


Se l’indagine sulla natura umana è cominciata già in età arcaica, sono stati, però i greci,<br />

a scoprire e a riconoscere in essa libertà e razionalità attribuendo all’uomo il primato e insieme<br />

il potere <strong>di</strong> dare un senso alle cose.<br />

Anche al naturalismo dei presocratici, per quanto se ne voglia decantare l’oggettivismo,<br />

non è estranea la considerazione dell’anima umana e dei suoi introvabili confini “tanto è profondo<br />

il suo logos”.<br />

Nella prima parte della loro ricerca, gli studenti si sono impegnati a rintracciare elementi<br />

<strong>di</strong> continuità nell’idea greco-romana <strong>di</strong> uomo partendo dalla filosofia ellenistica. Lo stu<strong>di</strong>o<br />

del mondo fisico, la perfetta conoscenza delle sue strutture è con<strong>di</strong>zione per liberare l’uomo<br />

dalla paura, per esaltare <strong>di</strong> fatto la superiorità della sua natura morale e della sua razionalità<br />

che nessuna forza estranea può intaccare o <strong>di</strong>struggere. Nell’epicureismo, la ricetta della vita<br />

felice consiste in tale consapevolezza che si traduce in saggezza pratica, piacere catastematico,<br />

atarassia.<br />

La traduzione poetica del messaggio epicureo nel “De rerum natura” <strong>di</strong> Lucrezio ha<br />

quasi naturalmente condotto gli studenti a scoprire i mo<strong>di</strong> con cui Roma ha recepito e integrato<br />

nella sua cultura i concetti <strong>di</strong> natura fisica e natura morale. In questa sezione il lavoro<br />

si arricchisce del commento delle fonti e <strong>di</strong> una ricca, articolata lettura critica <strong>di</strong> esse alla luce<br />

delle varie interpretazioni storiografiche.<br />

Dai romani, al cristianesimo, al tardo me<strong>di</strong>oevo, al rinascimento, fino a Marx e alla sua<br />

tesi <strong>di</strong> laurea si forniscono esempi <strong>di</strong> equivocità ed ambivalenze cui si è prestata, suo malgrado,<br />

la “soluzione epicurea”.<br />

A prezzo <strong>di</strong> un salto inevitabile nel tempo, giustificato dall’esigenza <strong>di</strong> collegare le elaborazioni<br />

classiche al medesimo tema trattato e stu<strong>di</strong>ato nel pensiero moderno, gli studenti<br />

hanno rivolto l’attenzione alle filosofie <strong>di</strong> Hobbes e Hume in cui più ar<strong>di</strong>tamente si intrecciano<br />

e si complicano libertà e necessità, ragione e sentimento, morale e politica.<br />

Rispetto alle certezze antiche, la concezione dell’uomo come creatura imperfetta, il <strong>di</strong>vario<br />

tra la sottigliezza formale della ragione e la compresenza delle passioni aprono nuovi scenari<br />

e prospettive. Una natura umana debole e bisognosa, riconosciuta in sé come negli altri,<br />

in un rapporto <strong>di</strong> forza o <strong>di</strong> simpatia, deve comunque proteggersi nell’aggregazione sociale.<br />

In ultimo l’analisi è completata, o meglio trova un approdo in riferimenti alla sociobiologia,<br />

ovvero al possibile collegamento tra l’evoluzione culturale e quella genetica; ne emerge<br />

una natura umana in cui razionalità e pulsioni, egoismo ed altruismo interagiscono in perenne,<br />

instabile equilibrio.<br />

Gli studenti hanno ascoltato con ottimo frutto la conferenza sull’epicureismo tenuta dal<br />

professore Spinelli (titolare della cattedra <strong>di</strong> filosofia antica nella facoltà <strong>di</strong> Filosofia a Villa<br />

Mirafiori) ed hanno visitato la mostra su Giovanni Bellini alle Scuderie del Quirinale. Hanno<br />

imparato, soprattutto, che l’impegno nello stu<strong>di</strong>o può <strong>di</strong>ventare scelta e patrimonio comune<br />

<strong>di</strong> conoscenze e <strong>di</strong> pensieri.<br />

Questo piccolo saggio sarà presentato nella forma <strong>di</strong> un Dossier nella Sala Stampa dell’Au<strong>di</strong>torium<br />

Parco della Musica il prossimo 30 maggio e gli alunni riceveranno un attestato<br />

<strong>di</strong> merito da parte degli Enti che hanno promosso il progetto.<br />

La classe III B ha scelto <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re il tema dando ad esso come titolo: “Il concetto<br />

<strong>di</strong> umanità, natura, tra<strong>di</strong>zione, rivoluzione”.<br />

Gli studenti <strong>di</strong> questa classe, già ricchi dell’esperienza dell’anno passato, si sono interessati,<br />

anzitutto, alle varie possibilità <strong>di</strong> tradurre in un argomento specifico la traccia generale<br />

proposta dal Dipartimento XImo e dalla Società Filosofica.<br />

Mossi dall’esigenza <strong>di</strong> conciliare lo stu<strong>di</strong>o in oggetto con i contenuti dei programmi<br />

curricolari e con la necessità <strong>di</strong> allargarne i confini in vista dell’esame <strong>di</strong> stato, essi hanno<br />

–52–


inteso ripercorrere il concetto <strong>di</strong> umanità ponendone in risalto i fondamenti teorici e gli<br />

sviluppi nella molteplicità delle <strong>di</strong>rezioni in cui più squisitamente si articola la trama delle<br />

relazioni intersoggettive.<br />

Tale prospettiva appare quanto mai attuale nel tempo nostro <strong>di</strong> risorta xenofobia, <strong>di</strong> razzismo<br />

strisciante, <strong>di</strong> superba arroganza dell’io padrone della tecnica, sempre più <strong>di</strong>mentico<br />

dell’Essere e della comune appartenenza al genere umano.<br />

Nella prima parte dell’anno scolastico, proprio contemporaneamente a questa scelta <strong>di</strong><br />

lavoro, è stato celebrato con varie manifestazioni il sessantesimo anniversario della Dichiarazione<br />

Universale dei Diritti Umani e i ragazzi, non solo vi hanno partecipato, ma ne hanno<br />

tratto ulteriore motivazione per orientarsi in questo <strong>di</strong>fficile cammino sull’evoluzione del<br />

concetto <strong>di</strong> umanità.<br />

Autonomi nella <strong>di</strong>visione in gruppi e nei singoli compiti da assolvere, gli studenti hanno<br />

utilizzato il materiale fornito dagli insegnanti e dagli Enti <strong>di</strong> riferimento arricchendo la bibliografia<br />

e la documentazione in corso d’opera.<br />

Partendo dagli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> G. Marramao, in particolare sui rapporti tra oriente ed occidente<br />

in cui si è configurata, per lunga tra<strong>di</strong>zione, la <strong>di</strong>stanza tra una società fin dall’origine non<br />

libera, dove la tirannide sarebbe legittima forma <strong>di</strong> governo, ed una società europea-libera<br />

dove questo regime sarebbe illegittimo, l’analisi si è sviluppata intorno alle figure teoretiche<br />

e politiche elaborate in ambiente greco-romano.<br />

La rilettura del concetto <strong>di</strong> umanità nell’età umanistico-rinascimentale ha consentito <strong>di</strong><br />

aprire il <strong>di</strong>scorso sul mutamento della con<strong>di</strong>zione umana anche attraverso le nuove scoperte<br />

della scienza e lo slargarsi dei confini del mondo.<br />

Il conflitto tra l’Europa, ricca del suo patrimonio antico e consolidato <strong>di</strong> humanae litterae<br />

e gli “omuncoli” <strong>di</strong> cui parla Sepulveda, esplode nella coraggiosa denuncia <strong>di</strong> B. de Las Casas<br />

nella sua “Brevissima relazione della <strong>di</strong>struzione delle In<strong>di</strong>e”.<br />

Nella seconda parte <strong>di</strong> questa ricerca si è voluto per un verso seguire il corso dell’antropologia<br />

filosofica e per l’altro sottolinearne qualche traduzione poetico-letteraria. Per il primo<br />

aspetto i riferimenti sono a Ghelen e Plessner dalle cui opere si ricava una concezione dell’uomo<br />

come essere manchevole, bisognoso, impreparato e tuttavia capace <strong>di</strong> <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> sé<br />

e del mondo sperimentando nuove tecniche “intellettuali” in una incessante processualità.<br />

Trova spazio nella moderna antropologia una lettura critica del darwinismo ed una considerazione<br />

dell’uomo come essere che è corpo, ma è anche “fuori del corpo”, in grado <strong>di</strong> proiettarsi<br />

al <strong>di</strong> là, <strong>di</strong> vedere dal <strong>di</strong> fuori la sua stessa vita. Precarietà, contingenza, inquietu<strong>di</strong>ne lo<br />

attanagliano, mentre è spinto verso una <strong>di</strong>mensione superiore che in gran parte gli resterà<br />

ignota.<br />

Quale sarà il futuro: l’uomo tecnologicamente mo<strong>di</strong>ficato trionferà davvero, come asseriscono<br />

i transumanisti? Troveremo ancora qualche sollievo nella poesia?<br />

Tante le ipotesi che filosofi, scienziati, sociologi hanno già elaborato. Le tecnoscienze e<br />

la tecnoetica, l’ingegneria genetica e la bioetica, la robotica e la roboetica: il novecento ha<br />

lasciato alle nuove generazioni il compito <strong>di</strong> decidere sui vantaggi e i limiti delle ultime<br />

conquiste umane. È già in atto la rivoluzione del concetto <strong>di</strong> umanità. Su questo ed altro<br />

abbiamo ragionato alla fine <strong>di</strong> questa breve ricerca che sarà presentata, in forma <strong>di</strong> Dossier e<br />

riassunta in DVD, il prossimo 30 maggio nella Sala Stampa dell’Au<strong>di</strong>torium Parco della<br />

Musica. In quella occasione i ragazzi <strong>di</strong> entrambe le classi riceveranno un attestato <strong>di</strong> merito<br />

da parte degli Enti che hanno promosso il progetto.<br />

–53–<br />

Licia Fierro<br />

Coor<strong>di</strong>natrice del Progetto


LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA<br />

Natura fisica e natura morale<br />

nel mondo grecoromano<br />

e in alcune moderne rielaborazioni<br />

– Progetto: Roma per vivere, Roma per pensare –<br />

(anno scolastico <strong>2008</strong>-2009)<br />

CLASSE II B<br />

Coor<strong>di</strong>natrice: Prof.ssa Licia Fierro - Collaboratrice: Prof.ssa Alda Giannì<br />

GLI ALUNNI:<br />

Marina Amadori - Laura Arista - Alessandra Bellegran<strong>di</strong> - Edoardo Citta<strong>di</strong>ni - Giulia Cossu<br />

Giovanna Fasano - Giulia Feroleto - Ilaria Ferrara - Francesca Generali<br />

Giulia Giannini - Andrea Miniagio - Maria Palermo - Flavia Parisi - Marta Santaniello<br />

Veronica Santoni - Flavia Torelli - Francesca Vernile - Alessandra Zianni.<br />

INDICE:<br />

INTRODUZIONE.<br />

CAPITOLO I<br />

1.1 Lo stu<strong>di</strong>o della natura come presupposto della vuta felice.<br />

CAPITOLO II<br />

2.1 Nel connubio <strong>di</strong> poesia e filosofia. il rischiaramento e la liberazione da ogni paura.<br />

Lucrezio e l’Epicureismo a Roma; Lucrezio e la natura; Lucrezio e l’anima;<br />

Lucrezio e la morte; Lucrezio e gli dei; Lucrezio e l’amore; Lucrezio e il progresso.<br />

CAPITOLO III<br />

3.1 Il conflitto inmanente alla natura umana e le necessità delle regole nel pensiero <strong>di</strong> Hobbes e Hume.<br />

INTRODUZIONE<br />

L’elaborazione del concetto <strong>di</strong> natura umana è universalmente attribuita ai filosofi greci:<br />

è infatti in Grecia che l’indagine sull’uomo si è approfon<strong>di</strong>ta, a partire dalla Sofistica, per poi<br />

influenzare tutta la storia del pensiero successivo. Quest’idea del primato della cultura greca<br />

rispetto alle altre non è con<strong>di</strong>visa da tutti, infatti alcuni stu<strong>di</strong>osi 1 ritengono che, per affermare<br />

ciò, si dovrebbe avere una panoramica del pensiero sviluppatosi, parallelamente a quello<br />

greco, in Oriente. Tuttavia, se è vero che non si può affermare con sicurezza che i Greci<br />

furono i primi in assoluto a riempire <strong>di</strong> contenuti l’idea astratta <strong>di</strong> “uomo”, è pur vero che<br />

furono loro ad associare all’idea <strong>di</strong> “uomo” quelle <strong>di</strong> “libertà” e “razionalità”, che contrad<strong>di</strong>stinguono<br />

il concetto <strong>di</strong> umanità che ancora oggi è alla base della cultura occidentale. Il<br />

problema da porsi, a questo punto è quale sia stato il percorso del pensiero greco, e come<br />

1 E. Berti, In principio era la meraviglia, Le gran<strong>di</strong> questioni della filosofia antica, Roma-Bari, Laterza, 2007,<br />

cap. IV.<br />

–54–


l’indagine sulla natura umana si sia evoluta dall’età arcaica, passando per l’età classica, per<br />

poi giungere, attraverso l’età ellenistica, ad influenzare la cultura romana e quella occidentale<br />

in genere.<br />

Dando cre<strong>di</strong>to alle teorie <strong>di</strong> Hegel, 2 la filosofia greca si sarebbe espressa inizialmente in<br />

termini <strong>di</strong> naturalismo ed oggettivismo, impegnandosi principalmente in un’indagine fisica<br />

dell’universo, e concependo “lo spirito come identico alla natura, e il soggetto come identico<br />

all’oggetto”. 3 Successivamente, passando attraverso l’astratto soggettivismo dei Sofisti e <strong>di</strong><br />

Socrate, sarebbe pervenuta all’idealizzazione (Platone) e poi alla concretizzazione (Aristotele)<br />

del concetto <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduo. Il “naturalismo” dei presofisti, si contrapporrebbe dunque all’“umanismo”<br />

dei filosofi successivi. Tuttavia, è possibile in<strong>di</strong>viduare altre interpretazioni, 4 secondo<br />

le quali vi è un’attenzione all’uomo ed un “sentimento antropocentrico della vita” 5 in ogni<br />

espressione della cultura greca, dall’indagine presocratica sulla natura, alle arti figurative, dall’oratoria<br />

alla filosofia classica: i greci sono dunque sempre stati scrupolosi osservatori della<br />

natura umana, benché non abbiano formulato fin dall’inizio quella domanda, “Che cos’è<br />

l’uomo?”, che soltanto Socrate avrebbe posto ad Alcibiade nel celebre <strong>di</strong>alogo platonico. 6<br />

I greci hanno sempre avuto una grande considerazione dell’uomo, ne è una prova il fatto<br />

che furono tra i primi a rappresentare le loro <strong>di</strong>vinità, modello ideale <strong>di</strong> perfezione, in forma<br />

umana. La convinzione della superiorità dell’uomo rispetto a tutti gli altri esseri viventi si può<br />

ritrovare anche nelle dottrine dei fisici presocratici, come ad esempio Anassimene ed Eraclito,<br />

i quali, in<strong>di</strong>viduato quello che per loro è l’elemento <strong>di</strong>vino, principio <strong>di</strong> tutte le cose, affermano<br />

che <strong>di</strong> questo stesso elemento è composta l’anima umana. E così, mentre per Anassimene,<br />

“proprio come la nostra anima, che è aria, ci sostiene e ci governa, così il soffio e l’aria abbracciano<br />

il cosmo intero”, 7 Eraclito invece attribuisce all’anima un’importanza particolare,<br />

che la <strong>di</strong>stingue da tutto ciò che ha confini: “I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per<br />

quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos”. 8 È dunque evidente che <strong>di</strong>etro ogni<br />

stu<strong>di</strong>o meramente fisico, intrapreso da questi primi pensatori, si cela un interesse nei confronti<br />

dell’uomo e della sua anima, che si evolverà nel corso del tempo, fino all’età classica, quando<br />

il “problema uomo” <strong>di</strong>venterà elemento centrale nell’indagine filosofica.<br />

Con la Sofistica, si ha, per così <strong>di</strong>re, la “scoperta della natura umana”: 9 l’uomo <strong>di</strong>venta<br />

il centro <strong>di</strong> ogni speculazione filosofica, nell’ambito <strong>di</strong> un’istituzione politica che valorizza<br />

l’in<strong>di</strong>viduo, con le sue capacità e potenzialità. Ecco dunque che con Protagora l’uomo <strong>di</strong>venta<br />

“misura <strong>di</strong> tutte le cose: <strong>di</strong> quelle che sono per ciò che sono, <strong>di</strong> quelle che non sono, per ciò<br />

che non sono”, 10 mentre Antifonte introduce il concetto <strong>di</strong> una comune natura umana, in virtù<br />

della quale non esistono <strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> classe sociale o <strong>di</strong> nazionalità: “<strong>di</strong> natura tutti siamo<br />

assolutamente uguali, sia Greci che barbari”. 11<br />

È però Socrate che per primo dà una risposta precisa alla domanda “Che cos’è l’uomo?”,<br />

affermando che l’uomo è anima, in quanto essa governa il corpo; dal momento poi che la virtù<br />

2 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, trad. <strong>di</strong> E. Co<strong>di</strong>gnola e G. Sanna, La nuova Italia, Firenze<br />

1930, pp. 182-183.<br />

3 E. Berti, op. cit.<br />

4 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, trad. it., Firenze, 1936-1959<br />

5 ivi, pp. 10-15.<br />

6 Platone, Alcibiade I, 129 e-130.<br />

7 Anassimene, B 2.<br />

8 Eraclito, B 45.<br />

9 E. Berti, op. cit.<br />

10 Protagora, B 1.<br />

11 Vorsokr. Fr. 87 B 44, col. 2.<br />

–55–


per eccellenza è la scienza, per anima egli non può che intendere la ragione. L’uomo però è<br />

anche “animale politico”, in quanto naturalmente portato a riunirsi in società e a relazionarsi<br />

con i suoi simili.<br />

Con Platone, e successivamente Aristotele, le teorie sulla natura umana e sull’anima si<br />

fanno articolate e complesse: entrambi tuttavia, come lo stesso Socrate ha fatto, pongono<br />

l’accento sulla razionalità dell’anima umana. La ragione <strong>di</strong>stingue l’uomo dal resto degli<br />

animali: l’anima intellettiva, in Platone, 12 governa gli istinti dell’anima concupiscente, e guida<br />

l’uomo verso la verità e la sapienza; l’anima, per Aristotele “atto primo <strong>di</strong> un corpo che<br />

ha la vita in potenza”, 13 caratterizza l’uomo in quanto razionale, e sopravvive a quella vegetativa<br />

e sensitiva, <strong>di</strong>stinguendosi, nell’atto conoscitivo, tra intelletto passivo ed attivo.<br />

In età ellenistica, infine, lo stu<strong>di</strong>o sulla natura umana subor<strong>di</strong>na a sé ogni campo del<br />

sapere: i cambiamenti politici, il senso <strong>di</strong> instabilità e la per<strong>di</strong>ta della libertà portano i Greci,<br />

che da citta<strong>di</strong>ni sono <strong>di</strong>ventati sud<strong>di</strong>ti, a cercare sicurezza al riparo <strong>di</strong> dottrine che possano<br />

rasserenare gli animi. Ecco dunque che gli Stoici propongono l’idea <strong>di</strong> un universo, dominato<br />

da leggi immanenti e da un or<strong>di</strong>ne provvidenziale, esistente in funzione dell’uomo che, dotato<br />

<strong>di</strong> un’anima identificata con un soffio caldo e fuoco, materializzazione del logos, è simile agli<br />

dei e superiore ad ogni altro essere vivente.<br />

Completamente <strong>di</strong>versa è la risposta epicurea alle domande dell’uomo ellenistico. Non<br />

esiste fiducia alcuna nell’or<strong>di</strong>ne immanente dell’universo, che è composto <strong>di</strong> atomi così come<br />

lo è l’uomo, e che dunque non è affatto ad uso e consumo <strong>di</strong> quest’ultimo, ma è come lui<br />

soggetto ai moti <strong>di</strong> aggregazione e <strong>di</strong>sgregazione degli elementi che lo costituiscono. Con<br />

Epicuro, lo stu<strong>di</strong>o della natura <strong>di</strong>venta in<strong>di</strong>spensabile per poter in<strong>di</strong>viduare il corretto comportamento<br />

da seguire. La vita felice si può ottenere attraverso la retta conoscenza dei principi<br />

dell’universo e la serena accettazione <strong>di</strong> essi. Sulla base <strong>di</strong> questi principi si costruisce<br />

l’etica epicurea, che identifica, con maggiore chiarezza rispetto a tutte quelle elaborate nel<br />

corso del pensiero greco, i profon<strong>di</strong> legami esistenti tra la natura fisica e la natura morale.<br />

L’epicureismo dunque, in virtù <strong>di</strong> un ra<strong>di</strong>cale materialismo, libera gli uomini dal timore della<br />

morte e degli dei, e li rende pienamente consapevoli della brevità e provvisorietà del dolore<br />

e della raggiungibilità del piacere.<br />

Dal mondo greco, il pensiero epicureo raggiunge Roma e trova in Lucrezio il suo più<br />

grande profeta. I duri e “fangosi” precetti della dottrina vengono sublimati dal linguaggio<br />

metaforico ed evocativo della poesia, in modo tale che possano costituire vere e proprie linee<br />

guida per il rischiaramento e la liberazione da ogni paura.<br />

L’idea greco-romana <strong>di</strong> uomo, infine, contribuisce alla formazione <strong>di</strong> un pensiero cristiano<br />

che si fonda principalmente sul concetto <strong>di</strong> umanità presente nel Vecchio e Nuovo Testamento.<br />

Questa sintesi tra elementi appartenenti alla tra<strong>di</strong>zione greca, in particolare platonica<br />

e stoica, e a quella giudaico-cristiana, si impone nel corso del me<strong>di</strong>oevo ed ha larga influenza<br />

anche sul pensiero dell’età moderna. Nel campo artistico, la figura umana rappresentata<br />

è quella proposta dalla religione cristiana, e i soggetti più ricorrenti sono personaggi biblici<br />

ed evangelici. Con il Rinascimento, inoltre, la figura umana <strong>di</strong>venta decisamente centrale<br />

rispetto al resto degli elementi raffigurati, e negli artisti del Quattrocento, tra i quali in particolare<br />

Giovanni Bellini, 14 prevale un simbolismo che si esprime nella forza emotiva del volto<br />

12 Platone, Fedro, 246 a-b.<br />

13 Aristotele, Dell’anima II, 1, 412 a, 27-28.<br />

14 Giovanni Bellini, (Venezia 1430-1516) fu uno dei maggiori pittori italiani quattrocenteschi. Le sue opere rappresentano<br />

per lo più episo<strong>di</strong> della vista <strong>di</strong> Gesù, con una particolare pre<strong>di</strong>lezione per la Crocifissione e per le Madonne,<br />

prodotte spesso in serie.<br />

–56–


dei soggetti e dello stesso paesaggio <strong>di</strong> sfondo, che assume caratteri evocativi e spirituali.<br />

L’uomo viene rappresentato nel segno <strong>di</strong> uno spiccato realismo che mira anche a far risaltare<br />

il profondo legame con il <strong>di</strong>vino. 15<br />

Le prime forme <strong>di</strong> innovazione sul concetto <strong>di</strong> natura umana si ravvisano nel corso della<br />

Rivoluzione Scientifica, in cui per la prima volta, dopo molto tempo, si cominciano a mettere<br />

in <strong>di</strong>scussione i dogmi aristotelico-scolastici, sia nel campo dell’indagine scientifica, sia in<br />

quello della speculazione filosofica.<br />

Con Thomas Hobbes 16 l’idea tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> uomo come “animale politico” viene decisamente<br />

ribaltata. L’uomo non è naturalmente portato a socializzare e a rapportarsi con i suoi<br />

simili, perché il suo stato <strong>di</strong> natura è <strong>di</strong> bellum omnium contra omnes. 17 È uno stato dal quale<br />

l’uomo può emergere soltanto facendo appello a quella parte razionale <strong>di</strong> sé, la ratio naturalis<br />

che è fondamento della legge naturale, assente nello stato <strong>di</strong> natura, in cui domina il <strong>di</strong>ritto<br />

<strong>di</strong> natura, espressione della cupi<strong>di</strong>tas naturalis. Non è dunque l’amore verso il prossimo, ma<br />

la capacità <strong>di</strong> previsione, e l’istinto <strong>di</strong> auto-conservazione, che spingono l’uomo a rinunciare<br />

ai suoi <strong>di</strong>ritti naturali, e a tradurli nella figura <strong>di</strong> un sovrano, che li eserciterà a suo piacimento<br />

e che sarà, oltre che autorità politica, anche guida morale. L’uomo quin<strong>di</strong>, riunendosi in società,<br />

rinuncia ai suoi principi etici, che saranno imposti solo ed esclusivamente dallo stato.<br />

Nell’ambito della corrente dell’Illuminismo settecentesco, è possibile trovare nuove<br />

rielaborazioni del concetto <strong>di</strong> natura umana, che nascono da un desiderio <strong>di</strong> comprensione<br />

dell’uomo e delle sue potenzialità razionali, nel segno <strong>di</strong> un maggior ottimismo e rigore analitico.<br />

David Hume 18 si colloca tra i principali stu<strong>di</strong>osi della natura umana, deciso ad approfon<strong>di</strong>rla<br />

prendendo in considerazione ogni suo aspetto, positivo e negativo. Ecco dunque che,<br />

contrariamente a Hobbes, Hume considera l’uomo un essere imperfetto, in balia <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse<br />

passioni, che possono condurlo sia bene che al male, e non sempre guidato nel suo comportamento<br />

dalla ragione. 19 Di particolare importanza è il concetto <strong>di</strong> simpatia, 20 attraverso il quale<br />

il filosofo pone l’accento sul bisogno degli uomini <strong>di</strong> stare a contatto con i propri simili, e <strong>di</strong><br />

ricevere da essi approvazione. Pur tenendo in considerazione che gli uomini sono più inclini<br />

a perseguire i propri vantaggi piuttosto che gli interessi comuni, questa idea <strong>di</strong> simpatia tra gli<br />

uomini ricorda sotto alcuni aspetti l’idea aristotelica dell’uomo come zòon politikòn.<br />

Nel corso del tempo, dunque, l’idea <strong>di</strong> natura umana è cambiata molto, sia nell’ambito<br />

della speculazione filosofica che in quello della rappresentazione artistica, ed è, al giorno<br />

d’oggi, oggetto <strong>di</strong> un <strong>di</strong>battito che, sotto molti aspetti, risulta ancora irrisolto. Facendo tesoro<br />

delle fonti e delle in<strong>di</strong>cazioni bibliografiche forniteci dalle insegnanti, e degli approfon<strong>di</strong>menti<br />

dei quali abbiamo avuto la possibilità <strong>di</strong> avvalerci, la conferenza del Prof. Spinelli sull’Epicureismo<br />

e la mostra <strong>di</strong> Giovanni Bellini tenutasi presso le Scuderie del Quirinale, abbiamo<br />

scelto <strong>di</strong> costruire un percorso dal titolo: “Natura fisica e natura morale nel mondo grecoromano<br />

e in alcune moderne rielaborazioni” Partendo dall’identificazione <strong>di</strong> natura fisica<br />

e natura morale proposta dalla dottrina epicurea, abbiamo approfon<strong>di</strong>to gli aspetti <strong>di</strong> tale<br />

dottrina nell’ambito della sua <strong>di</strong>ffusione a Roma ad opera <strong>di</strong> Lucrezio, per poi soffermarci<br />

sulle rielaborazioni che il concetto <strong>di</strong> natura umana ha subito in epoca moderna, nel pensiero<br />

<strong>di</strong> Hobbes e Hume.<br />

15 S. Wepplemann, A lunga memoria degli aspetti e delle conoscenze loro:Giovanni Bellini, pittore <strong>di</strong> ritratti privati,<br />

<strong>2008</strong>.<br />

16 Thomas Hobbes, (Malmesbury, 5 aprile 1588 - Hardwick hall, 4 <strong>di</strong>cembre 1679).<br />

17 Hobbes, De cive, 1, 12.<br />

18 David Hume, (E<strong>di</strong>mburgo, 26 aprile 1711 - E<strong>di</strong>mburgo, 25 agosto 1776).<br />

19 David Hume, Scritti Morali, E<strong>di</strong>trice La Scuola, p. 69-70.<br />

20 ivi, p. 71.<br />

–57–


CAPITOLO I<br />

1.1 LO STUDIO DELLA NATURA<br />

COME PRESUPPOSTO<br />

DELLA VITA FELICE IN EPICURO<br />

Il periodo storico che fa da sfondo alla vita <strong>di</strong> Epicuro è caratterizzato dall’avvento dell’ellenismo:<br />

la cultura greca impone la sua egemonia, affermandosi prepotentemente come<br />

strumento <strong>di</strong> unificazione del mondo antico. Alla grande fioritura culturale si contrappone una<br />

situazione <strong>di</strong> decadenza a livello politico; le continue lotte intestine determinano, alla morte<br />

<strong>di</strong> Alessandro Magno (323 a.C.), la frantumazione del suo impero in regni. Le trasformazioni<br />

socio-politiche dell’età post-alessandrina hanno notevoli ripercussioni sulla vita culturale<br />

ellenistica. La polis decade: la trasformazione dei citta<strong>di</strong>ni in sud<strong>di</strong>ti, la coesistenza <strong>di</strong> genti<br />

<strong>di</strong>verse e l’impossibilità della partecipazione attiva al governo dello stato sono i fattori determinanti<br />

<strong>di</strong> importanti mutamenti nella coscienza in<strong>di</strong>viduale che si riflettono nella vita<br />

culturale. Si <strong>di</strong>ffonde da un lato la tendenza sempre maggiore alla scoperta dell’in<strong>di</strong>viduo ed<br />

alla netta <strong>di</strong>stinzione fra etica e politica; dall’altro si attenua la <strong>di</strong>ffidenza nei confronti della<br />

<strong>di</strong>versità etnica e culturale, e ciò favorisce la <strong>di</strong>ffusione dell’ideale cosmopolita, <strong>di</strong>ssolvendo<br />

l’antica equazione tra uomo e citta<strong>di</strong>no. È in questo scenario <strong>di</strong> incessanti stravolgimenti<br />

che il filosofo del giar<strong>di</strong>no tenta <strong>di</strong> fornire la risposta all’inquietu<strong>di</strong>ne intrinseca all’uomo: la<br />

filosofia assume una funzione strumentale, finalizzata al perseguimento della felicità.<br />

La filosofia ellenistica è soteriologia, ovvero incarna la volontà <strong>di</strong> mostrare all’uomo<br />

il cammino per il raggiungimento dell’eudaimonìa. Il pensiero epicureo è stato presentato<br />

come un “vangelo laico”, in cui il termine vangelo, spogliato <strong>di</strong> ogni carattere religioso,<br />

assume il significato <strong>di</strong> buona novella. Inoltre rappresenta l’unica filosofia del mondo capace<br />

<strong>di</strong> accogliere tutti i tipi <strong>di</strong> uomini e donne, senza <strong>di</strong>stinzioni. Di qui la scelta dell’utilizzo<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenti modalità comunicative atte a rendere concreta la trasmissione del messaggio<br />

“Non aspetti il giovane a filosofare, né il vecchio <strong>di</strong> filosofare si stanchi: nessuno è troppo<br />

giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima”. 21<br />

L’intento <strong>di</strong> Epicuro è <strong>di</strong> realizzare una sintesi delle sue opere maggiori per delineare i<br />

principi fondamentali della sua dottrina. Dal momento che il proce<strong>di</strong>mento fondamentale<br />

consiste nell’essere in grado <strong>di</strong> utilizzare le proprie conoscenze in maniera costruttiva, è<br />

necessario ridurre l’intera dottrina in definizioni semplici. Epicuro considera fondamentale<br />

nel processo conoscitivo apprendere con chiarezza ciò che è “al fondo delle parole”, perché<br />

solo in questo modo è possibile <strong>di</strong>scorrere su tutto senza generare confusione. In secondo<br />

luogo bisogna trovare un punto <strong>di</strong> riferimento per la risoluzione <strong>di</strong> un qualsiasi problema o<br />

questione. Ogni nostra conoscenza deve essere basata sulla sensazione, criterio <strong>di</strong> verità, garantita<br />

dalla stessa struttura atomica del mondo. È necessario procedere con il ragionamento<br />

e con l’analogia dal noto all’ignoto, da ciò che è sensibilmente attestato “all’induzione delle<br />

verità che non cadono sotto i sensi”. 22 La sensazione è il fondamento necessario alla <strong>di</strong>mostrazione<br />

attraverso il ragionamento <strong>di</strong> ciò che non è percepibile con i sensi. La stessa attesta<br />

l’esistenza dei corpi, che insieme con il vuoto rappresentano gli elementi costitutivi dell’universo.<br />

I corpi materiali sono <strong>di</strong>visibili, ma fino ad un certo limite, oltre i quale non possono<br />

essere ulteriormente <strong>di</strong>visi: perciò i primi elementi debbono <strong>di</strong> necessità essere sostanze<br />

corporee in<strong>di</strong>visibili, queste sostanze sono gli atomi. Gli atomi si presentano con i caratteri<br />

21 Epicuro, lettera a Meneceo, Bur, 2006, pag. 143, paragfr. 122.<br />

22 Epicuro, lettera a Erodoto, Bur, 2006, pag. 71, paragfr. 39.<br />

–58–


<strong>di</strong> in<strong>di</strong>visibilità e immutabilità. È inoltre possibile concepire che vi sia un numero infinito <strong>di</strong><br />

mon<strong>di</strong> <strong>di</strong> questo genere come infiniti sono gli atomi e che si possa formare un mondo, simile<br />

a questo in un mondo o in un intermondo. Un mondo è secondo Epicuro un pezzo <strong>di</strong> cielo che<br />

comprende astri, terre e tutti i fenomeni, ritagliato nell’infinito. Dall’aggregazione e separazione<br />

<strong>di</strong> questi atomi, <strong>di</strong>pende la nascita e la morte dei corpi; ma in realtà nulla si origina dal<br />

nulla, né si <strong>di</strong>ssolve nel nulla, cosicché l’universo fu e sarà sempre quello che è ora. Introduce<br />

in tal modo il principio <strong>di</strong> conservazione assoluto nel quadro <strong>di</strong> una filosofia sensistica, privo<br />

<strong>di</strong> prospettiva escatologica. Epicuro ritiene che i corpi emanino dei flussi <strong>di</strong> atomi chiamati<br />

“eidola” e da Lucrezio “simulacra”, “che colpiscono ed impressionano la nostra anima”. 23<br />

È necessario ritenere che anche l’odore, la voce non potrebbero produrre alcuna sensazione,<br />

se non vi fosse un complesso <strong>di</strong> particelle che, muovendosi da ciò che esiste, sono in grado<br />

<strong>di</strong> stimolare l’organo sensorio. Dunque siamo in grado <strong>di</strong> pensare in virtù <strong>di</strong> ciò che proviene<br />

a noi dall’esterno: “nulla <strong>di</strong> tutto ciò è infatti in contrad<strong>di</strong>zione con i dati dell’esperienza”. 24<br />

L’errore risiede nel giu<strong>di</strong>zio che noi formuliamo sulle sensazioni. È quin<strong>di</strong> su <strong>di</strong> esse e sulla<br />

loro “evidenza” che la scienza deve in primo luogo fondarsi, procedendo poi con il ragionamento.<br />

Tuttavia non solo i corpi sono il risultato dell’aggregazione atomica, bensì anche<br />

l’anima umana, l’anima è perciò mortale insieme con il corpo. Ne deriva una fisica materialistica,<br />

volta ad eliminare l’azione sul mondo <strong>di</strong> ogni principio spirituale; e meccanicistica che,<br />

escludendo qualsiasi finalismo, trova unica spiegazione nel movimento. Infatti nel vuoto<br />

infinito gli atomi si muovono senza obbe<strong>di</strong>re ad alcun <strong>di</strong>segno provvidenziale. È chiamata a<br />

risolvere la questione sul movimento la teoria del “clinamen”: gli atomi, in virtù del loro<br />

peso, cadono perpen<strong>di</strong>colarmente e con la stessa velocità; Epicuro, tuttavia, ammette una<br />

deviazione casuale della loro traiettoria che permetta la loro aggregazione. Proprio in questo<br />

principio è possibile trovare un nesso tra la natura e la natura umana. Lo stu<strong>di</strong>o della fisica<br />

è funzionale alla comprensione dei problemi dell’uomo. I corpi non si formano secondo un<br />

<strong>di</strong>segno provvidenzialistico ma me<strong>di</strong>ante una libera e spontanea deviazione degli atomi. Fra<br />

gli aggregati formatisi c’è anche l’uomo. La sua libertà è dunque fondata sul modo in cui si<br />

è fisicamente costruito. “Se non ci turbasse il sospetto delle cose del cielo e il timore che<br />

la morte non abbia a essere qualche cosa per noi, e, oltre questo, il non potere conoscere i<br />

limiti del dolore e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura”. 25<br />

Epicuro esorta tutti a pensare alla salute dell’anima. È innanzitutto necessario “rivolgere<br />

<strong>di</strong> continuo nella memoria le cose atte a produrre felicità” 26 poiché, secondo il filosofo quando<br />

si è felici si ha tutto. È da notare che la vera felicità non è compresa senza il cosiddetto<br />

tetrafarmaco (quadruplice me<strong>di</strong>cina). Nella lettera a Meneceo si evince che alla ra<strong>di</strong>ce <strong>di</strong><br />

tutte le sofferenze vi sono le paure: paura del <strong>di</strong>vino, della morte, del dolore, <strong>di</strong> non poter<br />

essere felici. Primo passo per il raggiungimento della felicità è ritenere gli dei incorruttibili<br />

e beati e proprio perché definiti dalla beatitu<strong>di</strong>ne, gli dei non possono partecipare della grazia<br />

e dell’ira, altrimenti cesserebbero <strong>di</strong> essere beati. Essi non sono dunque da temere. In<strong>di</strong>spensabile,<br />

inoltre, “è il pensiero che la morte per noi non è nulla: giacché ogni bene e male<br />

è nel senso, e la morte è privazione <strong>di</strong> senso”. 27 Colui che teme la morte non la teme perché<br />

provoca dolore all’anima, ma ciò che fa soffrire è il pensiero che questa un giorno possa<br />

sopraggiungere. Quin<strong>di</strong> è l’attesa della morte a provocare dolore. Da qui la celebre frase:<br />

23 Op. cit. pag. 81, paragrf. 48.<br />

24 Op. cit. pag. 83, paragrf. 51.<br />

25 Epicuro, massima 11, Bur, 2006.<br />

26 Epicuro, Lettera a Menceo, Bur, 2006, pag. 51, paragrf. 122.<br />

27 Op. cit. pag. 53, paragrf. 124.<br />

–59–


“il male che più fa rabbrivi<strong>di</strong>re è la morte che nulla è, perché quando noi siamo non c’è la<br />

morte, e quando c’è la morte, noi allora non ci siamo”. 28 I non sapienti, a volte, considerano<br />

la morte come tregua ai mali della vita, altre volte la temono. Il sapiente invece, “non rifiuta,<br />

né teme il non vivere” 29 e a questo non interessa il vivere a lungo ma il vivere felicemente.<br />

Inoltre Epicuro esorta a non farsi sopraffare dal pensiero del futuro. Sempre nella lettera a<br />

Meneceo, il filosofo ritiene che i desideri sono naturali e vani, tra i naturali alcuni sono<br />

necessari alla felicità, allo stesso vivere; altri non necessari. Solo un calcolo razionale <strong>di</strong> essi<br />

fa sì che non vi sia turbamento nell’anima. Proprio quest’ultimo rappresenta il punto più alto<br />

della vita beata. “Il realtà tutto quello che facciamo lo facciamo solo per questo, per non<br />

soffrire dolore e per non essere turbati”. 30 Quando il desiderio viene realizzato l’anima si<br />

placa perché non le serve altro se non il piacere. “Ed è per questo che noi <strong>di</strong>ciamo il piacere<br />

principio e fine della vita felice”. 31 Quin<strong>di</strong> il piacere <strong>di</strong>venta la norma attraverso cui giu<strong>di</strong>care<br />

le nostre azioni perché ci suggerisce cosa scegliere spingendoci verso ciò che ci è più<br />

favorevole. Bisogna, però, fuggire da alcuni piaceri che potrebbero portare al dolore mentre<br />

bisogna sopportare alcuno dolori che conducono al piacere. Ne risulta un calcolo razionale<br />

dei piaceri. Dunque ogni piacere è un bene ma non sempre tutti sono da preferire così come<br />

“ogni dolore è un male, ma non tutti sono sempre da fuggire”. 32 Il bastare a se stesso, l’autarkeia,<br />

è la virtù massima dell’epicureo. Egli dà il massimo per ottenere il minimo, ma a quello<br />

non rinuncia. Il fine, dunque, è il piacere non inteso come go<strong>di</strong>mento delle cose esterne,<br />

ma come mancanza <strong>di</strong> dolore nel corpo “atarassia”, e assenza <strong>di</strong> turbamento nell’anima<br />

“aponia”. “Quando dunque <strong>di</strong>ciamo che il fine è il piacere, non inten<strong>di</strong>amo i piaceri dei<br />

<strong>di</strong>ssoluti o in generale quelli consistenti nella fruizione delle cose esterne, come credono<br />

alcuni che c’ignorano e con noi non consentono o ci prendono in cattivo senso, ma il non<br />

soffrire dolore nel corpo e il non avere turbamento nell’anima”. 33 La prudenza è un valore<br />

ancora più importante della filosofia in quanto fondamento <strong>di</strong> tutte le virtù intese come mezzo<br />

per il conseguimento del piacere, In conclusione Epicuro esorta Meneceo ad osservare i suoi<br />

insegnamenti per vivere tra gli uomini come un <strong>di</strong>o. “Non è in verità simile ad essere mortale<br />

l’uomo che vive tra beni immortali”. 34<br />

“Appren<strong>di</strong> bene questi precetti, tienili a mente, ripercorrili acutamente col pensiero<br />

insieme con gli altri che affidammo alla piccola Epitome ad Erodoto. Anzitutto bisogna<br />

credere che il fine che si ricava dalla conoscenza dei fenomeni celesti, sia considerati in<br />

relazione tra <strong>di</strong> loro sia autonomamente, non è altro se non l’atarassia e la salda fiducia, così<br />

come anche dalle altre indagini”. 35<br />

La prima lettera riportata da Diogene Laerzio, nota anche come “Piccola epitome”, è<br />

uno scritto <strong>di</strong> grande importanza e <strong>di</strong> alto impegno poiché in essa trova attestazione <strong>di</strong>retta<br />

l’esposizione <strong>di</strong> quella scienza della natura che costituisce uno degli aspetti più rilevanti della<br />

speculazione <strong>di</strong> Epicuro. Nell’epistola sono passati in rassegna i principi fondamentali della<br />

fisica atomistica. La maniera con cui Epicuro interviene sull’atomismo precedente (Leucippo<br />

e Democrito) è una questione <strong>di</strong>fficile: la maggior parte dei critici ha negato l’originalità<br />

della fisica epicurea trattandola con sufficienza rispetto all’etica, considerata il vero nucleo<br />

28 Op. cit. pag. 53, paragrf. 125.<br />

29 Op. cit. pag. 55, paragrf. 128.<br />

30 Op. cit. pag. 55, paragrf. 129.<br />

31 Op. cit. pag. 57, paragrf. 130.<br />

32 Op. cit. pag. 57, paragrf. 131.<br />

33 Op. cit. pag. 57, paragrf. 132.<br />

34 Op. cit. pag. 60, paragrf. 135.<br />

35 Epicuro, lettera a Pitocle, Bur, 2006, pag. 141, paragrf. 116.<br />

–60–


del sistema. Per ciò che riguarda i fenomeni celesti (moti, eclissi, sorgere e tramontare degli<br />

astri) è necessario escludere ogni causa soprannaturale e possibili interventi <strong>di</strong>vini così da<br />

liberare gli uomini dal timore <strong>di</strong> un possibile dominio misterioso. Nella lettera a Pitocle afferma<br />

che la conoscenza delle cause esatte non implica la <strong>di</strong>ssoluzione delle incertezze e dei<br />

timori che anzi affliggono particolarmente chi se ne occupa senza possedere i fondamenti epicurei<br />

della scienza della natura. Una volta compreso che i fenomeni celesti non richiedono<br />

spiegazioni soprannaturali e teologiche, l’indagine esatta delle cause per cui un dato fenomeno<br />

avviene non è <strong>di</strong> alcuna utilità per il conseguimento della felicità. Fondamento unico <strong>di</strong> ogni<br />

indagine relativa agli astri sono i fenomeni (ciò che appare, i dati dell’esperienza) con essi<br />

deve essere in accordo ogni causa da noi in<strong>di</strong>viduata per i fenomeni celesti. Solo cercando in<br />

questo modo le ragioni <strong>di</strong> tali fenomeni e ponendo sullo stesso piano tutte le spiegazioni che<br />

non siano in contrasto con i dati e l’esperienza ci si può liberare da turbamento che l’osservazione<br />

<strong>di</strong> quei fenomeni comporta. La lettera a Pitocle, dunque, offre un metodo d’indagine<br />

e una serie <strong>di</strong> esempi <strong>di</strong> come questo possa essere applicato. L’epistola insiste sulla problematica<br />

che si può considerare fra i principali motivi <strong>di</strong> turbamento dell’uomo, “il sospetto”<br />

dei fenomeni celesti, le cui cause sono tanto misteriose da indurre facilmente a rifugiarsi nel<br />

mito oppure in teorie più suggestive, e dunque, ad allontanarsi dalla felicità a cui mira la<br />

filosofia <strong>di</strong> Epicuro. Pertanto per Epicuro l’unico scopo autentico dello stu<strong>di</strong>o dei fenomeni<br />

celesti è la tranquillità e la sicura fiducia dell’animo nei confronti delle paure che suscita la<br />

natura. Epicuro sostiene che, in fondo, il filosofare e lo stu<strong>di</strong>o della natura devono servire per<br />

liberare l’uomo. La filosofia è, quin<strong>di</strong>, per il filosofo, arte <strong>di</strong> vita e mira ad assicurare la felicità<br />

e a fornire i mezzi per conseguirla. Se si vuole essere felici, si deve filosofare nel senso<br />

<strong>di</strong> apprendere e far propria la verità rivelata dal maestro. Chi entra nel “giar<strong>di</strong>no” <strong>di</strong>venta una<br />

specie <strong>di</strong> catecumeno; l’epicureo è un saggio che ama la saggezza ed aspira ad essa; all’epicureismo<br />

ci si converte, perché l’adesione ad esso comporta un mutamento ra<strong>di</strong>cale <strong>di</strong> mentalità<br />

e <strong>di</strong> stile <strong>di</strong> vita, proprio come accade nell’asserzione religiosa.<br />

Poco sappiamo delle sorti dell’epicureismo in Grecia prima della sua <strong>di</strong>ffusione a Roma.<br />

La più aspra critica scatenatasi contro il maestro ancora in vita è stata mossa da Timocrate,<br />

il quale abbandona la scuola e compone un’opera “Delizie” in cui ritrae Epicuro come un<br />

“propugnatore <strong>di</strong> riti notturni e orgiastici”. 36 Si inserisce, approfittando <strong>di</strong> questa interpretazione,<br />

la pubblicistica <strong>di</strong> matrice stoica. Secondo Posidonio, del me<strong>di</strong>o stoicismo, Epicuro<br />

si sarebbbe recato in giro nelle case della povera gente a recitare formule espiatorie ed<br />

esorcistiche, avrebbe prostituito un fratello, convissuto pubblicamente con una meretrice,<br />

saccheggiato senza riguardo dalle dottrine <strong>di</strong> Democrito per l’atomismo e Aristippo per<br />

l’edonismo. Combinando tali notizie si ricava il quadro <strong>di</strong> una filosofia che otteneva successo<br />

ed adepti per il <strong>di</strong>ffondersi <strong>di</strong> dottrine alternative. L’immagine che gli avversari hanno dato<br />

dell’epicureismo è stata quella <strong>di</strong> una filosofia <strong>di</strong>ssacratrice opposta all’or<strong>di</strong>ne naturale delle<br />

cose in fisica. L’opposizione più decisa all’epicureismo si ha a partire dalla fondazione della<br />

“stoà”: all’“atarassia”, per cui <strong>di</strong>spiegando la forza della conoscenza su basi sensistiche si<br />

realizza l’in<strong>di</strong>sturbabilità, quin<strong>di</strong> la serenità, lo stoicismo contrappone l’apatia (in<strong>di</strong>fferenza),<br />

ovvero la paziente rassegnazione nei confronti della realtà esterna. A partire, però, dal secondo<br />

secolo a.C., anche lo stoicismo dovette ri<strong>di</strong>mensionare l’ostilità <strong>di</strong> partenza. L’epicureismo<br />

ha incontrato nella Roma pagana, parecchia ostilità. Rilevante l’opposizione <strong>di</strong> Cicerone il<br />

quale non tanto per motivazioni religiose quanto piuttosto politiche, è un accanito nemico<br />

degli epicurei. Nel “De finibus malorum et bonorum”, constata amaramente che “Epicuro<br />

stesso e molti successivi <strong>di</strong>fensori <strong>di</strong>fesero gagliardamente la propria tesi e, non so come, ma<br />

36 D.L. X. 6-7.<br />

–61–


il popolo se la <strong>di</strong>ce proprio con chi ha magari poca cre<strong>di</strong>bilità, ma grande foga” . 37 Inoltre<br />

nelle “Tusculanae <strong>di</strong>sputationes” annota come “la moltitu<strong>di</strong>ne, toccata, si convertì in particolare<br />

a quella <strong>di</strong>sciplina, l’epicureismo, che invase tutta l’Italia”. 38 Nel me<strong>di</strong>oevo è stato uno<br />

dei filosofi più censurati dalla chiesa che vedeva in lui un insi<strong>di</strong>oso rivale. Solo Clemente<br />

Alessandrino, pur essendo un cristiano, lo apprezza e sostiene che Epicuro e gli stessi dei<br />

pagani, sebbene non avessero conosciuto la verità, hanno perlomeno sospettato l’errore che<br />

circonda l’idea del paganesimo e dato avvio, anche se in modo negativo, a quel processo che<br />

può condurre alla verità. Dante Alighieri stesso, che viene a conoscenza della dottrina <strong>di</strong><br />

Epicuro attraverso gli scritti filosofici <strong>di</strong> Cicerone, condanna gli epicurei, collocandoli in un<br />

girone dell’inferno e definendoli “coloro che l’anima col corpo morta fanno”. 39 Per tutto il<br />

cristianesimo Epicuro è stato conosciuto per aver negato l’immortalità dell’anima ancor più<br />

per le cose dette sulla <strong>di</strong>vinità ed è stato, infatti, conosciuto come filosofo “negante l’etternità<br />

dell’anima”, come Boccaccio afferma nel Decameron. Inoltre considera gli epicurei<br />

“quelli li quali sempre tengon gli occhi della mente fissi nella loro bella moglie, nelli lor<br />

figliuoli, ne’ loro be’ palagi, ne’ lor be’ giar<strong>di</strong>ni, e questi paiono loro da dover preporre ad<br />

ogni letizia <strong>di</strong> para<strong>di</strong>so”. 40 L’epicureismo viene rivalutato nel Rinascimento da pensatori<br />

come Lorenzo Valla nel “De Voluptate”, Cosma Raimon<strong>di</strong> e Francesco Filadelfo, che però più<br />

che dalla teologia sono stati attratti dall’edonismo epicureo e considerano il filosofo come<br />

maestro <strong>di</strong> umana saggezza per aver insegnato virtù come scelta o calcolo razionale dei piaceri.<br />

Nel XVII secolo viene apprezzato da Pierre Gassen<strong>di</strong>, il quale nel “De vita et moribus<br />

Epicuri” lo ritiene conciliabile con il cristianesimo e lo <strong>di</strong>fende dalle accuse <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssolutezza<br />

morale, che non è <strong>di</strong> certo maggiore <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> altri greci, <strong>di</strong> ignoranza e <strong>di</strong> avversione alla<br />

cultura che deve, invece, essere intesa come uso essenziale della scienza. Nonostante questo,<br />

il suo intento è quello <strong>di</strong> liberare la filosofia epicurea da tutto ciò che è contro la fede cristiana.<br />

A questo proposito Gassen<strong>di</strong> approva una serie <strong>di</strong> correzioni ai capisal<strong>di</strong> della filosofia <strong>di</strong><br />

Epicuro. Mentre il filosofo del giar<strong>di</strong>no considerava gli atomi come ingenerabili e incorruttibili,<br />

Gassen<strong>di</strong> li considera tali solo rispetto alle forza naturali, ma ritiene che siano stati<br />

creati da Dio, così come il loro movimento. Egli asserisce che l’or<strong>di</strong>ne del mondo è finalistico,<br />

voluto da Dio e governato dalla sua provvidenza, <strong>di</strong>fferenza sostanziale rispetto ad<br />

Epicuro. La convinzione che l’anima sia corporea è perseguita anche da Gassen<strong>di</strong>, il quale,<br />

tuttavia ammette un’anima intellettiva come sostanza immortale e incorporea. Dal settecento<br />

in poi, l’epicureismo si presenta come una delle alternative fondamentali per l’interpretazione<br />

della vita etica, fornendo ispirazione all’utilitarismo, corrente filosofica che pone come criterio<br />

<strong>di</strong> valutazione morale delle azioni umane l’utile in<strong>di</strong>viduale e sociale, Per quanto<br />

riguarda la visione dell’epicureismo nei pensatori dell’ottocento, la voce dominante è quella<br />

<strong>di</strong> Marx. Nel 1841 Karl Marx si laurea con la tesi “Differenza fra la filosofia della natura <strong>di</strong><br />

Democrito e quella <strong>di</strong> Epicuro”. L’interesse <strong>di</strong> Marx per l’atomismo e l’epicureismo è dovuta<br />

alla critica <strong>di</strong> Hegel ed è volta a mostrare i motivi illuministici del materialismo democriteo<br />

e della concezione degli dei da parte <strong>di</strong> Epicuro, Sebbene Marx risenta ancora dell’hegelismo<br />

e dell’idealismo, restituisce onore alla figura <strong>di</strong> Epicuro: “Credo <strong>di</strong> aver risolto un problema<br />

della filosofia greca rimasto finora insoluto. Non v’è alcun lavoro preparatorio in qualche<br />

modo utilizzabile. Le chiacchiere che hanno fatto Cicerone e Plutarco sono state ripetute<br />

fino ad oggi. Gassen<strong>di</strong>, che liberò Epicuro dall’interdetto col quale lo avevano colpito i Padri<br />

37 Cic. Fin. II. XIV. 44.<br />

38 Cic. Tusc. IV. III. 7.<br />

39 Dante Alighieri, Inferno X. 119.<br />

40 Boccaccio pp. 45-6.<br />

–62–


della Chiesa e tutto il Me<strong>di</strong>oevo, l’età della irrazionalità in atto, non è che un momento interessante.<br />

Della filosofia <strong>di</strong> Epicuro Gassen<strong>di</strong> impara piuttosto che saperci eru<strong>di</strong>re intorno<br />

alla medesima”; 41 definendolo inoltre colui che porta all’uomo un messaggio <strong>di</strong> salvezza e<br />

libertà spirituale. Tuttavia l’elogio ad Epicuro incontra alcune riserve: infatti secondo Marx<br />

l’atarassia conduce l’uomo ad un isolamento totale, in contrasto, quin<strong>di</strong>, con la stessa visione<br />

marxiana, per cui l’in<strong>di</strong>viduo viene invece invitato ad inserirsi nel mondo. L’epicureismo<br />

vuole proporre degli insegnamenti che aiutino l’uomo nella propria vita: il perseguimento della<br />

autosufficienza e della serenità spirituale, in<strong>di</strong>viduata nell’imperturbabilità (atarassia) e<br />

nell’in<strong>di</strong>fferenza (a<strong>di</strong>aforìa). Marx considera Epicuro il più grande illuminista greco, che porta<br />

alle estreme conseguenza la critica alla religione, la lotta al fatalismo, nella riven<strong>di</strong>cazione<br />

della libertà e dell’autosufficienza umana. Nel raffronto tra il materialismo elaborato da<br />

Democrito e quello <strong>di</strong> Epicuro egli pende in favore <strong>di</strong> quest’ultimo, la cui filosofia è letta da<br />

Marx come la più alta esaltazione della <strong>di</strong>gnità umana e della sua liberazione da ogni superstizione.<br />

Emerge con chiarezza che fin dall’antichità la fisica epicurea è stata letta come una<br />

riproduzione della fisica democritea. Marx stesso riconosce fondate le accuse <strong>di</strong> plagio mosse<br />

ad Epicuro. Tuttavia esiste un forte spartiacque tra i due filosofi: sebbene la scienza a cui<br />

entrambi fanno riferimento sia la stessa, essi assumono posizioni <strong>di</strong>ametralmente opposte<br />

riguardo alla concezione della verità, l’applicazione della scienza ed il rapporto fra pensiero e<br />

realtà. Mentre per Democrito i sensi sono soggettivi, per Epicuro sono uno specchio oggettivo<br />

che riflette la realtà. Da questa concezione antitetica scaturisce anche la <strong>di</strong>fferente condotta <strong>di</strong><br />

vita dei due filosofi. Democrito, accecato dalla ricerca del sapere, non coglie la vita nel suo<br />

scorrere, mentre Epicuro cerca <strong>di</strong> godere pienamente, secondo quello che sarà il celebre motto<br />

graziano del “carpe <strong>di</strong>em”. Per Marx è importantissima la teoria del clinamen e la libertà riconosciuta<br />

nell’agire umano; egli osserva amaramente che Lucrezio è stato “l’unico tra tutti gli<br />

antichi ad aver compreso la fisica epicurea, tutti gli altri l’hanno fraintesa”. 42 Marx tuttavia<br />

è avverso al rifiuto epicureo della vita politica. Infatti egli ritiene che la riflessione filosofica<br />

senza la lotta politica si limiterebbe a dare una mera interpretazione del mondo senza però<br />

cambiarlo. Abbiamo dunque visto Epicuro costituire un esempio per la repubblica romana, il<br />

primo cristianesimo, il tardo me<strong>di</strong>oevo, il rinascimento fino al novecento marxista e come<br />

ancora oggi non sia stato del tutto compreso il suo tentativo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffondere una nuova filosofia:<br />

non è giusto, perciò, ritenere che l’ambivalenza <strong>di</strong> utilizzazione sia tuttora operante?<br />

Bibliografia:<br />

Fonti:<br />

EPICURO, scritti morali, introduzione e traduzione <strong>di</strong> Carlo Diano, ed. Bur<br />

ENCICLOPEDIA DI FILOSOFIA, Epicuro: fisica-etica<br />

EPICURO, Opere, traduzione <strong>di</strong> Graziano Arrignetti, Einau<strong>di</strong><br />

EPICURO, Lettere sulla fisica, sul cielo e della felicità, ed. Bur<br />

Sitografia:<br />

http: studentville.net (commenti e traduzioni)<br />

epicuro.org<br />

www.linguaggioglobale.com/filosofia/epicuro.htm<br />

41 Marx, Differenza tra le filosofie della natura <strong>di</strong> Democrito e <strong>di</strong> Epicuro pp. 331.<br />

42 Op. cit. pp. 452.<br />

–63–


CAPITOLO II<br />

2.1 NEL CONNUBIO DI POESIA E FILOSOFIA,<br />

IL RISCHIARAMENTO E LA LIBERAZIONE<br />

DA OGNI PAURA<br />

Lucrezio e l’Epicureismo a Roma<br />

La filosofia epicurea, con i suoi principi materialistici e razionalistici, riscuote un grande<br />

successo a Roma grazie all’azione <strong>di</strong> due importanti filosofi, Sirone e Filodemo, attorno ai<br />

quali si formano circoli de<strong>di</strong>cati allo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Epicuro. Oltre alla città <strong>di</strong> Roma, l’area <strong>di</strong><br />

maggiore <strong>di</strong>ffusione <strong>di</strong> questa dottrina è la Campania. È infatti ad Ercolano che Filodemo,<br />

approdato sulle coste italiane intorno al 70 a.C., raccoglie una ricca biblioteca e fonda un<br />

circolo <strong>di</strong> intellettuali che, insieme con quello <strong>di</strong> Sirone a Napoli, può vantare tra i suoi<br />

<strong>di</strong>scepoli figure <strong>di</strong> grande rilievo come Virgilio ed <strong>Orazio</strong>. Il successo dell’epicureismo a<br />

Roma è spiegato da Cicerone con la semplicità della dottrina, ma anche dalla <strong>di</strong>saffezione<br />

verso la politica, oltre alla delusione e alla stanchezza che avevano indotto i citta<strong>di</strong>ni romani<br />

(soprattutto i giovani appartenenti all’aristocrazia) a rinchiudersi nel privato e ad astenersi da<br />

cariche pubbliche.<br />

La critica alla filosofia epicurea trova una delle più illustri voci proprio in Cicerone, il<br />

quale ne analizza i principi, mettendoli a confronto anche con quelli della contemporanea<br />

scuola stoica, in buona parte dei suoi trattati filosofici. 43 Questi infatti, acceso sostenitore del<br />

rispetto per il mos maiorum, in<strong>di</strong>vidua, in questa nuova dottrina, un edonismo in<strong>di</strong>vidualistico<br />

ed egoistico che potrebbe allontanare le giovani menti dei citta<strong>di</strong>ni da valori tra<strong>di</strong>zionali<br />

romani quali l’impegno politico in favore della patria e la fede negli dei olimpici.<br />

Tuttavia, sebbene più volte Cicerone, nei suoi <strong>di</strong>aloghi filosofici, menzioni opere <strong>di</strong>vulgative<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>scepoli <strong>di</strong> Epicuro, 44 definendole prive sia <strong>di</strong> qualsiasi attrattiva stilistica e letteraria<br />

sia <strong>di</strong> or<strong>di</strong>namento coerente dell’esposizione, l’unica opera a rimanere esente dal suo giu<strong>di</strong>zio<br />

negativo è il De Rerum Natura <strong>di</strong> Lucrezio. 45 Per <strong>di</strong> più, Cicerone, non solo non inserì<br />

questa opera tra quelle <strong>di</strong> scarso valore, ma ad<strong>di</strong>rittura, in una lettera al fratello Quinto, scritta<br />

nel febbraio del 54 a.C., ne ammise l’alto livello stilistico e il grande rigore <strong>di</strong> pensiero. 46<br />

Probabilmente il successo <strong>di</strong> Lucrezio è dovuto alla grande abilità del poeta nel rischiarare<br />

l’oscurità delle dottrine filosofiche attraverso il linguaggio evocativo della poesia. Nonostante<br />

Epicuro stesso avesse mosso alla poesia forti critiche in quanto attività che non solo<br />

non assicurava serenità al sapiente, ma che ad<strong>di</strong>rittura ne incentivava le passioni, Lucrezio<br />

sceglie la poesia come mezzo per la trasmissione delle sue dottrine:<br />

“come i me<strong>di</strong>ci, quando cercano <strong>di</strong> somministrare ai fanciulli<br />

l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo<br />

della tazza <strong>di</strong> biondo e dolce miele,<br />

affinché l’inconsapevole età dei fanciulli ne sia illusa<br />

fino alle labbra, e frattanto beva l’amaro<br />

43 Academici, De finibus bonorum et malorum, Tusculanae <strong>di</strong>sputationes, De natura deorum.<br />

44 Amanfino ed Cazio, De Rerum Natura.<br />

45 Tito Lucrezio Caro, vissuto tra il 98 a.C. e il 55 a.C., secondo alcune fonti, che prendono in considerazione la sua<br />

adesione alle dottrine epicuree, era <strong>di</strong> origine campana. La composizione della sua opera, il De Rerum Natura, poema<br />

<strong>di</strong>dascalico nel quale vengono esposti i principi della filosofia <strong>di</strong> Epicuro, si può datare intorno agli anni 50 del secolo.<br />

46 Cicerone, Epistulae ad Quintum Fratrem, II, 9, 3. “L’opera poetica <strong>di</strong> Lucrezio è proprio come mi scrivi: rivela<br />

uno splen<strong>di</strong>do ingegno, ma anche una notevole abilità stilistica”.<br />

–64–


succo dell’assenzio, senza che l’inganno le nuoccia,<br />

e anzi al contrario in tal modo rifiorisca e torni in salute;<br />

così io, poiché questa dottrina appare<br />

spesso troppo ostica a quanti non l’abbiano<br />

conosciuta a fondo, e il volgo ne rifugge e l’aborre,<br />

ho voluto esporla a te nel melo<strong>di</strong>oso canto pierio,<br />

e quasi aspergerla del dolce miele delle Muse,<br />

se per caso in tal modo io potessi trattenere i tuo animo<br />

con questi miei versi, fin quando tu attinga l’intera<br />

natura dell’universo, e <strong>di</strong> quale forma essa consista e si adorni”. 47<br />

Lucrezio e la natura<br />

Il concetto <strong>di</strong> natura in Lucrezio non è unico, ma subisce delle variazioni nel corso<br />

del poema. Tali oscillazioni sono impreve<strong>di</strong>bili, e legate, secondo alcuni critici 48 agli sbalzi<br />

d’umore del poeta stesso, che, partendo dai presupposti scientifici del pensiero epicureo ne<br />

dà un’interpretazione emotiva e fantastica.<br />

Nella concezione epicurea del mondo fisico non esiste un unico principio a cui sono<br />

riconducibili i vari fenomeni naturali, perché ogni volta entrano in gioco la casualità, la<br />

necessità e la libertà.<br />

Nella fisica epicurea la necessità e la casualità sono due elementi <strong>di</strong>versi ma ugualmente<br />

importanti nella formazione dei mon<strong>di</strong> e degli aggregati atomici.<br />

Lucrezio, racconta come sia avvenuta l’aggregazione degli atomi: dopo aver “sperimentato<br />

movimenti e combinazioni <strong>di</strong> ogni genere”, 49 sono giunti infine ad una equilibrata<br />

<strong>di</strong>sposizione: questo equilibrio è garantito dalla legge dell’isonomia (isos - uguale; nomos -<br />

legge), secondo la quale, essendo infinito il numero degli atomi <strong>di</strong> ciascuna forma, infinite<br />

sono anche le cose e gli esseri <strong>di</strong> ciascuna specie, 50 e a tanti mon<strong>di</strong> creati devono corrispondere<br />

altrettanti mon<strong>di</strong> <strong>di</strong>strutti. Secondo Perelli 51 la percezione <strong>di</strong> un universo infinito genera<br />

in Lucrezio un senso <strong>di</strong> sgomento, accentuato dal confronto tra la me<strong>di</strong>ocrità dell’uomo e la<br />

vastità del mondo, ma ancora <strong>di</strong> più da quello tra la Terra e l’infinitezza dell’universo. Diversa<br />

invece è l’interpretazione data da Boyancè, 52 il quale ritiene che la consapevolezza dell’immensità<br />

dell’universo dovrebbe generare nell’uomo un senso <strong>di</strong> tranquillità.<br />

Il mantenimento <strong>di</strong> questo equilibrio è possibile, nonostante il variare continuo della<br />

materia, solo se gli atomi armonizzano il loro moto con quello del corpo <strong>di</strong> cui ora fanno parte.<br />

Ogni essere naturale dunque è sottoposto a leggi fisse, determinate da una necessità meccanica<br />

e ciascun essere ha delle leggi proprie che Lucrezio chiama foedera naturae: “e per<br />

legge <strong>di</strong> natura risulta stabilito ciò / che ognuna possa e ciò che invece non possa”. 53 Il fatto<br />

che gli uomini e la natura siano soggetti a delle leggi invariabili sottrarrebbe dunque l’uomo<br />

all’angoscia dell’indeterminatezza.<br />

Il principio epicureo secondo cui nulla nasce dal nulla sembra quasi avallare l’idea <strong>di</strong> un<br />

or<strong>di</strong>ne immanente. Non si parla in modo esplicito né <strong>di</strong> provvidenza né <strong>di</strong> finalismo, ma le<br />

leggi meccaniche impongono nella natura un rigoroso equilibrio e un’armonica <strong>di</strong>stribuzione<br />

47 Lucrezio, De Rerum Natura, Libro I, vv. 936-950. Trad. L. Canali, La natura delle cose, BUR, Milano, 1994.<br />

48 L. Perelli, Lucrezio, Poeta dell’Angoscia, La Nuova Italia, Firenze, 1989.<br />

49 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 1024-1034.<br />

50 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 532-540.<br />

51 L. Perelli, op. cit.<br />

52 Boyancè, Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, 1985.<br />

53 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 586-587.<br />

–65–


della facoltà vitali. È proprio il principio dell’isonomia quella legge naturale che stabilisce per<br />

ogni essere vivente un determinato tempo <strong>di</strong> vita, in modo che dalla morte <strong>di</strong> uno si generi la<br />

nascita <strong>di</strong> un altro: così la morte viene vista nel suo aspetto positivo <strong>di</strong> rinnovamento delle<br />

generazioni, e il pessimismo per la morte dell’in<strong>di</strong>viduo è superato nella visione dell’eternità<br />

della materia.<br />

Questo determinismo meccanico della fisica epicurea ha un’eccezione nella dottrina del<br />

clinamen, ossia nella possibilità <strong>di</strong> una spontanea deviazione dell’atomo dal moto rettilineo:<br />

“i corpi, quando cadono verticalmente trascinati nel vuoto / dal loro stesso peso, in un<br />

momento del tutto indefinito / e in un luogo incerto sviano un poco dal percorso (...) se infatti<br />

non usassero deviare, (...) non si sarebbero prodotti gli scontri, non avrebbero luogo gli urti<br />

/ fra i corpuscoli primor<strong>di</strong>ali: in tal modo la natura non avrebbe generato mai nulla”. 54<br />

Il motivo principale dell’introduzione del clinamen è <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne morale e psicologico. Il<br />

clinamen infatti è necessario per assicurare la libertà del volere, possibile soltanto se l’anima<br />

ha il potere <strong>di</strong> sottrarsi alla catena della necessità e della casualità: “Non ve<strong>di</strong> dunque ora che,<br />

sebbene una forza esterna / spesso costringa a procedere molti uomini (...), tuttavia c’è nel<br />

nostro petto / qualcosa che può ribellarsi e opporre resistenza? (...) Perciò si deve riconoscere<br />

che anche nelle particelle elementari / esiste un’altra causa <strong>di</strong> moto oltre agli urti ed al peso<br />

/ donde proviene a noi codesta facoltà innata”. 55<br />

Il fondamento primo della fisica epicurea, che il mondo si sia creato per caso, è utilizzato<br />

da Lucrezio in funzione antiprovvidenziale, e rientra quin<strong>di</strong> nel fine ultimo del poema,<br />

ossia <strong>di</strong> liberare l’animo dell’uomo dalla paura <strong>di</strong> forze e interventi soprannaturali. Tuttavia<br />

è stato osservato da alcuni critici, 56 sostenitori della tesi del pessimismo <strong>di</strong> Lucrezio, che la<br />

concezione <strong>di</strong> un universo dominato dal caso ispira al poeta la visione <strong>di</strong> un caos originario,<br />

senza vita e senza luce, e lo sgomento che deriva da questa visione lo porta a concepire lo<br />

spazio come un incessante tumulto e una lotta cieca tra gli elementi.<br />

Varia anche, nel poema, il modo in cui Lucrezio concepisce la natura. In un primo<br />

momento, infatti, il poeta dà della Terra, generatrice <strong>di</strong> tutte le specie viventi, l’immagine <strong>di</strong><br />

madre benigna e generosa verso le suo creature, tra le quali anche l’uomo. 57<br />

Successivamente vale il sentimento <strong>di</strong> natura matrigna e ostile. La <strong>di</strong>mostrazione dell’infinità<br />

dei mon<strong>di</strong> porta alla <strong>di</strong>gressione antiprovvidenziale ed è qui che inizia il passaggio<br />

al concetto opposto <strong>di</strong> natura. Essa da sola, senza bisogno degli dei, governa l’immensa vastità<br />

dell’universo; ma <strong>di</strong>etro al sentimento <strong>di</strong> ammirazione per la gran<strong>di</strong>osità del cosmo e per il<br />

compito arduo della natura, c’è anche un senso <strong>di</strong> sgomento: la natura onnipotente non può<br />

preoccuparsi delle misere cose degli uomini. 58 Lucrezio inizia così a trattare del crescere e del<br />

morire dei mon<strong>di</strong>, ponendo nel passato la fase <strong>di</strong> sviluppo della Terra che ora si trova nella<br />

fase <strong>di</strong> degradazione. La natura ha terminato così il processo <strong>di</strong> crescita e corre a precipizio<br />

verso la rovina. La Terra <strong>di</strong>venta quin<strong>di</strong> una madre vecchia e stanca, da cui furono generati<br />

tutti gli esseri viventi, e che ora a stento riesce a generare piccole creature. 59<br />

Secondo Perelli 60 Lucrezio non giu<strong>di</strong>ca la Natura colpevole nei confronti dell’uomo per<br />

non avergli dato un ambiente confortevole ed una costituzione fisica atta a garantirgli una vita<br />

sicura e felice, perché essa non ha alcun obbligo nei confronti dell’uomo. Nonostante queste<br />

54 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 216-229.<br />

55 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 277-280; vv. 284-293.<br />

56 L. Perelli, op. cit.<br />

57 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 1-49.<br />

58 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 1090-1104.<br />

59 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 1116-1117; 1150-1152.<br />

60 L. Perelli, op. cit.<br />

–66–


premesse, però, il poeta tenderebbe a personificare la Natura come una potenza aggressiva,<br />

che lotta contro l’uomo e lo schiaccia. Lucrezio avverte la presenza <strong>di</strong> forze misteriose, forze<br />

segrete e impenetrabili <strong>di</strong> fronte alle quali l’uomo non può far altro che rendersi consapevole<br />

della sua piccolezza.<br />

Contrariamente a Perelli, Paratore, 61 ritiene invece che la vera e propria culpa naturae<br />

considerata da Lucrezio consista nel non essersi occupata degli uomini e non aver procurato<br />

loro un ambiente confortevole nel quale condurre serenamente la propria vita.<br />

Al <strong>di</strong> là della descrizione del mondo fisico, tuttavia, è bene ricordare che Lucrezio de<strong>di</strong>ca<br />

largo spazio ad un’analisi dettagliata del mondo umano. In particolare il poeta si impegna<br />

nello stu<strong>di</strong>o dell’anima umana, finalizzato a cancellare il timore della morte.<br />

Lucrezio e l’anima<br />

Prima <strong>di</strong> tutto, è importante osservare come la presenza <strong>di</strong> una teoria sull’anima non<br />

implichi una negazione del materialismo. L’anima infatti non è intesa, da Lucrezio allo stesso<br />

modo <strong>di</strong> Epicuro, come spirito, forma immateriale del corpo, ma è realtà sostanziale, parte<br />

integrante <strong>di</strong> esso, e dunque con esso è destinata a perire. 62 In quanto materia, l’anima è<br />

costituita <strong>di</strong> atomi. Occorre però fare un’opportuna <strong>di</strong>stinzione tra ciò che è anima e ciò che<br />

invece è animus. 63 Se infatti l’anima è <strong>di</strong>ffusa in tutte le membra e costituisce il soffio vitale,<br />

con animus Lucrezio intende il centro dei sentimenti e della sensibilità, che dalla sua sede al<br />

centro del petto domina tutto il corpo: l’anima stessa è soggetta all’animus, in quanto ne<br />

propaga gli impulsi e le emozioni. Secondo alcuni critici, tra cui spicca il nome <strong>di</strong> Bailey,<br />

anima ed animus si identificherebbero con i concetti greci <strong>di</strong> noùs e psyké 64 tuttavia questa<br />

supposizione non è universalmente con<strong>di</strong>visa, infatti altri, come Boyancè, 65 negano la possibilità<br />

<strong>di</strong> corrispondenza tra i termini latini e greci.<br />

Riguardo poi la <strong>di</strong>fferenza tra anima ed animus, è possibile in<strong>di</strong>viduare <strong>di</strong> nuovo due<br />

posizioni contrastanti: una corrente, <strong>di</strong> cui ancora Bailey si erge a portavoce, afferma che<br />

“l’anima è la sede della sensazione e l’animus del pensiero e dell’emozione”: 66 l’osservazione<br />

però che esistono emozioni che interessano contemporaneamente sia l’animus che l’anima,<br />

ha portato un altro gruppo <strong>di</strong> critici, tra i quali, ancora una volta, Boyancè, a ritenere che<br />

piuttosto che la funzione, sia la localizzazione l’elemento realmente <strong>di</strong>scriminante.<br />

Gli atomi dell’anima si <strong>di</strong>stinguono da quelli del corpo per le loro qualità, sono infatti<br />

piccoli, sottili, roton<strong>di</strong> e lisci, e sono dotati <strong>di</strong> una grande velocità nel movimento. 67 Tra <strong>di</strong><br />

loro, poi gli atomi dell’anima si <strong>di</strong>stinguono tra quelli <strong>di</strong> aria, vento e calore: “Tuttavia non<br />

dobbiamo ritenere che questa natura sia semplice. / Infatti un lieve vento, misto a calore, /<br />

abbandona i morenti; il calore poi trae aria con sé”. 68 Un’altra qualità <strong>di</strong> atomi, <strong>di</strong> cui Lucrezio<br />

non specifica il nome, è coinvolta nei sentimenti e nella riflessione. Questo quarto tipo <strong>di</strong><br />

atomi venne accomunato in un primo momento alla “quinta essenza” Aristotelica; in seguito,<br />

ad<strong>di</strong>rittura al “Cogito” Cartesiano: seppur entrambe molto ingegnose, risulta evidente che<br />

queste teorie sono poco vicine al concetto <strong>di</strong> “materialismo epicureo”.<br />

61 E. Paratore, Lucretii De Rerum Natura, Athenaei, Roma, 1960, p. 382.<br />

62 Lucrezio, De Rer. Nat, Libro III, vv. 94-97.<br />

63 Lucrezio, De Rer. Nat, Libro III, vv. 136-144.<br />

64 C. Bailey, The Greek Atomists and Epicurus, Oxford, 1928.<br />

65 P. Boyancè, op. cit. pp. 166-167.<br />

66 C. Bailey, op. cit.<br />

67 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro III, vv. 179-198.<br />

68 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro III, vv. 231-233.<br />

–67–


Ormai abbandonate queste supposizioni, i critici si sono invece posti il problema <strong>di</strong> capire<br />

quale sia la funzione del quarto elemento, e se sia collocato nell’anima o nell’animus. La<br />

principale teoria, derivante dalla filologia tedesca, e sostenuta da Bailey, 69 afferma che<br />

l’elemento interverrebbe nelle operazioni della vita intellettuale, caratterizzante l’animus. Tuttavia<br />

Boyancè osserva che è necessario includere la quarta essenza nell’anima, poiché interviene<br />

nelle sensazioni, che sono proprie dell’anima: essa serve a “dar ragione dei movimenti, che<br />

arrecano sensazione”. 70 La conclusione, perciò, sarà che nonostante ci siano atomi del quarto<br />

tipo anche nell’anima, essi sono presenti in misura maggiore nell’animus, che “prende per sé<br />

conoscenza” e “per sé gioisce”. 71 Si può supporre quin<strong>di</strong> che Lucrezio non specificò la reale<br />

collocazione della quarta essenza, non essendo stata oggetto <strong>di</strong> ricerca del maestro Epicuro, il<br />

quale probabilmente non se ne pose il problema. Abbandonato dunque ogni dubbio circa la<br />

composizione dell’anima umana, Lucrezio ha addotto tutte le prove necessarie per <strong>di</strong>mostrare<br />

che quello che viene chiamato spirito dell’uomo, è mortale in tutte le sue componenti.<br />

Lucrezio e la morte<br />

Sulle modalità con le quali Lucrezio ha affrontato il tema della morte e le ragioni che lo<br />

hanno spinto ad assumere atteggiamenti non sempre coerenti con la dottrina del maestro, la<br />

critica si è espressa in vario modo.<br />

Nell’immaginario <strong>di</strong> Lucrezio, osserva Regenbogen, 72 la morte non è solo quel male<br />

esistenziale che più <strong>di</strong> tutti atterrisce, ma assume i tratti <strong>di</strong> mostro malefico, che con i suoi denti<br />

venefici attanaglia ed opprime l’uomo. Epicuro non aveva parlato in questi termini della morte:<br />

morte è assenza <strong>di</strong> sensibilità, assoluta <strong>di</strong>sgregazione. L’atteggiamento del filosofo greco è<br />

<strong>di</strong> serena e pacata accettazione. Da dove provengono, dunque, l’ardore, il tono <strong>di</strong> imperioso<br />

comando, gli innumerevoli esempi con cui Lucrezio sbaraglia il lettore e gli nega qualsiasi possibilità<br />

<strong>di</strong> replica? Il gusto per il pathos e lo spirito battagliero, caratteri <strong>di</strong>stintivi della cultura<br />

romana, giustificano solo in parte l’atteggiamento del poeta latino. Alcuni critici, soprattutto<br />

Perelli, 73 in<strong>di</strong>viduano la ragione <strong>di</strong> tanto accoramento nell’angoscia che Lucrezio, da uomo che<br />

vive le incertezza <strong>di</strong> una repubblica in declino, avverte e cerca <strong>di</strong> combattere. Non si tratta<br />

dunque, come afferma Sellar, 74 <strong>di</strong> un invito alla rassegnazione alla legge universale: la paura<br />

della morte deve essere annientata non perché questa sia inevitabile, ma piuttosto in quanto essa<br />

genera orrori e inutili tormenti per l’anima umana, che invece dovrebbe godere della serenità<br />

e della pace della vita, che non è altro che breve interruzione del non essere.<br />

Un altro filone della critica, che trova in Boyancè 75 una delle più illustri voci, in<strong>di</strong>vidua<br />

nelle parole <strong>di</strong> Lucrezio, non tanto un’ansia <strong>di</strong> liberazione dalla paura della morte in quanto<br />

tale, quanto piuttosto un desiderio <strong>di</strong> eliminare tutte le superstizioni circa l’al<strong>di</strong>là, generate dalla<br />

religione, che ispirano negli uomini il terrore <strong>di</strong> ciò che avverrà dopo. Il peggior nemico<br />

<strong>di</strong> Lucrezio, dunque, non sarebbe la morte, ma le immagini degli Inferi che impe<strong>di</strong>scono agli<br />

uomini <strong>di</strong> godere pienamente dei piaceri della vita, come “fango che, partendo dalle profon-<br />

69 C. Bailey, op. cit. pp. 580-587 e Comment, pp. 1027.<br />

70 P. Boyancè, op. cit. p. 178.<br />

71 Lucrezio, De Rer. Nat, Libro III, vv. 396-402.<br />

72 O. Regenbogen, Il pensiero della morte in Lucrezio in Perelli, Lucrezio, Letture Critiche, Mursia, Milano, 1977,<br />

pp. 76-79.<br />

73 L. Perelli, op. cit. p. 75: “Lucrezio osserva quanto sia <strong>di</strong>fficile liberare l’umanità dallo stato <strong>di</strong> oppressione e <strong>di</strong><br />

angoscia in cui è stata ridotta”.<br />

74 W. Y. Sellar, The Roman Poets of the Republic, Oxford, 1905, p. 369.<br />

75 P. Boyancé, op. cit. pp. 159-163.<br />

–68–


<strong>di</strong>tà dell’acqua, ne intorbida tutta la massa”. 76 È nella morte che si ritrovano le ra<strong>di</strong>ci della cupi<strong>di</strong>gia<br />

e dell’ambizione: sono questi i mali più temibili, in quanto stor<strong>di</strong>scono gli uomini e<br />

danno loro rifugio dal terrore della morte.<br />

La posizione <strong>di</strong> Boyancè è oggetto <strong>di</strong> forte critica da parte <strong>di</strong> Perelli. Questi infatti considera<br />

il timore della morte in Lucrezio come “la paura del nulla, dell’ignoto, dell’eterno”. 77 La<br />

tendenza <strong>di</strong> Perelli ad interpretare il De Rerum Natura in chiave pessimistica, infatti, lo spinge<br />

a notare come Lucrezio <strong>di</strong>a alle pene dell’Acheronte il valore allegorico delle angosce che<br />

l’uomo è costretto ad affrontare nella sua vita, che non sarebbe altro che infernale sofferenza. 78<br />

Eppure, osserva Perelli, Epicuro condannò l’interpretazione allegorica del mito. È visibile<br />

perciò una contrad<strong>di</strong>zione con il pensiero del maestro che, stando alle argomentazioni del critico,<br />

non sarebbe neanche l’unica. È interessante perciò notare in quali punti le riflessioni <strong>di</strong><br />

Lucrezio si siano <strong>di</strong>staccate da quelle <strong>di</strong> Epicuro, in particolare riguardo al tema della morte.<br />

Prima ancora <strong>di</strong> liberare la mente dalle superstizioni, dalla paura della morte, dal timore per<br />

il dolore e per l’assenza del piacere, Epicuro voleva offrire agli uomini, con i suoi insegnamenti<br />

sulla fisica, 79 una via da seguire per vivere la propria vita con serenità. Nel De Rerum Natura,<br />

invece, Lucrezio sembra dare alla liberazione dal timore della morte il primato rispetto a tutti<br />

gli altri obbiettivi: 80 Perelli ritiene che tale ossessione per la morte fosse motivata da quella nevrosi<br />

che tra<strong>di</strong>zionalmente si tende ad attribuire al poeta. 81 Nel descrivere la morte come un sonno<br />

eterno e tranquillo, Lucrezio non dà alcuna giustificazione al dolore provato dai parenti <strong>di</strong><br />

un defunto: “a questi dunque si deve chiedere che cosa vi sia / <strong>di</strong> tanto amaro, se la con<strong>di</strong>zione<br />

della morte si riduce alla quiete del sonno / perché alcuno debba macerarsi in un eterno cordoglio”.<br />

82 Tale freddezza nei confronti delle sofferenze altrui non si riscontra minimamente in<br />

Epicuro, che anzi afferma “respingere il dolore con in<strong>di</strong>fferenza nasce da un altro male più grave,<br />

la crudeltà, (...) perciò è meglio soffrire, e addolorarsi, e inumi<strong>di</strong>re gli occhi, e struggersi”. 83<br />

Particolari <strong>di</strong>scussioni ha suscitato, inoltre, il presunto invito al suici<strong>di</strong>o che in molte<br />

occasioni sembra essere presente nei versi lucreziani. Non si può negare infatti che il poeta<br />

si lasci andare in rimproveri nei confronti <strong>di</strong> chi nelle sventure non ha il coraggio <strong>di</strong> darsi<br />

la morte, o ancora la condanna a quei vecchi che non vogliono lasciare la vita. A questo<br />

riguardo risulta emblematico il <strong>di</strong>scorso retorico della Natura, la quale, con tono d’accusa,<br />

critica coloro che restano a tutti i costi ancorati alla vita, quando non hanno nulla da temere<br />

dalla morte. 84 Sebbene si possa scegliere <strong>di</strong> leggere in questi accenni al suici<strong>di</strong>o l’intento <strong>di</strong><br />

76 P. Boyancé, op. cit.<br />

77 L. Perelli, op. cit.<br />

78 L. Perelli, op. cit. p. 96: “La rupe che incombe su Tantalo è l’immagine del timore degli dei e del destino che grava<br />

sugli uomini; gli avvoltoi che rodono le viscere <strong>di</strong> Tizio sono il tormento d’amore; il supplizio <strong>di</strong> Sisifo è la brama mai<br />

saziata <strong>di</strong> raggiungere il potere assoluto; la fatica delle Danai<strong>di</strong> è il non essere mai paghi <strong>di</strong> ciò che la natura ci offre nell’eterno<br />

giro delle stagioni; infine Cerbero e le Furie e l’orrido buio del Tartaro sono il timore della pena ed il rimorso<br />

per le colpe commesse in vita”.<br />

79 Epicuro, Epistola ad Erodoto, 63-68.<br />

80 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I vv. 146-148: “Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell’animo, / occorre che<br />

non i raggi del sole né i ar<strong>di</strong> lucenti del giorno / <strong>di</strong>sperdano, bensì la realtà nature e la scienza”.<br />

81 L. Perelli, De Rer. Nat. p. 83: “Il concetto può apparire strano, e giustificato soltanto nell’ossessione personale<br />

<strong>di</strong> Lucrezio”.<br />

82 Lucrezio, op. cit. Libro III, vv. 909-911.<br />

83 Epicuro, Mass. Cap. XL.<br />

84 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro III vv. 935-943. “Se infatti la vita trascorsa ti è stata gra<strong>di</strong>ta, / e se tutte le gioie,<br />

quasi accolte in un’urna incrinata,/non fluirono via, né si spensero ormai <strong>di</strong>venute sgradevoli,/perché no ti allontani come<br />

commensale sazio della vita / e a cuore sereno non pren<strong>di</strong>, o stolto, un sicuro riposo? / Se invece tutto ciò che hai goduto<br />

è perito e <strong>di</strong>ssolto nel nulla, / e la vita ti è in uggia, perché cerchi ancor <strong>di</strong> aggiungere / ciò che avrà triste fine, a sua volta,<br />

e un ingrato tramonto totale, / e piuttosto non poni fine alla vita e ai tuoi affanni?”.<br />

–69–


scacciare negli uomini la paura della morte, è pur vero che non si possono non considerare<br />

le massime epicuree “anche nella tortura il sapiente è felice”; 85 “il saggio né desidera la vita,<br />

né la morte” e “è stolto chi esorta il giovane a ben vivere, o il vecchio a ben morire”. 86<br />

Infine, non si deve <strong>di</strong>menticare che se il Libro III è interamente dominato dal tema della<br />

morte dell’uomo e della sua anima, nel Libro V si ha un’ampia trattazione del tema della<br />

mortalità del mondo, che deriva dalle originarie dottrine epicuree delle infinite possibilità <strong>di</strong><br />

aggregazione e <strong>di</strong> <strong>di</strong>sgregazione degli atomi. Lo stesso Epicuro, infatti, aveva concepito l’universo<br />

come fondato su un equilibrio profondamente instabile: la fuga <strong>di</strong> un solo atomo,<br />

avrebbe potuto determinare la fine <strong>di</strong> tutto. 87 Tale precarietà, e il pericolo che il mondo possa<br />

perire da un momento all’altro, turbano, secondo Perelli, l’animo angosciato <strong>di</strong> Lucrezio,<br />

al punto che il poeta, travisando le parole del maestro, arrivi ad in<strong>di</strong>viduare, nella crisi del suo<br />

tempo, i segni evidenti dell’imminente catastrofe. 88 Queste previsioni apocalittiche non<br />

sarebbero altro, dunque, che “un’allusione metafisica alla trage<strong>di</strong>a esistenziale dell’uomo”. 89<br />

Epicuro non aveva parlato <strong>di</strong> declino dell’universo, né <strong>di</strong> decadenza della natura; aveva concepito<br />

il mondo come un immenso essere vivente, che nasce, cresce, e muore, ma sebbene<br />

“tutti i mon<strong>di</strong> sono destinati a perire nell’eterno corso del tempo, e a dar vita ad altri mon<strong>di</strong>”, 90<br />

ciò non significa che il <strong>di</strong>sastro dovesse verificarsi <strong>di</strong> lì a poco.<br />

Fu Tuci<strong>di</strong>de, nelle sue Storie, 91 il primo a dare testimonianza del terribile morbo che<br />

afflisse la città greca negli ultimi anni del V secolo a.C. La scientificità della descrizione<br />

tuci<strong>di</strong>dea, che si sofferma sui particolari più raccapriccianti dei sintomi della malattia e del<br />

suo decorso, e che è motivata da interesse principalmente storico, si ritrova nel racconto <strong>di</strong><br />

Lucrezio, il quale anima la sua narrazione <strong>di</strong> suggestioni morali e psicologiche. Infatti,<br />

contrariamente alla pura e semplice enumerazione, operata dallo storico greco, degli orren<strong>di</strong><br />

effetti della malattia, il poeta rappresenta la peste soffermandosi anche, e soprattutto, sull’“intimo<br />

tormento dell’angoscia e dell’attesa della morte”. 92<br />

L’avvicinarsi della morte induce, infatti, i contagiati in uno stato d’animo simile alla<br />

demenza: i caratteri <strong>di</strong> questo stravolgimento psichico, del tutto tralasciati da Tuci<strong>di</strong>de, trovano<br />

una loro ragion d’essere solo nel messaggio filosofico che il poeta intende trasmettere:<br />

ed è proprio su questo messaggio che la critica ha preso le più varie posizioni. Non si può<br />

infatti non notare lo stridente contrasto tra la scena finale <strong>di</strong> <strong>di</strong>sfacimento fisico e morale,<br />

presentato con la peste <strong>di</strong> Atene, e lo spettacolo straor<strong>di</strong>nario del risveglio della natura e<br />

l’entusiasmante inno alla vita e a Venere, con il quale Lucrezio apre il De Rerum Natura.<br />

L’estrema <strong>di</strong>fferenza tra l’invocazione a Venere e la peste <strong>di</strong> Atene ha indotto alcuni 93 a<br />

considerare l’ipotesi che Lucrezio non sia riuscito a concludere il poema. I sostenitori <strong>di</strong> questa<br />

ipotesi osservano che, tra le varie incongruenze che testimoniano la mancata revisione del-<br />

85 Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum, Libro X.<br />

86 Epicuro, Epistola a Meneceo 124-127.<br />

87 Epicuro, Epistola ad Erodoto, 73.<br />

88 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II vv. 1150-1153. “Ormai la nostra età è stremata, la terra esausta produce / a stento<br />

meschini esemplari, la terra che un giorno generò / ogni specie e creò dal suo grembo animali dai corpi possenti” e<br />

vv. 1169-1170. “E anche il mesto colono della vecchia vigna avvizzita / accusa il corso del tempo e impreca all’età, brontolando<br />

/ che gli antichi, ricolmi <strong>di</strong> buone virtù, trascorrevano / una vita estremamente più agevole in modesti poderi /<br />

essendo <strong>di</strong> molto minore la parte <strong>di</strong> terra <strong>di</strong> ognuno / e non pensa che tutto man mano rovina e si avvia / a morte consunto<br />

dal lungo spazio ti tempo”.<br />

89 L. Perelli, op. cit. p. 124.<br />

90 Ve<strong>di</strong> nota 16.<br />

91 Tuci<strong>di</strong>de, Storie, II, 47-53<br />

92 Perelli, Lucrezio, poeta dell’angoscia, p. 120<br />

93 C. Giussani, Stu<strong>di</strong> Lucreziani, Torino, 1896-1898; e Bignone, Epicuro, Laterza, Bari, 1920.<br />

–70–


l’opera, il poeta, in alcuni versi del V libro, sembrerebbe far promessa <strong>di</strong> de<strong>di</strong>care un po’ <strong>di</strong><br />

spazio alla descrizione delle se<strong>di</strong> beate degli dei che tuttavia non si riscontra in nessun verso<br />

successivo: “ugualmente non potrai credere che le sante <strong>di</strong>more degli dei / siano collocate in<br />

alcuna parte del mondo / (...) perciò devono anche avere se<strong>di</strong> <strong>di</strong>verse dalle nostre, / sottili secondo<br />

la sottigliezza della loro natura: / ciò <strong>di</strong> cui in seguito darò ampia ragione”. 94<br />

Il contrasto tra l’inizio e il finale dell’opera e le già citate incongruenze invece per altri 95<br />

non sono altro che segno evidente del peggioramento della malattia psichica <strong>di</strong> Lucrezio, che<br />

lo avrebbe indotto a contrad<strong>di</strong>re le dottrine <strong>di</strong> Epicuro, il cui scopo primario, rasserenare gli<br />

animi, sembrerebbe ad<strong>di</strong>rittura vanificato: a detta <strong>di</strong> Perelli, “la morte e la <strong>di</strong>struzione, verso<br />

cui l’umanità sembra irreparabilmente avviata per tanta parte del poema, nella conclusione<br />

celebrano il loro incontrastato trionfo”. 96 È opportuno però osservare che questa interpretazione<br />

estremamente pessimistica affonda le sue ra<strong>di</strong>ci nel giu<strong>di</strong>zio formulato nei riguar<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

Lucrezio dalla critica cristiana, ed in particolare da S. Gerolamo. Le ragioni <strong>di</strong> queste posizioni<br />

possono essere facilmente in<strong>di</strong>viduate nel tentativo da parte della storiografia cristiana<br />

<strong>di</strong> denigrare la figura del poeta che affermò con tanto ardore la mortalità dell’anima e l’inesistenza<br />

<strong>di</strong> una vita oltremondana. L’analisi orientata dunque verso l’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> elementi<br />

che possano avvalorare la tesi della presunta pazzia <strong>di</strong> Lucrezio risulta quin<strong>di</strong>, secondo<br />

alcuni critici, 97 un proce<strong>di</strong>mento scorretto, oltre che poco utile. Questi stessi critici riconoscono<br />

al poema una sostanziale coerenza nello schema, data anche e soprattutto dalla presenza<br />

<strong>di</strong> proemi e finali così contrastanti tra <strong>di</strong> loro. È proprio la Garbarino ad affermare la tesi<br />

della “simmetria per contrasto”, secondo la quale la peste <strong>di</strong> Atene si rivela per Lucrezio<br />

l’immagine più evocativa per la rappresentazione della vita non epicurea, e l’unico spettacolo<br />

che possa davvero fare da contraltare all’esaltazione della vita e della gioia esistenziale che<br />

solo la dottrina epicurea può dare.<br />

Un’ulteriore giustificazione alla presenza della peste <strong>di</strong> Atene come scena finale del<br />

De Rerum Natura proviene da Grossi e Rossi, 98 che puntano la loro attenzione sulla descrizione<br />

dell’origine del male cui Lucrezio si de<strong>di</strong>ca. L’immagine del male presentata dal poeta<br />

certamente toglie qualsiasi dubbio circa la sua inevitabilità: tuttavia le due stu<strong>di</strong>ose osservano<br />

che lo scopo della dottrina epicurea non era affermare l’inesistenza del male, quanto piuttosto<br />

creare nell’animo la giusta <strong>di</strong>sposizione ad accoglierlo e a non temerlo. In questo caso,<br />

dunque, presentare il male del mondo sotto forma <strong>di</strong> terrificante pestilenza darebbe a Lucrezio,<br />

ancora una volta, la possibilità <strong>di</strong> aprire gli occhi agli uomini e <strong>di</strong> insegnare loro la via<br />

da seguire.<br />

Occorre a questo punto domandarsi quali siano le ragioni per cui i critici citati hanno<br />

tanto <strong>di</strong>scusso il finale del De Rerum Natura: certamente la peste <strong>di</strong> Atene si presenta come<br />

curiosa conclusione <strong>di</strong> un’opera come quella <strong>di</strong> Lucrezio. Ed è proprio qui che Giancotti, 99<br />

assumendo una posizione del tutto originale rispetto a quelle finora trattate, in<strong>di</strong>vidua l’errore<br />

<strong>di</strong> fondo: “la conclusione del De Rerum Natura non è la peste <strong>di</strong> Atene, quale risulta<br />

allorché viene avulsa dal contesto e dai presupposti che lo animano. (...) La conclusione è già<br />

94 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V vv. 146-146; 154-156.<br />

95 Perelli, op. cit.<br />

96 Ve<strong>di</strong> nota 4.<br />

97 G. Garbarino, Letteratura Latina, Opera, Vol. 1B, Paravia, Varese, 2003. p. 27”Questo tipo <strong>di</strong> indagine appare<br />

metodologicamente scorretto, in quanto parte da una petizione <strong>di</strong> principio e attua una lettura del testo orientata in modo<br />

pregiu<strong>di</strong>ziale a confermare un supposto caso clinico”.<br />

98 L. Grossi - R. Rossi, Poesia e Filosofia in Lucrezio, in Homines atque aevum, vol. 2, Paravia, Piacenza, 2002.<br />

p. 136.<br />

99 F. Giancotti, Religio, Natura, Voluptas, Stu<strong>di</strong> su Lucrezio, Patron, Bologna, 1989, pp. 347-348.<br />

–71–


ell’e trovata sin dal principio, sin dalla celeberrima invocazione a Venere”. 100 Non ci si<br />

deve dunque sorprendere <strong>di</strong> fronte al finale del De Rerum Natura, in quanto, benché opera<br />

filosofica che si prefissa <strong>di</strong> trasmettere un messaggio, essa non è un’“opera <strong>di</strong> ricerca”, 101<br />

che partendo da premesse perviene a conclusioni. L’obbiettivo <strong>di</strong> Lucrezio non è dare una<br />

qualsivoglia <strong>di</strong>mostrazione, ma in<strong>di</strong>care agli uomini una via da seguire per vivere con la<br />

serenità che solo la verità epicurea può dare e che già nel proemio può essere in<strong>di</strong>viduata.<br />

Al <strong>di</strong> là delle ragioni per le quali Lucrezio pose la peste <strong>di</strong> Atene come conclusione della<br />

sua opera, tuttavia, è bene osservare che con il suo modo <strong>di</strong> rappresentarla, il poeta ha<br />

segnato la vittoria dell’epicureismo su un male che sempre nell’antichità era stato visto come<br />

frutto dell’ira funesta degli dei. Ancora una volta, dunque, è la ragione ad avere la meglio,<br />

sulla morte, ma soprattutto, sulla superstizione.<br />

Lucrezio e gli dei<br />

Il timore degli dei è, insieme con quello della morte, la causa prima dell’infelicità umana:<br />

si tratta dell’angoscia dell’indefinito, del misterioso, <strong>di</strong> ciò che va oltre ogni previsione e controllo<br />

umani. Per poter liberare gli uomini dalla paura degli dei, Lucrezio deve dunque necessariamente<br />

de<strong>di</strong>care alcuni versi alla descrizione delle <strong>di</strong>vinità e del luogo in cui vivono. Le<br />

beate se<strong>di</strong> degli dei vengono descritte dal poeta attraverso un magico e favoleggiante spettacolo<br />

naturale <strong>di</strong> luci, trasparenze e colori: 102 questo gran<strong>di</strong>oso panorama è reso ancora più<br />

meraviglioso da un confronto con il cupo e tenebroso scenario acheronteo. È proprio in questa<br />

rappresentazione del mondo ultraterreno che alcuni critici, tra i quali Perelli, in<strong>di</strong>viduano il<br />

primo segno <strong>di</strong> sentimento religioso in Lucrezio che, lungi dall’essere rivolto verso gli dei<br />

tra<strong>di</strong>zionali, si configurerebbe come “religione della natura infinita, sentimento <strong>di</strong> ebbrezza e<br />

<strong>di</strong> sgomento che prende il poeta al contemplare o al fantasticare sul gran<strong>di</strong>oso e vario spettacolo<br />

dell’universo”. 103 Eppure, osserva sempre Perelli, Epicuro, non solo aveva riconosciuto il valore<br />

della religione tra<strong>di</strong>zionale, ma ad<strong>di</strong>rittura aveva pre<strong>di</strong>cato la partecipazione alle cerimonie<br />

religiose ed il rispetto verso le pratiche rituali. Il filosofo, infatti, ben consapevole che gli atti<br />

<strong>di</strong> culto non avessero il potere <strong>di</strong> ingraziarsi la <strong>di</strong>vinità o <strong>di</strong> placarla, considerava comunque<br />

importante la preghiera in quanto strumento per elevarsi alla contemplazione della beatitu<strong>di</strong>ne<br />

<strong>di</strong>vina. Lucrezio invece sembra scagliarsi con violenza verso qualsiasi forma <strong>di</strong> culto e <strong>di</strong><br />

venerazione, etichettandola con il nome <strong>di</strong> superstitio, e sebbene alcuni critici abbiano tentato<br />

<strong>di</strong> salvare la fedeltà del poeta alle dottrine del maestro, affermando che quella da lui chiamata<br />

superstitio corrisponderebbe alla religione falsa <strong>di</strong> Epicuro, degenerazione <strong>di</strong> quella vera,<br />

la religio, in realtà secondo Perelli “l’attacco <strong>di</strong> Lucrezio si rivolge in<strong>di</strong>scriminato contro tutta<br />

la religione (...), contro ogni atto rituale che presupponga un legame fra l’uomo e gli dei”. 104<br />

È importante osservare dunque in che modo Lucrezio descriva la situazione dell’umanità<br />

afflitta dal timore degli dei. La vita <strong>di</strong> ognuno è oppressa dal peso della religione, la quale,<br />

horribili super aspectu mortalibus instans, 105 soffoca la libertà <strong>di</strong> azione e <strong>di</strong> conoscenza,<br />

incatenando gli uomini fra incubi paurosi. Il fatto che l’intera umanità sia soggetta a questo<br />

gravame, e non solo i singoli uomini, determina un forte ampliamento del valore dell’atarassia<br />

epicurea: da valore in<strong>di</strong>viduale, <strong>di</strong>venta universale.<br />

100 F. Giancotti, op. cit.<br />

101 Ve<strong>di</strong> nota 10.<br />

102 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro III, vv. 14-24.<br />

103 L. Perelli, op. cit. p. 143.<br />

104 L. Perelli, op. cit. p. 145.<br />

105 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 62-65.<br />

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L’atarassia, però, potrà essere raggiunta soltanto nel momento in cui gli uomini saranno<br />

privi <strong>di</strong> ogni dubbio circa l’origine delle loro credenze: dal momento che la religione nasce<br />

dal timore <strong>di</strong> tuoni, fulmini e <strong>di</strong> tutti gli altri fenomeni naturali inspiegabili e pericolosi, che<br />

vengono interpretati come manifestazioni dell’ira degli dei, la liberazione dalla superstizione<br />

non può che andare <strong>di</strong> pari passo con la conoscenza della natura. La religione infatti è per<br />

l’uomo una via <strong>di</strong> fuga <strong>di</strong> fronte ai misteri e alle forze da cui è circondato, frutto inevitabile<br />

dell’ignoranza. Sarà quin<strong>di</strong> proprio Epicuro a dare agli uomini, con le sue spiegazioni scientifiche,<br />

la possibilità <strong>di</strong> riscattarsi e <strong>di</strong> elevarsi all’altezza <strong>di</strong> quel cielo da cui prima erano<br />

dominati.<br />

Tuttavia Lucrezio riconosce che la religione, oltre ad aver sempre rappresentato per gli<br />

uomini un potente strumento <strong>di</strong> interpretazione della realtà, è anche stata, ed è ai suoi tempi,<br />

strumento politico. La critica alla religione intesa come instrumentum regni, non riscontrata<br />

in Epicuro, ha una sua giustificazione soltanto nel mondo romano in cui il poeta vive: non<br />

a caso, dunque, Lucrezio riporta l’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Ifigenia, che “gli permette <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare le<br />

deleterie conseguenze della religione applicata alla vita politica”. 106<br />

Affianco alla violenta invettiva contro il culto degli dei, tuttavia, alcuni critici hanno<br />

visto in Lucrezio anche l’aspirazione ad una vita trascendente: si tratta proprio <strong>di</strong> quel sentimento<br />

religioso 107 che nasce dalla contemplazione della meraviglia della natura, che tuttavia,<br />

secondo Perelli, non porta al rasserenamento interiore (che si ritrova invece nell’abbandono<br />

tipicamente mistico), dal momento che il poeta non ha alcuna fede nella trascendenza dell’anima.<br />

Dopo tutte queste considerazioni circa l’irruente ribellione nei confronti degli dei tra<strong>di</strong>zionali,<br />

risulterebbe contrad<strong>di</strong>ttoria l’inno a Venere posto all’inizio del poema, 108 se non fossero<br />

presi in esame determinati fattori. Posto che Lucrezio si rivolge ad un pubblico ancora<br />

fortemente ra<strong>di</strong>cato nel culto degli dei olimpici, e che quin<strong>di</strong> si rivela necessario, per accattivarsi<br />

il suo favore, riallacciarsi alla tra<strong>di</strong>zione epica dell’invocazione alle Muse, per poter<br />

capire il perché dell’inno a Venere è importante capire innanzitutto in che modo la dea venga<br />

intesa dal poeta. Venere è la dea della bellezza, dell’amore, ma prima <strong>di</strong> tutto è la dea della<br />

vita. Secondo Boyancè 109 la dea rappresenta la forza fecondante della natura; Giancotti 110<br />

invece vede in Venere un’allegoria del principio <strong>di</strong> vita, che si contrapporrebbe a Marte, allegoria<br />

del principio <strong>di</strong> morte. Nonostante infatti gli dei non abbiano alcuna influenza nelle<br />

vicende umane, la dea viene invocata in quanto è l’unica a poter soggiogare, facendo leva<br />

sul suo fascino, il <strong>di</strong>o della guerra.<br />

Non è importante notare quante volte in questo proemio Lucrezio si sia <strong>di</strong>mostrato<br />

incoerente rispetto ai principi che sarebbero stati esposti nel resto del poema: è stato già<br />

evidenziato infatti come Lucrezio, con una sorta <strong>di</strong> captatio benevolentiae, abbia voluto<br />

rendere benevolo e partecipe il suo pubblico. Tuttavia è notevole osservare come già a partire<br />

dal proemio, Lucrezio abbia introdotto e descritto con grande accuratezza il più straziante dei<br />

bisogni fisici che toglie all’uomo ogni possibilità <strong>di</strong> raziocinio; il poeta ne esagera la potenza,<br />

arrivando ad<strong>di</strong>rittura a considerare la possibilità che esso riesca a soggiogare un <strong>di</strong>o, e anche<br />

se questo non è possibile, in quanto gli dei vivono nella più completa beatitu<strong>di</strong>ne, l’immagine<br />

<strong>di</strong> Marte schiavo del desiderio non può che generare nell’animo umano lo sgomento <strong>di</strong> fronte<br />

alla forza dell’amore.<br />

106 L. Perelli, op. cit. p. 147.<br />

107 Ve<strong>di</strong> nota 61.<br />

108 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 1-43.<br />

109 P. Boyancè, op. cit.<br />

110 F. Giancotti, op. cit.<br />

–73–


Lucrezio e l’amore<br />

La complessa problematica dell’eros viene affrontata da Lucrezio con toni realistici e con<br />

grande potenza d’immagini: il poeta insiste soprattutto sulla psicologia e sulla patologia<br />

della passione d’amore. 111 Come ogni bisogno, l’amore deve essere sod<strong>di</strong>sfatto con misura;<br />

ciò che lo rende tuttavia <strong>di</strong>verso dagli altri bisogni è la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfarlo: se infatti la<br />

fame si quieta mangiando, e la sete si placa bevendo, l’amore è insaziabile, e più <strong>di</strong> ogni altra<br />

passione ostacola il raggiungimento dell’atarassia: “amore è l’unica cosa nella quale più è<br />

grande il possesso, / più il cuore arde d’un desiderio feroce”. 112<br />

Proprio per questa ragione, il poeta consiglia una netta separazione tra sod<strong>di</strong>sfacimento<br />

dell’impulso sessuale e coinvolgimento emotivo: “Non perde il frutto <strong>di</strong> Venere chi evita<br />

l’amore, / ne deliba piuttosto le gioie e ne schiva gli affanni”. 113 Non solo: sod<strong>di</strong>sfare il bisogno<br />

fisico porta all’appagamento dei sensi, mentre l’innamoramento ha inevitabilmente<br />

effetti <strong>di</strong>sastrosi: annienta i patrimoni in regali, vestiti, gioielli, fastosi banchetti: “Le ricchezze<br />

profuse si mutano in vesti <strong>di</strong> Babilonia, (...) unguenti e calzari sicioni splendono al<br />

piede, / ver<strong>di</strong> smeral<strong>di</strong> abbagliano racchiusi nell’oro, (...) S’apprestano mense imban<strong>di</strong>te<br />

con sfarzo <strong>di</strong> cibi e costumi”; 114 <strong>di</strong>strae dall’adempimento dei propri doveri: “i doveri sono<br />

trascurati e la stella del tuo nome è in declino”; 115 scatena nell’innamorato violente passioni,<br />

incomprensioni, gelosie: “sgorga una vena d’amaro che pur nei fiori già duole, (...) o perché<br />

l’amata ti lascia nel dubbio <strong>di</strong> un’avventata parola / che nel trepido cuore confitta vi bruci<br />

come fuoco, / o sembra che occhiate dardeggi, un altro rimiri, / e in volto le appaia l’accenno<br />

<strong>di</strong> un sorriso fugace”. 116<br />

Come per ogni <strong>di</strong>fficoltà a cui l’uomo va incontro, anche per l’amore Lucrezio segna una<br />

via da seguire: dal momento che la passione tende a nascondere all’innamorato i <strong>di</strong>fetti della<br />

donna amata, e a tramutarli ad<strong>di</strong>rittura in rari pregi, (“una fosca epidermide si <strong>di</strong>ce color <strong>di</strong><br />

miele, un’immonda creatura / che emani sgradevoli effluvi, si <strong>di</strong>ce <strong>di</strong>sadorna, se ha le iri<strong>di</strong><br />

sbia<strong>di</strong>te, / è Pallade in terra, lignea e nervosa è una gazzella, se è nana la invochi / sorella<br />

delle Cariti, tutta un granello <strong>di</strong> sale; / se balbetta è per vezzo, se non parla è pu<strong>di</strong>ca, /<br />

molesta loquace, è una donna <strong>di</strong> fuoco, / un esile amorino se la consunzione l’uccide, un<br />

giunco se è morta <strong>di</strong> tosse. / Se è pingue e ne esorbita il seno, è Cerere, lasciato il suo Bacco;<br />

/ camusa è Silena, una satira; se ha tumide labbra, è da baci 117 ), l’unica via <strong>di</strong> scampo<br />

per colui che è “affetto” dalla malattia d’amore è guardarsi intorno, osservare che ci sono al<br />

mondo molte altre donne, e che quella da lui amata non è così perfetta come gli è sembrata.<br />

Perciò il poeta suggerisce <strong>di</strong> non sod<strong>di</strong>sfare i propri desideri sono con una sola donna,<br />

perché questo potrebbe portare ad “attribuire a costei più <strong>di</strong> quanto sia lecito concedere a<br />

creatura mortale”. 118 Tuttavia, nonostante l’amarezza ed il <strong>di</strong>sgusto che alcuni critici hanno<br />

in<strong>di</strong>viduato in molti versi del passo, 119 che, secondo quanto detto da S. Gerolamo, 120 deriverebbe<br />

da un sentimento <strong>di</strong> frustrazione del poeta in seguito ad un amore sventurato, qualcu-<br />

111 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1076-1083; vv. 1105-1120.<br />

112 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1089-1090.<br />

113 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1073-1074<br />

114 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1123-1131.<br />

115 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, v. 1124.<br />

116 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1134-1140.<br />

117 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1160-1169.<br />

118 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1184-1185.<br />

119 L. Perelli, op. cit.<br />

120 S. Gerolamo, Chronicon, Costantinopoli, intorno al 380 d.C.<br />

–74–


no ha visto, nel momento in cui il poeta sembra volere negare definitivamente il conforto che<br />

l’uomo può trarre dalla passione amorosa, l’emergere <strong>di</strong> un amore visto in chiave più serena<br />

e meno ingannatrice: “D’altra parte non sempre sospira <strong>di</strong> falso amore la donna / che avvinghia<br />

e congiunge le sue membra al corpo dell’uomo, / e lo stringe con labbra suggenti<br />

coprendolo <strong>di</strong> umi<strong>di</strong> baci...”. 121<br />

Conclusa l’analisi dei bisogni fisici dell’uomo, non resta al poeta che intraprendere il<br />

lungo viaggio alla ricerca delle origini dell’uomo e della civiltà.<br />

Lucrezio e il progresso<br />

La storia del genere umano occupa la seconda metà del libro V del “De rerum natura”,<br />

attingendo in buona parte all’antropologia <strong>di</strong> Epicuro. Il filosofo si opponeva al mito dell’“età<br />

dell’oro”, nella quale si sarebbe svolta la vita degli uomini primitivi, sostenendo che l’umanità<br />

avesse cominciato invece la propria esistenza in una realtà violenta, caratterizzata da<br />

<strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> sostentamento e sopravvivenza.<br />

Quando la Terra era ancora giovane, vi era un suolo caldo e fangoso, dove si formavano<br />

delle membrane. Alla rottura <strong>di</strong> tali membrane, l’animale veniva alla luce e la Terra forniva<br />

ancora una sorta <strong>di</strong> latte fino a che esso non fosse <strong>di</strong>ventato adulto. Così anche l’uomo<br />

inizialmente si nutriva <strong>di</strong> ciò che la Terra gli dava, fino a quando non riuscì a procurarsi da<br />

solo il cibo. 122<br />

L’uomo primitivo, fisicamente più forte e vigoroso, 123 vagava per i boschi seguendo<br />

l’istinto, viveva la sua sessualità in modo naturale e ciò che la terra gli donava era sufficiente<br />

per placare i suoi bisogni primari.<br />

Per quanto riguarda lo stato sociale, fra i primi uomini non esistevano legami durevoli,<br />

ognuno viveva del suo. 124 Nella critica <strong>di</strong> Boyancè 125 ciò che in effetti colpisce Lucrezio <strong>di</strong><br />

questi uomini primitivi è lo stretto rapporto della loro vita con quella delle bestie: “traevano<br />

in perpetuo errare una vita da belve”. 126 Come quin<strong>di</strong> per gli animali selvatici, anche per<br />

l’uomo primitivo l’unico pericolo era rappresentato dalla minaccia <strong>di</strong> belve più feroci <strong>di</strong> lui.<br />

Ed è proprio circa i pericoli corsi che Lucrezio fa un confronto tra l’uomo primitivo e quello<br />

contemporaneo, confronto nel quale, secondo Boyancè, 127 non si può non in<strong>di</strong>viduare un<br />

fattore <strong>di</strong> critica al progresso: con la civiltà, infatti, i pericoli per l’uomo sono aumentati, e se<br />

prima si doveva solo guardare dalle bestie feroci, adesso si trova a doversi <strong>di</strong>fendere da guerre<br />

e naufragi. 128<br />

Con il passaggio dalla vita delle origini allo stato <strong>di</strong> civiltà, la “dura razza” si intenerisce<br />

sia in senso fisico che morale: nella la nascita dei rapporti con i vicini abitanti si intravede un<br />

primo accenno <strong>di</strong> vincolo sociale; passo successivo è la comparsa dei primi legami affettivi,<br />

familiari, sentimentali. 129 Ai principi <strong>di</strong> accordo tra gli uomini Lucrezio attribuisce il termine<br />

foedera: buona parte del genere umano vi si sottomette volontariamente, spinto da un forte<br />

bisogno <strong>di</strong> sicurezza.<br />

121 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1192-1194.<br />

122 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 805-817.<br />

123 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 925-930.<br />

124 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 958-961.<br />

125 P. Boyancè, op. cit. p. 250.<br />

126 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, v. 932.<br />

127 P. Boyancè, op. cit. p. 251.<br />

128 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 982-987.<br />

129 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1019-1023.<br />

–75–


La natura, il bisogno e l’istinto rappresentano poi i fattori principali all’origine del linguaggio,<br />

sviluppato in modo graduale dagli uomini primitivi, proprio come il linguaggio a<br />

gesti dei bambini; esso viene usato per arrivare a scoprire gli strumenti <strong>di</strong> cui la natura li ha<br />

dotati. 130 Secondo la concezione <strong>di</strong> Lucrezio, non è possibile designare l’inventore del<br />

linguaggio per due ragioni: in primo luogo che non possa essere ammessa l’esistenza <strong>di</strong> un<br />

uomo eccezionale più capace degli altri, in secondo luogo che non si possa concepire un<br />

linguaggio prima <strong>di</strong> averne avuta esperienza. Il poeta vede dunque l’origine del linguaggio<br />

nell’affettività e nell’espressione spontanea dei sentimenti comuni: “Infine, cosa c’è <strong>di</strong> così<br />

strano in questo, / se il genere umano, fornito <strong>di</strong> lingua e <strong>di</strong> voce, / designò le cose con suoni<br />

<strong>di</strong>versi secondo le <strong>di</strong>verse sensazioni?”. 131<br />

La scoperta del fuoco viene attribuita dal poeta a due possibili cause: una folgore dal cielo<br />

o dei rami d’albero che si siano sfregati l’un l’altro in una tempesta. 132 L’una o l’altra che sia,<br />

rimanendo fedele alla propria linea <strong>di</strong> pensiero <strong>di</strong> naturalista, il poeta vuole far risalire il<br />

merito <strong>di</strong> questa scoperta alla natura, alla quale si deve anche l’appren<strong>di</strong>mento della cottura,<br />

grazie all’azione del sole.<br />

Ulteriore e fondamentale tappa dei rapporti sociali, che realizza una rapida trasformazione<br />

della vita dei primitivi, è la comparsa <strong>di</strong> particolari personaggi che si <strong>di</strong>stinguono per<br />

le loro capacità intellettuali: i re. 133 Questi hanno il compito <strong>di</strong> fondare città, costruire fortezze<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa e ri<strong>di</strong>stribuire il bestiame. Lucrezio insiste più sulla bellezza e la forza dei detentori<br />

del potere che sui loro meriti intellettuali. Egli infatti ritiene più giusta una monarchia fondata<br />

sulla forza e sulla bellezza, che una determinata dai beni <strong>di</strong> fortuna, i quali, scatenando<br />

negli uomini l’ambizione, sono deleteri solo per quelle monarchie in cui le ricchezze rappresentano<br />

il principio.<br />

Proprio a causa della violenza scatenata dall’ambizione, l’uomo ha sentito il bisogno <strong>di</strong><br />

leggi, legislazioni e magistrature.<br />

Per quanto riguarda la giustizia, il poeta approfon<strong>di</strong>sce la teoria epicurea <strong>di</strong> una giustizia<br />

fondata sui castighi. I motivi addotti sono ancora una volta <strong>di</strong> tipo sentimentale: il genere<br />

umano, stanco della violenza che lo circondava, si sottomette volontariamente al giogo delle<br />

leggi. 134<br />

Altro evento fondamentale è la scoperta dei metalli che Lucrezio attribuisce all’insegnamento<br />

della natura, contrariamente all’opinione <strong>di</strong> Posidonio, 135 che ne considerava causa<br />

principale l’intervento <strong>di</strong> alcuni filosofi e sapienti vissuti all’inizio della civiltà. Se da parte<br />

<strong>di</strong> Posidonio si ha l’esaltazione <strong>di</strong> questo evento chiave, Lucrezio invece critica aspramente<br />

l’uomo, che preferisce al bronzo l’argento e l’oro, i quali si riveleranno fonte <strong>di</strong> corruzione<br />

morale.<br />

Secondo la critica <strong>di</strong> Perelli, 136 il punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> Lucrezio, tendenzialmente pessimistico,<br />

lo porta ad in<strong>di</strong>viduare due cause del deca<strong>di</strong>mento e dello svilimento <strong>di</strong> ogni cosa, una<br />

<strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne cosmico, l’altra <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne psicologico. In quella <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne cosmico, la terra inari<strong>di</strong>sce<br />

e invecchia; in quella <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne psicologico, le cose, che dapprima sono considerate sufficienti,<br />

<strong>di</strong>ventano vili e monotone. La ragione <strong>di</strong> quest’ultima sta nell’incontentabilità propria dell’uomo,<br />

sulla quale dunque è da riversare la colpa dei mali da cui egli stesso è tormentato.<br />

130 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1028-1032.<br />

131 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1056-1058.<br />

132 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1091- 1101.<br />

133 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1108-1112.<br />

134 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1145-1151.<br />

135 Posidonio, Testimonianze e frammenti, a cura <strong>di</strong> Emmanuele Vinmercati, Milano, Bompiani, 2004<br />

136 L. Perelli, op. cit. pp. 134-135.<br />

–76–


Percorrendo infine le tappe dello sviluppo delle arti nell’evoluzione dell’uomo, Lucrezio<br />

condanna quella della guerra, portatrice <strong>di</strong> tremen<strong>di</strong> orrori. Nella natura va ricercata l’origine<br />

dell’agricoltura, come anche quelle della musica, nata dall’imitazione dell’uomo dei suoni<br />

naturali, ad esempio il canto degli uccelli: “ma imitare con la bocca le fluide voci degli uccelli<br />

/ si usò molto prima che gli uomini sapessero modulare / con il canto armoniosi versi e<br />

allietare gli orecchi”. 137<br />

In conclusione, dall’analisi dello sviluppo e del progresso dell’uomo, si nota l’assenza<br />

<strong>di</strong> entusiasmo del poeta nei confronti del progresso, che oltre a non aver assicurato nessuna<br />

nuova felicità, ha ad<strong>di</strong>rittura offerto alle passioni nuove occasioni <strong>di</strong> scatenarsi, <strong>di</strong> cui la<br />

guerra è l’inevitabile frutto. La vita sociale ha spinto l’uomo verso l’ambizione e la cupi<strong>di</strong>gia.<br />

Bisogna dunque pensare che secondo Lucrezio la con<strong>di</strong>zione degli uomini primitivi fosse<br />

superiore? Tuttavia Epicuro aveva più volte contrastato la teoria della mitica età dell’oro,<br />

che, sebbene descritta in altri termini, è stata da alcuni in<strong>di</strong>viduata proprio nei versi in cui il<br />

poeta descrive la semplicità e l’assenza <strong>di</strong> preoccupazioni dell’uomo primitivo. Altri invece<br />

ritengono che questa assimilazione vita primitiva-età dell’oro non possa essere in<strong>di</strong>viduata,<br />

dal momento che i primi uomini ignoravano la scienza morale che sarebbe stata un giorno<br />

rivelata da Epicuro, il loro limite era <strong>di</strong> vivere in modo puramente istintivo, e in mancanza <strong>di</strong><br />

una scienza fondante, l’esistenza era precaria e fragile.<br />

Pertanto, se si accolgono le teorie <strong>di</strong> coloro che sostengono la condanna del progresso 138<br />

da parte <strong>di</strong> Lucrezio, dal momento che la sicurezza l’oggetto primo della ricerca degli epicurei,<br />

e poiché per l’uomo primitivo le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita selvatica escludevano la sicurezza<br />

fisica e morale e la pace dell’anima, non si potrà che osservare come ancora una volta il poeta<br />

sia pervenuto a conclusioni molto <strong>di</strong>verse da quelle del maestro.<br />

Avrebbe dunque ragione Perelli, nell’affermare, concordando con Borle, 139 che in Lucrezio<br />

la figura del “sociologo”, favorevole al progresso, coesiste con quella del “moralista”, che lo<br />

condanna, e che “applica arbitrariamente alla storia del progresso la morale epicurea”. 140<br />

Resta ancora aperto il <strong>di</strong>battito tra i critici circa la fedeltà <strong>di</strong> Lucrezio alle dottrine <strong>di</strong><br />

Epicuro. Come si è già visto in molti punti, è stato spesso in<strong>di</strong>viduato nel poeta un forte pessimismo,<br />

che sarebbe in netto contrasto con l’ottimistica fiducia epicurea nella liberazione dei<br />

mali attraverso la conoscenza della natura. Alcuni stu<strong>di</strong>osi, per poter spiegare questo contrasto,<br />

hanno tentato <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare una vena pessimistica anche nella dottrina <strong>di</strong> Epicuro:<br />

secondo Martha, ad esempio, “la tristezza è nel sistema”, 141 mentre Giancotti riconosce il<br />

“pessimismo inerente all’epicureismo in quanto dottrina edonistica, (...) che sconsacra come<br />

follia gran parte <strong>di</strong> ciò che fa sacra la vita degli uomini”. 142 Tuttavia, è lo stesso Giancotti a<br />

considerare che la filosofia <strong>di</strong> Epicuro non può essere intesa né pessimista, né ottimista in<br />

senso assoluto: infatti, afferma l’esistenza del male, ma non la sua insuperabilità. “Professa<br />

la superiorità della ragione, che è capace <strong>di</strong> dare all’uomo il sommo bene”. 143 Lucrezio,<br />

secondo il critico, non viene mai meno alla fiducia nella ragione umana, e pur abbandonandosi<br />

a volte in sentimenti <strong>di</strong> sconforto <strong>di</strong> fronte all’umana follia, non nega che l’uomo possa<br />

effettivamente, grazie ai suoi insegnamenti, liberarsi dal peso delle false convinzioni e delle<br />

sciocche paure.<br />

137 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1379-1381.<br />

138 L. Perelli, op. cit. p. 137.<br />

139 J. P. Borle, Progrés ou déclin de l’humanité, in “MM”, 1962, pp. 162-163.<br />

140 L. Perelli, op. cit. p. 139.<br />

141 C. Martha, Le poème de Lucrèce, Parigi, 1909, p. 316.<br />

142 F. Giancotti, op. cit. p. 337.<br />

143 F. Giancotti, op. cit. p. 339.<br />

–77–


In ogni verso del De Rerum Natura, Lucrezio perora con ardore la sua causa: descrivendo<br />

il mondo, il poeta ha descritto l’uomo, ed ha de<strong>di</strong>cato alla natura umana uno spazio molto<br />

maggiore rispetto all’esposizione delle dottrine fisiche. È dunque evidente, sia dalla struttura<br />

dell’opera, sia dal sentimento espresso dal poeta, che la cosmologia è strettamente subor<strong>di</strong>nata<br />

all’etica, e che solo attraverso la conoscenza dell’universo e dei principi che lo governano,<br />

l’uomo può liberarsi dalle superstizioni e dalle paure, ed essere realmente felice:<br />

“Perciò, a sua volta abbattuta sotto i pie<strong>di</strong>, la religione<br />

È calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo”. 144<br />

Bibliografia:<br />

Fonti:<br />

LUCREZIO, La natura delle cose, Trad. <strong>di</strong> Luca Canali, BUR, Milano, 1994.<br />

EPICURO, Epistola ad Erodoto.<br />

EPICURO, Epistola a Meneceo.<br />

EPICURO, Massime Capitali.<br />

DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, Libro X.<br />

TUCIDIDE, Storie, II.<br />

S. GEROLAMO, Chronicon, Costantinopoli, intorno al 380 d.C.<br />

POSIDONIO, Testimonianze e frammenti, a cura <strong>di</strong> Emmanuele Vinmercati, Milano, Bompiani,<br />

2004.<br />

Monografie:<br />

L. PERELLI, Lucrezio, Poeta dell’Angoscia, La Nuova Italia, Firenze, 1989.<br />

BOYANCÈ, Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, 1985.<br />

E. PARATORE, Lucretii De Rerum Natura, Athenaei, Roma, 1960.<br />

C. BAILEY, The Greek Atomists and Epicurus, Oxford, 1928.<br />

L. PERELLI, Lucrezio, Letture Critiche, Mursia, Milano, 1977.<br />

W. Y. SELLAR, The Roman Poets of the Republic, Oxford, 1905.<br />

C. GIUSSANI, Stu<strong>di</strong> Lucreziani, Torino, 1896-1898; e Bignone, Epicuro, Laterza, Bari, 1920.<br />

G. GARBARINO, Letteratura Latina, Opera, Vol. 1B, Paravia, Varese, 2003.<br />

L. GROSSI - R. ROSSI, Poesia e Filosofia in Lucrezio, in Homines atque aevum, vol. 2, Paravia,<br />

Piacenza, 2002.<br />

F. GIANCOTTI, Religio, Natura, Voluptas, Stu<strong>di</strong> su Lucrezio, Patron, Bologna, 1989.<br />

J. P. BORLE, Progrés ou déclin de l’humanité, in “MM”, 1962.<br />

C. MARTHA, Le poème de Lucrèce, Parigi, 1909.<br />

144 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 78-79.<br />

–78–


CAPITOLO III<br />

3.1 IL CONFLITTO IMMANENTE ALLA NATURA UMANA<br />

E LE NECESSITA DELLE REGOLE<br />

NEL PENSIERO DI HOBBES E HUME<br />

Lo stretto legame che in epoca antica – in particolare, come si è visto, nella dottrina<br />

epicurea – intercorreva tra la sfera della natura fisica e quella della natura morale, viene meno<br />

nel pensiero <strong>di</strong> Hobbes e Hume. Infatti, nonostante l’innegabile <strong>di</strong>stanza esistente tra i due<br />

impianti filosofici, bisogna presupporre l’esistenza <strong>di</strong> un terreno <strong>di</strong> partenza comune ad<br />

entrambi. Thomas Hobbes 145 è testimone dei profon<strong>di</strong> cambiamenti economici, sociali e<br />

politici che investono l’Europa, ed in particolare l’Inghilterra, nel corso del <strong>di</strong>ciassettesimo<br />

secolo. La politica assolutistica della corona inglese è in evidente contrasto con l’aspirazione<br />

della borghesia <strong>di</strong> vedersi riconosciuto un potere politico. Le continue e violente lotte civili<br />

offrono al filosofo l’occasione <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are a fondo i comportamenti degli uomini: passioni e<br />

istinti guidano le loro azioni, i personali interessi spingono all’uccisione reciproca e sono gli<br />

uomini stessi a mettere in pericolo la propria sopravvivivenza.<br />

Importante è quin<strong>di</strong> la premessa ed insieme la giustificazione della filosofia politica <strong>di</strong><br />

Hobbes: la riflessione hobbesiana scaturisce proprio dal desiderio e dalla necessità <strong>di</strong> uscire<br />

da una situazione <strong>di</strong> instabilità e <strong>di</strong> crisi, per impe<strong>di</strong>re la per<strong>di</strong>ta della pace e la <strong>di</strong>struzione<br />

della vita: «quel bellum omnium contra omnes, che sintetizza la concezione hobbesiana dello<br />

stato <strong>di</strong> natura, incalzato dal plautino homo homini lupus, non riflette tanto il fondamento <strong>di</strong><br />

una generica cultura umanistica, quanto l’esperienza – personale e storica –, <strong>di</strong> una società<br />

nobiliare in<strong>di</strong>vidualistica e sfrenata, in continua lotta per la preminenza – ma anche per la<br />

sopravvivenza» 146 .<br />

Per Hobbes, la rottura del rapporto tra natura e natura umana nasce dalla determinazione<br />

della malvagità propria della natura dell’uomo, che allo stato <strong>di</strong> natura è vittima delle passioni<br />

e dell’o<strong>di</strong>o per gli altri uomini. Questa con<strong>di</strong>zione porta conseguentemente all’imprescin<strong>di</strong>bile<br />

necessità <strong>di</strong> creare delle leggi: nello stato <strong>di</strong> natura, infatti, l’uomo è privato <strong>di</strong> qualsiasi<br />

bontà, come un animale consegnato alla legge della giungla. Nell’uomo, come in un animale,<br />

convivono istinti e passioni; tuttavia possiede la ragione che lo <strong>di</strong>stingue: essa, se opportunamente<br />

usata, è in grado <strong>di</strong> prevedere le azioni e le loro conseguenze per poi agire. Questa<br />

compresenza <strong>di</strong> passioni incontrollabili e <strong>di</strong> ragione si esprime nell’azione opposta e contrastante<br />

della cupi<strong>di</strong>tas naturalis e della ratio naturalis. La cupi<strong>di</strong>tas naturalis spinge l’uomo<br />

a sod<strong>di</strong>sfare <strong>di</strong> volta in volta i suoi continui bisogni, godendone solo per sè: ciò che consente<br />

all’uomo <strong>di</strong> avanzare in questo continuo processo <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfazione dei desideri è il potere,<br />

consistente nei mezzi naturali e strumentali che ogni uomo possiede. La ragione, invece, ha<br />

in sé il cosiddetto desiderio <strong>di</strong> autoconservazione che porta a fuggire da tutti i mali.<br />

Hobbes ritiene che tutti gli uomini siano uguali per natura: «Quanto alla facoltà della<br />

mente, trovo che tra gli uomini vi sia un’eguaglianza ancora più grande <strong>di</strong> quella della forza<br />

fisica» 147 . Essendo gli uomini uguali, uguale sarà anche la speranza <strong>di</strong> raggiungere i propri<br />

fini, e pur <strong>di</strong> raggiungerli essi saranno anche <strong>di</strong>sposti a <strong>di</strong>struggersi o sottomettersi gli uni agli<br />

altri. Questa con<strong>di</strong>zione propria dello stato <strong>di</strong> natura, in cui vige il <strong>di</strong>ritto naturale, porta gli<br />

uomini all’assoggettamento, con la violenza o con l’inganno, delle persone più potenti, al fine<br />

145 Malmesbury, 5 aprile 1588 - Hardwick Hall, 4 <strong>di</strong>cembre 1679.<br />

146 A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, pag. 40.<br />

147 T. Hobbes, Leviatano, Laterza, pag. 99.<br />

–79–


<strong>di</strong> avere anch’essi quella potenza <strong>di</strong> cui sono privi. Ma ci sono alcuni uomini che esercitano<br />

questa pratica in modo in<strong>di</strong>scriminato poiché provano piacere «nel contemplare il loro proprio<br />

potere nelle azioni <strong>di</strong> conquista, che essi praticano più <strong>di</strong> quanto non richieda la loro sicurezza».<br />

148 Hobbes parlando del rapporto che intercorre tra gli uomini specifica l’afflizione che<br />

provano essi a stare in compagnia <strong>di</strong> altri uomini, e quando non si vedono stimati da un loro<br />

compagno, per accrescerla, arrecano all’altro danno. Tre sono le cause che scatenano la contesa:<br />

la rivalità, la <strong>di</strong>ffidenza e l’orgoglio. Per quanto riguarda la rivalità essi la usano per<br />

aggre<strong>di</strong>re al fine <strong>di</strong> raggiungere un vantaggio, ad esempio impossessarsi delle cose altrui –<br />

donne, bestiame, figli; la <strong>di</strong>ffidenza viene al contrario usata per la conservazione <strong>di</strong> quelle cose<br />

che precedentemente sono state acquistate con la rivalità, ed ha perciò uno scopo <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa;<br />

l’orgoglio tende alla reputazione, ovvero si rivolge a quelle «inezie» che forniscono a chi le<br />

riceve un segno <strong>di</strong> <strong>di</strong>sistima verso gli amici, familiari e tutto ciò che concerne la loro persona.<br />

Senza un potere comune che tenga gli uomini in soggezione, essi si troverebbero in una<br />

con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> guerra. Essa consiste in uno spazio <strong>di</strong> tempo in cui è <strong>di</strong>chiarata la volontà <strong>di</strong><br />

affrontarsi. La guerra dunque «non consiste solo nel combattimento in sé ma nella <strong>di</strong>sposizione<br />

<strong>di</strong>chiarata verso questo tipo <strong>di</strong> situazione». In tempo <strong>di</strong> guerra, non vi è posto per alcun<br />

tipo <strong>di</strong> operosità: non vi sono costruzioni, né coltivazione, né arti, né lettere. L’uomo è solo,<br />

ostile, misero, ed è animato dal perenne timore <strong>di</strong> una morte violenta. Appare chiaro, quin<strong>di</strong>,<br />

che in uno stato <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> ogni uomo contro ogni altro uomo, non esiste alcuna legge, e<br />

dunque nemmeno ingiustizia. Al contrario la violenza e la frode «sono in tempo <strong>di</strong> guerra le<br />

due virtù car<strong>di</strong>nali». 149<br />

L’uomo è dunque intrappolato in una tristissima con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne e conflitto con<br />

gli altri, dalla quale però potrebbe uscire attraverso le possibilità che risiedono tanto nelle<br />

passioni quanto, soprattutto, nella ragione. Infatti la paura della morte ed il desiderio delle<br />

cose che rendono piacevole la vita sono le passioni che spingono l’uomo alla pace; la ragione<br />

in<strong>di</strong>ca convenienti clausole <strong>di</strong> pace, sulla cui base è possibile condurre gli uomini ad un<br />

accordo: si tratta delle leggi <strong>di</strong> natura.<br />

La legge naturale «è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che proibisce<br />

ad un uomo <strong>di</strong> fare ciò che <strong>di</strong>struggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per<br />

conservarla, e <strong>di</strong> non fare ciò che egli considera meglio per conservarla». 150<br />

La prima e fondamentale legge <strong>di</strong> natura consiste nella ricerca della pace: «è una regola<br />

generale della ragione che ciascuno debba cercare la pace per quanto ha speranza <strong>di</strong> ottenerla,<br />

e che, se non è in grado <strong>di</strong> ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e i vantaggi<br />

della guerra». Da essa deriva la seconda, che consiste invece nel rinunciare alla pace, alla<br />

<strong>di</strong>fesa propria e al <strong>di</strong>ritto su tutto: «che si sia <strong>di</strong>sposti, quando anche altri lo siano, a rinunciare,<br />

nella misura in cui lo si ritenga necessario alla pace e alla propria <strong>di</strong>fesa, al <strong>di</strong>ritto su<br />

tutto e ci si accontenti <strong>di</strong> avere tanta libertà nei confronti degli altri quanta se ne concede agli<br />

altri nei confronti <strong>di</strong> se stessi». 151<br />

La terza legge <strong>di</strong> natura consiste nel mantenere i patti che si sono stretti. Essa è all’origine<br />

del concetto <strong>di</strong> giustizia e ingiustizia: è ingiusto il mancato adempimento del patto,<br />

mentre è giusto tutto quel che non è ingiusto.<br />

Quanto alle altre leggi naturali, in totale <strong>di</strong>ciannove, secondo Hobbes esse si possono<br />

riassumere in una sola frase: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te. Esse ob-<br />

148 Op. cit. pag. 100.<br />

149 T. Hobbes, Leviatano, Laterza, pag. 101.<br />

150 Op. cit. pag. 105.<br />

151 Op. cit. pag. 106.<br />

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ligano in foro interno, cioè in coscienza, ma non altrettanto in foro externo, cioè nel tradurle<br />

in atto. Sono inoltre immutabili ed eterne, giacché le illegittimità restano per sempre tali, la<br />

guerra non preserva la vita e la pace mai la <strong>di</strong>strugge.<br />

Queste leggi sono il fondamento della filosofia morale, la quale «non è altro che la<br />

scienza <strong>di</strong> ciò che è bene e male nei rapporti e nella società degli uomini». 152<br />

Numerose sono state le critiche sviluppatesi intorno al concetto <strong>di</strong> legge <strong>di</strong> natura, che<br />

evidenziano una supposta contrad<strong>di</strong>zione insita nel sistema filosofico hobbesiano. Queste<br />

critiche, in verità eccessive, sarebbero valide se i caratteri della ragione hobbesiana fossero<br />

gli stessi <strong>di</strong> quelli assegnatele dal tra<strong>di</strong>zionale giusnaturalismo. Infatti «Hobbes è stato molto<br />

deciso, già negli Elements, nel negare ogni forma <strong>di</strong> normatività universale alla ragione,<br />

che è invece un meccanismo puramente formale»: 153 la ragione, in quanto capace <strong>di</strong> calcolare<br />

le possibilità <strong>di</strong> autoconservazione, induce l’uomo a comportarsi secondo delle norme che non<br />

sono propriamente leggi ma, appunto, teoremi tratti dalla ragione.<br />

Gli uomini dunque calcolano razionalmente e ciò li porta ad associarsi l’uno all’altro e<br />

a vivere negli stati, dove esiste un potere visibile in grado <strong>di</strong> assoggettarli per impe<strong>di</strong>re loro<br />

<strong>di</strong> infrangere i patti e le leggi natura. Quest’ultime, infatti, da sole non bastano per garantire<br />

sicurezza: senza un forte e riconosciuto come tale, esse sono solo parole che ognuno calpesterà,<br />

per far legittimamente uso della propria forza.<br />

Per erigere un forte potere comune è necessario trasferire tutta la forza e tutto il potere<br />

ad un solo uomo o ad un’assemblea, attraverso un patto – irreversibile – <strong>di</strong> ciascuno con tutti<br />

gli altri, come se si <strong>di</strong>cesse: «Do autorizzazione e cedo il mio <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> governare me stesso<br />

a quest’uomo, o a quest’assemblea <strong>di</strong> uomini, a questa con<strong>di</strong>zione che tu, nello stesso modo,<br />

gli ceda il tuo <strong>di</strong>ritto e ne autorizzi tutte le azioni». Nasce così il grande Leviatano, o <strong>di</strong>o<br />

mortale, in grado <strong>di</strong> garantire la pace e la sicurezza e in cui risiede l’essenza dello stato;<br />

quest’ultimo quin<strong>di</strong> è «una persona unica dei cui atti [i membri <strong>di</strong>] una grande moltitu<strong>di</strong>ne<br />

si sono fatti autori, me<strong>di</strong>ante patti reciproci <strong>di</strong> ciascuno con ogni altro, affinché essa possa<br />

usare la forza e i mezzi <strong>di</strong> tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la <strong>di</strong>fesa<br />

comune». 154<br />

Il Sovrano, che ha potere assoluto, incarna questa persona, tutti gli altri sono suoi sud<strong>di</strong>ti.<br />

Esistono due maniere per istituire il potere sovrano: la prima consiste nell’accordarsi tra<br />

gli uomini per sottomettersi volontariamente ad un certo uomo o ad una certa assemblea, e<br />

tale è lo stato per istituzione; la seconda consiste nella forza naturale, ovvero nell’imposizione<br />

alla sottomissione, e questo è detto stato per acquisizione. La <strong>di</strong>fferenza fondamentale sta nella<br />

matrice <strong>di</strong>versa <strong>di</strong> paura, infatti la sovranità per acquisizione «<strong>di</strong>fferisce dalla sovranità per<br />

istituzione solo in ciò, che gli uomini che scelgono il loro sovrano lo fanno per paura l’uno<br />

dell’altro e non <strong>di</strong> colui che istituiscono [sovrano]; mentre in questo caso si sottomettono a<br />

colui <strong>di</strong> cui hanno timore». 155<br />

Esistono tre forme <strong>di</strong> stato: la monarchia, quando il rappresentante è un singolo uomo;<br />

la democrazia, quando è un’assemblea aperta a tutti; l’aristocrazia, quando è un’assemblea<br />

ristretta. Gli altri regimi non sono che altri nomi per in<strong>di</strong>care le tre specie fondamentali <strong>di</strong> stato<br />

in un accezione negativa o avversa. La <strong>di</strong>versità tra queste forme non consiste nella <strong>di</strong>fferenza<br />

<strong>di</strong> potere ma nella <strong>di</strong>fferenza dei vantaggi che presentano per preservare la pace e la sicurezza:<br />

nell’analisi <strong>di</strong> questi vantaggi è indubbio che Hobbes ritenga maggiormente idonea<br />

152 Op. cit. pag. 129.<br />

153 A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, pag. 44.<br />

154 T. Hobbes, Leviatano, Laterza, pag. 143.<br />

155 Op. cit. pag. 167.<br />

–81–


la monarchia. Infatti in una monarchia l’interesse pubblico converge con quello privato,<br />

giacché la prosperità del monarca deriva necessariamente dalla ricchezza dei suoi sud<strong>di</strong>ti.<br />

Inoltre il monarca può avvalersi del consiglio <strong>di</strong> chi desidera e quando lo desidera, le sue<br />

decisioni non sono soggette all’incostanza del numero, come in assemblea, e <strong>di</strong> certo non può<br />

essere in <strong>di</strong>saccordo con se stesso per interesse o invi<strong>di</strong>a. Hobbes è ostile alla retorica, a causa<br />

«dell’uso in<strong>di</strong>scriminatamente mistificatorio che se ne fa in politica». 156<br />

Altro punto sostanziale della teoria politica hobbesiana risiede nella delineazione dei<br />

limiti della libertà del sud<strong>di</strong>to e, per contro, dell’infinità <strong>di</strong> quella del sovrano. In primo luogo,<br />

un uomo libero è «colui che, nelle cose che è capace <strong>di</strong> fare con la propria forza e il proprio<br />

ingegno, non è impe<strong>di</strong>to <strong>di</strong> fare ciò che ha la volontà <strong>di</strong> fare». 157<br />

Come precedentemente si è detto, per raggiungere la pace gli uomini hanno creato un<br />

uomo artificiale detto stato; allo stesso modo hanno conseguentemente costruito delle catene<br />

artificiali dette leggi civili, fissate attraverso patti reciproci. La libertà del sud<strong>di</strong>to è circoscritta<br />

dunque a ciò che non è stato co<strong>di</strong>ficato entro una legge; infatti «in tutti i generi <strong>di</strong> azioni trascurate<br />

dalle leggi gli uomini hanno la libertà <strong>di</strong> comportarsi nel modo che la loro ragione<br />

suggerirà come il più vantaggioso per loro stessi». Fuor <strong>di</strong> questi confini, l’uomo è tenuto a<br />

osservare le leggi civili, in quanto membro dello stato. La legge civile è «per ogni sud<strong>di</strong>to<br />

l’insieme delle norme che [...] lo stato gli ha or<strong>di</strong>nato <strong>di</strong> applicare per <strong>di</strong>stinguere il <strong>di</strong>ritto<br />

dal torto; vale a <strong>di</strong>re ciò che è contrario alla norma da ciò che non lo è». 158 Il legislatore è<br />

il sovrano, il quale non è soggetto ad esse. Occorre poi sottolineare la corrispondenza tra legge<br />

<strong>di</strong> natura e legge morale, in quanto la legge naturale «prescrive la pratica <strong>di</strong> comportamenti,<br />

come la moderazione, l’equità, la fedeltà, l’umanità, la misericor<strong>di</strong>a, che se da un lato sono<br />

necessari al conseguimento della pace, e quin<strong>di</strong> della sopravvivenza, dall’altro sono anche<br />

quelle che comunemente si chiamano virtù». 159<br />

È particolarmente interessante notare l’assoluta <strong>di</strong>scordanza tra il pensiero politico hobbesiano<br />

e i contemporanei drastici cambiamenti politici ed economici della sua Inghilterra.<br />

Hobbes propone infatti una teoria che delinea i tratti <strong>di</strong> uno stato in tutto e per tutto assoluto,<br />

in un momento in cui le forze anti-assolutistiche trionfano e una forma <strong>di</strong> monarchia parlamentare<br />

si instaura decisamente in terra inglese. La guerra civile è conclusa e la pace è restaurata:<br />

non attraverso l’istituzione <strong>di</strong> un potere assoluto, ma attraverso il suo abbattimento.<br />

Numerose ad aspre sono le critiche mosse alla concezione assolutistica dello stato <strong>di</strong><br />

Hobbes. Il contemporaneo Locke, in accordo con la concezione giusnaturalista, sostiene la<br />

duplice natura del patto, pactum unionis o pactum subjectionis. Hobbes <strong>di</strong> fatto unisce i due<br />

patti nel patto d’unione, me<strong>di</strong>ante il quale gli uomini, <strong>di</strong>venendo sud<strong>di</strong>ti, alienano i proprio<br />

<strong>di</strong>ritti al sovrano. Ponendosi in netto contrasto con tale concezione, Locke sostiene al contrario<br />

che nel passaggio dalla stato <strong>di</strong> natura allo stato civile l’uomo conserva tutti i <strong>di</strong>ritti, e che il<br />

potere coercitivo è in<strong>di</strong>spensabile per la garanzia degli stessi. All’in<strong>di</strong>visibilità del potere<br />

hobbesiana si sostituisce dunque l’esigenza <strong>di</strong> separarlo in <strong>di</strong>verse entità – potere legislativo,<br />

esecutivo e federativo – che hanno come fine ultimo il bene dello stato. Locke sostiene inoltre<br />

il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> resistenza nel caso in cui il potere dello stato <strong>di</strong>viene ingiusto, partendo dalla<br />

teoria del Contrattualismo, in effetti già avanzata da Hobbes.<br />

Più <strong>di</strong> un secolo dopo, Kant accusa l’inglese <strong>di</strong> aver ridotto l’uomo ad una semplice<br />

macchina, assoggettato alle leggi <strong>di</strong> natura poiché incapace <strong>di</strong> autodeterminarsi, pretendendo<br />

156 A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, pag. 55.<br />

157 T. Hobbes, Leviatano, Laterza, pag. 175.<br />

158 Op. cit. pag. 219<br />

159 A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, pag. 48.<br />

–82–


persino <strong>di</strong> prevedere in maniera matematica il risultato delle azioni umane. Kant, riconoscendo<br />

al contrario l’importanza dell’in<strong>di</strong>viduo attraverso la ragion pura pratica, ritiene che<br />

l’uomo si autodetermina e che è portato ad agire in vista del meglio per tutti.<br />

La critica contemporanea tende a confutare, in parte o totalmente, le conclusioni hobbesiane<br />

circa lo stato <strong>di</strong> natura e le basi del potere civile.<br />

Lo stu<strong>di</strong>oso Buchanan, 160 accettando l’esistenza dello stato <strong>di</strong> natura così come Hobbes<br />

lo immagina, ritiene che in esso l’assenza <strong>di</strong> conflitto sarebbe impossibile, a meno che gli<br />

in<strong>di</strong>vidui vivano isolati gli uni dagli altri. Per uscire da questa situazione, è necessario trovare<br />

un accordo che consenta <strong>di</strong> conseguire la pace: il contratto. La stipulazione del contratto <strong>di</strong><br />

base non elimina tuttavia il problema <strong>di</strong> fondo: l’uomo, infatti, rispetta le regole soltanto se<br />

ha la certezza che gli altri facciano altrettanto. Inoltre, anche nel caso in cui tutti rispettino il<br />

contratto, l’uomo riterrà maggiormente conveniente infrangerlo lui solo. In sintesi: la stipulazione<br />

<strong>di</strong> un contratto non implica la completa adesione allo stesso. Da ciò nasce l’esigenza<br />

<strong>di</strong> creare una struttura legale e un’autorità esecutiva che non assume tuttavia i tratti del<br />

Leviatano: l’istituzione, secondo Buchanan, deve essere limitata dalla costituzione <strong>di</strong> base.<br />

È inoltre opportuno sottolineare la doppia natura dello stato nella concezione del filosofo:<br />

una “protettiva”, che impone il rispetto delle leggi, ed una “produttiva”, che assicura agli<br />

in<strong>di</strong>vidui la fruizione dei beni pubblici. Secondo Buchanan, benché lo stato debba essere<br />

“protettivo” e non assoluto come nella concezione hobbesiana, nella realtà <strong>di</strong> fatto quest’ultimo<br />

tende a emergere in quanto esso è controllato da uomini stessi, tendenti al benessere personale<br />

più che a quello collettivo.<br />

Del tutto <strong>di</strong>fferente è il contesto storico entro cui si inserisce la filosofia <strong>di</strong> David<br />

Hume. 161 Il settecento, con la <strong>di</strong>ffusione a macchia d’olio dell’Illuminismo, è caratterizzato<br />

da una riscoperta e da una rivalutazione delle potenzialità razionali dell’uomo. La fiducia<br />

nella ragione mira a liberare l’in<strong>di</strong>viduo dall’ignoranza, dalla superstizione e dai pregiu<strong>di</strong>zi.<br />

In armonia con lo spirito razionalistico, la critica illuministica si estende anche alla religione<br />

tra<strong>di</strong>zionale: per Hume essa è il frutto dei timori e dei tormenti che agitano l’uomo, dei quali<br />

si attribuisce la causa a Dio. Forte è il legame tra l’illuminismo e la società borghese, classe<br />

in continua ascesa economica e politica ormai da secoli. Il fenomeno culturale illuminista può<br />

considerarsi in questo senso espressione ed insieme arma intellettuale dello straor<strong>di</strong>nario<br />

progresso della borghesia settecentesca: non è un caso, infatti, che i maggiori esponenti dell’Illuminismo<br />

siano per lo più <strong>di</strong> estrazione borghese.<br />

Particolarmente fecon<strong>di</strong> furono gli stu<strong>di</strong> scientifici, con la definitiva sepoltura della<br />

vecchia scienza <strong>di</strong> matrice aristotelica.<br />

La figura <strong>di</strong> Hume si inserisce ampiamente in tale contesto, trovando in particolare accoglienza<br />

nei salotti francesi, il cui maggior interesse è occupato dalle conclusioni antimetafisiche<br />

e dall’analisi antropologica e psicologica della religione operate dal filosofo scozzese.<br />

Alla base del filosofare <strong>di</strong> Hume sta infatti il progetto <strong>di</strong> costruire una filosofia della natura<br />

umana, attraverso l’analisi accurata delle <strong>di</strong>verse <strong>di</strong>mensioni che la costituiscono: ragione e<br />

sentimento, morale e politica.<br />

Prima <strong>di</strong> addentrarsi nell’analisi dello stu<strong>di</strong>o che Hume ha condotto circa la natura<br />

umana, è bene porre subito un’importante premessa: il filosofo, contrariamente a quanto<br />

asserisce Hobbes, non concepisce l’uomo come un essere negativo e malvagio, ma riconosce<br />

che, nell’in<strong>di</strong>viduo, siano presenti sentimenti che lo inducono al bene ed altri che al contrario<br />

lo portano al male. Hume critica inoltre le pretese della ragione, che non può regolare<br />

160 Buchanan, J.M. (1998), I Limiti della Libertà, Rusconi.<br />

161 E<strong>di</strong>mburgo, 26 aprile 1711 - E<strong>di</strong>mburgo, 25 agosto 1776.<br />

–83–


la vita pratica, e nega che taluni principi – la giustizia, il contratto originario, etc. –, abbiano<br />

un fondamento razionale.<br />

L’uomo è una creatura imperfetta, le cui azioni scaturiscono dalla compresenza <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse<br />

passioni, le quali portano l’uomo ad agire, e non è dunque la sola ragione a indurre l’uomo a<br />

compiere un’azione: «Credo proprio che non si <strong>di</strong>rà che la prima specie <strong>di</strong> ragionamento, da<br />

solo, possa essere causa <strong>di</strong> qualche azione. Il suo regno è quello delle idee, mentre la volontà<br />

ci pone sempre in quello della realtà; quin<strong>di</strong> la <strong>di</strong>mostrazione e la volizione si <strong>di</strong>mostrano del<br />

tutto separate l’una dall’altra... Il ragionamento astratto e <strong>di</strong>mostrativo non influenza mai alcuna<br />

delle nostre azioni, se non in quanto <strong>di</strong>rige il nostro giu<strong>di</strong>zio sulle cause degli effetti». 162<br />

Sebbene ragione e volizione siano completamente separate, tuttavia esse non sono mai<br />

in contrad<strong>di</strong>zione l’una con l’altra, poiché una passione non può mai essere considerata<br />

assolutamente irragionevole, a meno che essa non sia fondata su una falsa supposizione. È<br />

evidente dunque che quelle passioni che Hume definisce violente – quanto più è vivace e forte<br />

una passione, tanto più essa influisce sull’agire umano –, hanno un effetto determinante sulle<br />

facoltà dell’uomo, il quale agisce in virtù delle passioni e non del ragionamento, anche se<br />

questo ritorna utile per rintracciare le relazioni presenti tra gli oggetti che l’uomo vede e le<br />

conseguenti sensazioni. Infatti: «È ovvio che quando da un oggetto ci viene la prospettiva <strong>di</strong><br />

un piacere o <strong>di</strong> una pena sentiamo una conseguente emozione <strong>di</strong> avversione o <strong>di</strong> desiderio e<br />

siamo invitati ad evitare o a volere ciò che ci darà quel <strong>di</strong>sagio o quella sod<strong>di</strong>sfazione. È<br />

anche ovvio che quell’emozione non si ferma lì ma, comprende qualsiasi oggetto connesso<br />

con quello originale per la relazione <strong>di</strong> causa ed effetto». 163 Dunque l’intelletto interviene<br />

chiarendo quali siano le connessioni tra oggetti e sensazioni, e nel momento in cui il ragionamento<br />

cambia, cambiano anche le azioni. Ciò significa che la ragione guida l’azione,<br />

sebbene non ne sia la causa originaria. Inoltre la ragione non è in grado <strong>di</strong> opporsi completamente<br />

a qualsivoglia passione, infatti Hume afferma che non vi è nulla che sia in grado <strong>di</strong><br />

impe<strong>di</strong>re l’impulso <strong>di</strong> una passione, tranne un opposto impulso. Se ne deduce che per il filosofo<br />

la passione detiene il primato rispetto alla ragione e che essa, appunto, guida e orienta<br />

una data azione: la ragione non è che una «schiava» della passione.<br />

Dopo aver chiarito e puntualizzato tale concetto è bene soffermarsi su un ulteriore elemento,<br />

il quale esercita sulle passioni un ruolo in<strong>di</strong>scutibilmente importante. Si sta facendo<br />

riferimento a quella che Hume chiama simpatia, la quale induce gli uomini a simpatizzare per<br />

i propri simili, facendoli sentire così più vicini: «Nessuna qualità della mente umana è più<br />

importante, che la tendenza a simpatizzare con gli altri e a ricevere per comunicazione le<br />

loro inclinazioni e i loro sentimenti, per quanto essi siano <strong>di</strong>fferenti o persino contrari ai<br />

nostri... A questo principio dovremmo far risalire la grande uniformità che possiamo osservare<br />

nel carattere e nel modo <strong>di</strong> pensare <strong>di</strong> una stessa popolazione... Questa somiglianza deve<br />

molto contribuire a farci entrare nei sentimenti altrui e a farceli abbracciare con facilità e<br />

piacere». 164 Da tali affermazioni si evince la convinzione che, qualora gli uomini con<strong>di</strong>videssero<br />

una somiglianza <strong>di</strong> lingua, paese, maniere, carattere, maggiore sarebbe la simpatia che<br />

proverebbero gli uni nei confronti degli altri.<br />

Tornando alla definizione dell’uomo come creatura imperfetta, il filosofo è convinto che<br />

l’essere umano non sia in rapporti <strong>di</strong> perpetua ostilità con altri uomini, tuttavia riconosce che<br />

nella natura umana è ra<strong>di</strong>cata un certa quantità «costitutiva» <strong>di</strong> egoismo che, nel momento in<br />

cui non viene adeguatamente corretta, <strong>di</strong>viene un elemento che dà luogo ad effetti negativi<br />

162 David Hume, Scritti Morali, E<strong>di</strong>trice La Scuola, pag. 69-70.<br />

163 David Hume, Scritti Morali, E<strong>di</strong>trice La Scuola, pag. 71.<br />

164 Op. cit. pag. 89-90-92.<br />

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che possono nuocere soprattutto nell’ambito della società. Oltre a riconoscere tale <strong>di</strong>fetto<br />

Hume considera la natura umana debole e bisognosa. Da tali considerazioni ne consegue che<br />

l’unica soluzione per venir meno ai <strong>di</strong>fetti umani sia il radunarsi in società. Ancora una volta<br />

non è il calcolo razionale che induce l’uomo alla costruzione <strong>di</strong> una società, bensì le percezioni<br />

istintive. Sebbene il filosofo ritenga che nella società allargata si moltiplichino i bisogni,<br />

le necessità, le debolezze, ad aumentare sono anche le capacità umane, in virtù della<br />

<strong>di</strong>visione dei compiti, la forza e la sicurezza, giacché grazie alla collaborazione reciproca si<br />

giunge alla <strong>di</strong>minuzione dei pericoli.<br />

Per comprendere appieno i rapporti che concorrono all’interno della società è bene soffermarsi<br />

sulla problematica della non coincidenza tra interesse comune e singolo. Hume asserisce<br />

che «In generale si può affermare che non esiste nelle menti umane una passione come<br />

l’amore per il genere umano in sé considerato». 165 Da tale affermazione si evince come<br />

gli uomini rimangano legati alla sfera del loro interesse privato, tanto da non poter concepire<br />

il pubblico interesse: l’umanità è <strong>di</strong>fficilmente sensibile al motivo dell’interesse pubblico,<br />

e nel comportamento quoti<strong>di</strong>ano trovano poco spazio quelle azioni contrarie all’interesse privato<br />

come sono quelle oneste e rette. Contrariamente alla concezione hobbesiana della natura<br />

umana, il filosofo irlandese ritiene che in essa possa concorrere qualsiasi genere <strong>di</strong> sentimento,<br />

sia quello incline al bene che quello incline al male: «I temperamenti degli uomini sono<br />

<strong>di</strong>versi: alcuni hanno tendenza verso le passioni gentili, altri verso l’aggressività: ma in<br />

complesso si può affermare che l’uomo in generale, o la natura umana, non è che l’oggetto<br />

sia dell’o<strong>di</strong>o che dell’amore [...] invano cercheremmo <strong>di</strong> evitare quest’ipotesi, perché non<br />

esistono fenomeni che <strong>di</strong>mostrino l’esistenza <strong>di</strong> un tale affetto per gli uomini in<strong>di</strong>pendentemente<br />

dai loro meriti e da tutte le altre circostanze». 166<br />

Posto perciò che l’uomo è maggiormente incline a sod<strong>di</strong>sfare i propri interessi ed è fortemente<br />

legato alla sfera del suo particolare, il secondo passo da compiere per giungere alla<br />

costituzione <strong>di</strong> una società stabile e ben organizzata è la conciliazione tra interesse pubblico<br />

e privato. Ciò è possibile tramite il senso della giustizia, che «non deriva da natura, ma nasce<br />

artificialmente benché necessariamente dall’educazione e dalle convenzioni umane»: è<br />

ben chiaro che la giustizia sia un’invenzione dell’essere umano ma essendo«ovvia e assolutamente<br />

necessaria può essere chiamata naturale con la stessa proprietà con cui si <strong>di</strong>cono tali<br />

tutte le cose che derivano imme<strong>di</strong>atamente da principi originali senza l’intervento del pensiero<br />

e della riflessione». 167 Dunque in questo senso nessuna virtù è più naturale della giustizia<br />

(senza la quale la società si “<strong>di</strong>ssocerebbe” inevitabilmente), giacché essa garantisce il superamento<br />

<strong>di</strong> quello stato selvaggio e solitario dell’uomo senza alcun dubbio peggiore della<br />

peggiore con<strong>di</strong>zione che si possa verificare in società. L’uomo è portato ad agire secondo giustizia<br />

e onestà in quanto è consapevole che anche gli altri agiscono similmente a lui, e in virtù<br />

<strong>di</strong> tale presa <strong>di</strong> coscienza si stabilisce quell’accordo attraverso cui è garantita l’esistenza<br />

della giustizia, intesa che nasce da un comune senso <strong>di</strong> interesse. Se per Hobbes l’uomo indugia,<br />

per Hume questo compie ogni atto supponendo che anche gli altri siano in procinto <strong>di</strong><br />

fare altrettanto: «È solo sulla base della supposizione che gli altri imiteranno il mio comportamento<br />

che io posso essere indotto ad abbracciare quella virtù, poiché nient’altro che questa<br />

coor<strong>di</strong>nazione può rendere la giustizia vantaggiosa o fornirmi qualche motivo <strong>di</strong> conformare<br />

il mio comportamento alle sue regole». 168 Poiché gli uomini vengono a conoscenza del<br />

165 Op. cit. pag. 131.<br />

166 Op. cit. pag. 132.<br />

167 David Hume, Scritti Morali, E<strong>di</strong>trice La Scuola, pag. 134-135.<br />

168 Op. cit. pag. 137-138.<br />

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fatto che solo nella cosiddetta società ristretta è possibile attuare con maggiore facilità la<br />

conciliazione tra interesse pubblico e privato, essi in tale ambito sono ben <strong>di</strong>sposti a sottoporsi<br />

all’osservanza <strong>di</strong> regole, le quali permettono <strong>di</strong> raggiungere la sod<strong>di</strong>sfazione delle loro passioni.<br />

Tuttavia, all’interno <strong>di</strong> una società allargata il contatto tra interesse privato e comune<br />

<strong>di</strong>viene più <strong>di</strong>fficile da realizzare: interviene dunque la simpatia che rende possibile l’accordo<br />

tra interesse particolare e pubblico. Hume ritiene infatti che sia il privato interesse a spingere<br />

l’uomo ad approvare lo stabilirsi della giustizia, e che la vera fonte dell’approvazione morale<br />

sia la simpatia con il pubblico interesse. Per garantire la conservazione della pace all’intento<br />

della società umana, un ruolo fondamentale è ricoperto dall’educazione familiare e dalle<br />

abitu<strong>di</strong>ni, che portano gli uomini a stimare la giustizia e a <strong>di</strong>sprezzare l’ingiustizia: «I genitori<br />

osservano facilmente che un uomo è tanto più utile sia a se stesso che agli altri quanto più è<br />

grande il grado <strong>di</strong> probità e <strong>di</strong> senso dell’onore <strong>di</strong> cui è dotato, e che quei principi hanno<br />

maggior forza quando l’abitu<strong>di</strong>ne e l’educazione assistono l’interesse e la riflessione, sono<br />

indotti ad inculcare nei loro figli fin dalla tenera infanzia i principi della probità e ad insegnare<br />

loro l’osservanza <strong>di</strong> quelle regole attraverso le quali si conserva la società, come degne e<br />

onorabili, e la violazione <strong>di</strong> esse come infame e vile». 169<br />

L’uomo rispetta le leggi poiché desidera vivere in buoni rapporti con i suoi simili, e ritiene<br />

estremamente importante che tutti coloro che lo circondano ne abbiano una buona considerazione,<br />

ed è per questo che egli ambisce a possedere le maggiori virtù e ad agire rettamente.<br />

Dunque possedere le virtù più utili o gradevoli alla persona è un desiderio appetibile<br />

anche e soprattutto dal punto <strong>di</strong> vista dell’interesse personale, infatti una società non risulterebbe<br />

sopportabile se un uomo sentisse sgra<strong>di</strong>ta la sua presenza. È chiaro che l’uomo è indotto<br />

ad agire in maniera lodabile solo per sod<strong>di</strong>sfare il proprio interesse, e non perché sia mosso<br />

da un sentimento <strong>di</strong> benevolenza nei confronti dell’umanità, tuttavia non è esclusa l’esistenza<br />

<strong>di</strong> uomini non onesti, i quali pur <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare le proprie prerogative recherebbero danno<br />

alla società. In generale comunque il retto comportamento dell’uomo è dovuto, essenzialmente,<br />

all’interesse <strong>di</strong> risultare ben accetti e visti nell’ambito della società; ma per permettere<br />

che si conviva in modo sereno e tranquillo è comunque in<strong>di</strong>spensabile per l’uomo agire<br />

e quin<strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare i propri desideri.<br />

Alla luce <strong>di</strong> tali precisazioni e riflessioni, è evidente che Hume non è particolarmente<br />

interessato a stabilire se la natura umana sia buona o cattiva, contrariamente a Hobbes. In<br />

Hume piuttosto emerge la considerazione dell’essere umano come un ente incline a qualsiasi<br />

genere <strong>di</strong> sentimento – si guar<strong>di</strong> alla benevolenza, all’amicizia, ma anche all’egoismo e alla<br />

debolezza –, animato e mosso da desideri inerenti alla sfera del proprio interesse. Tuttavia<br />

anche Hume ammette che nello stato <strong>di</strong> natura, definito selvaggio e solitario, sono assenti<br />

l’idea <strong>di</strong> giustizia e <strong>di</strong> ingiustizia – esiste quin<strong>di</strong> un “contatto” con Hobbes. Le passioni che<br />

animano l’uomo e che lo inducono a compiere le azioni, lo portano anche a sentire il desiderio<br />

<strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare istanze e bisogni, la cui realizzazione risulta necessaria per stabilire dell’equilibrio<br />

all’interno della società umana. Perciò il legame tra bisogni e interesse privato sono necessari<br />

per il conseguimento del bene comune e per la presenza <strong>di</strong> serenità e tranquillità nell’ambito<br />

sociale.<br />

Lo stu<strong>di</strong>oso Sugden, 170 ponendosi sulla scia del pensiero <strong>di</strong> Hume, contrasta la concezione<br />

hobbesiana secondo cui l’appren<strong>di</strong>mento delle leggi <strong>di</strong> natura è frutto <strong>di</strong> un calcolo<br />

razionale. Infatti, ipotizzando l’esistenza <strong>di</strong> uno stato <strong>di</strong> natura, lo stu<strong>di</strong>oso ritiene che tra gli<br />

169 Op. cit. pag. 140-141.<br />

170 Sugden, R. (1993), “Rationality, Justice and the Social Contract”, Harvester Wheatsheaf, Amesbury, pag. 157-<br />

176.<br />

–86–


in<strong>di</strong>vidui possono nascere degli accor<strong>di</strong> spontanei in grado <strong>di</strong> regolare i comportamenti umani.<br />

Ciò nasce essenzialmente dall’osservazione del comportamento degli altri e soprattutto dal<br />

ricordo dei conflitti precedenti venutisi a creare tra gli in<strong>di</strong>vidui. Le convenzioni che possono<br />

sorgere nello stato <strong>di</strong> natura possono essere così schematizzate: convezioni <strong>di</strong> coor<strong>di</strong>namento,<br />

<strong>di</strong> proprietà e <strong>di</strong> reciprocità. È tuttavia vero che esistono due problemi fondamentali<br />

che minano alla base questi accor<strong>di</strong> spontanei: in primo luogo l’ambiguità <strong>di</strong> una stessa<br />

convenzione, e poi la possibilità <strong>di</strong> agire in contrasto con le leggi <strong>di</strong> natura. La convenzione<br />

ambigua è però facilmente superabile, in quanto si tenderà naturalmente a privilegiare una certa<br />

interpretazione della stessa piuttosto che un’altra. Il secondo problema è invece decisamente<br />

complesso, poiché porta al collasso <strong>di</strong> una convenzione. Per evitare ciò, Sugden ricorre,<br />

seguendo la concezione <strong>di</strong> Hume, a un elemento non totalmente razionale: la morale. Gli<br />

uomini, infatti, credendo nelle convenzioni, finiscono per considerare il rispetto <strong>di</strong> esse come<br />

un dovere. L’esperienza <strong>di</strong> un comportamento universalmente accettato, genera negli uomini<br />

un giu<strong>di</strong>zio morale che li spinge a provare risentimento nei confronti degli in<strong>di</strong>vidui che<br />

raggirano una convenzione. La legge <strong>di</strong> natura, infatti, si carica <strong>di</strong> una forza morale che è<br />

specificatamente una morale della cooperazione.<br />

Lungo il percorso che abbiamo affrontato, l’intreccio tra la sfera fisica e la sfera morale<br />

è stato il filo invisibile che, come un collante, ci ha permesso <strong>di</strong> procedere in un’analisi fluida<br />

e approfon<strong>di</strong>ta che muove dall’Epicureismo nel mondo greco e nella sua rilettura lucreziana,<br />

fino alle rielaborazioni in chiave moderna dei filosofi Thomas Hobbes e David Hume. Ha<br />

dunque ra<strong>di</strong>ci antichissime l’ipotesi che vi sia una correlazione molto stretta tra struttura e<br />

comportamento, ipotesi che, oggi, nella <strong>di</strong>sciplina della sociobiologia rappresenta il fondamentale<br />

presupposto <strong>di</strong> partenza. Precisamente, i sociobiologi ritengono che, sebbene non si<br />

sappia ancora in che misura, la dotazione genetica <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo non solo spiega i caratteri<br />

fisiologici e anatomici, ma anche il comportamento sociale dello stesso. Se infatti la<br />

sociobiologia è «lo stu<strong>di</strong>o sistematico delle basi biologiche <strong>di</strong> tutte le forme <strong>di</strong> comportamento<br />

sociale in tutti i tipi <strong>di</strong> organismi, uomo compreso», 171 questa conoscenza può e deve<br />

essere messa al servizio dello stu<strong>di</strong>o sull’uomo.<br />

L’evoluzione genetica, come è stato teorizzato da Darwin, procede per variazioni ed ha<br />

avuto luogo milioni <strong>di</strong> anni prima dell’inizio della civiltà, mentre quella socioculturale è iniziata<br />

soltanto <strong>di</strong>ecimila, quin<strong>di</strong>cimila anni fà, con lo sviluppo dell’agricoltura e delle prime<br />

città. In questo lasso <strong>di</strong> tempo, le variazioni genetiche non sono state molto significative,<br />

ma i geni hanno continuato a possedere la loro forza <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zionamento. Come infatti si è<br />

detto, alla base della sociobiologia vi è la certezza che il comportamento socioculturale è, in<br />

una certa percentuale, geneticamente influenzato. Questa <strong>di</strong>sciplina ha collegato la teoria<br />

darwiniana dell’evoluzione con l’idoneità del genotipo <strong>di</strong> influenzare sul fenotipo. I valori<br />

culturali non sono dunque completamente liberi, ma viaggiano lungo la via che i geni hanno<br />

tracciato, ed il modo <strong>di</strong> agire umano non è altro che un fenotipo comportamentale. Ma questa<br />

connessione non è unilaterale: il comportamento socioculturale è influenzato e influenza<br />

sul patrimonio genetico, essendo l’ambiente in cui i geni si adattano e si riproducono.<br />

L’evoluzione culturale e quella genetica sono pertanto inscin<strong>di</strong>bilmente connesse. La<br />

sociobiologia ha oggi in<strong>di</strong>viduato quali sono le principali pre<strong>di</strong>sposizioni comportamentali<br />

dell’essere umano. L’uomo è tendenzialmente egoista, costantemente teso alla conquista <strong>di</strong><br />

quelle risorse in grado <strong>di</strong> garantirgli la sopravvivenza. L’egoismo non è però l’unica caratteristica,<br />

esistono infatti due tipologie fondamentali <strong>di</strong> pre<strong>di</strong>sposizioni comportamentali: le pre<strong>di</strong>sposizioni<br />

all’automiglioramento e quella alla socialità e alla convivenza.<br />

171 E. O. Wilson, Sulla Natura Umana, Zanichelli, pag. 10.<br />

–87–


Le pre<strong>di</strong>sposizioni all’automiglioramento – l’aggressività, il senso <strong>di</strong> proprietà, il bisogno<br />

<strong>di</strong> vendetta, la pre<strong>di</strong>sposizione al dominio – sono state “selezionate” poiché aumentano<br />

la fitness, l’idoneità genetica. Esse sono la manifestazione della parte egoistica dell’essere<br />

umano.<br />

Le pre<strong>di</strong>sposizioni alla socialità sono invece l’altruismo, il bisogno <strong>di</strong> conformità, <strong>di</strong> approvazione<br />

sociale, <strong>di</strong> reciprocazione.<br />

Queste due <strong>di</strong>verse tipologie <strong>di</strong> pre<strong>di</strong>sposizioni sono evidentemente <strong>di</strong> natura molto <strong>di</strong>versa,<br />

quasi antitetica. Come può infatti l’uomo essere naturalmente pre<strong>di</strong>sposto all’aggressività<br />

e al contempo all’altruismo? Non sono tratti inconciliabili? La sociobiologia è convinta<br />

<strong>di</strong> no: nell’essere umano vi è la compresenza <strong>di</strong> due <strong>di</strong>scor<strong>di</strong> pre<strong>di</strong>sposizioni. È dannoso<br />

e sbagliato cercare <strong>di</strong> ricondurre ad un’unica spiegazione tutto il complesso delle azioni<br />

umane. I sociobiologi invitano invece a non considerare l’uomo costituito <strong>di</strong> un unico carattere,<br />

ma <strong>di</strong> un insieme <strong>di</strong> razionalità e <strong>di</strong> pulsioni che si fondono e che interagiscono incessantemente.<br />

Il <strong>di</strong>battito futuro non potrà dunque basarsi sulla contrapposizione tra l’idea <strong>di</strong><br />

uomo come animale sociale e quella <strong>di</strong> uomo come essere egoista, ma dovrà riconoscere la<br />

simultanea presenza <strong>di</strong> caratteri <strong>di</strong>versi, <strong>di</strong> altruismo ed egoismo, <strong>di</strong> razionalità ed irrazionalità.<br />

La domanda alla quale sociobiologia è chiamata a rispondere non è più “Qual è la natura<br />

umana?”, ma “Come si evolverà la natura umana?”.<br />

Bibliografia:<br />

D. HUME, Estratto del trattato sulla natura umana, Laterza.<br />

T. HOBBES, Leviatano, Laterza.<br />

A. PACCHI, Introduzione a Hobbes, Laterza.<br />

A. SANTUCCI, Introduzione a Hume, Laterza.<br />

F. BARONCELLI, Scritti Morali, La Scuola.<br />

WILSON, E. O. (1980), Sulla Natura Umana, Zanichelli.<br />

BUCHANAN, J. M. (1998), I Limiti della Libertà, Rusconi.<br />

SUGDEN, R. (1993), Rationality, Justice and the Social Contract, Harvester Wheatsheaf.<br />

–88–


LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA<br />

Il concetto <strong>di</strong> Umanità:<br />

Natura, Tra<strong>di</strong>zione, Rivoluzione<br />

– Progetto: Roma per vivere, Roma per pensare –<br />

(anno scolastico <strong>2008</strong>-2009)<br />

CLASSE II B<br />

Coor<strong>di</strong>natrice: Prof.ssa Licia Fierro - Collaboratrice: Prof.ssa Paola Peretti<br />

GLI ALUNNI:<br />

Viviana Andolfi - Federica Balzani - Rosa Calabrese - Giulia Chakkalakal - Daniele Costanzo<br />

Flaminia Gaia Di Lorenzo - Cristiano Furnari - Ilaria Gravina - Cristina Roxana Manescu<br />

Adriano Masci - Luca Messina - Davide Maria Meucci - Elisabetta Orlando Senatore - Angelo Rollo<br />

Giovanni Romano - Arianna Sorrentino - Silvia Margareta Staffa - Chiara Ton<strong>di</strong> - Aurora Volpini.<br />

INDICE:<br />

PREMESSA.<br />

CAPITOLO I<br />

1.1 Il processo <strong>di</strong> formazione del concetto <strong>di</strong> Umanità: alcuni esempi.<br />

1.2 Oltrepassare i confini: nuovo mondo e nuove scienze.<br />

CAPITOLO II<br />

2.1 La rilettura del concetto <strong>di</strong> Umanità alla luce delle neuroscenze.<br />

2.2 Il punto sul <strong>di</strong>battito attuale: rischio e prospettiva sulla “nuova umanità”.<br />

PREMESSA<br />

Con questo percorso ci proponiamo <strong>di</strong> fornire una visione complessiva del concetto <strong>di</strong><br />

“Umanità” dalle sue origini fino alle più recenti rielaborazioni in ambito sia storico-filosofico<br />

sia scientifico. Abbiamo scelto tale tema poiché consideriamo l’educazione all’Humanitas<br />

oggi non meno necessaria <strong>di</strong> quanto lo fosse nel I sec a.C., per autori latini come Cicerone e<br />

Terenzio che vi identificavano valori <strong>di</strong> Filantropia, Dignità, Nobiltà d’animo e Senso della<br />

giustizia, ovvero tutti i presupposti per una convivenza pacifica nella Societas.<br />

L’indole umana invece tende troppo spesso a porsi in una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> astio e superiorità<br />

nei confronti dell’altro. Questo non accade unicamente a livello in<strong>di</strong>viduale nei rapporti<br />

tra singoli, ma allo stesso modo avviene tra <strong>di</strong>versi popoli e la storia ce ne offre numerosi<br />

esempi: la superiorità della razza, la colonizzazione, le guerre <strong>di</strong> conquista, le barbarie tra<br />

popoli per imporre il proprio dominio e la propria “democrazia”. Vivere secondo i valori dell’Humanitas<br />

significa annientare questa concezione xenofoba alla luce del fatto che se non<br />

ci fosse l’Altro non ci sarebbe l’Io, non ci sarebbe un’identità limitata entro cui trovarci.<br />

Tuttavia tale sentimento non deve essere inteso come una sorta <strong>di</strong> essere parmenideo che,<br />

estendendo la sua con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> singolo ad un’entità totalizzante perde la propria in<strong>di</strong>vidualità,<br />

bensì come la presa <strong>di</strong> coscienza della comune con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> uomo e dei suoi limiti.<br />

–89–


Solo così l’in<strong>di</strong>viduo può riconoscere la sua soggettività, assumendo perciò <strong>di</strong>ritti “naturali”<br />

che gli spettano proprio in virtù dell’Humanitas. Tale concezione è stata legittimata nel 1948,<br />

anno in cui le Nazioni Unite proclamarono la <strong>di</strong>chiarazione universale dei <strong>di</strong>ritti umani, basandosi<br />

proprio sul principio che all’uomo spettino <strong>di</strong>ritti in quanto “uomo” e che il riconoscimento<br />

della <strong>di</strong>gnità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro <strong>di</strong>ritti, uguali<br />

ed inalienabili, costituisca il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.<br />

–90–


CAPITOLO I<br />

1.1 IL PROCESSO DI FORMAZIONE<br />

DEL CONCETTO DI UMANITA:<br />

ALCUNI ESEMPI<br />

Erodoto, l’illustre autore delle “Storie”, è considerato anche il “padre dell’etnografia” per<br />

via dell’attenzione prestata dallo storico allo stu<strong>di</strong>o dell’ethos delle popolazioni considerate<br />

“barbare” (Persiani, Egiziani, Me<strong>di</strong> e Sciti) <strong>di</strong>mostrando <strong>di</strong> avere una “Weltanschauung” talmente<br />

innovativa e al <strong>di</strong> fuori del pensare comune, da rappresentare il primo passo verso il<br />

costituirsi <strong>di</strong> un nuovo modello <strong>di</strong> umanità. La grande capacità <strong>di</strong> osservazione dello storico<br />

e la sua inesauribile curiosità nei confronti delle culture non greche può essere spiegato pensando<br />

al suo luogo <strong>di</strong> nascita, Alicarnasso, una città greca multietnica ed in forte contatto con<br />

il mondo barbaro. Tuttavia è innegabile che Erodoto è interprete <strong>di</strong> una società che sta cambiando,<br />

aprendosi in maniera sempre più decisa alle terre sterminate e misteriose dell’Oriente.<br />

Erodoto, si interessa, come mai nessuno aveva fatto prima, ai “nomoi” delle popolazioni<br />

barbare intendendo per barbari tutti i popoli non greci. Essi, se da una parte venivano biasimati<br />

dai sofisti per la loro non corrispondenza alla “physis”, dall’altra venivano osteggiati<br />

dagli esponenti del cosiddetto tra<strong>di</strong>zionalismo etico, che consideravano il “nomos” propriamente<br />

greco l’unica fonte <strong>di</strong> verità, giustizia e sicurezza.<br />

Erodoto reagisce all’estremizzazione <strong>di</strong> queste due correnti <strong>di</strong> pensiero, riuscendo a sfuggire<br />

alle critiche e dando un significato nuovo alla sua ricerca. Egli, attraverso il relativismo<br />

<strong>di</strong> Protagora, rifiuta <strong>di</strong> riconoscere come unica degna <strong>di</strong> considerazione la tra<strong>di</strong>zione greca e<br />

contesta ai sofisti l’inutilità o ad<strong>di</strong>rittura, la dannosità dei “nomoi” affermando che essi meritano<br />

attenzione e rispetto in quanto espressione per ciascun popolo della propria tra<strong>di</strong>zione<br />

e cultura. La modernità <strong>di</strong> Erodoto è chiara proprio in questa nuova ottica culturale e storiografica.<br />

Con il paragrafo 101 del VII Libro lo scontro epocale tra Grecia e Persia esplode finalmente<br />

in maniera esplicita; dopo essere rimasto latente fino a questo momento, emergendo,<br />

talvolta, nel corso della narrazione, in maniera spora<strong>di</strong>ca ed episo<strong>di</strong>ca, adesso, alla vigilia della<br />

guerra, assume finalmente i contorni precisi e definiti <strong>di</strong> un vero e proprio confronto tra<br />

mon<strong>di</strong> a tal punto <strong>di</strong>versi da non poter evitare <strong>di</strong> entrare in conflitto. Erodoto ci presenta il<br />

sovrano incapace <strong>di</strong> comprendere un mondo totalmente <strong>di</strong>verso dal suo, un modo <strong>di</strong> intendere<br />

i rapporti <strong>di</strong> comando-obbe<strong>di</strong>enza completamente al <strong>di</strong> fuori della sua concezione del potere,<br />

un sistema <strong>di</strong> valori a lui totalmente ignoto; al contrario Demarato pur essendo un esule, non<br />

rinnega il mondo da cui proviene, anzi ne tesse le lo<strong>di</strong> e ne esalta gli ideali.<br />

Il ruolo della legge, la centralità della regola con<strong>di</strong>visa ed accettata da tutti, la norma che<br />

ha autorità al <strong>di</strong> là della persona che è investita del potere, sono car<strong>di</strong>ni del sistema democratico:<br />

Demarato illustra i principi base del regime spartano per mettere in luce la sostanziale<br />

<strong>di</strong>fferenza tra la Grecia e la Persia. Non ci può essere libertà, non ci può essere democrazia<br />

in situazioni in cui non c’è certezza della legge; la stabilità delle norme è garanzia per tutti,<br />

è mezzo stabile per misurare le azioni dei singoli, è para<strong>di</strong>gma comportamentale per chi vi è<br />

soggetto. La realtà persiana è fuori da questa concezione, è lontana da questi principi, è<br />

basata su altri valori. Per un Greco la volontà in<strong>di</strong>viduale non può mai prevaricare la volontà<br />

collettiva, per un persiano la collettività non esiste ed è proprio per questo motivo che, agli<br />

occhi <strong>di</strong> Serse, i <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> Demarato risultano incomprensibili.<br />

Tale opposizione tra Occidente libero e Oriente <strong>di</strong>spotico è alla base della classica tripartizione<br />

delle forme sane o corrotte <strong>di</strong> governo (monarchia/tirannide, aristocrazia/oligarchia,<br />

–91–


democrazia/oclocrazia). Infatti, come spiega Giacomo Marramao, data tale antitesi tra Oriente<br />

e Occidente, cioè tra “barbari” ed “europei”, la tirannide si configura come forma <strong>di</strong> governo<br />

illegittima, perché esercitata su un popolo libero, il <strong>di</strong>spotismo, invece, si configura come una<br />

forma <strong>di</strong> dominio legittima, perché esercitata su una massa <strong>di</strong> non-liberi.<br />

Il termine Humanitas non è, nel suo significato intrinseco, <strong>di</strong>stante da ciò che, nella cultura<br />

greca è definita la “paidéia”, ovvero il modello educativo in vigore nell’Atene classica<br />

volto a garantire una socializzazione armonica dell’in<strong>di</strong>viduo nella polis interiorizzando quei<br />

valori universali che costituiscono l’ethos del popolo.<br />

Per Platone ed Aristotele il fine e la gloria del singolo in<strong>di</strong>viduo stavano unicamente nel<br />

mettere a <strong>di</strong>sposizione la propria vita per il bene della comunità, della polis. L’in<strong>di</strong>viduo secondo<br />

il pensiero platonico in primo luogo è un citta<strong>di</strong>no, e soltanto in seguito uomo in quanto<br />

tale; con l’Ellenismo, il fine dell’uomo non è più riposto nel servire la patria, dalla quale<br />

trae la ragion d’essere ed il suo sentirsi “persona”; il problema della felicità, della salvezza,<br />

si interiorizza sempre <strong>di</strong> più e si fa sempre più inerente al destino del singolo uomo. L’uomo<br />

ha ormai acquistato il senso dell’humanitas, intesa come solidarietà empatica con la collettività,<br />

non più intesa come massa totalizzante ed impersonificata ma come somma delle singole<br />

entità in<strong>di</strong>viduali; è nella crisi degli antichi valori, nella per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> un’etica comune che<br />

poi si riproporrà ciclicamente nei secoli a venire, che gli uomini trovarono un sostrato comune<br />

nella con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> uomo in quanto singolo. Non vi è una spersonificazione a <strong>di</strong>scapito dell’in<strong>di</strong>viduo<br />

per un’unione ad un ipotetico “tutto” rappresentato dalla collettività, ma un’estensione<br />

della propria in<strong>di</strong>vidualità, pur mantenendola, riconosciuta ed identificata nella<br />

con<strong>di</strong>zione umana.<br />

È, d’altronde, nel periodo ellenistico che il concetto <strong>di</strong> humanitas si estende a tal punto<br />

che si può già parlare <strong>di</strong> una concezione moderna dell’umanità. Non c’è più contrapposizione<br />

tra occidente civilizzato e oriente barbarico, ma tutti gli uomini in quanto tali sono degni<br />

nella nuova ideologia ellenistica, <strong>di</strong> esser definiti “humani”, senza alcuna <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> lingua,<br />

costumi, religione, tra<strong>di</strong>zioni. Pren<strong>di</strong>amo ad esempio del nuovo clima <strong>di</strong> cosmopolitismo<br />

dominante nel mondo ellenistico la comme<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Menandro. È proprio nella comme<strong>di</strong>a menandrea<br />

che affiora quel senso <strong>di</strong> profonda solidarietà tra gli uomini, quella “filantropia” che<br />

consente il superamento dei particolarismi, non solo a livello politico, sociale ed economico,<br />

ma soprattutto a livello psicologico, inaugurando una nuova era in cui l’uomo scopre nuovi<br />

valori, nuovi principi, nuove realtà, nuovi orizzonti.<br />

L’uomo menandreo si caratterizza per una sua raffinata spiritualità, segno <strong>di</strong> un nuovo e<br />

più maturo umanesimo. L’unicità sta proprio nel suo essere “uomo” e non nell’appartenere a<br />

questa o a quella razza.<br />

“In nome del cielo chi è legittimo e chi è bastardo a questo mondo, se siamo tutti uomini?”<br />

“In una cosa mi sono sbagliato, forse, nel credere che al mondo ero l’uomo a cui fosse<br />

possibile <strong>di</strong>re: – basto a me stesso e mai non verrà il giorno ch’io abbia da chiedere nulla a<br />

nessuno. Ma ora lo vedo, la vita può avere una fine improvvisa che non si lascia prevedere,<br />

ed io mi sbagliavo in questo. Perché bisogna che ci sia, e che tu l’abbia vicino, chi possa<br />

all’occorrenza darti aiuto. Ma, per Efesto, fino a tal punto ero smarrito! Nel vedere come la<br />

gente vive, e ciascuno a suo modo, e i calcoli e le ragioni che sanno trovare ogni volta che<br />

c’è da fare un guadagno, io pensavo che nessuno potesse mai voler bene a un altro al mondo,<br />

ed era questo il mio scoglio”.<br />

“La ricchezza! Parli <strong>di</strong> questo! È cosa che non sta ferma... Perciò io <strong>di</strong>co che finché sei<br />

tu che ne <strong>di</strong>sponi, devi usarne da uomo generoso, e soccorrere tutti, fare in modo che per<br />

opera tua quanti più t’è possibile non sentano che vuol <strong>di</strong>re il bisogno. È cosa da immortali,<br />

e se un giorno ti trovassi davanti a un rovescio, quel che hai fatto per gli altri, lo faranno<br />

–92–


anche gli altri per te. Vale <strong>di</strong> più, e quanto, un amico che hai davanti agli occhi, che non una<br />

ricchezza che rimane nascosta e che tu tieni sotterrata e sepolta”. 172<br />

L’incontro della cultura greca con quella latina, nel corso del II secolo a.C., portò anche<br />

nel mondo latino alla riflessione sulle con<strong>di</strong>zioni dell’esistenza umana.<br />

Il termine humanitas ha in latino <strong>di</strong>verse connotazioni semantiche. Aulo Gellio, eru<strong>di</strong>to<br />

del II sec d.C., ha spiegato le due <strong>di</strong>verse accezioni del termine nella cultura romana: il primo<br />

significato, corrispondente a quello <strong>di</strong> philanthropia in greco, è “benevolenza”; il secondo<br />

significato proprio del linguaggio colto, corrisponde a “dottrina ed educazione letteraria,<br />

filosofica ed artistica”, avvicinandosi molto al concetto <strong>di</strong> paidèia greca. Proprio in questo<br />

ultimo significato l’humanitas rappresenta ciò che contrad<strong>di</strong>stingue l’uomo dagli altri esseri<br />

viventi.<br />

“Qui verba latina fecerunt quique his probe uti sunt, “humanitatem” non id esse volerunt<br />

quod volgus existimat quodque a Graecis philantropia <strong>di</strong>citur et significat dexteritatem quandam<br />

benivolentiamque erga omnis homines promiscam sed “humanitatem” appellaverunt id<br />

propemodum quod Greci paideìan vocant, nos eru<strong>di</strong>tionem istitutionemque in bonas artis<br />

<strong>di</strong>cimus”. 173 L’humanitas latina affonda le sue ra<strong>di</strong>ci nella dottrina dello stoico Panezio <strong>di</strong> Ro<strong>di</strong>;<br />

egli <strong>di</strong>ede una svolta all’antico stoicismo moderandone le asprezze ed auspicando una tendenza<br />

maggiormente eclettica. Il caratteristico determinismo stoico, con Panezio, viene messo in<br />

dubbio, in<strong>di</strong>viduando nel fato un netto limite per il libero arbitrio. Inoltre, egli non arrivò a sostenere<br />

l’immortalità dell’anima, ma <strong>di</strong>stinse una parte razionale ed una irrazionale; <strong>di</strong> conseguenza<br />

in campo etico approdò ad una concezione meno rigida dell’areté e della sapienza.<br />

Questa particolare attenzione per i problemi dell’uomo ha fatto parlare a ragion veduta <strong>di</strong> umanesimo,<br />

l’humanitas latina. Un autore in cui ritroviamo il concetto <strong>di</strong> humanitas è Terenzio.<br />

Il giovane schiavo cartaginese compie un importante passo avanti portando avanti idee nuove:<br />

che gli uomini oltre che ideali, emozioni e impulsi spirituali hanno in comune anche debolezze<br />

esistenziali; e scaturisce da questa consapevolezza l’accettazione dei limiti e delle fragilità<br />

umane. Se da una parte la nostra natura ci spinge a porci obiettivi elevati, dall’altra la nostra<br />

miseria rende il loro raggiungimento sofferto e tortuoso. Bisogna precisare che Terenzio non<br />

fa tutto da solo, ma comunica alla massa ciò che l’ambiente più colto del tempo ha già interiorizzato,<br />

siamo nell’ambito del circolo degli Scipioni. L’humanitas terenziana non è solo la<br />

semplice traduzione del termine greco philanthropia, non è solo interesse per l’altro, ma anzi<br />

una più profonda apertura verso i propri simili, nella coscienza della comune natura umana.<br />

Terenzio sceglie “no<strong>di</strong> duri” della vita sociale e li presenta in una situazione iniziale <strong>di</strong> incomunicabilità:<br />

il seguito della vicenda consisterà nel creare la comunicazione tra i personaggi,<br />

nel far riflettere, spiegare. Egli non tratta <strong>di</strong> <strong>di</strong>battiti filosofici, ma penetra nelle vicende <strong>di</strong> tutti<br />

i giorni: due vicini <strong>di</strong> casa che si confidano le proprie pene, una suocera che vuole salvare la<br />

felicità <strong>di</strong> una giovane coppia, due fratelli che non possono fare a meno <strong>di</strong> amarsi nonostante<br />

la <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> opinioni. In questo senso il suo è il teatro della “comunicazione” inteso come<br />

il valore più alto della cultura. Il verso, che meglio esplica l’ideale <strong>di</strong> humanitas tipica della<br />

Roma nell’età degli Scipioni, in contrasto con la visione del mondo <strong>di</strong> Plauto espressa nella<br />

sentenza “lupus est homo homini, non homo”, è contenuto nel Heautontimorumenos:<br />

“Homo sum: humani nihil a me alienum puto”. 174<br />

Il merito <strong>di</strong> aver coniato il termine “Humanitas” si deve a Cicerone (Arpino 106 a.C. -<br />

Formia 43 a.C.), il quale conferì ad esso il suo significato più pieno <strong>di</strong> “rispetto dell’uomo in<br />

172 Menandro “Dyscolos”, Bompiani, Milano, 1983, vv. 713/784.<br />

173 Aulo Gallio “Noctes Atticae”, Borle, Torino, 1968, cap. XIII, vv. 1/17.<br />

174 Terenzio, “Heautonitimorumenos”, Laterza, Bari, 1994, vv. 53/80.<br />

–93–


quanto tale”. Già qui esso assume una elevata portata filosofica: in primo luogo giacché<br />

valorizza ottimisticamente le qualità dell’uomo in quanto arbitro del proprio modo <strong>di</strong> essere,<br />

in secondo luogo poiché salda l’idea <strong>di</strong> umano con quella <strong>di</strong> umanistico, cioè intendendo per<br />

humanitas l’equilibrio e la cor<strong>di</strong>alità nel rapporto con il prossimo. È su questa base che<br />

Cicerone elabora il concetto <strong>di</strong> honestum, da intendere come la virtù dell’anima virtuosa,<br />

nobilitata dall’armonia e dall’equilibrio interiore, invitando a un atteggiamento intellettuale<br />

volto a stabilire il primato della giustizia “...Anche coloro che vendono e comprano, che<br />

danno e prendono in affitto; coloro, insomma, che s’ingolfano negli affari, hanno necessità<br />

<strong>di</strong> giustizia per sbrigare le loro faccende. Ed è così grande il potere della giustizia che perfino<br />

coloro che si pascono <strong>di</strong> misfatti e <strong>di</strong> scelleratezze non possono vivere senza almeno un’ombra<br />

<strong>di</strong> giustizia. Difatti, se uno rubasse o rapisse qualche cosa a un suo compagno <strong>di</strong> brigantaggio,<br />

costui perderebbe il suo posto anche nella banda; e un capo <strong>di</strong> pirati, se non ripartisse<br />

equamente la preda, sarebbe ucciso o abbandonato dai suoi compagni. Dicono anzi<br />

che pur tra i ladroni vi siano leggi da osservare e da rispettare (...) Ora, se la giustizia ha sì<br />

gran potere che rinforza e rinsalda la potenza perfino dei ladroni, quale e quanto non dovrà<br />

essere il poter suo tra le leggi e i tribunali e, insomma, in una bene or<strong>di</strong>nata repubblica?”. 175<br />

Non solo negli scritti ciceroniani, ma persino nell’organizzazione stessa dei <strong>di</strong>aloghi, traspare<br />

questo grande senso della giustizia garante <strong>di</strong> “Humanitas”. In essi troviamo vari interlocutori<br />

che non polemizzano mai tra loro con toni aspri, ma cercano sempre <strong>di</strong> rispettare il loro<br />

turno per prendere la parola: siamo insomma <strong>di</strong> fronte ad una cerchia ristretta <strong>di</strong> uomini perbene<br />

che nelle teorie <strong>di</strong>scordanti dalle loro ravvisano la possibilità <strong>di</strong> una loro crescita culturale.<br />

L’ideale dell’“humanitas” influenzerà anche le riflessioni <strong>di</strong> Cicerone sul tema dell’amicizia:<br />

“Ego vos hortor ut amicitiam omnibus rebus humanis anteponatis...” “vi esorto ad<br />

anteporre a tutte le cose umane l’amicizia...” “quoniam res humanae fragiles caducaeque<br />

sunt” “perché le cose umane sono fragili” “et quid dulcius, quam habere, quicum omnia<br />

audeas sic loqui ut tecum?” “e cos’è più dolce che avere qualcuno da ascoltare e con cui<br />

parlare <strong>di</strong> tutto?” “Nam et secundas res splen<strong>di</strong><strong>di</strong>ores facit amicitia, et adversas leviores”<br />

“infatti le cose secondarie l’amicizia rende più splen<strong>di</strong>de e quelle avverse meno gravi”. 176<br />

Cicerone “non solo ha sempre sulle labbra l’humanitas, ma la realizza concretamente nella<br />

sua vita. Egli è un homo novus, ma fornito d’una nobiltà spirituale, che sviluppa tutte le<br />

qualità insite nella propria natura, realizzando un altissimo ideale umano: egli padroneggia<br />

tutta la cultura intellettuale della sua epoca, ha una viva sensibilità per le scienze e il gusto<br />

del bello, possiede garbo, tatto, cortesia, l’ironia socratica e l’umorismo; la persona ben curata<br />

come pure la <strong>di</strong>sinvoltura con cui si muove in società e le buone maniere lo rivelano come<br />

uomo raffinato: ma, soprattutto, unisce a queste doti l’elevatezza dei sentimenti e una mirabile<br />

educazione del cuore, una benevolenza verso il prossimo che scaturisce dall’intimo, lo<br />

spinge ad aiutare gli altri <strong>di</strong>sinteressatamente”. 177<br />

Nessun altro concetto ciceroniano è forse più vitale e urgente dell’“humanitas” e poco<br />

importa che l’uomo Cicerone non sia sempre stato all’altezza <strong>di</strong> questa sua teorizzazione.<br />

Esso “vuol <strong>di</strong>re tolleranza e poi autocontrollo, equilibrio, cortesia intesi come riflessi esteriori<br />

dell’armonia interiore; vuol <strong>di</strong>re rinunciare all’aggressività e alla polemica per far trionfare<br />

una civiltà del <strong>di</strong>alogo, dell’accettazione della <strong>di</strong>versità”.<br />

In questo senso il concetto <strong>di</strong> “humanitas” si configura come un processo <strong>di</strong> formazione<br />

tale da proiettare un in<strong>di</strong>viduo verso la <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> un universale umano.<br />

175 Cicerone “De officis”, Bur, Milano, 1991, vv. 40/43.<br />

176 Cicerone “Laelius”, Laterza, Bari, 1996, cap. V, vv. 17; cap. VI, vv. 22; cap. XXVII, vv. 102.<br />

177 M. Pohlenz, “L’uomo greco”, Bompiani, Milano, 2006, pag. 302/3.<br />

–94–


Nel “De oratore” <strong>di</strong>alogo fittizio i cui interlocutori sono famosi oratori e maestri <strong>di</strong> Cicerone,<br />

egli afferma che l’eloquenza può fornire i mezzi per superare la <strong>di</strong>fficile crisi politica<br />

ed istituzionale, a patto che sia basata su <strong>di</strong> una profonda cultura che si concretizza proprio<br />

nell’humanitas. Ma in quest’ultima trova un agire concreto anche la filosofia. Cicerone,<br />

che da giovane seguì le lezioni dei filosofi più svariati, fece sempre filosofia, fino a vedere<br />

in essa un saldo possesso spirituale. In realtà egli non pervenne alla formulazione <strong>di</strong> un proprio<br />

sistema filosofico limitandosi ad analizzare le teorie esposte da Carneade, Platone, ma<br />

soprattutto Panezio e Posidonio conoscendo così lo stoicismo. Di esso Cicerone accettò il<br />

principio nell’etica secondo cui il fine dell’uomo è la vita secondo natura e la virtù da sola<br />

deve bastare per assicurare la felicità in ogni contingenza della vita.<br />

Particolarmente interessante è la posizione <strong>di</strong> Seneca che assume caratteristiche totalmente<br />

<strong>di</strong>verse; per la prima volta il concetto <strong>di</strong> “humanitas” non si traduce in un semplice<br />

senso <strong>di</strong> solidarietà o particolare attenzione verso tutti gli uomini ma viene presa in considerazione<br />

la con<strong>di</strong>zione del singolo in rapporto al “tutti”. L’uomo deve vivere secondo non soltanto<br />

la ratio universale e collettiva, ma anche guidato da una ragione in<strong>di</strong>viduale, secondo<br />

la propria coscienza, e tramite essa può rapportarsi all’altro. Gli uomini entrano in contatto<br />

attraverso la propria in<strong>di</strong>vidualità che entra in comunicazione tra singolo e singolo, e non più<br />

grazie all’elemento “società-collettività” che mette in relazione singolo e massa.<br />

“La ragione è propria dell’uomo. Per essa l’uomo precede gli animali e viene subito<br />

dopo gli dèi. Una ragione perfetta è quin<strong>di</strong> il bene proprio dell’uomo... Ogni essere quando<br />

ha raggiunto la perfezione <strong>di</strong> quel che è il suo bene ha raggiunto il suo fine ultimo (finem<br />

naturae suae tetigit). E la perfezione della ragione si chiama virtù e in ciò appunto consiste<br />

l’onestà (haec ratio perfecta virtus vocatur eademque honestum est)” in queste parole il<br />

filosofo Seneca racchiude il suo concetto <strong>di</strong> umanità: agire secondo ragione, l’unico bene al<br />

quale bisogna rivolgersi; in essa è felicità, libertà, gioia e ogni sod<strong>di</strong>sfazione. È la ragione la<br />

vera natura dell’uomo, e agire in modo conforme ad essa è l’unico modo che l’uomo abbia<br />

per potersi definire tale nel senso migliore del termine, affermando il binomio umanitàragione,<br />

infatti, Seneca non può che rispolverare il classico binomio ragione-virtù, che da un<br />

lato rimanda ad<strong>di</strong>etro nel tempo a Socrate e ai Presocratici e dall’altro è destinato a determinare<br />

tanta parte del pensiero umano fino al Rinascimento e oltre. E la virtù non è preclusa a<br />

nessuno: anche gli schiavi sono uomini, anche loro infatti possiedono una ragione e possono<br />

perseguirla, La vera schiavitù è invece quella volontaria, l’assoggettamento al vizio. Sulla<br />

tematica della schiavitù Seneca si sofferma <strong>di</strong>ffusamente nell’epistola 47 a Lucilio: pur non<br />

arrivando a propugnare l’abbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio <strong>di</strong> uguaglianza<br />

fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in un’epoca<br />

in cui non <strong>di</strong> rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigi<strong>di</strong>ti e inaspriti, più volte rammenta<br />

che lo schiavo ha piena <strong>di</strong>gnità umana e che a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via<br />

del bene. “Sono schiavi”. No, sono uomini. “Sono schiavi”. No, vivono nella tua stessa casa.<br />

“Sono schiavi”. No, umili amici. “Sono schiavi”. No, compagni <strong>di</strong> schiavitù, se pensi che<br />

la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Chi rifiuta sdegnosamente la loro presenza, chi li<br />

percuote in continuazione e chi impe<strong>di</strong>sce loro <strong>di</strong> parlare (pena severissime punizioni) lo fa<br />

solo in forza <strong>di</strong> una sciocca consuetu<strong>di</strong>ne antiquata: “così accade che costoro, che non<br />

possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano<br />

parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non<br />

avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su <strong>di</strong> sé un pericolo<br />

che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura”. Tanto più che<br />

la sorte – incontrastata signora delle vicende umane – può improvvisamente stravolgere la<br />

con<strong>di</strong>zione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi. Davanti ai capricci<br />

–95–


della sorte l’uomo virtuoso ovvero quello che agisce secondo ragione, il saggio, riesce a <strong>di</strong>staccarsene<br />

poiché “non sempre bisogna cercare <strong>di</strong> tenere la vita, perché vivere<br />

non è un bene, ma è un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può;<br />

esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali con<strong>di</strong>zioni, con quali occupazioni.<br />

Egli si preoccupa sempre del tipo <strong>di</strong> vita che conduce, non della sua durata: se gli<br />

si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità, esce dal carcere... Quel che<br />

importa non è morire più presto o più tar<strong>di</strong>, ma importa morire bene o male, ma morire bene<br />

è fuggire il pericolo <strong>di</strong> vivere male”. 178 Questa riflessione maturata nello stoicismo antico è<br />

da Seneca compen<strong>di</strong>ata – nella sententia “il fato guida chi è consenziente, trascina chi si<br />

oppone” (“ducunt fata volentem, nolentem trahunt”). Il dominio dei valori si trova così<br />

spostato dall’esterno all’interno, nella ragione, da cui <strong>di</strong>pende la valutazione delle cose.<br />

L’interiorità, a cui fa appello Seneca, è il luogo in cui si combatte contro gli assalti <strong>di</strong> tutto<br />

ciò che è esterno per la salvaguar<strong>di</strong>a della propria libertà.<br />

L’humanitas classica andò in un secondo momento ad arricchire l’etica cristiana. La<br />

lettura dell’Hortensius <strong>di</strong> Cicerone ad esempio avviò Agostino verso una filosofia concepita<br />

come primo gra<strong>di</strong>no verso il rinnovamento spirituale e la conversione; anche il pensiero <strong>di</strong><br />

San Paolo viene da molti accostato a quello <strong>di</strong> Seneca.<br />

In ambito cristiano particolarmente interessante è la posizione <strong>di</strong> Paolo riguardo la tensione,<br />

tra “humana con<strong>di</strong>tio” e “<strong>di</strong>vina potestas”. Secondo Paolo questa tensione viene assolutamente<br />

meno attraverso il nesso <strong>di</strong> amore e carità.<br />

Il fondamento della morale sociale paolina è l’uguaglianza degli esseri umani in Cristo<br />

Gesù, che ha creato e redento tutti in<strong>di</strong>stintamente: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più<br />

schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. 179<br />

Questa uguaglianza, presente già nel messaggio <strong>di</strong> Gesù, rappresenta una notevole <strong>di</strong>scontinuità<br />

con la tra<strong>di</strong>zione religiosa e sociale sia ebraica che pagana. Paolo riprende da Gesù anche<br />

il nucleo centrale della morale: l’agape (¢g£ph) solitamente tradotto con “carità” ma che<br />

ha un’accezione semantica più ampia della semplice elemosina che il termine italiano solitamente<br />

in<strong>di</strong>ca.<br />

Pur non essendo un rivoluzionario alcuni passi delle sue lettere portano il cristiano a<br />

rigettare <strong>di</strong> fatto l’ingiustizia nelle relazioni sociali: Paolo pre<strong>di</strong>cò l’amore per i nemici, un<br />

trattamento giusto ed umano nei confronti degli schiavi, il dovere dei mariti <strong>di</strong> amare le mogli<br />

come loro stessi e <strong>di</strong> non essere severi coi figli, il dovere <strong>di</strong> aiutare i poveri (tema centrale della<br />

cosiddetta “colletta dei santi” ricorrente in alcune sue lettere).In questo senso si esplica il<br />

senso <strong>di</strong> Humanitas come carità ed amore verso il prossimo a prescindere da qualsiasi eccezione<br />

o pregiu<strong>di</strong>zio. Humanitas intesa quin<strong>di</strong> non solo come valore universale ma, soprattutto<br />

come dovere dei cristiani nei confronti <strong>di</strong> tutti i figli <strong>di</strong> Dio.<br />

Il rapporto tra la con<strong>di</strong>zione umana e la potenza <strong>di</strong>vina non cessa <strong>di</strong> interessare e animare<br />

i <strong>di</strong>battiti, anche ad altissimi livelli, fino a rappresentare uno dei temi cruciali cui l’istituzione<br />

ecclesiastica deve dare chiarimenti. Fu Agostino a risolvere tale tensione in un viaggio verso<br />

il “foro interiore” in cui l’uomo scopre che Dio è “più intimo a me <strong>di</strong> quanto non lo sia io<br />

stesso”.<br />

L’io <strong>di</strong> Agostino si costruisce in questo singolare rapporto con il “Tu” <strong>di</strong> Dio. Anche<br />

Cleante, nel suo famoso “Inno a Zeus”, si rivolgeva così al <strong>di</strong>o stoico, ma in quella preghiera<br />

rimaneva una <strong>di</strong>stanza insuperabile tra l’uomo e la <strong>di</strong>vinità, solennemente invocata da un<br />

mortale, ma lontana nella sua trascendenza.<br />

178 Cicerone, “epistole a Lucilio”, Bur, Laterza, Bari, 1992, vv. 23/27.<br />

179 “La Sacra Bibbia”, Roma, 1964, Gal. 3,28.<br />

–96–


L’intimità che Agostino intrattiene con Dio “più intimo del suo intimo” fa impalli<strong>di</strong>re<br />

ogni forma <strong>di</strong> comunicazione col <strong>di</strong>vino dell’antichità classica.<br />

Nonostante le indubbie debolezze umane, Agostino ritiene “in interiore homine habitat<br />

veritas”: è in quest’ottica che si riconosce il legame in<strong>di</strong>ssolubile che lega l’uomo alla veritas,<br />

ovvero a Dio.<br />

«La storia d’amore tra Dio e l’uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione <strong>di</strong><br />

volontà cresce in comunione <strong>di</strong> pensiero e <strong>di</strong> sentimento e, così, il nostro volere e la volontà<br />

<strong>di</strong> Dio coincidono sempre <strong>di</strong> più: la volontà <strong>di</strong> Dio non è più per me una volontà estranea, che<br />

i comandamenti mi impongono dall’esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all’esperienza<br />

che, <strong>di</strong> fatto, Dio è più intimo a me <strong>di</strong> quanto lo sia io stesso”. 180<br />

A questo punto la concezione dell’“humanitas” conosce una svolta decisiva solo con il<br />

De Monarchia <strong>di</strong> Dante: allorché la nozione collettiva <strong>di</strong> humanitas viene resa in<strong>di</strong>pendente<br />

dalla categoria <strong>di</strong> christianitas, intesa come complemento sovrannaturale della universitas del<br />

genus humanum. 181<br />

Francesco Petrarca è sicuramente il più noto tra i molti creatori <strong>di</strong> quella <strong>di</strong>mensione<br />

umanizzata (umanistica) del tempo sulla quale si fonda il sentimento della modernità. A lui<br />

si deve la celebrazione <strong>di</strong> quel «segreto conflitto delle proprie passioni» che inaugura le<br />

tensioni della modernità, apre il cammino dell’in<strong>di</strong>viduo verso la sfera mondana e inaugura<br />

la riflessione sul presente. Il tempo muta allora nella sua sostanza perché mobile e attraversato<br />

da tempeste violente: specchio <strong>di</strong> chi lo osserva e produce. Il tempo petrarchesco riflette ed<br />

esalta le ambiguità sulla finitu<strong>di</strong>ne e sul destino dell’uomo moderno.<br />

Giunto sulla cima del Monte Ventoso dove il paesaggio dovrebbe rapire i sensi nella contemplazione<br />

della natura, Petrarca rilegge un passo delle Confessioni <strong>di</strong> Sant’Agostino: “Gli uomini<br />

giungono ad ammirare gli alti monti, i giganteschi flutti del mare, l’ampio corso dei fiumi,<br />

il vasto cerchio dell’oceano e le vie delle stelle. Ma <strong>di</strong>menticano se stessi e restano senza ammirazione<br />

davanti a se stessi”. E tuttavia nella riflessione della modernità umanistica la rivalutazione<br />

dell’uomo non appare come un omaggio alla magnificenza del creato: l’osservazione<br />

interiore mostra tutta la solitu<strong>di</strong>ne e le <strong>di</strong>fficoltà dell’Humanitas. “Ciascuno interroghi se stesso<br />

e risponda a se stesso, per rendersi conto fino a qual punto il suo animo è combattuto internamente<br />

da passioni <strong>di</strong>verse ed avverse ed è spinto ora qua ora là da impulsi vari ed opposti.<br />

Esso non è mai compiuto, non è mai uno, ma è interamente <strong>di</strong>scorde e <strong>di</strong>lacerato”. Tutto<br />

è tensione e turbamento, «tutto avviene attraverso il contrasto e ciò che chiamiamo evento è<br />

in realtà lotta». Contrasto e lotta che lacerano il tempo profano tra desiderio <strong>di</strong> mondanità e<br />

concentrazione interiore, passione per l’immortalità tra gli uomini, la gloria, e per l’immortalità<br />

dell’uomo, il sapere, gli stu<strong>di</strong>a Humanitatis.<br />

Se a partire da Petrarca la riscoperta dell’Humanitas dei classici viene vista come non più<br />

contrad<strong>di</strong>ttoria ma complementare al senso più genuino e profondo dell’esperienza cristiana,<br />

la portata “secolarizzante” della svolta si <strong>di</strong>spiega nella sua pienezza con l’“umanesimo<br />

civile” <strong>di</strong> Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni. All’origine della nozione<br />

<strong>di</strong> umanesimo, il cui uso terminologico, occorre sottolinearlo, è entrato solo agli inizi del<br />

XIX secolo nella terminologia storiografica, sta la <strong>di</strong>stinzione operata da Cicerone tra<br />

“humanitas” e “<strong>di</strong>vinitas”, <strong>di</strong>stinzione poi maturata proprio da Petrarca per cui “humanitas”<br />

esprimeva “la restaurazione o rinascita o riabilitazione dell’uomo naturale” (come scrive W.<br />

Ullmann) come si era rivelato nella storia, civile e sociale, e nelle forme più elevate delle<br />

epoche classiche (greche e latine).<br />

180 Agostino, “Confessiones”, Laterza, Torino, 2001, cap. III, vv. 6/11.<br />

181 Dante, De Monarchia, Bompiani, Milano, 1998, cap I, vv. 3/7.<br />

–97–


A Firenze Leonardo Bruni esaltò nei Dialoghi con Petrus Paulus da Istria (Dialogi ad<br />

Petrum Paulum Histrum) la lezione civile <strong>di</strong> Salutati e la integrò sul fondamento etico delle<br />

“humanae litterae” come promotrici <strong>di</strong> un bene comune nel quale concordano “caritas”<br />

cristiana e “civitas” ciceroniana.<br />

Poggio Bracciolini spinse il tema dell’operosità citta<strong>di</strong>na e terrena fino alla polemica<br />

antiascetica e antifratesca: si vedano soprattutto L’avarizia (De avaritia) e Contro gli ipocriti<br />

(Contra hypocritas). Mentre la convivenza tra umanesimo e devozione avveniva su nuove<br />

basi: si veda il camaldolese Ambrogio Traversari, grecista e latinista, fautore della conciliazione<br />

tra chiesa greco-ortodossa e chiesa romano-cattolica.<br />

Un letterato è colui che possiede l’HUMANITAS, mentre per Dante doveva possedere<br />

la CIVITAS.<br />

Si delinea in maniera netta, così, la definizione <strong>di</strong> “Humanitas” come un insieme <strong>di</strong><br />

qualità morali assai notevoli, quali la magnanimità, il coraggio, l’altruismo, la fiducia nella<br />

legge e nella religione, l’amicizia, la lealtà, l’onestà, la pietas (ovvero il rispetto del volere<br />

degli dei) ecc. Il letterato cercherà queste virtù stu<strong>di</strong>ando i classici attentamente; <strong>di</strong> per sé<br />

costui si presenta simile a Dante, ma la novità sta nel modo nuovo in cui sono trattati i classici.<br />

Bibliografia e sitografia:<br />

MENANDRO, “Dyscolos”, Bompiani, Milano, 1983.<br />

AULO GALLIO, “Noctes Atticae”, Borle, Torino, 1968.<br />

TERENZIO, “Heautontimorumenos”, Latrerza, Bari, 1994.<br />

CICERONE, “De officis”, Bur, Milano, 1991.<br />

CICERONE, “Laelius”, Laterza, Bari, 1996.<br />

M. POHLENZ, “L’uomo greco”, Bompiani, Milano, 2006.<br />

SENECA, “epistole a Lucilio”, Bur, Laterza, Bari, 1992<br />

“La Sacra Bibbia”, Roma, 1964.<br />

AGOSTINO, “Confessiones”, Laterza, Torino, 2001.<br />

DANTE, “De Monarchia”, Bompiani, Milano, 1998.<br />

1.2 OLTREPASSARE I CONFINI:<br />

NUOVO MONDO E NUOVE SCIENZE<br />

Il termine umanità, quale appare nello spazio culturale dell’Occidente a partire dalla<br />

nozione classica <strong>di</strong> humanitas, presenta sin dalle origini una duplice accezione. Per un verso<br />

esso sta a in<strong>di</strong>care la natura umana, l’essenza dell’uomo intesa come suo tratto costitutivo e<br />

peculiare; per l’altro la totalità del genere umano come entità non statica ma <strong>di</strong>namica, non<br />

meramente naturale ma storico-evolutiva.<br />

La scoperta <strong>di</strong> un continente sconosciuto, quale l’America, abitato da razze mai viste,<br />

ebbe sugli europei lo stesso impatto emotivo che avrebbe oggi per noi un eventuale contatto<br />

con alieni. Si <strong>di</strong>scusse se questi nativi seminu<strong>di</strong> e senza barba appartenessero o meno alla<br />

razza umana o a quale classificazione <strong>di</strong> razze potessero essere ricondotti (come accadrebbe<br />

appunto in caso <strong>di</strong> “incontro ravvicinato” con marziani). Messa a confronto con una realtà<br />

culturale ra<strong>di</strong>calmente <strong>di</strong>versa, la civiltà europea – malgrado i nuovi orizzonti <strong>di</strong>schiusi dalla<br />

riscoperta dell’antico e dalla nuova indagine naturale – adottò i mezzi della colonizzazione vio-<br />

–98–


lenta e della conversione Furono proprio i due elementi, dell’assoluta novità della situazione<br />

e dell’atrocità della violenza esercitata nei confronti delle popolazioni in<strong>di</strong>gene, a dar luogo a<br />

una lunga <strong>di</strong>sputa teologica sulla natura degli in<strong>di</strong>os e sulla legittimità della conquista. Ad onta<br />

dei progressi fino ad allora registrati dal <strong>di</strong>ritto naturale e dall’idea <strong>di</strong> humanitas, la questione<br />

che allora si pose fu proprio quella della definizione dello statuto umano degli americani nativi.<br />

Occorre considerare che nel 1537 la chiesa cattolica, con la bolla Sublimis Deus <strong>di</strong> papa<br />

Paolo III, aveva riconosciuto agli in<strong>di</strong>os lo status <strong>di</strong> esseri umani razionali (veri homines), e <strong>di</strong><br />

conseguenza <strong>di</strong> soggetti <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto naturale detentori pleno jure del <strong>di</strong>ritto alla libertà e alla proprietà.<br />

Venivano così recepite, da parte della suprema autorità ecclesiastica, le tesi che sulla<br />

scorta <strong>di</strong> un’interpretazione delle dottrine aristoteliche e tomiste, facevano <strong>di</strong>scendere i principi<br />

del moderno <strong>di</strong>ritto internazionale da un’idea universalistica <strong>di</strong> humanitas. Nella sua prospettiva<br />

il <strong>di</strong>ritto delle genti (ius gentium), deducibile dal piano universale della ragione umana,<br />

doveva essere co<strong>di</strong>ficato in norme giuri<strong>di</strong>che positive comuni all’intera umanità (ius inter<br />

gentes), in grado <strong>di</strong> essere rispettate da tutti gli stati. Tuttavia si manifestò nei confronti degli<br />

in<strong>di</strong>os un atteggiamento ambivalente: per un verso, riconoscendo a questi ultimi tutte le prerogative<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto naturale, si contestò la vali<strong>di</strong>tà dei titoli autoassegnatisi dai conquistadores<br />

per assoggettarli con la forza e convertirli con meto<strong>di</strong> coattivi alla religione cristiana; per l’altro,<br />

affermando l’incapacità delle popolazioni in<strong>di</strong>gene <strong>di</strong> autogovernarsi, si finì per legittimare<br />

il dominio spagnolo, purché esercitato in funzione “civilizzatrice”. Una posizione decisamente<br />

più avanzata era invece riscontrabile in Bartolomé de Las Casas: il quale, anticipando l’atteggiamento<br />

relativistico che avrebbe assunto più tar<strong>di</strong> Montaigne, non aveva esitato a contestare<br />

la stessa Politica <strong>di</strong> Aristotele (che, nel parlare dei barbari, «molte volte si sbaglia, prendendo<br />

per errore alcuni barbari per altri») e ad affermare il dovere degli spagnoli <strong>di</strong> rispettarne usi,<br />

costumi e tra<strong>di</strong>zioni. Si oppose a Las Casas il giu<strong>di</strong>zio del rettore Juan Ginès de Sepulveda, il<br />

quale si riallacciò alla dottrina aristotelica della schiavitù naturale per giungere alla conclusione<br />

che gli in<strong>di</strong>os erano appunto schiavi per natura e, in quanto barbari de<strong>di</strong>ti ai sacrifici umani,<br />

incapaci <strong>di</strong> governarsi da sé. Le ricerche <strong>di</strong> storia dei concetti e <strong>di</strong> “semantica storica” degli<br />

ultimi decenni hanno evidenziato come l’idea <strong>di</strong> humanitas <strong>di</strong>spiega il proprio potenziale universalizzante<br />

soltanto nell’ultimo scorcio del Settecento, allorché viene a saldarsi con la genesi<br />

della filosofia moderna. Così il soggetto della Storia viene sempre più ad identificarsi<br />

con l’idea <strong>di</strong> “Umanità” o <strong>di</strong> “genere umano”. “Genere umano” che verrà rivisitato in un’analisi<br />

sul piano prettamente scientifico da personaggi quali Galileo Galilei, Newton, Herbert Spencer<br />

e Charles Darwin e su quello filosofico prima dagli illuministi come Kant, Voltaire, Rousseau,<br />

poi ancora da Nietzsche, Gehelen, Freud. Tutti interventi destinati ad aprire alle gran<strong>di</strong><br />

sfide del futuro la questione dell’umanità, del suo significato e delle sue prospettive.<br />

Dialogo sopra i due massimi sistemi (G. Galilei)<br />

Il Dialogo è un’opera <strong>di</strong> trattatistica scientifica composta da Galileo Galilei negli anni<br />

tra il 1624 e il 1630. Scritta sotto la forma <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo appunto, è stata un’opera <strong>di</strong> enorme successo<br />

all’epoca, tanto che la Chiesa sentendo attaccata la sua dottrina nei fondamenti principali,<br />

la inserì nell’In<strong>di</strong>ce dei libri proibiti. Il Dialogo si presenta come una confutazione del<br />

sistema tolemaico-aristotelico a favore <strong>di</strong> un sistema copernicano. Si pone quin<strong>di</strong> come un<br />

importante scritto filosofico all’interno della rivoluzione scientifica, conciliando linguaggio<br />

e semplicità <strong>di</strong>vulgative. Il nuovo metodo scientifico (o appunto metodo galileiano) si muoverà<br />

da questa sua pubblicazione; in particolar modo verrà esplicata la teoria della conoscenza<br />

<strong>di</strong> Galileo. Oltre che un trattato scientifico-astronomico infatti si presenta come una<br />

grande opera filosofica, che sancisce l’entrata in scena delle nuove scienze.<br />

–99–


Riportiamo allora uno scambio <strong>di</strong> battute, preso dal Dialogo, tra Salviati, schierato a favore<br />

dell’autonomia scientifica e sostenitore del sistema copernicano, e Simplicio, che come<br />

tratteggia anche il nome, è invece saldamente legato ai dogmi tra<strong>di</strong>zionali e quin<strong>di</strong> fervente<br />

sostenitore del sistema aristotelico-tolemaico:<br />

Salviati 182<br />

Fu la conclusione e l’appuntamento <strong>di</strong> ieri, che noi dovessimo in questo giorno <strong>di</strong>scorrere,<br />

quanto più <strong>di</strong>stintamente e particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni naturali e<br />

loro efficacia, che per l’una parte e per l’altra sin qui sono state prodotte da i fautori della posizione<br />

Aristotelica e Tolemaica e da i seguaci del sistema Copernicano. E perché, collocando<br />

il Copernico la Terra tra i corpi mobili del cielo, viene a farla essa ancora un globo simile a un<br />

pianeta, sarà bene che il principio delle nostre considerazioni sia l’andare esaminando quale e<br />

quanta sia la forza e l’energia de i progressi peripatetici nel <strong>di</strong>mostrare come tale assunto sia<br />

del tutto impossibile; attesoché sia necessario introdurre in natura sustanze <strong>di</strong>verse tra <strong>di</strong> loro,<br />

cioè la celeste e la elementare, quella impassibile ed immortale, questa alterabile e caduca.<br />

Il quale argomento tratta egli ne i libri del Cielo, insinuandolo prima con <strong>di</strong>scorsi dependenti<br />

da alcuni assunti generali, e confermandolo poi con esperienze e con <strong>di</strong>mostrazioni particolari.<br />

Io, seguendo l’istesso or<strong>di</strong>ne, proporrò, e poi liberamente <strong>di</strong>rò il mio parere; esponendomi alla<br />

censura <strong>di</strong> voi, ed in particolare del signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore<br />

della dottrina Aristotelica.<br />

È il primo passo del progresso peripatetico quello dove Aristotile prova la integrità e<br />

perfezione del mondo coll’ad<strong>di</strong>tarci com’ei non è una semplice linea né una superficie<br />

pura, ma un corpo adornato <strong>di</strong> lunghezza, <strong>di</strong> larghezza e <strong>di</strong> profon<strong>di</strong>tà; e perché le <strong>di</strong>mensioni<br />

non son più che queste tre, avendole egli, le ha tutte, ed avendo il tutto, è perfetto. Che<br />

poi, venendo dalla semplice lunghezza costituita quella magnitu<strong>di</strong>ne che si chiama linea,<br />

aggiunta la larghezza si costituisca la superficie, e sopragiunta l’altezza o profon<strong>di</strong>tà ne risulti<br />

il corpo, e che doppo queste tre <strong>di</strong>mensioni non si <strong>di</strong>a passaggio ad altra, sì che in queste tre<br />

sole si termini l’integrità e per così <strong>di</strong>re la totalità, averei ben desiderato che da Aristotile<br />

mi fusse stato <strong>di</strong>mostrato con necessità, e massime potendosi ciò esequire assai chiaro e<br />

spe<strong>di</strong>tamente.<br />

Simplicio 183<br />

Mancano le <strong>di</strong>mostrazioni bellissime nel 2°, 3° e 4° testo, doppo la definizione del continuo?<br />

Non avete, primieramente, che oltre alle tre <strong>di</strong>mensioni non ve n’è altra, perché il tre<br />

è ogni cosa, e ‘l tre è per tutte le bande? e ciò non vien egli confermato con l’autorità e<br />

dottrina de i Pittagorici, che <strong>di</strong>cono che tutte le cose son determinate da tre, principio, mezo<br />

e fine, che è il numero del tutto? E dove lasciate voi l’altra ragione, cioè che, quasi per legge<br />

naturale, cotal numero si usa ne’ sacrifizii degli Dei? e che, dettante pur così la natura, alle<br />

cose che son tre, e non a meno, attribuiscono il titolo <strong>di</strong> tutte? perché <strong>di</strong> due si <strong>di</strong>ce amendue,<br />

e non si <strong>di</strong>ce tutte; ma <strong>di</strong> tre, sì bene. E tutta questa dottrina l’avete nel testo 2°. Nel 3° poi,<br />

ad pleniorem scientiam, si legge che l’ogni cosa, il tutto, e ‘l perfetto, formalmente son<br />

l’istesso; e che però solo il corpo tra le grandezze è perfetto, perché esso solo è determinato<br />

da 3, che è il tutto, ed essendo <strong>di</strong>visibile in tre mo<strong>di</strong>, è <strong>di</strong>visibile per tutti i versi: ma dell’altre,<br />

chi è <strong>di</strong>visibile in un modo, e chi in dua, perché secondo il numero che gli è toccato, così<br />

hanno la <strong>di</strong>visione e la continuità; e così quella è continua per un verso, questa per due, ma<br />

182 Da G. Galilei, “Diaologo sopra i due massimi sistemi del mondo” Firenze, 1632.<br />

183 Da G. Galilei, “Diaologo sopra i due massimi sistemi del mondo” Firenze, 1632.<br />

– 100 –


quello, cioè il corpo, per tutti. Di più nel testo 4°, doppo alcune altre dottrine, non prov’egli<br />

l’istesso con un’altra <strong>di</strong>mostrazione, cioè che non si facendo trapasso se non secondo qualche<br />

mancamento (e così dalla linea si passa alla superficie, perché la linea è manchevole <strong>di</strong><br />

larghezza), ed essendo impossibile che il perfetto manchi, essendo egli per tutte le bande, però<br />

non si può passare dal corpo ad altra magnitu<strong>di</strong>ne? Or da tutti questi luoghi non vi par egli a<br />

sufficienza provato, com’oltre alle tre <strong>di</strong>mensioni, lunghezza, larghezza e profon<strong>di</strong>tà, non si<br />

dà transito ad altra, e che però il corpo, che le ha tutte, è perfetto?<br />

Brevissima relazione della <strong>di</strong>struzione delle In<strong>di</strong>e occidentali (B. de Las Casas)<br />

La Brevissima relazione della <strong>di</strong>struzione delle In<strong>di</strong>e, scritta nell’ambito della lotta <strong>di</strong><br />

Las Casas per la <strong>di</strong>fesa degli in<strong>di</strong>geni americani, si caratterizza per essere sempre relazionata<br />

<strong>di</strong>rettamente con i problemi concreti della realtà cui fa riferimento. Trattandosi <strong>di</strong> una vera e<br />

propria arma, si <strong>di</strong>stingue per la semplicità e chiarezza nell’esposizione della materia, nello<br />

stile usato e nella struttura. Già dal titolo infatti, risalta il sostantivo <strong>di</strong>struzione che riporta<br />

ad un concetto onnipresente nell’opera lascasiana e riscontrabile anche nei testi sacri e profani<br />

della letteratura spagnola me<strong>di</strong>oevale. Inoltre, l’epiteto Brevissima, non si riferisce al fatto che<br />

la relazione sia poco dettagliata, ma ne sottolinea per lo più il carattere <strong>di</strong> compen<strong>di</strong>o delle<br />

esposizioni orali all’imperatore Carlo V.<br />

Nell’Argomento del presente epitoma, l’autore ricorda le circostanze della redazione<br />

dell’opera nel 1542 e spiega l’obbligo <strong>di</strong> “farlo stampare” per presentarla, <strong>di</strong>eci anni dopo,<br />

al principe Filippo come “sommario” dei crimini perpetrati nelle In<strong>di</strong>e e dato il possibile<br />

aggravarsi <strong>di</strong> questi “tra<strong>di</strong>menti e scelleratezze”. A continuazione, si trova un Prologo<br />

de<strong>di</strong>cato al principe in cui vengono presentate le ragioni oggettive della stesura dell’opera,<br />

quali le atrocità inflitte ai naturali del nuovo mondo, la possibilità <strong>di</strong> porvi rime<strong>di</strong>o e il<br />

dovere morale <strong>di</strong> denunciare simili misfatti per non esserne in<strong>di</strong>rettamente complici: “Io ho<br />

deciso, per non essere reo, tacendo, [...] <strong>di</strong> mettere a stampa”. Risaltano i termini forti che<br />

caratterizzano lo stile della Relazione vera e propria come “le ingiurie e le devastazioni,<br />

le rovine e le <strong>di</strong>struzioni”, gli epiteti come “opere inique, tiranniche [...] condannate [...]<br />

esecrabili e abominevoli” e le forme verbali come “spopolare”, “uccidendo” e “rubare”,<br />

senza che manchi la nota amaramente ironica delle “imprese” realizzate dai conquistatori.<br />

In contrasto poi con la menzione dei numerosi ecci<strong>di</strong> e crudeltà, si insinua il tema dell’innocenza<br />

naturale delle vittime “genti [...] pacifiche, umili e mansuete, che non fanno danno<br />

a nessuno”.<br />

Il corpo dell’opera è costituito essenzialmente da una ininterrotta successione <strong>di</strong> racconti<br />

e descrizioni <strong>di</strong> uccisioni facendo uso, in special modo, <strong>di</strong> immagini antitetiche. Si<br />

inizia con una visione <strong>di</strong> insieme e si prosegue con una serie <strong>di</strong> relazioni che seguono l’or<strong>di</strong>ne<br />

cronologico e, approssimativamente, anche quello geografico delle terre scoperte: isola<br />

Spagnola e arcipelago antillano, “terra ferma” dal Darién fino al Nicaragua, Nuova Spagna<br />

(Messico), Guatemala, zone settentrionali dell’America del sud da Cartagena a Venezuela,<br />

Florida, Rio de la Plata, Perù, Nuova Granada. Il fatto che questi capitoli non presentino<br />

la stessa estensione è dovuto al tipo <strong>di</strong> documentazione cui Las Casas fa riferimento non<br />

tralasciando, comunque, <strong>di</strong> specificare il più delle volte le sue fonti, cosa che gli permette <strong>di</strong><br />

presentare sempre la materia come veritiera e incontestabile.<br />

Oltre che dell’esperienza <strong>di</strong>retta, infatti, si avvale non solo <strong>di</strong> dati e notizie orali, relazioni<br />

in<strong>di</strong>gene, canti messicani ma anche <strong>di</strong> scritti come lettere e memoriali.<br />

Per quanto riguarda il modo <strong>di</strong> esporre i crimini commessi, è da notare che Fra’ Bartolomé<br />

preferisce mantenere l’anonimato sui nomi degli autori forse giu<strong>di</strong>cando più conve-<br />

– 101 –


niente o prudente astenersi dal <strong>di</strong>vulgarli. Inoltre, la struttura narrativa delle scene, segue<br />

schemi basici quasi invariabili e caratterizzati da quella brevità annunciata nel titolo: 184<br />

“Sarebbe invero <strong>di</strong>fficile riferire la quantità e valutare caso per caso la gravità delle<br />

ingiustizie, dei danni, degli oltraggi e degli abusi che le genti <strong>di</strong> quella costa hanno subito<br />

dagli spagnoli, a partire dall’anno 1510 fino a oggi”.<br />

Comincia con una <strong>di</strong>gressione sulla bellezza e la fertilità delle terre, sulla straor<strong>di</strong>naria<br />

densità della sua popolazione e sulla bontà e innocenza dei suoi naturali. Un esempio ne è<br />

la descrizione della provincia <strong>di</strong> Jalisco: “Era quella una terra popolosa come un alveare,<br />

ricchissima e felice, una delle terre più fertili e meravigliose delle In<strong>di</strong>e”.<br />

Tutto questo risalta grazie alla giustapposizione delle scene sanguinarie <strong>di</strong> cui i conquistatori<br />

sono protagonisti e grazie all’uso <strong>di</strong> formule superlative che contribuiscono a moltiplicare<br />

l’impatto emotivo della Brevissima relazione sul lettore.<br />

Kant e il concetto <strong>di</strong> Humanitas<br />

Già nel latino stesso, il termine «umanità» è decisamente ambiguo: esso significa da una<br />

parte l’insieme <strong>di</strong> tutti gli uomini viventi, dall’altra la qualità morale che rende l’uomo degno<br />

<strong>di</strong> esser chiamato tale, cioè senza la quale egli sembrerebbe più simile ad un animale feroce.<br />

«Disumano» significa quin<strong>di</strong> qualcosa come «spietato», «insensibile». Una delle definizioni<br />

più sod<strong>di</strong>sfacenti <strong>di</strong> questo secondo significato si trova ripetutamente in Kant, il quale per<br />

altro non cade nell “ambiguità lessicale” perché può tranquillamente <strong>di</strong>stinguere nella lingua<br />

tedesca la Menschheit, l’«insieme degli uomini», dalla Humanität, la «qualità morale dell’uomo».<br />

Ecco come Kant si esprime nella Metafisica dei costumi:<br />

“Congratulazione e compassione sono sentimenti sensibili <strong>di</strong> piacere o per lo stato <strong>di</strong><br />

benessere o dolore degli altri, per i quali già la natura ha posto negli uomini la recettività.<br />

Tuttavia, il far uso <strong>di</strong> questi come <strong>di</strong> mezzi per promuovere la benevolenza attiva e razionale<br />

costituisce un dovere ulteriore, benché solo con<strong>di</strong>zionato, che va sotto il nome <strong>di</strong> umanità<br />

(humanitas), poiché qui l’uomo viene considerato non puramente come essere razionale, ma<br />

anche come animale dotato <strong>di</strong> ragione. Questa può essere posta solo nella facoltà e volontà<br />

<strong>di</strong> essere partecipi gli uni degli altri in rapporto ai propri sentimenti (humanitas practica),<br />

oppure puramente nella recettività per il comune sentimento del benessere o del dolore<br />

(humanitas aesthetica), che la natura stessa dà. La prima cosa è libera e viene dunque chiamata<br />

partecipativa; la seconda non è libera e può chiamarsi comunicativa (come il calore o<br />

le malattie infettive), o anche passione comune, giacché essa si <strong>di</strong>ffonde naturalmente tra<br />

uomini che vivono gli uni accanto agli altri. Solo nei confronti della prima esiste un dovere”.<br />

Queste osservazioni <strong>di</strong> Kant si pongono su un piano <strong>di</strong>fferente da quello razionale dell’etica.<br />

Qui infatti entrano in gioco anche i dati sentimentali. Essi vengono considerati da<br />

Kant come una sorta <strong>di</strong> prerequisiti, offerti dalla natura, per rendere la vita morale accessibile,<br />

anche nella sua bellezza, ad esseri umani (dato che essi non sono solo razionali). Quella<br />

che viene in particolare qui chiamata in causa è la «recettività» per quel sentimento <strong>di</strong> partecipazione<br />

che ci fa sentire gioie e tristezze altrui come gioie e tristezze nostre, semplicemente<br />

per la comune appartenenza alla specie umana. Questo è uno dei quattro «concetti<br />

preliminari estetici», in<strong>di</strong>cato all’inizio dell’opera come «amore per il prossimo. Ecco come<br />

stanno le cose riguardo all’amore:<br />

184 Da B. Las Casas “Istoria o brevissima relattione della <strong>di</strong>struttione delle In<strong>di</strong>e occidentali” <strong>di</strong> Mons. Reveren<strong>di</strong>ssimo<br />

Don Bartolomeno Delle Case, sivigliano dell’Or<strong>di</strong>ne dei Pre<strong>di</strong>catori - Traduzioni <strong>di</strong> G. Castellani, Venezia,<br />

1643.<br />

– 102 –


“L’amore è questione della sensazione, non del volere, e io non posso amare perché<br />

voglio, tanto meno perché devo: dunque il dovere <strong>di</strong> amare è un’assur<strong>di</strong>tà (Un<strong>di</strong>ng) [...]<br />

Avere un dovere per l’amore, cioè dover essere costretti a provarne piacere, è una contrad<strong>di</strong>zione”.<br />

Certamente si può rimanere perplessi <strong>di</strong> fronte alla restrizione del significato <strong>di</strong> «amore».<br />

Ciononostante l’osservazione <strong>di</strong> Kant in<strong>di</strong>vidua una parte dell’esperienza umana che,<br />

comunque si voglia chiamare, è senza dubbio reale: quell’incre<strong>di</strong>bile gioia <strong>di</strong> fronte all’esistenza,<br />

gioia che non si può comandare. Ora, è proprio questa parte emotiva che rientra <strong>di</strong>rettamente<br />

nella definizione <strong>di</strong> umanità. Infatti, essa deve in<strong>di</strong>viduare la virtù che consiste nella<br />

naturale pre<strong>di</strong>sposizione a con<strong>di</strong>videre gioie e dolori. Ma perché proprio questa virtù merita<br />

il nome <strong>di</strong> «umanità»? La risposta <strong>di</strong> Kant è brillante: L’umanità è la virtù dell’uomo in<br />

quanto tale, portatore <strong>di</strong> sensibilità e razionalità, cioè in quanto animal rationale. È per questo<br />

che nell’etica l’umanità non poteva ancora comparire, perché le con<strong>di</strong>zioni della moralità<br />

venivano applicate a qualsiasi ipotetico essere (così avviene nella Critica della ragione<br />

pratica, in particolare A 48-54).<br />

Significa questo che l’umanità è la virtù degli uomini, ma non degli esseri razionali<br />

in generale? In un certo senso sì: angeli o Dio non possono esser dotati <strong>di</strong> «umanità». Ma è<br />

anche vero che non ne avrebbero bisogno. Per angeli o Dio non ha senso parlare <strong>di</strong> imperativi<br />

etici, la cui forza consiste tutta e soltanto nella repressione dell’amor <strong>di</strong> sé che contrasti<br />

con essi (Kant lo specifica nella Critica della ragione pratica, A 130). La «legge<br />

morale sopra <strong>di</strong> me» può esistere sempre per la mia <strong>di</strong>gnità proprio perché io sono anche una<br />

creatura animale, un essere vivente solo per poco, nella completa in<strong>di</strong>fferenza degli astri. E<br />

nel momento in cui non ci riconosciamo un po’ animali, non c’è più nessuna legge morale<br />

da innalzare. Insomma: l’umanità è la virtù <strong>di</strong> tutti coloro per i quali ha senso parlare <strong>di</strong><br />

virtù. Questa situazione sviluppa, tra l’altro, un altro argomento sul quale bisognerebbe<br />

riflettere. Immaginiamo un uomo perfettamente realizzato, dunque «perfettamente umano».<br />

Dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> Kant, si tratterebbe <strong>di</strong> un uomo la cui razionalità è totalmente compiuta,<br />

in cui il peso della sensibilità praticamente non esiste. Ma rimarrebbe ancora lo spazio per<br />

l’umanità? È giusto dubitarne. Infatti, in questo modo scomparirebbero le esigenze dell’umanità<br />

e il risultato sarebbe abbastanza inquietante. Nell’uomo perfetto sarebbe infatti<br />

ancora sensato parlare <strong>di</strong> giustizia, <strong>di</strong> coraggio, <strong>di</strong> temperanza, ma non <strong>di</strong> umanità: essa,<br />

nella sua posizione «interme<strong>di</strong>a» tra sensibilità e razionalità, sarebbe destinata ad annichilarsi<br />

completamente in una benevolenza razionale, che però probabilmente non avrebbe gli<br />

stessi effetti.<br />

Bibliografia e sitografia:<br />

“Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, G. Galilei, Firenze, 1632.<br />

B. da Las Casas “Istoria o brevissima relattione della <strong>di</strong>struttione delle In<strong>di</strong>e occidentali” <strong>di</strong><br />

Mons. Reveren<strong>di</strong>ssimo Don Bartolomeno Delle Case, sivigliano dell’Or<strong>di</strong>ne dei Pre<strong>di</strong>catori<br />

- Traduzioni <strong>di</strong> G. Castellani, Venezia, 1643.<br />

www.wikipe<strong>di</strong>a.it/Humanitas<br />

– 103 –


CAPITOLO II<br />

2.1 LA RILETTURA<br />

DEL CONCETTO DI UMANITA<br />

ALLA LUCE DELLE NEUROSCIENZE<br />

A. Gelhen<br />

A.Gehlen, nato a Lipsia nel 1904, è filosofo, antropologo e soprattutto pensatore che<br />

non trova una precisa collocazione all’interno del panorama culturale a lui contemporaneo.<br />

Nonostante la sua carriera venga profondamente influenzata dagli eventi storici a lui contemporanei,<br />

nella fattispecie la salita al potere del Nazismo, al quale peraltro aderisce, e i <strong>di</strong>sastri<br />

della II Guerra Mon<strong>di</strong>ale, Gehlen porta la sua ricerca sulla strada tracciata dalle scienze<br />

antropologiche <strong>di</strong> inizio secolo rifiutando e polemizzando con le scuole filosofiche più in<br />

voga quali Esistenzialismo e Neo-Idealismo, allontanandosi in ultima analisi anche dalla<br />

scienza ufficiale del Reich. Questa autonomia <strong>di</strong> pensiero costerà al Nostro notevoli sofferenze<br />

nel dopoguerra quando il suo pensiero sarà tacciato <strong>di</strong> conservatorismo e la sua collusione<br />

con il regime nazista sarà motivo del suo “confino accademico” in Austria.<br />

“Der Mensch”, “l’Uomo”, pubblicata nel 1940, è sicuramente l’opera nella quale i legami<br />

con gli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Scheler e Plessner si mantengono più sal<strong>di</strong> e dove la Filosofia e l’Antropologia<br />

sono legate in maniera in<strong>di</strong>ssolubile: abbiamo perciò deciso approfon<strong>di</strong>re l’analisi su quest’opera<br />

che può essere considerata para<strong>di</strong>gmatica del pensiero del Nostro almeno nella sua<br />

prima fase fino a tutti gli anni ’50 quando poi la speculazione filosofica verrà definitivamente<br />

abbandonata. Gelhen costruisce fin dal suo principio “der Mensch” come unitaria sistemazione<br />

elementare, biologica, generale e quin<strong>di</strong> filosofica dell’Uomo:<br />

“C’è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella <strong>di</strong> dover<br />

prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è necessaria un’“immagine”, una formula<br />

interpretativa”.<br />

Facendo anche spesso riferimento a Nietzsche, Gelhen considera l’uomo come essere<br />

manchevole, privo <strong>di</strong> adattamenti fisiologici ad un ambiente specifico, una sorta <strong>di</strong> deviazione<br />

dal percorso evolutivo <strong>di</strong> tipo darwiniano. In virtù <strong>di</strong> questa manchevolezza l’Uomo è l’essere<br />

“ingenuo” per eccellenza, intendendo per “ingenuo” bisognoso <strong>di</strong> conoscere, sperimentare<br />

al fine <strong>di</strong> trovare il modo <strong>di</strong> regolare, assoggettare, la natura a lui ostile e verso la quale<br />

è impreparato. D’altro canto questo “appropriarsi” del mondo è un prendere coscienza <strong>di</strong> sé,<br />

in un processo regolato da una serie <strong>di</strong> “pulsioni”, ovvero desideri non derivanti da un bisogno<br />

fisiologico, e per questo “innaturali”, privi <strong>di</strong> scopo apparente. Questa stessa “eccedenza<br />

pulsionale” aiuta l’essere umano che riesce a “godere” dei propri movimenti <strong>di</strong> “maneggio<br />

sul mondo”, e quin<strong>di</strong> a “desiderare” letteralmente <strong>di</strong> apprendere le “possibilità esecutive”<br />

del proprio corpo in esse. Il passo successivo è quin<strong>di</strong> quello della coor<strong>di</strong>nazione occhio-mano,<br />

rapporto me<strong>di</strong>ato dalla “creatività” insita naturalmente nell’uomo, che produce<br />

la Tecnica: per Gelhen è proprio questa capacità <strong>di</strong> connettere l’intelletto umano al sistema<br />

delle percezioni che <strong>di</strong>fferenzia l’Uomo dagli animali. La possibilità <strong>di</strong> un padroneggiamento<br />

delle proprie azioni, in vista del “padroneggiamento” dell’ambiente circostante, deriva in<br />

effetti dalla particolare situazione esistenziale dell’Uomo. Mentre l’animale vive il mondo a<br />

partire ed in vista del proprio corpo, l’essere umano è in grado <strong>di</strong> situare la propria coscienza,<br />

in vista dell’azione futura, al <strong>di</strong> là dell’imme<strong>di</strong>atezza del presente. L’Uomo è cioè in grado<br />

<strong>di</strong> ignorare il proprio corpo, e proprio in questa sua capacità, per così <strong>di</strong>re “ascetica”, risiede<br />

il segreto della sua “vitalità” e del suo sviluppo. Il processo grazie al quale l’Uomo ac-<br />

– 104 –


quista questa visione d’insieme, <strong>di</strong>remmo “panoramica”, è definito dal Nostro “esonero”.<br />

Attraverso processi d’esonero l’uomo, sperimentando il mondo, lo riduce e lo concentra in<br />

simboli, così da acquistare la suddetta visione panoramica e la capacità <strong>di</strong> <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> tutto a<br />

suo piacimento; in questi processi ottiene il dominio su una molteplicità non limitata <strong>di</strong><br />

movimenti. Il mondo è per l’uomo, <strong>di</strong>versamente dall’animale, un campo <strong>di</strong> sorprese infinite<br />

in cui deve in primo luogo sapersi orientare.<br />

“Gli atti con i quali l’uomo assolve al compito <strong>di</strong> render possibile la sua vita vanno<br />

quin<strong>di</strong> considerati sempre da due versanti: da un lato si tratta <strong>di</strong> atti produttivi, grazie a cui<br />

egli ovvia agli svantaggi rappresentati dalle sue carenze – cioè <strong>di</strong> esoneri, <strong>di</strong> agevolazioni –,<br />

dall’altro <strong>di</strong> strumenti che l’uomo attinge in se stesso per <strong>di</strong>rigere la sua vita, e che rispetto<br />

all’animale sono interamente <strong>di</strong> nuovo genere”. 185<br />

Uno sguardo generale nella cultura europea <strong>di</strong> fine ottocento e inizio novecento<br />

“... Io <strong>di</strong>co ad<strong>di</strong>o/a tutte le vostre cazzate infinite,/a riflettori e “paillettes” delle televisioni,<br />

/alle urla scomposte <strong>di</strong> politicanti professionisti,/a quelle vostre glorie vuote da coglioni/...”. 186<br />

Probabilmente sarebbero state queste le parole <strong>di</strong> chi, nell’Ottocento, stanco della sua vita,<br />

del suo mondo, della società che lo circondava, avesse voluto criticare e allontanarsi sbattendo<br />

la porta da quel mondo borghese tanto o<strong>di</strong>ato. Infatti la società attuale è il figlio primogenito<br />

<strong>di</strong> quella società ottocentesca che, dopo la vittoria della borghesia sull’aristocrazia,<br />

del modo <strong>di</strong> produzione capitalistico su quello agricolo, ha visto una vittoria incontrastata <strong>di</strong><br />

quella classe me<strong>di</strong>a che chiunque, contesterebbe e combatterebbe.<br />

La letteratura <strong>di</strong> fine Ottocento e inizio del Novecento tende, sopratutto in Europa, a criticare<br />

la classe me<strong>di</strong>a, le sue abitu<strong>di</strong>ni, la sua morale benpensante, il suo immobilismo. Infatti,<br />

poeti, ed autori criticano aspramente i costumi della società che si veniva a formare e ne rifiutano<br />

il modo <strong>di</strong> vivere e gli ideali frivoli che la <strong>di</strong>stinguono dalla classe lavoratrice, che alienata<br />

deve subire le prepotenze del padronato.<br />

Baudelaire 187 riesce a far trasparire il suo <strong>di</strong>sgusto verso se stesso, la sua con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> “esiliato”<br />

<strong>di</strong> “angelo caduto”, la sua estraneità al mondo in cui vive e il suo <strong>di</strong>sgusto per il modello<br />

borghese che la società gli propone in continuazione. Si ricordano sia “L’albatro”, 188 che, riprendendo<br />

il modello del frammento della lirica greca identificabile con “Il Cérilo”, 189 esprime il<br />

<strong>di</strong>stacco da questa vita da parte del poeta e la sua situazione psicologica, poiché Baudeleire<br />

ritiene ormai che la figura del poeta non abbia alcun valore in questa società che tende soltanto<br />

185 A. Gelhen, cit. pag. 63 da “Der Mensch” ed. “Il Mulino”, Bologna 2005.<br />

186 Ad<strong>di</strong>o, <strong>di</strong> Francesco Guccini, album Stagioni, anno 2000, ed. EMI Music Publishing Italia/L’Alternativa,<br />

Milano - Bologna.<br />

187 Charles Pierre Baudelaire (Parigi 9/4/1821 - 31/8/1867) è stato un poeta, scrittore, critico letterario e traduttore<br />

francese.<br />

188 “Il poeta è come il principe delle nuvole<br />

Che abituato alla tempesta ride dell’arciere;<br />

esiliato sulla terra fra gli scherni,<br />

non riesce a camminare per le sue ali <strong>di</strong> gigante”.<br />

Traduzione da Les Fleurs du Mal É<strong>di</strong>tions Garnier Frère 1961, a cura <strong>di</strong> Silvia Pala<br />

189 “Non mi reggon più le membra,<br />

dolci fanciulle dal canto soave.<br />

Cérilo, cérilo fossi,<br />

sacro uccello che colle ancioni<br />

sopra all’onde vola, sereno. “<br />

Il testo è <strong>di</strong> Alcmane, che nacque attorno alla metà del VII secolo a.C., probabilmente a Sar<strong>di</strong>, nell’Asia Minore.<br />

– 105 –


al profitto. Nel “Mon Coeur Mis à Nu” 190 il poeta paragona i borghesi ben pensanti ad una<br />

donna dai facili costumi che si vende per cinque franchi, perché gli uni e l’altra hanno in comune<br />

il fatto <strong>di</strong> non capire il vero significato delle cose ma anzi <strong>di</strong> fermarsi alle apparenze. Infatti<br />

Baudeleire aspira ad una bellezza ormai lontana, non più raggiungibile, dato che questo mondo<br />

che critica apertamente, è ormai lontano dall’identificare il poeta come figura emblematica e<br />

significativa nella stessa società. Seppure il poeta francese, oltre ad avere un atteggiamento critico,<br />

abbia un atteggiamento <strong>di</strong> rivolta verso la stessa società in cui vive, non riesce a scappare<br />

dai costumi, così critica soltanto i suoi contemporanei senza però proporre alternative a questa<br />

situazione, infatti si rifugia nell’aspirazione <strong>di</strong> para<strong>di</strong>si artificiali, dovuti all’uso <strong>di</strong> droghe.<br />

Simile è il caso <strong>di</strong> Flaubert 191 che adopera come ambientazione alle sue opere la società<br />

della piccolo-me<strong>di</strong>a borghesia, mettendo in risalto i vizi, le contrad<strong>di</strong>zioni, l’incapacità degli<br />

uomini <strong>di</strong> fermarsi a capire la vera natura delle cose, poiché Madame Bovary, il personaggio<br />

della sua opera maggiore, è specchio <strong>di</strong> questa società che non accetta ciò che ha e anzi vuole<br />

maggiori beni materiali seppur non se li possa permettere.<br />

Anche in Italia, come in Francia, gli autori si vogliono <strong>di</strong>staccare dal mondo dei loro<br />

padri, dalle loro consuetu<strong>di</strong>ni, e dalle loro convenzioni. Riportiamo gli esempi degli Scapigliati,<br />

192 e dei Crepuscolari, 193 che a loro volta criticano la società borghese e l’immobilità della<br />

società stessa. Infatti si può ben concordare con C. Segre e C. Martignoni, che affermano<br />

che “La scapigliatura si inserisce in una <strong>di</strong>ffusa situazione <strong>di</strong> insofferenza culturale e politica:<br />

nei confronti del governo, delle strutture sociali, della mentalità dell’Italia post unitaria”. 194<br />

Infatti se noi pensiamo a “Prelu<strong>di</strong>o” 195 <strong>di</strong> Emilio Praga 196 in cui l’autore si definisce “figlio <strong>di</strong><br />

190 “Tutti gli imbecilli borghesi che pronunciano, continuamente le parole immoralità, immoralità, moralità dell’arte,<br />

mi fanno venire in mente Louise Ville<strong>di</strong>eu, prostituta da cinque franchi, che accompagnandomi una volta al Louvre (...)<br />

domandava, <strong>di</strong>nnanzi a quelle statue e a quel quadri immortali, come si potevano esporre pubblicamente simili indecenze”.<br />

191 Gustave Flaubert (Rouen 12/12/1821 - Canteleu 8/5/1880) è considerato l’iniziatore del realismo nella letteratura<br />

francese ed è conosciuto soprattutto per essere l’autore del romanzo Madame Bovary e per l’accusa <strong>di</strong> immoralità che<br />

questa opera gli procurò.<br />

192 La Scapigliatura fu un movimento artistico e letterario sviluppatosi nell’Italia settentrionale nella seconda metà<br />

dell’Ottocento; ebbe il suo epicentro a Milano e si andò poi affermando in tutta la penisola.<br />

193 Il crepuscolarismo è una corrente letteraria sviluppatasi in Italia all’inizio del XX secolo. Nel settembre del<br />

1910 apparve su “La Stampa” una recensione del critico Giuseppe Antonio Borghese alle liriche <strong>di</strong> Marino Moretti, Fausto<br />

Maria Martini e Carlo Chiaves, dal titolo “Poesia crepuscolare”, e così venne usato per la prima volta il termine “crepuscolare”<br />

per in<strong>di</strong>care una categoria letteraria.<br />

194 C. Segre - C. Martignoni, Leggere il mondo, ed. Scolastiche Bruno Mondadori, 205, p. 109.<br />

195 Prelu<strong>di</strong>o, <strong>di</strong> Emilio Praga.<br />

Noi siamo i figli dei padri ammalati: aquile al tempo <strong>di</strong> mutar le piume,<br />

svolazziam muti, attoniti, affamati, sull’agonia <strong>di</strong> un nume.<br />

Nebbia remota è lo splendor dell’arca, e già all’idolo d’or torna l’umano,<br />

e dal vertice sacro il patriarca s’attende invano;<br />

s’attende invano dalla musa bianca che abitò venti secoli il Calvario,<br />

e invan l’esausta vergine s’abbranca ai lembi del Sudario...<br />

Casto poeta che l ‘Italia adora, vegliardo in sante visioni assorto,<br />

tu puoi morir!... Degli antecristi è l’ora! Cristo è rimorto!<br />

O nemico lettor, canto la Noia, l’ere<strong>di</strong>tà del dubbio e dell’ignoto,<br />

il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo, e il tuo loto!<br />

Canto litane <strong>di</strong> martire e d’empio; canto gli amori dei sette peccati<br />

che mi stanno nel cor, come in un tempio, inginocchiati.<br />

Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro, e l’Ideale che annega nel fango...<br />

Non irrider, fratello, al mio sussurro, se qualche volta piango:<br />

giacché più del mio pallido demone, o<strong>di</strong>o il minio e la maschera al pensiero,<br />

giacché canto una misera canzone, ma canto il vero!<br />

196 Emilio Praga (Gorla 18/12/1839 - Milano 26/12/1875) è stato uno scrittore, poeta e pittore italiano.<br />

– 106 –


padri ammalati”, possiamo ben identificare i mo<strong>di</strong> e i motivi con cui esprimono la loro insofferenza<br />

culturale verso un paese e una società stretta nella morsa del costume borghese. Questi<br />

giovani poeti sono delusi dalla tra<strong>di</strong>zione letteraria della borghesia italiana, infatti si <strong>di</strong>sgustano<br />

del fatto che a questa società piaccia ancora Manzoni e il sentimentalismo <strong>di</strong> Prati e<br />

Alear<strong>di</strong>, e si ribellano alla stessa società che li ha generati, ai suoi mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> vivere, e alle false<br />

ipocrisie della società. 197 Stessi sentimenti per i crepuscolari che, scettici nei confronti del modo<br />

piccolo borghese <strong>di</strong> cui fanno parte, si sentono estranei, dato che “non hanno armi per combattere<br />

poiché la parola poetica non può nulla contro i suoi falsi valori, contro la me<strong>di</strong>ocrità<br />

degli eventi che lo attraversano, contro la scomparsa della natura <strong>di</strong>etro l’artificio” 198 Perciò<br />

il poeta si autoemargina, ed escludendosi osserva la società stessa, criticandola con <strong>di</strong>stacco e<br />

ironia. Si pensi a Corazzini o a Gozzano che non si definiscono poeti ma “un piccolo fanciullo<br />

che piange” 199 e “un coso con due gambe / detto guidogozzano”, 200 poiché loro lontani dalla<br />

tra<strong>di</strong>zione letteraria che vedeva in D’Annunzio il gran poeta italiano, il poeta vate, preferiscono<br />

non essere accomunati, da quella società che ripu<strong>di</strong>ano, ad un uomo che tenta <strong>di</strong> gloriarsi<br />

<strong>di</strong> cose alquanto spregevoli. Perciò questi autori seppur criticando questa società non riescono<br />

a trovare un modo per superarla anzi rimangono legati ad essa e alle sue istituzioni.<br />

A <strong>di</strong>fferenza dei poeti prima trattati, che seppur vedendo che la società ha perso i suoi valori<br />

non trovano modo <strong>di</strong> superarla, la filosofia tenta <strong>di</strong> trovare una soluzione e superare questa<br />

società grigio borghese. Si pensi al concetto <strong>di</strong> lotta <strong>di</strong> classe e allo strumento della rivoluzione<br />

che Marx prospetta per liberare la classe operaia dallo sfruttamento della classe borghese che<br />

detiene il potere e forgia la società a sua immagine e somiglianza propinando modelli <strong>di</strong> vita<br />

che esaltano l’accumulazione del capitale e il rispetto <strong>di</strong> regolo formali. Le teorie del socialismo<br />

scientifico 201 propongono l’abbattimento della società stessa e non la sua riforma, in quanto<br />

Marx è convinto che l’organizzazione sociale in classi <strong>di</strong>penda dalla <strong>di</strong>stribuzione e dal possesso<br />

dei mezzi <strong>di</strong> produzione. 202 Come il socialismo anche Nietzsche propone un cambiamento<br />

ra<strong>di</strong>cale della società borghese. Infatti il filosofo crede che con l’avvento <strong>di</strong> Socrate e<br />

Platone si sia persa quell’originalità, e quel modo <strong>di</strong> vivere che era tipico della natura umana.<br />

Nell’opera “la Nascita della Trage<strong>di</strong>a” 203 egli mette in evidenza che la vita è una forza espansiva<br />

infinita, in cui ogni forma <strong>di</strong> concetto blocca la vita stessa perché la rende meccanica, e<br />

<strong>di</strong> conseguenza l’unico modo <strong>di</strong> rendere la vita fluida è il mondo tragico, che rende possibile<br />

la comprensione dell’essere e <strong>di</strong> conseguenza fa capire i suoi enigmi. La trage<strong>di</strong>a è per Nietzsche<br />

la massima espressione artistica e culturale della società greca, perché si incontrano e<br />

scontrano le forze apollinee e <strong>di</strong>onisiache. L’apollineo simboleggia la tensione alla forma perfetta,<br />

invece Dioniso è il <strong>di</strong>o del caos, dell’ebbrezza, del go<strong>di</strong>mento. “Nella trage<strong>di</strong>a... apollineo<br />

e <strong>di</strong>onisiaco si fondono nella perfetta sintesi costituita dal canto e dalla danza del coro e<br />

dall’azione drammatica”. 204 E la morte stessa della trage<strong>di</strong>a dovuta al dominio della ragione<br />

197 Arrigo Boito, Lezione d’anatomia (1865), in “Libro dei versi”, e<strong>di</strong>to nel 1877.<br />

198 C. Segre - C. Martignoni, opera già citata, p. 110.<br />

199 Sergio Corazzini, Piccolo Libro inutile, v. 3.<br />

200 Guido Gozzano, La via del rifugio, vv. 29-36.<br />

201 Il socialismo scientifico è una forma <strong>di</strong> socialismo che si <strong>di</strong>stingue dal socialismo utopico per un’analisi e una<br />

comprensione scientifica delle leggi della storia e della società: su questo stu<strong>di</strong>o basa argomenti, obiettivi e principi, non<br />

più sull’elaborazione <strong>di</strong> un modello sociale utopico. I primi teorici del socialismo scientifico furono Karl Marx e Friederich<br />

Engels, che definirono la <strong>di</strong>stinzione tra le due forme <strong>di</strong> socialismo.<br />

202 Per approfon<strong>di</strong>re la teoria <strong>di</strong> Marx ed Engels sulle conseguenze del possesso da parte della borghesia dei mezzi<br />

<strong>di</strong> produzione si veda: il “Manifesto del Partito Comunista” (1848) e il Primo libro de “Il Capitale” (1867).<br />

203 F. Nietzsche, La nascita della trage<strong>di</strong>a greca, 1872, in cui l’autore definisce la trage<strong>di</strong>a come la perfetta sintesi<br />

<strong>di</strong> due impulsi antitetici: l’apollineo e il <strong>di</strong>onisiaco.<br />

204 AA:VV, Il testo filosofico, E<strong>di</strong>zioni Scolastiche Bruno Mondadori, volume 3, tomo 1, p. 639.<br />

– 107 –


sulla vita, in seguito all’affermarsi delle teorie platoniche e del cristianesimo sostituisce all’uomo<br />

tragico l’uomo teoretico che ha un costante bisogno <strong>di</strong> rassicurazioni e non vive più<br />

sotto l’ebbrezza che provava grazie allo spirito <strong>di</strong>onisiaco.<br />

Perciò la formazione <strong>di</strong> questa società è proprio dovuta alla morte della trage<strong>di</strong>a libera<br />

dal ragionamento e ciò in opposizione alle opere <strong>di</strong> Euripide, dove l’uomo si è già chiuso in<br />

un mondo in cui c’è un bisogno costante <strong>di</strong> rassicurazione.<br />

Nietzsche <strong>di</strong> conseguenza è saturo <strong>di</strong> questo mondo che critica aspramente, poiché la morale<br />

cristiana ha messo le catene all’essere umano, impedendogli la possibilità <strong>di</strong> vivere liberi,<br />

infatti la morale del peccato, rende l’uomo sempre legato alla questione <strong>di</strong> un NON POTER<br />

FARE per non precludersi una vita nell’al <strong>di</strong> là.<br />

Nell’aforisma 125 della “Gaia scienza”, 205 Nietzsche annuncia la morte <strong>di</strong> Dio, ovvero<br />

il rifiuto <strong>di</strong> una spiegazione ultraterrena della vita dell’uomo, attaccando la società borghese<br />

<strong>di</strong> fine Ottocento, e in particolare quelle religioni e le filosofie che propongono all’uomo <strong>di</strong><br />

accettare una vita fatta <strong>di</strong> rinunce in attesa <strong>di</strong> una possibile ricompensa dopo la morte.<br />

Mentre in Marx la soluzione è l’abbattimento della società <strong>di</strong> classe, attraverso la rivoluzione<br />

proletaria, la risposta <strong>di</strong> Nietzsche è in<strong>di</strong>viduale, come poi sarà per i futuristi. Infatti Nietzsche<br />

propone come soluzione la dottrina del Superuomo, che sta al <strong>di</strong> là dell’uomo presente, 206 infatti<br />

il filosofo afferma che “l’essere umano è per me cosa troppo imperfetta (quin<strong>di</strong>)... io vi insegno<br />

il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato”. 207 Nella sua concezione il superuomo<br />

non è un supereroe da fumetto, ma “è il senso della terra... restate fedeli alla terra e non<br />

credete a coloro che vi parlano <strong>di</strong> speranze ultraterrene”. 208 L’invito <strong>di</strong> Nietzsche è superare le<br />

regole borghesi affinché si ricostituisca una società non preoccupata per la vita ultraterrena ma<br />

che viva il presente senza paura <strong>di</strong> una punizione. Il superuomo è senza morale, perché Nietzsche<br />

critica la morale piccolo borghese fatta <strong>di</strong> apparenza, specchi, menzogne, incapace <strong>di</strong><br />

stringere relazioni più vere e legata al tumulto delle passioni che animano ogni essere umano.<br />

Mentre Nietzsche confida in un uomo capace <strong>di</strong> riscoprire la sua vera natura, il Futurismo,<br />

propone il superamento dell’ideologia borghese confidando sulla capacità della tecnologia<br />

<strong>di</strong> cambiare la vita dell’essere umano. Infatti F. T. Marinetti col manifesto futurista 209<br />

denuncia criticamente il “passatismo” della società borghese fatta <strong>di</strong> ciceroni, biblioteche<br />

stantie e musei impolverati, in cui vi è spazio solo per tutti quei professori che limitano la cultura<br />

ad un’élite, tenendo lontano dalla bellezza dell’arte, della storia, e <strong>di</strong> tutte le altre arti ogni<br />

in<strong>di</strong>viduo che non rispecchia l’immagine proposta dalla classe dominante. Attraverso lo<br />

“scandalo” delle serate futuriste e del processo farsa a Marinetti, i futuristi riescono a colpire<br />

l’immaginazione del pubblico, per poi poter proporre un modello <strong>di</strong> Uomo Futurista che<br />

con le sue tecniche e tecnologie, ambizioni, e il suo ingegno riesca a produrre una nuova società<br />

che grazie all’ausilio della macchina possa superare il “passatismo” e l’arretratezza della<br />

società italiana dell’inizio del secolo. Nel manifesto dell’Architettura futurista 210 traspare<br />

205 F. Nietzsche, La gaia scienza (1882, l’autore sostiene che “Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso” (fr. 125).<br />

206 Gianni Vattimo traduce Uebermensch non con superuomo ma con “oltreuomo”.<br />

207 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, ed. Acquarelli, pagg. 15 e 16.<br />

208 Idem, pag. 17.<br />

209 “Noi vogliamo <strong>di</strong>struggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie e combattere contro il moralismo,<br />

il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria”, dal Manifesto del Futurismo, pubblicato sul quoti<strong>di</strong>ano “Le<br />

Figarò” il 20 febbraio 1909.<br />

210 Il Manifesto dell’Architettura futurista fu pubblicato nel 1916 ad opera <strong>di</strong> Antonio Sant’Elia (1888-1916), il testo<br />

infatti affermava che “l problema dell’architettura moderna non è un problema <strong>di</strong> rimaneggiamento lineare[...]. Non si tratta<br />

<strong>di</strong> trovare nuove marginature <strong>di</strong> finestre e <strong>di</strong> porte, ma <strong>di</strong> creare <strong>di</strong> sana pianta la casa futurista [...] con ogni risorsa della<br />

tecnica, determinando nuove forme, nuove linee. L’architettura futurista deve essere nuova come è nuovo il nostro stato<br />

d’animo”.<br />

– 108 –


l’idea che ogni generazione debba rinnovare il proprio modo <strong>di</strong> vivere e <strong>di</strong> conseguenza anche<br />

i beni <strong>di</strong> prima necessità, come case, vestiti, ecc, dovranno essere aggiornati alle nuove<br />

con<strong>di</strong>zioni.<br />

In Nietzsche e nel Futurismo c’è la convinzione della necessità che l’uomo prenda coscienza<br />

dell’inadeguatezza delle regole sociali e si impegni a costruire una nuova società:<br />

l’uno ritornando al legame profondo con la Terra e l’altro affidandosi alla capacità della<br />

Tecnologia <strong>di</strong> gestire il movimento e perciò il cambiamento.<br />

H. Plessner<br />

H. Plessner è, con Scheler il fondatore dell’antropologia filosofica contemporanea.<br />

Il sistema <strong>di</strong> pensiero <strong>di</strong> questo antropologo si fonda sul concetto base secondo cui l’uomo è<br />

unità in<strong>di</strong>ssolubile <strong>di</strong> spirito e corpo, ed è inevitabilmente legato alla natura e all’ambiente<br />

che lo circonda, cosicché lo stesso stu<strong>di</strong>o dell’uomo avviene considerando soprattutto quest’ultimo<br />

nel suo legame con l’ambiente in cui vive, libero da qualunque interesse che vada al<br />

<strong>di</strong> là della concretezza dell’esperienza. Plessner, dunque, rifiuta l’opposizione tra spirito e vita<br />

proposta da Scheler, e sostiene che con l’uomo la sfera della vita raggiunge il più alto grado<br />

<strong>di</strong> consapevolezza possibile, concetto che si fonda sul presunto legame tra l’uomo e gli esseri<br />

che occupano i gra<strong>di</strong> precedenti dell’evoluzione. Secondo Plessner, quin<strong>di</strong>, l’identità umana<br />

si riconosce non solo nel suo essere corpo, ma anche nel suo essere-nel-corpo, tant’è vero<br />

che l’uomo, grazie alla sua posizionalità eccentrica, può rapportarsi tanto alla <strong>di</strong>mensione corporea<br />

quanto a quella spirituale, tanto alla sfera fisica quanto a quella psichica. Di conseguenza,<br />

a <strong>di</strong>fferenza dell’animale, afferma Plessner, l’uomo non “è” solo un corpo, ma “ha” anche un<br />

corpo, cosicché egli si può “<strong>di</strong>stanziare”da sé ed assumere un punto <strong>di</strong> vista oggettivo su se<br />

stesso e sul cosmo. 211 Ed è proprio questo <strong>di</strong>stacco, questo essere all’interno e allo stesso tempo<br />

al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> se stesso, questa non perfetta coincidenza del proprio io con il proprio corpo e<br />

quin<strong>di</strong> con la propria manifestazione terrena che costituisce la “coscienza”, la quale non è altro<br />

che il tramite e lo sta<strong>di</strong>o interme<strong>di</strong>o, si potrebbe <strong>di</strong>re, tra le due <strong>di</strong>mensioni, l’una corporea<br />

e l’altra extra corporea, in cui l’uomo vive. Da tale <strong>di</strong>cotomia deriva l’incessante inquietu<strong>di</strong>ne<br />

ed incertezza umana, che forse è causata dalla non comprensione <strong>di</strong> questa natura da parte<br />

degli uomini, inquietu<strong>di</strong>ne provocata anche dall’impossibilità <strong>di</strong> opporsi alla propria con<strong>di</strong>zione<br />

antropologica fondamentale, in base alla quale l’in<strong>di</strong>viduo è incessante processualità.<br />

Nell’opera “I gra<strong>di</strong> dell’organico e l’uomo” Plessner espone la teoria dei modali organici,<br />

la quale espone le categorie e i principi a priori su cui si fonda la vita. 212 Il concetto fondamentale<br />

<strong>di</strong> questa teoria è il principio della posizionalità, che definisce la <strong>di</strong>fferenziazione<br />

tra realtà organica e inorganica da un lato, e, dall’altro, tra stato animale e stato umano. Plessner<br />

descrive una <strong>di</strong>fferenza posizionale fra i tre sta<strong>di</strong> evolutivi più generici: quello vegetale,<br />

quello animale, e quello umano. Il primo gra<strong>di</strong>no <strong>di</strong> questa scala posizionale è occupato,<br />

appunto, dallo stato vegetale, il quale rappresenta una “forma aperta”. L’organismo vegetale<br />

si trova inglobato nell’ambiente a cui appartiene, senza poter operare quel <strong>di</strong>stacco da esso<br />

<strong>di</strong> cui è capace l’uomo per fare affiorare la propria in<strong>di</strong>vidualità e riconoscere, così, il proprio<br />

sé come soggetto. Dunque l’organismo vegetale è in grado <strong>di</strong> compiere solo azioni impercettibili<br />

ed involontarie quali ad esempio tendere all’acqua, e “vive” il proprio istinto <strong>di</strong><br />

sopravvivenza in connessione con quello dell’intero habitat cui appartiene non pervenendo,<br />

211 Plessner introduce la categoria <strong>di</strong> posizionalità eccentrica nel cap. 7 del suo libro I gra<strong>di</strong> del mondo organico e<br />

l’uomo (1928).<br />

212 I gra<strong>di</strong> dell’organico e l’uomo, Plessner (1928).<br />

– 109 –


inoltre, mai ad uno sta<strong>di</strong>o <strong>di</strong> completezza fisica, ma si trova in una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> mutamento<br />

incessante. Nel grado evolutivo in cui si trova l’animale, la forma aperta <strong>di</strong>viene forma<br />

chiusa e l’ambiente esterno viene “oggettivato” dall’animale, il quale <strong>di</strong>viene un in<strong>di</strong>viduo<br />

autonomo rispetto al mondo esterno, essendo, così, in grado <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguersi e <strong>di</strong> opporsi ad -<br />

esso. Tuttavia, l’animale ha coscienza limitata, poiché non è consapevole delle proprie azioni,<br />

in quanto governate dall’istinto. Quello che <strong>di</strong>stingue l’animale dalla pianta è il fatto che il<br />

primo possiede un organismo centrale che lo separa dall’ambiente, mentre ciò che <strong>di</strong>stingue<br />

l’uomo dall’animale è il fatto che quest’ultimo non possiede un proprio “io”. L’uomo, dunque,<br />

è anch’egli una forma chiusa ma a <strong>di</strong>fferenza dell’animale, <strong>di</strong>ce Plessner, “si pone alle<br />

proprie spalle”, ossia è in grado <strong>di</strong> <strong>di</strong>staccarsi da sé e raggiungere così il più elevato grado <strong>di</strong><br />

riflessività, che è l’autocoscienza, ponendosi in una prospettiva eccentrica. 213 L’uomo è così<br />

in<strong>di</strong>viduum, persona, definizione che si costruisce in base alla sua pluralità <strong>di</strong> forme, al suo<br />

essere corpo, nel corpo e fuori dal corpo.<br />

Lo stato dell’essere umano è regolato, inoltre, da tre leggi fondamentali: la legge dell’artificialità<br />

naturale, la quale sostiene che l’uomo non vive in contatto imme<strong>di</strong>ato con l’ambiente,<br />

ma ha bisogno <strong>di</strong> ricorrere alle cose artificiali per vivere nella natura e per sopravvivere;<br />

questa legge è riconducibile al concetto dell’uomo come animale carente. La seconda<br />

legge è quella dell’imme<strong>di</strong>atezza me<strong>di</strong>ata: tale legge stabilisce che l’uomo vive sia come un<br />

essere animale nell’imme<strong>di</strong>atezza della natura, sia come essere eccentrico nella me<strong>di</strong>azione<br />

culturale, cosicché il comportamento umano è costituito da una unione <strong>di</strong> concetti a priori e<br />

concetti a posteriori. Infine vi è la legge del luogo utopico, per la quale l’uomo risulta proiettato<br />

al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ciò che si trova <strong>di</strong>nnanzi a lui. L’uomo, infatti, si trova oltre che a vivere la<br />

propria vita, anche a vederla dal <strong>di</strong> fuori, e, in questo modo, sperimenta la propria nullità e<br />

contingenza; tale esperienza provoca nell’uomo quel senso <strong>di</strong> inquietu<strong>di</strong>ne, <strong>di</strong> precarietà, <strong>di</strong><br />

incertezza precedentemente descritto.<br />

In una seconda fase del proprio pensiero Plessner sposta la riflessione sulla <strong>di</strong>fferenza tra<br />

l’uomo e gli altri gra<strong>di</strong> evolutivi della realtà per analizzare nello specifico i comportamenti<br />

umani. In primo luogo, afferma Plessner, l’uomo mantiene un rapporto con l’organicità naturale<br />

anche se tale rapporto è me<strong>di</strong>ato dagli oggetti artificiali, anche se egli ricostruisce un<br />

ambiente artificiale, attraverso strumenti “culturali” con cui esprimersi e relazionarsi all’ambiente<br />

e agli altri in<strong>di</strong>vidui.<br />

Proprio in questo suo esprimersi l’uomo manifesta che i propri comportamenti non sono dovuti<br />

e regolati da qualcosa <strong>di</strong> corporeo che vi è in sé, ma piuttosto da una complessa interiorità<br />

psichico-mentale. I comportamenti primari dell’uomo, quali il riso, il pianto, il linguaggio e la<br />

gestualità, sono dovuti all’interazione tra uomo e l’ambiente, e vengono letti dall’antropologo<br />

in questione come processi meccanici. Di conseguenza, Plessner rifiuta le teoria darwiniana secondo<br />

cui ogni espressione deriverebbe da un’eccitazione del sistema nervoso e sarebbe <strong>di</strong>pendente<br />

dall’istinto <strong>di</strong> sopravvivenza, in base al quale l’in<strong>di</strong>viduo rende abituale un atto sperimentato<br />

come utile alla propria sopravvivenza e lo trasmette per via ere<strong>di</strong>taria alla propria progenie.<br />

Secondo Plessner, infatti, il comportamento è lo specchio dell’essenza dell’uomo, e i<br />

principali mezzi espressivi dell’essere umano sono il linguaggio e la gestualità.<br />

Tramite essi, infatti, l’uomo trasmette i propri stati d’animo, le proprie emozioni e i concetti<br />

che fanno sì che egli non sia riconducibile unicamente alla sfera fisica, anche se poi<br />

questa è l’unico punto <strong>di</strong> contatto che egli ha con l’alterità. Il linguaggio è importante, infatti,<br />

anche perché <strong>di</strong>mostra che l’uomo è proprio in grado <strong>di</strong> operare delle astrazioni concettuali<br />

e quin<strong>di</strong> si eleva al <strong>di</strong> sopra del grado animale e del piano unicamente fisico e materiale.<br />

213 Citazione tratta dall’opera I gra<strong>di</strong> dell’organico e l’uomo, Plessner (1928).<br />

– 110 –


Infine, secondo Plessner, costitutivi dell’uomo sono anche il pianto ed il riso, i quali non<br />

sono solo manifestazioni affettive ed espressioni <strong>di</strong> emozioni, altrimenti sarebbero presenti<br />

anche negli animali, ma esprimono un momento <strong>di</strong> frattura tra piano psichico e piano fisico,<br />

costituendo quasi dei momenti <strong>di</strong> crisi, e ciò provoca la per<strong>di</strong>ta dell’autocontrollo, il quale<br />

viene poi recuperato gradualmente.<br />

In conclusione si può dedurre da quanto analizzato che, secondo Plessner, il principio<br />

costitutivo dell’uomo è la sua forse insanabile dualità, il suo essere allo stesso tempo al <strong>di</strong><br />

sopra della natura e parte <strong>di</strong> essa, il suo vivere un po’ in terra e un po’ in una <strong>di</strong>mensione<br />

superiore a quella comune alle altre creature della natura, <strong>di</strong>mensione tuttavia a lui stesso<br />

quasi del tutto ignota.<br />

Bibliografia e sitografia:<br />

Metafisica dei Costumi, I. KANT, trad. C. Vidari, Laterza, Bari 1970.<br />

Der Mensch, A. GHELEN, Milano, Feltrinelli 1990.<br />

I gra<strong>di</strong> dell’organico e l’uomo, Plessner (1928).<br />

Helmuth Plessner. Corporeità, natura e storia nell’antropologia filosofica, a cura <strong>di</strong> Andrea<br />

Borsari e Marco Russo, Rubettino E<strong>di</strong>tore 2005.<br />

www.wikipe<strong>di</strong>a.it<br />

2.2 IL PUNTO SUL DIBATTITO ATTUALE:<br />

RISCHIO E PROSPETTIVA SULLE “NUOVA UMANITÀ”<br />

Edgar Morin, una delle figure più prestigiose della cultura contemporanea, noto per la<br />

sua definizione <strong>di</strong> natura umana come “para<strong>di</strong>gma perduto”, sostiene con forza che “oggi<br />

serve un nuovo umanesimo. Nuovo perché il primo umanesimo fu virtuale, non c’erano problemi<br />

che riguardavano tutta l’umanità, mentre oggi nel mondo globalizzato i problemi del<br />

fanatismo razziale e religioso e quello dell’inquinamento della biosfera accomunano tutta<br />

l’umanità: un umanesimo concreto.<br />

Le coor<strong>di</strong>nate storiche del periodo contemporaneo sono ra<strong>di</strong>calmente cambiate rispetto<br />

all’Umanesimo quattrocentesco; e come sottolinea il sociologo, sono cambiate anche le<br />

problematiche economiche, sociali, relazionali, ecologiche cui l’uomo è portato ad accostarsi.<br />

La globalizzazione, il progresso, le tecno-scienze, le scoperte scientifiche hanno spostato<br />

le colonne d’Ercole dello scibile sempre più in là. Mutamenti straor<strong>di</strong>nari hanno interessato<br />

recentemente anche la fisicità, il corpo dell’uomo.<br />

Secondo Craig Venter, scienziato americano, nel XXII secolo sarà possibile creare in<br />

laboratorio un essere umano totalmente sintetico. Sempre a detta <strong>di</strong> Venter sarebbe possibile<br />

già in questo secolo la creazione <strong>di</strong> un intero genoma umano in provetta.<br />

Questa scoperta non prescinde da una considerazione etica: probabilmente tale esperimento<br />

non verrà portato avanti, perché, afferma sempre il Venter, “tutti noi scienziati siamo<br />

contrari ad esperimenti <strong>di</strong> questo tipo sugli uomini. Questo non esclude però che nel prossimo<br />

secolo qualcuno lo faccia, o cerchi <strong>di</strong> cambiare singole parti del DNA per migliorare alcune<br />

caratteristiche fisiche”. 214<br />

214 Craig Venter, intervista alla BBC, 24 ottobre 2007.<br />

– 111 –


Per scongiurare i rischi <strong>di</strong> prospettive eugenetiste, l’uso della scienza deve essere consapevole<br />

e responsabile. L’educazione assume in questo equilibrio scienza-etica un ruolo<br />

in<strong>di</strong>spensabile.<br />

“I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, scritto da Morin su commissione<br />

dell’UNESCO, nell’ambito del “Programma internazionale dell’educazione”, parte proprio<br />

dal concetto <strong>di</strong> “riforma del pensiero”.<br />

Per considerare il mondo che ci travolge, per comprendere il futuro è necessario in primo<br />

luogo chiarire cos’è, o meglio, chi è l’essere umano, l’oggetto fondamentale <strong>di</strong> tutto l’insegnamento,<br />

a cui il sociologo in<strong>di</strong>rizza la sua opera.<br />

L’essere umano è nel contempo fisico, biologico, psichico, culturale, sociale, storico.<br />

Oggi è <strong>di</strong>fficile comprendere la natura intima dell’essere umano, mentre sarebbe necessario<br />

che ognuno prendesse coscienza e acquisisse conoscenza sia del carattere complesso dell’identità<br />

personale sia dell’identità che lo accomuna agli altri uomini.<br />

Morin afferma “si aggrava l’ignoranza del tutto, mentre progre<strong>di</strong>sce la conoscenza delle<br />

parti” 215 a sottolineare che l’uomo è naturalmente portato a concentrarsi sulla propria identità,<br />

rispetto alla relazione con chi lo circonda.<br />

Il destino del genere umano è planetario e ciò si è oltremodo accentuato con l’avvento<br />

dell’era globalizzata. L’uomo deve così pensare ed agire in una nuova prospettiva, che sia meno<br />

portata alla chiusura autoreferenziale e in<strong>di</strong>vidualistica, e più improntata al confronto e all’incontro<br />

con l’altro.<br />

L’insegnamento dovrà portare alla costruzione <strong>di</strong> un’“antropo-etica”, che faccia riferimento<br />

alla triplice con<strong>di</strong>zione umana, all’uomo come in<strong>di</strong>viduo, all’uomo come società<br />

e all’uomo come specie. Il legame dell’in<strong>di</strong>viduo singolo con la specie umana è stato affermato<br />

fin dall’antichità; già l’autore latino Terenzio faceva <strong>di</strong>re ad uno dei personaggi<br />

de “Il punitore <strong>di</strong> se stesso”: “Homo sum, nihil humani a me alienum puto” 216 (Sono uomo.<br />

Nulla <strong>di</strong> ciò che è umano mi è estraneo). L’Umanità, come è già stato sottolineato in questa<br />

ricerca, non è dunque solo una nozione astratta: è realtà vitale, concreta, è comunità <strong>di</strong><br />

destino.<br />

È necessario dunque educare al rispetto per l’umanità in se stessi e nell’altro. La prospettiva<br />

in cui questo nuovo processo educativo va ad inserirsi va al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> quella puramente<br />

evoluzionistica, darwiniana: è un’ottica già coevolutiva, <strong>di</strong> sviluppo coevolutivo dell’uomo<br />

con l’animale e la macchina. Un processo che ha subito una recente accelerazione, tale da<br />

espletarsi nel passaggio dal corpo biologico a quello tecnologico, dall’uomo naturale all’uomo<br />

bionico che, per stare all’attualità, potrebbe chiamarsi Oscar Pistorius, giovane atleta<br />

sudafricano che corre con protesi tecnologiche.<br />

Pistorius rappresenta, più o meno manifestamente, il trionfo del cyborg, dell’uomo tecnologicamente<br />

mo<strong>di</strong>ficato, del “simbionte”, intendendo con questo termine la simbiosi, tra la<br />

componente animale e quella tecnologica. Tale “vita in comune” <strong>di</strong> queste due componenti<br />

si può riscontrare anche nei batteri, negli antibiotici, negli Ogm, nelle protesi, nei bypass, nei<br />

microchip, nelle attuali nano biotecnologie che fanno dell’uomo un essere sempre più artificiale<br />

e meno naturale.<br />

In tale contesto del tutto sbilanciato a favore della tecnica, ciò che è organico, biologico,<br />

corporeo, naturale sembra ormai destinato – secondo una visione ra<strong>di</strong>cale dei transumanisti –<br />

al declino, mentre tutto ciò che è meccanico, tecnologico, informatico, inorganico e artificiale<br />

appare destinato a trionfare.<br />

215 Edgar Morin, “I sette saperi necessari all’educazione”, ed. Raffaello, Firenze, 2001, p. 34.<br />

216 Terenzio, “Il punitore <strong>di</strong> se stesso”, a cura <strong>di</strong> G. Guzzola, ed. Bur, Roma, 1990, v. 77.<br />

– 112 –


Aldo Schiavone, in “Storia e destino”, scrive “Siamo sul punto <strong>di</strong> staccare completamente<br />

l’uomo dalla naturalità della specie. Questo è il significato autentico del nostro presente: la<br />

totalizzazione tecnica della natura”. 217 E i pro<strong>di</strong>gi della tecno scienza, come l’inserimento <strong>di</strong><br />

un microchip nel corpo <strong>di</strong> un neonato, la produzione <strong>di</strong> cellule staminali in vitro, le clonazioni<br />

sembrano avvalorare tale enunciato.<br />

Da queste testimonianze intellettuali e concrete evince la complessità che sottende il<br />

concetto <strong>di</strong> natura umana.<br />

Prendendo in esame il testo “Vita liquida” del sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, ci<br />

addentriamo nel concetto <strong>di</strong> umanità alla luce della società moderna. Scrive l’autore “Una<br />

società è liquido-moderna se le situazioni in cui agiscono gli uomini si mo<strong>di</strong>ficano prima che<br />

i loro mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> agire riescano a consolidarsi in abitu<strong>di</strong>ni e procedure”. 218<br />

È davvero questo il nostro presente e il nostro futuro? Una società liquida in cui lo stesso<br />

concetto <strong>di</strong> umanità perde valore? L’in<strong>di</strong>viduo moderno, scrive Bauman, si trova <strong>di</strong> fronte a<br />

due problemi fondamentali: lo smaltimento dei rifiuti, e il rischio <strong>di</strong> finire fra i rifiuti stessi.<br />

Tutto si muove veloce, viene consumato in fretta. Così le persone.<br />

Una volta terminata la sua funzione l’essere umano deve sapersi riciclare, o finirà nella<br />

<strong>di</strong>scarica della società. Il crescente consumismo ha conferito a cose e persone un valore meramente<br />

strumentale, un valore d’uso. L’altro è mezzo per il nostro fine. La società <strong>di</strong>venta<br />

autoreferenziale. “La vita liquida si alimenta dell’insod<strong>di</strong>sfazione dell’io rispetto a se stesso”,<br />

219 <strong>di</strong> qui l’autocritica e l’autocensura. Il concetto <strong>di</strong> umanità cede il posto al concetto <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>viduo.<br />

Eppure è impossibile analizzarlo, l’in<strong>di</strong>viduo, unicamente nella sua singolarità, prescindendo<br />

da considerazioni più ampie, <strong>di</strong> tipo sociologico. Riesce <strong>di</strong>fficile nell’età a noi contemporanea<br />

parlare del “concetto <strong>di</strong> umanità” senza parlare del rapporto uomo-società. In<br />

questo senso Bauman conia una definizione illuminante, riferita all’uomo d’oggi: egli è un<br />

“sottoproletario dello spirito”.<br />

Il “sottoproletariato dello spirito” vive nel presente e per il presente. Ciò che conta è<br />

la velocità, non la durata. “Andando alla giusta velocità si può consumare tutta l’eternità nell’ambito<br />

del presente continuo della vita terrena”. 220 Tutto e subito, questo è il motto. Ed è proprio<br />

qui che si pone il problema dell’identità. Cosa significa essere uomo, in questo vorticoso<br />

meccanismo d’uso e consumo? Uomo è soltanto colui che sa dove vuole arrivare, e vi<br />

arriva, con qualsiasi mezzo? La vita liquida è una successione <strong>di</strong> nuovi inizi, ma anche <strong>di</strong><br />

fini rapide e dolorose. Sapersi “sbarazzare” <strong>di</strong> cose e persone risulta più importante dell’acquisirle.<br />

“Accelerare ha senso solo come preparazione al rallentare, che ne è il principale<br />

scopo”. L’in<strong>di</strong>viduo è pervaso dal terrore della “scadenza”, come un bene <strong>di</strong> consumo, egli<br />

avverte pressante il tic-tac del tempo che scorre. La vita liquida è un perpetuum mobile, il<br />

concetto <strong>di</strong> umanità è <strong>di</strong>storto e svuotato <strong>di</strong> significato.<br />

Lo smarrimento antropologico è così avanzato che non si riesce più a dare una definizione<br />

con<strong>di</strong>visa su chi è l’uomo.<br />

Secondo la professoressa Pansera, 221 il rapporto fra natura e natura umana può essere<br />

compreso meglio in virtù del rapporto tra natura e cultura, in quanto la cultura è lo specchio<br />

dell’uomo, nel suo aspetto più intellettuale e vitale. Nell’essere umano sussistono un patri-<br />

217 Aldo Schiavone, “Storia e destino”, ed. Einau<strong>di</strong>, Milano, 2007, p. 36.<br />

218 Zygmunt Bauman, “La vita liquida”, ed. Laterza, Milano, 2006, p. 12.<br />

219 Zygmunt Bauman, op. cit. p. 14.<br />

220 Zygmunt Bauman, op. cit. p. 89.<br />

221 Maria Teresa Pansera, conferenza “Natura e Cultura: Roma assorbe, metabolizza, trasforma” presso l’Università<br />

<strong>di</strong> Roma 3, il giorno 18 febbraio 2009.<br />

– 113 –


monio genetico innato e uno acquisito. Qualcosa rimane dunque nell’essenza umana, qualcosa<br />

cambia, si aggiunge, si evolve, si elimina. L’essere umano è creatura <strong>di</strong>namica.<br />

Il patrimonio acquisito <strong>di</strong>pende da tre fattori fondamentali: educazione, società ed ambiente..<br />

L’uomo, capace <strong>di</strong> determinare la propria vita,in quanto dotato <strong>di</strong> cervello e <strong>di</strong> neuroni<br />

la cui plasticità permette <strong>di</strong> astrarre, riesce – secondo la concezione dell’antropologia<br />

filosofica – a suffragare la carenza istintiva propria degli animali, con la cultura, effetto imme<strong>di</strong>ato<br />

del rapporto esistente fra stimolo e risposta.<br />

Anche la Pansera dunque riflette, come Morin, sull’importanza della cultura, dell’educazione<br />

in una prospettiva sempre più globale e più avvincente della storia dell’uomo, che ci<br />

porterà inevitabilmente a confrontarci con categorie successive all’umano, come il postumano<br />

e il transumano.<br />

Tuttavia chi si sofferma a pensare al grande progresso tecnologico dell’ultimo secolo non<br />

può non riconoscere l’evidente <strong>di</strong>ssonanza fra una tale evoluzione e l’istintiva contrarietà alla<br />

tecnologia <strong>di</strong> gran parte della cultura contemporanea. È quasi un paradosso: mentre da un<br />

lato l’uomo d’oggi vive in completa <strong>di</strong>pendenza dalla tecnologia, che ha permeato ogni ambito<br />

della sua vita tanto profondamente che a volte non se ne rende nemmeno conto finché<br />

qualcosa non si “rompe” e gli viene a mancare, dall’altro crede che questa sia antiumana o<br />

<strong>di</strong>sumana, una realtà da cui <strong>di</strong>fendersi. Sono anche scese in campo forze culturali <strong>di</strong> primo<br />

piano e numerosi sono stati gli apporti del cinema e dell’arte del XX secolo, per cercare <strong>di</strong><br />

mettere in guar<strong>di</strong>a sull’importanza <strong>di</strong> controllare e limitare la tecnologia emergente, per non<br />

<strong>di</strong>sumanizzare la società. Se, infatti, l’evoluzione della tecnica non si è mai fermata da quando<br />

l’uomo ha imparato ad utilizzare il fuoco e la ruota, i problemi che la tecnoscienza ha<br />

creato come la crisi ecologica o una <strong>di</strong>suguale <strong>di</strong>stribuzione delle risorse, sembrano ormai sufficienti<br />

per mettere in dubbio se valga la pena mantenere i suoi vantaggi. Anche in ambito me<strong>di</strong>co<br />

l’evoluzione tecnologica sembra si sia quasi frapposta fra l’ammalato e il suo me<strong>di</strong>co,<br />

creando una <strong>di</strong>fficoltà nel <strong>di</strong>alogo, nella comunicazione che rappresentava il car<strong>di</strong>ne del rapporto<br />

umano me<strong>di</strong>co-paziente.<br />

Tutto questo ha fatto sì che si sviluppasse un utile <strong>di</strong>battito su vantaggi e svantaggi, su bene<br />

e male dello sviluppo tecnologico, che oggi, all’inizio del terzo millennio, verte in particolare<br />

su quelli che sono stati, negli ultimi decenni, i doni più importanti che il progresso tecnologici<br />

ci ha fornito, ovvero l’intelligenza artificiale, le reti neurali artificiali, la robotica. Queste<br />

branche della tecnica e della scienza per la loro particolare natura, hanno poi fornito un ulteriore<br />

elemento al <strong>di</strong>battito: quanto gli strumenti creati dall’uomo per cambiare il mondo e<br />

mo<strong>di</strong>ficare l’ambiente hanno, invece, mo<strong>di</strong>ficato la vita e la natura stessa dell’uomo?<br />

Il termine intelligenza artificiale è stato proposto nel 1956 da un giovane matematico,<br />

John McCarthy, per un incontro finanziato dalla fondazione Rockfeller, nel quale fu redatto<br />

un documento in cui si descriveva il progetto <strong>di</strong> poter creare l’intelligenza in una struttura<br />

artificiale. Lo stu<strong>di</strong>o partiva dall’ipotesi che, come molti scienziati ritenevano, il pensiero<br />

umano funzionasse come un processo <strong>di</strong> calcolo e quin<strong>di</strong>, in linea <strong>di</strong> principio, ogni aspetto<br />

dell’appren<strong>di</strong>mento o dell’intelligenza potesse essere descritto in modo così preciso da mettere<br />

una macchina, un computer, in grado <strong>di</strong> simularlo.<br />

In base a tale ipotesi, l’intelligenza artificiale si proponeva <strong>di</strong> indagare i meccanismi che<br />

sono alla base della cognizione umana: il ragionamento logico-matematico, la capacità <strong>di</strong><br />

risolvere problemi e la comprensione del linguaggio naturale, con il fine <strong>di</strong> riprodurli, per<br />

mezzo <strong>di</strong> elaboratori elettronici sufficientemente potenti e, nell’arco <strong>di</strong> 10 anni, realizzare<br />

sistemi informatici in grado <strong>di</strong> funzionare come un cervello umano.<br />

In questa ottica, i computer <strong>di</strong> oggi riescono a memorizzare, a schedare, a scrivere sotto<br />

dettatura, a leggere un testo scritto, a fare operazioni senza errori e in tempi rapi<strong>di</strong>ssimi, a<br />

– 114 –


manovrare strutture che eseguono operazioni con notevole precisione e autonomia. Appare<br />

pertanto evidente che la tecnologia non solo contribuisce ai mutamenti della vita quoti<strong>di</strong>ana,<br />

ma incide nell’essenza dell’uomo, trasformandone le caratteristiche e le capacità.<br />

Per <strong>di</strong>fendersi dai possibili rischi <strong>di</strong> tali sviluppi tecnologici, spesso tanto temuti, è nata<br />

la “tecnoetica” che rappresenta il riferimento morale della tecnologia come elemento positivo<br />

dell’essere umano, quello che la “bioetica” rappresenta ad esempio in campo <strong>di</strong> ingegneria<br />

genetica.<br />

Riguardo alla robotica è d’obbligo menzionare come essa sia riuscita a dare origine a quei<br />

robot, dotati <strong>di</strong> intelligenza artificiale e <strong>di</strong> un corpo a nostra immagine e somiglianza in grado<br />

<strong>di</strong> interagire con l’ambiente esterno.<br />

Quin<strong>di</strong>, il robot, termine coniato nei primi anni venti del Novecento, è impiegato in varie<br />

situazioni in cui è necessario estrarre informazioni dall’ambiente, elaborarle e poi agire<br />

sull’ambiente stesso.<br />

In un futuro prossimo potrebbero inoltre essere impiegati come vigili del fuoco o poliziotti<br />

e, in ambito me<strong>di</strong>co-assistenziale.<br />

Se per il progresso tecnologico, il ’900 è <strong>di</strong>ventato il secolo della macchina, quello attuale<br />

sarà il secolo dei robot dei quali però l’uomo si deve sentire responsabile in modo che,<br />

come più volte è stato prospettato in letteratura, alla fine non <strong>di</strong>ventino troppo “intelligenti”<br />

e si ribellino al predominio <strong>di</strong>spotico ed arrogante dell’uomo.<br />

Per questi motivi, anche nella robotica il <strong>di</strong>battito etico ha condotto alla nascita <strong>di</strong> una<br />

nuova <strong>di</strong>sciplina, la roboetica, volta a mantenere il delicato equilibrio nei rapporti tra robot e<br />

uomo. Per concludere, è senza dubbio evidente che la tecnologia si avvia a vincere contro i<br />

suoi oppositori ed è importante perseverare nel suo continuo sviluppo per i vantaggi che offre<br />

all’uomo e per le conquiste a cui lo può condurre, ma è in<strong>di</strong>spensabile che questo progresso<br />

sia sempre affiancato da sensibilità, attenzione e costante riflessione perché il rapporto<br />

tra uomo e macchina sia equilibrato e vissuto nel rispetto della vita e della natura che lo<br />

circonda.<br />

Bibliografia e sitografia:<br />

EDGAR MORIN, “Para<strong>di</strong>gma perduto. Che cos’è la natura umana?”, ed. Feltrinelli, Milano,<br />

1998, p. 25.<br />

EDGAR MORIN, “I sette saperi necessari all’educazione”, ed. Raffaello Cortina, Firenze,<br />

2001, p. 34.<br />

TERENZIO, “Il punitore <strong>di</strong> se stesso”, a cura <strong>di</strong> G. Guzzola, ed. Bur, Roma, 1990, v. 77.<br />

ALDO SCHIAVONE, “Storia e destino”, ed. Einau<strong>di</strong>, Milano, 2007, p. 36.<br />

ZYGMUNT BAUMAN, “La vita liquida”, ed. Laterza, Milano, 2006, p. 12.<br />

www.wikipe<strong>di</strong>a.it/Morin<br />

– 115 –


MARIA PAOLA MAIONE - STEFANIA SORRENTI<br />

Progetto speciale<br />

“La scuola adotta un monumento”<br />

nel cinquantesimo anniversario del <strong>Liceo</strong> Classico <strong>Orazio</strong><br />

(anno scolastico <strong>2008</strong>-2009)<br />

Passeggiando per la Via Sacra nel Foro Romano in compagnia <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong><br />

Il nostro <strong>Liceo</strong> anche quest’anno ha partecipato alla prosecuzione del progetto “La<br />

scuola adotta un monumento” promosso dal Comune <strong>di</strong> Roma, progetto che si è confermato<br />

come un’esperienza educativa e culturale fruttuosa sia per lo sviluppo <strong>di</strong> un atteggiamento<br />

più consapevole e sensibile verso il patrimonio artistico nella sua <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> memoria<br />

storica, sia per la promozione <strong>di</strong> un rapporto <strong>di</strong>retto e interattivo fra le giovani generazioni<br />

e la loro città (la cui conoscenza è spesso rinviata all’età adulta per mancanza <strong>di</strong> spazi <strong>di</strong>dattici<br />

adeguati), sia per un approccio <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o personalizzato, inter<strong>di</strong>sciplinare e integrato.<br />

La fase del progetto relativa all’anno scolastico <strong>2008</strong>-2009 ha previsto lo stu<strong>di</strong>o della Via<br />

Sacra nel Foro Romano, del colle Palatino con la Domus Flavia, e della mostra “Divus<br />

Vespasianus, il bimillenario dei Flavi” allestita nel Colosseo con appen<strong>di</strong>ce nella Curia e<br />

nel Criptoportico neroniano sul Palatino.<br />

L’impostazione del progetto si è fondata su un’idea <strong>di</strong> <strong>di</strong>dattica inter<strong>di</strong>sciplinare coinvolgente<br />

la storia romana, la letteratura latina e greca, l’epigrafia, l’archeologia e la storia dell’arte.<br />

Nella fase finale del progetto gli studenti, sud<strong>di</strong>visi in quattro gruppi <strong>di</strong> lavoro, hanno<br />

prodotto alcuni saggi e tesine, dvd e pannelli espositivi che sono stati presentati alla manifestazione<br />

“La scuola in festa. La mia città si chiama Roma” organizzata dall’Assessorato alle<br />

Politiche Scolastiche ed Educative del Comune <strong>di</strong> Roma, nei giar<strong>di</strong>ni Nicola Calipari nel<br />

mese <strong>di</strong> maggio 2009; tali lavori sono oggi <strong>di</strong>sponibili nella biblioteca del <strong>Liceo</strong> <strong>Orazio</strong> per<br />

la consultazione.<br />

Il gruppo <strong>di</strong> lavoro è stato coor<strong>di</strong>nato da due insegnanti: la prof.ssa Maria Paola Maione,<br />

docente <strong>di</strong> Materie letterarie, latino e greco, referente del progetto e la prof.ssa Stefania<br />

Sorrenti, docente <strong>di</strong> Storia dell’Arte. Gli esperti che hanno seguito le varie fasi degli stu<strong>di</strong> sono<br />

archeologi e storici dell’arte della Cooperativa Zetema, in collaborazione con il Comune <strong>di</strong><br />

Roma.<br />

Gli studenti partecipanti al progetto sono 35 <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse classi del triennio, il cui elenco<br />

è allegato al presente testo.<br />

Fra questi, due studentesse della classe II C, Giulia Perrozzi e Adele Tuozzi, hanno preso<br />

l’iniziativa <strong>di</strong> sintetizzare una breve parte del più ampio lavoro, relativa al percorso della<br />

Via Sacra nel Foro Romano compiuto leggendo la satira IX (del I libro delle Satire <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong>)<br />

per in<strong>di</strong>rizzarla alla Miscellanea dell’Istituto.<br />

Tale saggio ha soprattutto lo scopo <strong>di</strong> rendere omaggio al nostro <strong>Liceo</strong> e al poeta Quinto<br />

<strong>Orazio</strong> Flacco, cui esso è intitolato, nell’occasione del suo cinquantesimo anniversario, celebrato<br />

con <strong>di</strong>verse iniziative nella giornata del 19 <strong>di</strong>cembre 2009 nella sede <strong>di</strong> via Savinio e<br />

nelle succursali.<br />

Ai partecipanti tutti del progetto per l’entusiasmo e l’impegno con cui si attivano e collaborano<br />

in orario extrascolastico e a tutti coloro che sono cresciuti in questo liceo imparando<br />

ad amare l’arte, la poesia e la cultura va il nostro ringraziamento.<br />

– 116 –


Elenco degli studenti partecipanti (relativo all’anno scolastico <strong>2008</strong>-2009):<br />

Classe III C: Eleonora Ottaviani, Valentina Schettini, Francesca Tucci, Valeria Oliva.<br />

***<br />

Classe II C: Giorgia Bufi, Marco Bruno, Alessandro Di Mele, Paolo Massimo Campogrande,<br />

Erica Bucciarelli, Davide De Can<strong>di</strong>a, Chiara Cirelli, Giulia Emily Cetera, Rosaria<br />

Pasqualucci, Antonella Marafini, Eleonora Amicosante, Martina Diglio, Irene Mastrantonio,<br />

Simone Di Cerbo.<br />

***<br />

Classe I C: Carolina Salomoni, Adele Tuozzi, Giulia Perrozzi, Barbara Marchetti, Giulia<br />

Moretti Cursi, Fabiana Luca, Domizia Sgammini, Andrea Cecchini, Paolo Colagiovanni,<br />

Davide Galioto, Eleonora Lauricella, Giorgia Lauri, Enrica Mazzuca, Brigitte Budani,<br />

Valentina Tanga, Alessandra Ven<strong>di</strong>tti.<br />

Percorso letterario e archeologico: leggendo la Satira I, 9 <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong><br />

vengono analizzati alcuni dei monumenti situati lungo la Via Sacra<br />

Breve introduzione alla Satira I, 9 <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong>.<br />

Alla maniera <strong>di</strong> un vero e proprio “mimo” realistico la satira in forma <strong>di</strong>alogica presenta<br />

un intrigante serrato <strong>di</strong>battito fra un “seccatore”, se<strong>di</strong>cente poeta in<strong>di</strong>viduato da <strong>Orazio</strong> con<br />

il pronome “quidam” e il poeta stesso, che è presentato attraverso un ironico autoritratto<br />

come un men<strong>di</strong>cante che passeggia senza meta per la Via Sacra, tallonato dell’arrivista fino<br />

a che, dopo un tentativo <strong>di</strong> scappatoie e l’altro, non è salvato da Apollo stesso, protettore dei<br />

poeti.<br />

I versi in<strong>di</strong>viduano con maliziosa ironia una tipologia umana abbastanza <strong>di</strong>ffusa nell’età<br />

augustea, l’arrampicatore sociale che intende sfruttare quelle che ritiene essere le sue<br />

potenzialità artistiche per farsi introdurre in un circolo potente e privilegiato quale quello <strong>di</strong><br />

Mecenate.<br />

Nei suoi confronti <strong>Orazio</strong> mantiene un atteggiamento <strong>di</strong>staccato, <strong>di</strong>fendendo il circolo<br />

<strong>di</strong> Mecenate, incentrato sui rapporti soli<strong>di</strong> e sulla trasparenza e non certo sull’arrivismo e<br />

sull’invi<strong>di</strong>a. All’interlocutore che non è in grado <strong>di</strong> comprendere questo modus viven<strong>di</strong> è<br />

riservata solo la pungente ma bonaria ironia oraziana.<br />

Il componimento può essere datato intorno al 35 a.C., il poeta che già da qualche anno<br />

ha successo, è entrato in stretta amicizia con Mecenate, che nel 33 gli ha fatto dono <strong>di</strong> una<br />

villetta in Sabina.<br />

Ecco perché <strong>Orazio</strong>, seppure <strong>di</strong> modeste origini, è oggetto <strong>di</strong> invi<strong>di</strong>a da parte del seccatore.<br />

Questa satira è certamente una delle più famose <strong>di</strong> <strong>Orazio</strong> e nello stesso tempo quella in<br />

cui poco si notano i <strong>di</strong>scorsi a sfondo morale e le linee filosofiche dell’epicureismo, mentre<br />

emerge la capacità ritrattistica e lo spiccato senso umoristico del poeta.<br />

Sballottato per la Via Sacra dall’irriducibile seccatore, <strong>Orazio</strong> fornisce al lettore riferimenti<br />

precisi ai luoghi più importanti situati lungo l’itinerario che si snoda fra l’arco <strong>di</strong><br />

Settimio Severo e l’arco <strong>di</strong> Tito, fra i quali la Curia e il Tempio <strong>di</strong> Vesta.<br />

Tale itinerario è stato ripercorso da noi studenti nella passeggiata <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o nel Foro<br />

Romano ed è qui <strong>di</strong> seguito riportato.<br />

– 117 –


La Via Sacra<br />

– 118 –<br />

«Ibam forte via sacra, sicut est meus mos,<br />

nescio quid me<strong>di</strong>tans nugarum, totus in in illis».<br />

(vv. 1-2)<br />

La Via Sacra è l’antichissima strada <strong>di</strong> collegamento tra il Palatino, il Foro Romano e<br />

l’Arce Capitolina. Secondo gli antichi la sacralità della strada deriverebbe dal leggendario<br />

patto <strong>di</strong> pace tra Romolo e Tito Tazio o dall’uso che i sacerdoti ne facevano durante le cerimonie<br />

sacre mensili delle i<strong>di</strong> e delle nonae.<br />

La strada, che collegava il Palatino con il Campidoglio, era <strong>di</strong> grande monumentalità.<br />

Lungo questa via sfilavano infatti i carri del trionfo, dall’area dell’arco <strong>di</strong> Tito, dove la via<br />

ha tutt’oggi inizio, sino al tempio <strong>di</strong> Giove Ottimo Massimo. Queste sfilate venivano concesse<br />

dal Senato a quei generali che si erano <strong>di</strong>stinti durante le campagne militari. Veniva inoltre<br />

utilizzata durante le festività religiose.<br />

Il tracciato della via Sacra solca interamente la valle su cui successivamente andò a<br />

costituirsi il Foro Romano.<br />

Lungo questo tracciato già nel VI sec a.C., in età etrusca, sì costruì il complesso del<br />

Comizio, che con la Curia Hostilia costituiva il luogo <strong>di</strong> riunione dei citta<strong>di</strong>ni, dei senatori e<br />

dei magistrati romani; qui si pose la sede dei più antichi culti della città. In età me<strong>di</strong>o-repubblicana<br />

si avviò la monumentalizzazione della valle con la costruzione <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici destinati<br />

alle attività economiche e giu<strong>di</strong>ziarie. Fino all’inizio dell’età imperiale, la Via Sacra<br />

conduceva, con un primo tratto pianeggiante, dal Foro Romano alle pen<strong>di</strong>ci della Velia, nei<br />

pressi della Basilica <strong>di</strong> Massenzio, passando a fianco della Basilica Emilia; un secondo tratto<br />

in salita, denominato summa Sacra Via, si spingeva fino al Sacello <strong>di</strong> Strenia alle Carinae<br />

(sella che univa la Velia all’Oppio, zona retrostante la Basilica <strong>di</strong> Massenzio e in gran parte<br />

tagliata da Via dell’Impero). Dopo l’incen<strong>di</strong>o neroniano, questo secondo tratto venne deviato<br />

in <strong>di</strong>rezione della Domus Aurea, dove sorse il Tempio <strong>di</strong> Venere e Roma.<br />

Il tempio <strong>di</strong> Vesta<br />

«Ventum erat ad Vestae, quarta iam parte <strong>di</strong>ei»<br />

(v. 35)<br />

Vesta, dea del focolare domestico, è una delle più caratteristiche <strong>di</strong>vinità della Roma<br />

arcaica; tuttavia, mentre il culto domestico in età posteriore (soprattutto in età imperiale)<br />

sparì per far posto a quello dei Penati, il culto invece del focolare pubblico, sacro a Vesta,<br />

si mantenne sino agli ultimi tempi dell’impero occidentale e sopravvisse finanche alle prime<br />

vittorie del cristianesimo.<br />

Situato nell’estremità orientale del Foro Romano, il Tempio <strong>di</strong> Vesta è un’antica struttura<br />

<strong>di</strong> costruzione circolare, collocata vicino al corso della via Sacra. Formava, assieme<br />

alla Casa delle Vestali, un unico complesso religioso: l’Atrium Vestae. La costruzione del<br />

Tempio risale probabilmente ad un’epoca precedente alla costruzione del Foro, in cui la<br />

città, composta da un modesto raggruppamento <strong>di</strong> villaggi, si limitava al Palatino. I resti<br />

attualmente visibili appartengono ad una ristrutturazione in età severiana. Esso è, inoltre, il<br />

più antico e<strong>di</strong>ficio marmoreo giunto pressoché intatto ai giorni nostri.<br />

Il Tempio rappresentava il focolare domestico più importante, simbolo <strong>di</strong> tutti i focolari<br />

dello Stato; quello regio. Le figlie del rex avevano il compito <strong>di</strong> sorvegliare il fuoco: ogni


primo <strong>di</strong> marzo, giorno iniziale del cosiddetto “anno <strong>di</strong> Numa”, questo veniva riacceso con<br />

particolari cerimonie. In seguito si sostituì loro un gruppo <strong>di</strong> sacerdotesse, le Vestali. Questa<br />

istituzione costituiva l’unico esempio <strong>di</strong> sacerdozio femminile in Roma.<br />

Le sacerdotesse <strong>di</strong> Vesta erano sei, scelte tra le fanciulle più nobili della città che fossero<br />

<strong>di</strong> età compresa tra i sei e i <strong>di</strong>eci anni. Ignoti sono i criteri secondo i quali avvenisse la scelta.<br />

La designazione costituiva un grande onore per la fanciulla e per la sua famiglia. Al momento<br />

della consacrazione, durante la cerimonia detta “della cattura”, il Pontefice Massimo<br />

pronunciava le parole rituali: «Ego te, amata, capio» a seguito delle quali la fanciulla veniva<br />

posta sotto il suo potere, uscendo per sempre dalla potestà paterna.<br />

Le Vestali erano tenute ad assolvere essenzialmente tre compiti fondamentali, primo tra<br />

tutti era quello <strong>di</strong> tener vivo il fuoco <strong>di</strong> Vesta. Il secondo era quello <strong>di</strong> pulire il tempio della<br />

dea, includendo anche il rito della stercoratio che si celebrava ogni 15 giugno, durante il<br />

quale le sacerdotesse, dopo aver spazzato il tempio, portavano l’immon<strong>di</strong>zia sul colle Capitolino<br />

in un luogo chiuso. Il nome della cerimonia rivela chiaramente la sua antichità perché<br />

riconduce al momento in cui, in una società <strong>di</strong> pastori, il fuoco <strong>di</strong> Vesta non bruciava in un<br />

tempio, ma in uno spazio aperto che doveva esser liberato dagli escrementi animali. Come<br />

terzo compito le Vestali dovevano preparare la Mola Salsa, una specie <strong>di</strong> farina salata che, in<br />

occasione dei sacrifici animali, si spargeva sulle vittime, sull’altare e sul coltello del sacrificante,<br />

da cui il verbo immolare.<br />

Per assolvere degnamente a questi compiti, le Vestali dovevano essere pure; per questa<br />

ragione erano tenute a prestare un voto <strong>di</strong> castità trentennale e, qualora lo avessero infranto,<br />

venivano punite in modo terribile. Se una Vestale commetteva atti impuri, il suo comportamento<br />

poteva essere denunciato da dei pro<strong>di</strong>gi che rivelavano l’ira <strong>di</strong>vina: per esempio con<br />

lo spegnimento del fuoco della dea. Se Vesta non interveniva a salvare l’accusata compiendo<br />

un miracolo che ne <strong>di</strong>mostrasse l’innocenza, la Vestale veniva condannata a morte, al termine<br />

<strong>di</strong> un solenne rituale al quale assisteva tutta la città. Nel giorno dell’esecuzione la colpevole<br />

veniva condotta fino a un luogo detto Campo Scellerato presso la porta Collina, sul Quirinale,<br />

portata su una lettiga coperta. Lì si trovava una stanza sotterranea nella quale erano<br />

stati precedentemente collocati un letto, del pane, dell’acqua, dell’olio e una fiaccola. Qui<br />

giunta, coperta <strong>di</strong> veli perché nessuno vedesse il suo volto, la Vestale veniva fatta scendere<br />

in quella che sarebbe <strong>di</strong>ventata la sua tomba e quin<strong>di</strong> murata viva.<br />

All’interno della cella non era presente alcuna statua o rappresentazione della dea Vesta,<br />

ma si può ipotizzare che tale scultura fosse conservata all’interno <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio posto in prossimità<br />

dell’entrata della Casa delle Vestali.<br />

Il tempio era formato da una costruzione circolare in opera cementizia, rivestita da lastre<br />

<strong>di</strong> marmo, del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa 15 metri, circondata originariamente da un anello <strong>di</strong> 20<br />

colonne <strong>di</strong> marmo scanalate, d’or<strong>di</strong>ne corinzio, l’or<strong>di</strong>ne preferito dai romani per l’architettura<br />

templare. L’e<strong>di</strong>ficio doveva essere coperto da un tetto conico, con buco centrale per i fumi<br />

del fuoco acceso all’interno. Purtroppo sono andate perdute la trabeazione e la copertura.<br />

All’interno si trovava un vano a forma trapezoidale che si apriva sul po<strong>di</strong>o accessibile solo<br />

dalla cella che ipoteticamente rappresentava il Penus Vestae. Esso, che solo le sacerdotesse<br />

avevano il permesso <strong>di</strong> raggiungere, aveva la funzione <strong>di</strong> conservare i pignora civitatis, alcuni<br />

oggetti sacri legati a Roma e “pegno” della fortuna della città che, secondo quanto narrato da<br />

un’antica leggenda, Enea avrebbe condotto a Roma dalla città <strong>di</strong> Troia. Tra gli oggetti più<br />

importanti contenuti all’interno del Penus Vestae vi era sicuramente il Palla<strong>di</strong>o, un’antica<br />

rappresentazione della dea Minerva.<br />

Probabilmente il tempio fu ricostruito più volte, conservando sempre la medesima pianta<br />

ed aumentando in altezza, poiché fu <strong>di</strong>strutto svariate volte da incen<strong>di</strong>.<br />

– 119 –


Il tempio fu realizzato in origine per la necessità <strong>di</strong> una struttura apposita a<strong>di</strong>bita esclusivamente<br />

alla conservazione del fuoco. Secondo le fonti antiche, il fuoco era ottenuto grazie<br />

allo sfregamento delle selci. La struttura <strong>di</strong>venne poi un simbolo <strong>di</strong> aggregazione della comunità<br />

con la trasformazione in tempio e la nomina <strong>di</strong> un sacerdote. Quando, da Servio Tullio<br />

in poi, il processo <strong>di</strong> urbanizzazione coinvolse anche le tribù stanziate sui colli vicini, il<br />

simbolo stesso dell’aggregazione assunse una forte connotazione politica e, non essendo più<br />

possibile mantenerlo limitato al nucleo Palatino, venne trasferito nell’area che sarebbe poi<br />

<strong>di</strong>ventata il Foro e che stava assumendo la caratteristica <strong>di</strong> luogo d’incontro e <strong>di</strong> scambio<br />

commerciale, sul modello dell’agorà greca.<br />

Il tempio fu interessato dagli incen<strong>di</strong> del 241 a.C. e del 210 a.C., in seguito al quale si<br />

ebbe un esteso rimaneggiamento anche della casa delle Vestali. Durante questa ricostruzione<br />

fu realizzata una profonda fondazione circolare in cementizio, dotata <strong>di</strong> una cavità centrale:<br />

la fossa per le ceneri del fuoco sacro, appartiene a quel momento anche la costruzione del<br />

Penus Vestae. Si ipotizza inoltre una ricostruzione dopo il grande incen<strong>di</strong>o del 64 d.C.,<br />

contemporaneamente allo spostamento e ingran<strong>di</strong>mento della casa delle Vestali: il tempio<br />

venne infatti rappresentato in monete dell’epoca <strong>di</strong> Nerone e dei successivi imperatori Flavi.<br />

La struttura fu poi nuovamente danneggiata nell’incen<strong>di</strong>o del 191 d.C, sotto il regno <strong>di</strong><br />

Commodo. Settimio Severo lo restaurò: i resti venuti alla luce negli ultimi scavi risalgono<br />

esattamente a questo periodo.<br />

Teodosio I nel 391 abolì i culti pagani, dunque anche il culto <strong>di</strong> Vesta, con una serie <strong>di</strong><br />

decreti: il sacro fuoco venne spento e l’or<strong>di</strong>ne delle Vestali venne sciolto. Secondo alcune<br />

testimonianze <strong>di</strong> eru<strong>di</strong>ti, il tempio era ancora in pie<strong>di</strong> dopo la caduta dell’impero romano<br />

d’Occidente, ma cadde in rovina successivamente nell’VIII e IX secolo. In epoca rinascimentale<br />

non si sapeva più nulla sul vero sito del tempio, quin<strong>di</strong> il nome “tempio <strong>di</strong> Vesta” fu<br />

attribuito o alla chiesa <strong>di</strong> San Teodoro al Palatino, oppure al piccolo tempio rotondo presso<br />

il Ponte Rotto. Si scoprì la collocazione precisa del luogo della costruzione del santuario soltanto<br />

grazie agli scavi archeologici del 1872, 1882 e 1901.<br />

La Curia Iulia<br />

– 120 –<br />

«[...] Et casu tunc respondere vadato<br />

debebat; quod ni fecisset, perdere litem »<br />

(vv. 36-37)<br />

«[...] Casu venit obvius illi<br />

adversarius et “Quo tu, turpissime?” magna<br />

inclamat voce et “licet antestari?” Ego vero<br />

oppono auricolam. Rapit in ius: clamor utrimque,<br />

un<strong>di</strong>que concursus. Sic me servavit Apollo»<br />

(vv. 74-78)<br />

La Curia Iulia era l’antica sede del Senato Romano, posta al culmine del lato breve del<br />

Foro. Si tratta <strong>di</strong> un grande e<strong>di</strong>ficio in mattoni posto all’angolo tra l’Argileto (la strada che<br />

lo separa dalla Basilica Emilia) e il Comizio.<br />

Quest’ultimo deve il suo nome alle assemblee dei “curiati”, cioè dei citta<strong>di</strong>ni valutati in<br />

base al censo, che si svolgevano nel Comizio. La Curia, fondata da Cesare <strong>di</strong>ttatore in sostituzione<br />

dell’antica Curia Hostilia (e<strong>di</strong>ficata secondo la leggenda da Tullo Ostilio, terzo re<br />

<strong>di</strong> Roma), occupava buona parte del Comizio repubblicano. Infatti, dopo essere stata<br />

danneggiata da un incen<strong>di</strong>o nel 52 a.C. l’antica Curia Hostilia venne restaurata, ma poco


dopo Giulio Cesare iniziò i lavori <strong>di</strong> realizzazione del Foro <strong>di</strong> Cesare che interessarono tutta<br />

quest’area del Foro: sia i Rostra che la Curia vennero ricostruiti in posizione più scenografica,<br />

con impianto più monumentale. La Curia Iulia comprendeva la grande aula per le sedute,<br />

chiamata propriamente Curia, e un’altra più piccola, il Secretarium Senatus.<br />

Giulio Cesare non vide compiuto l’e<strong>di</strong>ficio da lui cominciato; i lavori furono ultimati<br />

sotto il principato <strong>di</strong> Augusto nel 29 a.C. L’imperatore elesse come <strong>di</strong>vinità protettrice del<br />

Senato la dea Vittoria, il cui altare venne collocato nella sala principale. Domiziano restaurò<br />

la Curia e de<strong>di</strong>cò una cappella a Minerva, per la quale egli nutriva una particolare devozione;<br />

questa cappella, forse situata nel Chalci<strong>di</strong>cum (il portico colonnato della Curia, rappresentato<br />

peraltro su una moneta <strong>di</strong> età augustea), era detta anche Atrium Minervae. Gli anaglifi<br />

<strong>di</strong> Traiano rappresentano la Curia con portico a gra<strong>di</strong>nata, simile ad un tempio.<br />

Dopo aver riportato gravi danni in seguito ad un incen<strong>di</strong>o scoppiato sotto il regno <strong>di</strong><br />

Carino (283 d.C.), Diocleziano restaurò l’e<strong>di</strong>ficio, forse nel 303, in occasione delle feste dei<br />

Vicennalia che si sarebbero celebrate l’anno successivo. Probabilmente nella medesima<br />

occasione <strong>di</strong>nanzi la fronte della Curia furono erette due colonne colossali e, nel 311, il<br />

prefetto della città Flaviano rinnovò il Secretarium. Verso la fine del IV secolo, l’altare della<br />

Vittoria <strong>di</strong>venne argomento nel Senato <strong>di</strong> una vivace polemica tra la parte pagana e quella<br />

cristiana.<br />

Nel 410, in seguito al saccheggio <strong>di</strong> Alarico, tutto il lato settentrionale del Foro fu<br />

<strong>di</strong>strutto dalle fiamme; nel 412 Flavio Annio Eucario Epifanio, prefetto della città, restaurò<br />

il Secretarium, come attestava una iscrizione ancora esistente nel secolo XVII nel muro dell’abside<br />

dell’antica chiesa <strong>di</strong> Santa Martina. Al tempo del re Teodorico nella Curia si tenevano<br />

ancora le adunanze del Senato, sopravvissuto alla caduta dell’Impero occidentale, ma<br />

ridotto allora ad un’ombra: l’e<strong>di</strong>ficio in quel tempo non si chiamava più col suo nome classico<br />

<strong>di</strong> Curia, bensì Atrium Libertatis. Caduto il regno gotico, la Curia rimase abbandonata.<br />

Verso la metà del VII secolo, sulle sue rovine fu fondata la chiesa <strong>di</strong> Sant’Adriano, mentre<br />

quella <strong>di</strong> Santa Martina sorse sui resti della Curia Hostilia; alla loro trasformazione in chiese<br />

si deve la conservazione <strong>di</strong> ciò che rimane dell’antico Senato. Nel principio del secolo<br />

XVI Antonio da Sangallo il Vecchio e Baldassarre Peruzzi stu<strong>di</strong>arono i resti allora esistenti<br />

per costruire un monastero annesso alle chiese, ma questo progetto non venne attuato. Alcune<br />

parti della Curia furono <strong>di</strong>strutte al tempo <strong>di</strong> Sisto V, altre, quando Pietro da Cortona rimodernò<br />

la chiesa <strong>di</strong> Santa Martina (1640), che allora venne rialzata <strong>di</strong> un piano intero sul<br />

livello primitivo, e la vecchia chiesa <strong>di</strong>ventò così cripta della moderna.<br />

Tra il 1930 e il 1936 l’area venne interessata dalla campagna <strong>di</strong> scavi del Foro e in quell’occasione<br />

si decise <strong>di</strong> riportare l’importante e<strong>di</strong>ficio al suo aspetto profano: la chiesa venne<br />

sconsacrata, privandola <strong>di</strong> tutte le aggiunte successive all’epoca <strong>di</strong>oclezianea. Infatti l’aspetto<br />

attuale dell’e<strong>di</strong>ficio è dovuto proprio al rifacimento voluto da Diocleziano per sistemare<br />

i danni causati dall’incen<strong>di</strong>o del 283 d.C. Come costruzione è uno degli e<strong>di</strong>fici tardo antichi<br />

meglio conservati in tutta Roma.<br />

L’ottima con<strong>di</strong>zione del monumento è dovuta alla sua trasformazione in chiesa. I muri<br />

perimetrali in mattoni, alleggeriti da archi <strong>di</strong> scarico e interrotti da gran<strong>di</strong> finestroni sulla<br />

facciata erano coperti da lastre <strong>di</strong> marmo <strong>di</strong> cui rimane ben poco: sulla sinistra dell’ingresso<br />

ne sono visibili ancora dei resti. Salendo una rampa <strong>di</strong> scale <strong>di</strong> età moderna, si entra all’interno<br />

della Curia; il portale d’ingresso in bronzo è solo una copia dell’originale, trasferito a<br />

San Giovanni in Laterano nel XVII secolo.<br />

Il grande vano interno rispetta le proporzioni consigliate da Vitruvio per le curie, secondo<br />

le quali l’altezza doveva essere circa la metà della somma tra lunghezza e larghezza<br />

(le misure attuali sono 21 metri <strong>di</strong> altezza con una base <strong>di</strong> 18 per 27 metri). La notevole al-<br />

– 121 –


tezza è da riconoscere come un probabile accorgimento per l’acustica. La copertura lignea è<br />

ovviamente moderna e in antico era a travi piane.<br />

La pavimentazione è stata in parte ricostruita con marmi antichi secondo la <strong>di</strong>sposizione<br />

<strong>di</strong> epoca <strong>di</strong>oclezianea, come pure la decorazione architettonica delle pareti, scan<strong>di</strong>ta da nicchie<br />

che ospitavano statue, inquadrate da colonnine su mensole. Le pitture bizantine invece, visibili<br />

soprattutto sulla controfacciata, risalgono alla trasformazione in chiesa del VII secolo.<br />

L’aula è <strong>di</strong>visa in tre settori, con a destra e sinistra tre gra<strong>di</strong>ni larghi e bassi, dove erano<br />

collocati i circa trecento seggi per i senatori.<br />

Sulla parete <strong>di</strong> fondo, tra due porte, si trova il basamento per la presidenza, dove è collocata<br />

anche la base della Vittoria. Questa statua, sulla quale i senatori giuravano fedeltà alla<br />

Repubblica, era stata portata a Roma da Ottaviano ed era oggetto <strong>di</strong> particolare devozione<br />

simbolica per le istituzioni romane. Fu causa <strong>di</strong> un’aspra polemica tra cristiani e pagani alla<br />

fine del IV secolo, con protagonisti Ambrogio da Milano e Quinto Aurelio Simmaco, uno<br />

degli ultimi senatori pagani. Venne rimossa nel 357 su or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> Sant’Ambrogio. Al posto della<br />

statua ne è stata messa attualmente un’altra in porfido che rappresenta un togato, rinvenuta<br />

alle spalle della Curia.<br />

Oggi all’interno della Curia sono esposti due gran<strong>di</strong> rilievi, trovati al centro del Foro e<br />

chiamati plutei o anaglifi <strong>di</strong> Traiano. Si tratta forse <strong>di</strong> balaustre <strong>di</strong> una tribuna, probabilmente<br />

eretta nel Foro al posto della statua equestre <strong>di</strong> Domiziano, mentre appare meno probabile,<br />

seppure secondo convinzioni piuttosto persistenti, che i rilievi facessero parte dei Rostri. In<br />

essi sono rappresentati due episo<strong>di</strong> salienti dell’attività <strong>di</strong> Traiano nel Foro:<br />

• Il rilievo <strong>di</strong> sinistra raffigura un gruppo <strong>di</strong> inservienti che, alla presenza dello stesso<br />

imperatore, si prepara a <strong>di</strong>struggere i registri dove erano scritti i debiti contratti dai citta<strong>di</strong>ni<br />

romani nei confronti del fisco, cancellati dopo la conquista della Dacia.<br />

• Il rilievo <strong>di</strong> destra rappresenta Traiano nel momento dell’istituzione degli alimenta, gli<br />

aiuti economici destinati a sostenere i bambini e le famiglie romane bisognose.<br />

Le scene sono particolarmente interessanti perché si svolgono nel Foro, del quale danno<br />

una rara raffigurazione antica: vi si riconosce in entrambe la statua <strong>di</strong> Marsia accanto alla<br />

Ficus navia, già centro della piazza, e il lato meri<strong>di</strong>onale <strong>di</strong> questa. Nel rilievo <strong>di</strong> sinistra<br />

si vedono (da destra) i Rostri, il tempio <strong>di</strong> Vespasiano (con l’or<strong>di</strong>ne corinzio), un arco, forse<br />

del Tabularium, il Tempio <strong>di</strong> Saturno (ionico), il vuoto del Vicus Iugarius e le arcate della<br />

basilica Giulia. Nel rilievo <strong>di</strong> destra si vedono invece la continuazione della basilica Giulia,<br />

l’arco <strong>di</strong> Augusto, i Rostri del tempio del Divo Giulio; l’imperatore è raffigurato davanti<br />

alla basilica Giulia seduto su un po<strong>di</strong>o, forse lo stesso dal quale provengono i rilievi. Sul<br />

rovescio <strong>di</strong> entrambi sono raffigurati gli animali sacrificali delle solennità romane: maiale,<br />

pecora e toro.<br />

L’arco <strong>di</strong> Tito<br />

Dopo appena due anni <strong>di</strong> regno, Tito morì per una forte febbre. Secondo Svetonio,<br />

potrebbe essere stato colpito dalla malaria assistendo i malati, oppure avvelenato su or<strong>di</strong>ne<br />

del fratello.<br />

Inter haec morte praeventus est, maiore hominum damno quam suo. Spectaculis absolutis,<br />

in quorum fine populo coram ubertim fleverat, Sabinos petiit aliquanto tristior, quod<br />

sacrificanti hostia aufugerat quodque tempestate serena tonuerat. Deinde ad primam statim<br />

mansionem febrim nactus, cum inde lectica transferretur, suspexisse <strong>di</strong>citur <strong>di</strong>motis plagulis<br />

caelum, multumque conquestus eripi sibi vitam immerenti; neque enim exstare ullum suum<br />

factum paenitendum, excepto dum taxat uno (Svetonio, Vita Divi Titi X).<br />

– 122 –


Alla sua morte fu <strong>di</strong>vinizzato dal Senato, e un arco onorario fu eretto tra l’81 e il 96 d.C.<br />

nella parte orientale del Foro Romano dal fratello allo scopo <strong>di</strong> commemorare il trionfo <strong>di</strong><br />

Vespasiano e Tito sui Giudei, avvenuto nel 71 d.C. L’importanza assunta dal programma<br />

iconografico in età imperiale spiega, infatti, la trasformazione dell’arco da semplice punto <strong>di</strong><br />

passaggio a monumento commemorativo in onore <strong>di</strong> un defunto eroizzato.<br />

Si tratta <strong>di</strong> un arco a fornice unico con colonne scanalate <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne composito, rivestito<br />

<strong>di</strong> marmo pentelico. È decorato nel fregio esterno dalla pompa trionfale, a figure tozze in<br />

altissimo rilievo; nell’arcata da due gran<strong>di</strong> rilievi e nel mezzo della volta a cassettoni dall’apoteosi<br />

<strong>di</strong> Tito. Mentre il piccolo fregio riprende la tra<strong>di</strong>zione dell’altare dell’Ara Pacis<br />

Augustae, nei due pannelli laterali si realizza una spazialità che dà risalto al rilievo e che<br />

anima le figure che sembrano seguire l’evolversi della scena.<br />

Sul pannello del lato nord, all’interno dell’arco, si può ammirare Tito su una quadriga<br />

coronato da una Vittoria: egli è preceduto da littori e dalla dea Roma e seguito dal Genio del<br />

popolo romano e dal Genio del Senato. Sul lato opposto (sud) è raffigurato l’ingresso del<br />

corteo nella Porta Triumphalis: si osservi la ritmica rappresentazione dei cavalli, scolpiti<br />

<strong>di</strong> profilo, ed il gruppo degli inservienti che avanzano con i fercula, trasportando oggetti<br />

trafugati nel tempio <strong>di</strong> Gerusalemme, tra cui spicca la menorah: il candelabro a sette bracci.<br />

Si possono infine notare in questi due rilievi alcune fondamentali innovazioni stilistiche:<br />

un maggiore affollamento delle scene, ma soprattutto la straor<strong>di</strong>naria spazialità data dalla<br />

variazione del rilievo secondo una precisa <strong>di</strong>sposizione delle figure nel piano, con il conseguente<br />

superamento dell’andamento rettilineo del corteo.<br />

Sulla chiave <strong>di</strong> volta l’imperatore Tito è rappresentato sulle ali <strong>di</strong> un’aquila, uccello sacro<br />

a Giove, e definito <strong>di</strong>vus; ciò sta ad in<strong>di</strong>care, infatti, che non si tratta dell’arco <strong>di</strong> trionfo, avente<br />

la sua collocazione nel Circo Massimo e purtroppo perduto, ma <strong>di</strong> un arco onorario, probabilmente<br />

situato all’ingresso della residenza imperiale: la leggera curvatura dei rilievi all’interno<br />

del fornice sembra suggerire la curva del percorso che portava infatti a sinistra sul<br />

Palatino.<br />

Bibliografia:<br />

A. LA REGINA, Guida archeologica <strong>di</strong> Roma, Roma 2007, pp. 15 ss.<br />

F. COARELLI, Il Foro Romano - Periodo arcaico, Roma 1983, pp. 11-26.<br />

G. PONTIGGIA - M. C. GRANDI, Letteratura latina, Milano 2007, p. 608.<br />

GUIDA D’IITALIA - ROMA (Touring Club Italiano), Roma 1993, pp. 431-432.<br />

G. DE BERNARDIS - A. SORCI - E. TORTORICI, I classici <strong>di</strong> Roma antica, vol. II, Firenze 2007,<br />

pp. 265-266.<br />

E. CANTARELLA - G. GUIDORIZZI, L’ere<strong>di</strong>tà antica e me<strong>di</strong>evale, vol. I, Milano 2007, p. 265.<br />

M. CADARIO, L’arte tra noi, vol. I, Roma <strong>2008</strong>, p. 211.<br />

GUIDA DI ROMA (Mondadori), Milano 2003, pp. 82-85.<br />

– 123 –


STEFANO DE STEFANO<br />

Il <strong>Liceo</strong> <strong>Orazio</strong> alla XV e<strong>di</strong>zione<br />

delle Olimpia<strong>di</strong> <strong>di</strong> Filosofia<br />

Il nostro <strong>Liceo</strong> ha partecipato alla XV e<strong>di</strong>zione delle “Olimpia<strong>di</strong> <strong>di</strong> Filosofia”, organizzate<br />

dalla Società Filosofica Italiana (SFI) d’intesa con il Ministero della Pubblica Istruzione.<br />

La manifestazione è riservata agli studenti e alle studentesse frequentanti i due<br />

ultimi anni delle scuole secondarie <strong>di</strong> secondo grado. La prova consiste nella redazione <strong>di</strong><br />

un saggio <strong>di</strong> argomento filosofico. Quest’anno l’orizzonte tematico <strong>di</strong> riferimento per la<br />

redazione del saggio è stato: Filosofia , scienza e società.<br />

La competizione è particolarmente importante poiché sollecita gli studenti a cimentarsi<br />

con l’esposizione scritta del proprio pensiero e, dunque, ad organizzare le idee in maniera<br />

razionale, coerente e fruibile da parte <strong>di</strong> interlocutori. Sappiamo che nelle scuole italiane<br />

l’insegnamento della filosofia non prevede lo scritto e, perciò, questa iniziativa si potrebbe<br />

configurare come l’unica opportunità seria che consenta agli studenti <strong>di</strong> poter mettere alla prova<br />

le proprie capacità argomentative, in ambito filosofico: si sa che la pagina scritta impone<br />

una metodologia più serrata rispetto all’esposizione orale.<br />

Nella nostra scuola, una commissione composta dai proff. Dappio, De Stefano e Palesati,<br />

d’intesa con tutto il Dipartimento <strong>di</strong> filosofia dell’<strong>Orazio</strong>, ha provveduto ad organizzare la<br />

prova scritta per la selezione regionale, quin<strong>di</strong> alla correzione degli elaborati e all’in<strong>di</strong>viduazione<br />

dei can<strong>di</strong>dati dell’<strong>Orazio</strong> che avrebbero partecipato alla selezione regionale per<br />

accedere alla gara nazionale.<br />

La prova si è tenuta il 10 marzo 2009, in orario pomeri<strong>di</strong>ano, per non gravare sulle attività<br />

<strong>di</strong>dattiche del mattino. Sono state proposte ai can<strong>di</strong>dati due tracce (riportate più avanti);<br />

i tre elaborati selezionati sono stati, nell’or<strong>di</strong>ne: il saggio <strong>di</strong> Francesco Orlando della 3ª liceo<br />

classico N, il saggio <strong>di</strong> Giulia Omodei della 2ª liceo classico O e il saggio <strong>di</strong> Marina Amadori<br />

della 2ª liceo classico B.<br />

All’Università <strong>di</strong> RomaTre si è svolta la gara regionale per accedere alla fase nazionale.<br />

In rappresentanza dell’<strong>Orazio</strong> erano presenti: Orlando ed Omodei che hanno ottenuto, rispettivamente,<br />

un ottavo e un terzo posto su ventotto studenti in rappresentanza <strong>di</strong> quattor<strong>di</strong>ci<br />

istituti superiori del Lazio. Ultima notazione: i saggi composti da Orlando e Omodei per la<br />

fase nazionale sono stati redatti in lingua inglese.<br />

Giulia Omodei classe 2ª liceo classico sez. O – a.s. <strong>2008</strong>/2009<br />

Traccia: “Come è possibile che le matematiche, le quali in fondo sono un prodotto del<br />

pensiero umano, <strong>di</strong>pendente dall’esperienza, siano così mirabilmente adatte agli oggetti della<br />

realtà? È forse la ragione umana, al <strong>di</strong> fuori dell’esperienza, e solo col pensiero, in grado <strong>di</strong><br />

toccare a fondo le proprietà del reale?”. – A. Einstein, Conferenza all’Accademia Prussiana<br />

delle Scienze nel 1921.<br />

Svolgimento:<br />

Nella conferenza all’Accademia prussiana del 1921, Albert Einstein ci fornisce implicitamente<br />

una definizione <strong>di</strong> scienza matematica: egli la intende come un prodotto della ragione<br />

– 124 –


dell’uomo, necessitato dall’esperienza, che riesce, però, paradossalmente ad aderire perfettamente<br />

agli oggetti della realtà. Einstein si domanda a questo punto se è ragionevole immaginare<br />

che la mente umana possa con il solo pensiero, separatamente dall’esperienza, arrivare<br />

a indagare la base <strong>di</strong> ciò che realmente esiste. Personalmente ritengo la questione sollevata<br />

da Einstein avvincente ed ammirevole, ma allo stesso tempo opinabile.<br />

E se la matematica non fosse soltanto il frutto del pensiero dell’uomo? Prendendo spunto<br />

da quanto, ad esempio, si racconta <strong>di</strong> Socrate che riuscì a <strong>di</strong>mostrare come un semplice<br />

schiavo possedesse insite in lui delle conoscenze matematiche e geometriche assolutamente<br />

insospettabili, che egli riuscì a far venir fuori attraverso il ragionamento ed il riscontro<br />

effettivo con la realtà, così anch’io ritengo più logico credere che alcuni aspetti della nostra<br />

esistenza in quanto esseri umani dotati <strong>di</strong> ragione e <strong>di</strong> un “background” generazionale, siano<br />

insiti in noi e si possano far riemergere attraverso l’esperienza della realtà.<br />

Dati questi presupposti, non sarebbe errato affermare che la mente umana con il solo<br />

ragionamento, può arrivare a formulare infinite ipotesi sulle proprietà del reale, compresa<br />

quella giusta (ammesso che esista e sia una soltanto) successivamente verificabili con<br />

l’esperienza. Dovendo riportare tutto ciò, come dovuto, ad un’esperienza reale verificabile,<br />

mi viene in aiuto la mia esperienza <strong>di</strong> studentessa: quando stu<strong>di</strong>amo qualcosa <strong>di</strong> matematica<br />

o fisica o scienze, non siamo certo noi a creare delle nuove formule o delle nuove regole che<br />

poi casualmente calzano alla perfezione alla realtà del mondo, ma ci occupiamo piuttosto <strong>di</strong><br />

verificare con l’esperienza quanto colto con la sola ragione da chi c’è stato prima <strong>di</strong> noi e che<br />

noi stessi conserviamo inconsciamente dentro <strong>di</strong> noi.<br />

È strano come il pensiero <strong>di</strong> uno dei più gran<strong>di</strong> matematici e fisici <strong>di</strong> tutti i tempi<br />

riguardante proprio il concetto <strong>di</strong> matematica e realtà possa essere messo in <strong>di</strong>scussione da<br />

un banale gioco <strong>di</strong> parole. Eppure il <strong>di</strong>lemma non è stato risolto. Forse aveva ragione chi<br />

affermava che “la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale il mondo rimane tale<br />

e quale”?<br />

Marina Amadori classe 2 a liceo classico sez. B – a.s. <strong>2008</strong>/2009<br />

Traccia: Lo stato <strong>di</strong> pace fra gli uomini assieme conviventi non è affatto uno stato <strong>di</strong><br />

natura. Questo è piuttosto uno stato <strong>di</strong> guerra, nel senso che, anche se non vi sono sempre<br />

ostilità <strong>di</strong>chiarate, è però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi. Dunque lo stato<br />

<strong>di</strong> pace dev’essere istituito, perché la mancanza <strong>di</strong> ostilità non significa ancora sicurezza.<br />

Svolgimento:<br />

L’idea che gli uomini non siano spinti alla pace e alla solidarietà dalla loro natura ma<br />

dall’interesse e dalla convenienza, affonda le sue ra<strong>di</strong>ci nel pensiero <strong>di</strong> Hobbes ed è stata<br />

ampiamente con<strong>di</strong>visa dai pensatori successivi. Fu infatti proprio questo filosofo, sconvolgendo<br />

i suoi contemporanei, a <strong>di</strong>chiarare impossibile la pre<strong>di</strong>sposizione al bene. La storia e<br />

il mondo che ci circonda sembrerebbe confermarlo: se guar<strong>di</strong>amo al percorso dell’uomo dall’antichità<br />

fino ad oggi, non ve<strong>di</strong>amo altro che violenza, guerre, ostilità. L’unico impulsoguida<br />

dell’uomo sarebbe dunque la ricerca del proprio utile, e la ragione, secondo Hobbes,<br />

avrebbe semplicemente suggerito all’uomo (homini lupus) che era più conveniente sottomettersi<br />

al potere assoluto <strong>di</strong> un sovrano, piuttosto che continuare a fare la guerra ai propri<br />

simili. Lo stesso Locke, che non solo non con<strong>di</strong>videva le idee <strong>di</strong> Hobbes, ma che era ad esse<br />

contrario, si è comunque trovato costretto ad ammettere che l’uomo, guidato solo dalla<br />

ragione-legge naturale dello Stato <strong>di</strong> natura, avrebbe potuto trasformare quest’ultimo in uno<br />

stato <strong>di</strong> guerra perenne. La ragione, dunque, inesistente per Hobbes in uno stato privo <strong>di</strong><br />

– 125 –


leggi, non è sufficiente per Locke a garantire la pace, a meno che non sia istituito uno stato<br />

<strong>di</strong> pace che assicuri sicurezza e stabilità. A questo punto sorge una domanda: ammesso che<br />

si riesca a trovare il “come” istituire questo fantomatico stato <strong>di</strong> pace, a “chi” spetterebbe il<br />

compito <strong>di</strong> farlo? A una nazione, ad un’organizzazione internazionale, ad una Chiesa? Non<br />

sono forse queste tutte istituzioni “umane”? E quale sicurezza potrebbe derivare da uno stato<br />

<strong>di</strong> pace istituito da uomini che, come tutti gli altri, non sono in grado <strong>di</strong> guardare ai propri<br />

simili con sincero interessamento? Negare all’uomo ogni possibilità <strong>di</strong> amore verso il prossimo<br />

e la capacità <strong>di</strong> mantenere uno stato <strong>di</strong> pace senza celare implicite ostilità equivale,<br />

secondo me, a negare la ragione. Hobbes credeva che nello Stato <strong>di</strong> natura prevalesse il <strong>di</strong>ritto<br />

<strong>di</strong> tutti su tutto, espressione <strong>di</strong> quella “cupi<strong>di</strong>tas naturalis” che è postulato certissimo della<br />

natura umana: quale <strong>di</strong>fferenza c’è, dunque, tra lo Stato <strong>di</strong> natura degli uomini e quello<br />

abituale degli animali? Per non parlare poi della “ratio naturalis”, che i più potrebbero<br />

banalmente leggere come istinto <strong>di</strong> sopravvivenza che, fino a prova contraria, hanno anche<br />

gli animali. Sarebbe dunque, come <strong>di</strong>ce Hobbes, soltanto la ragione calcolatrice e capace<br />

<strong>di</strong> previsioni a colmare l’abisso tra l’uomo e l’animale? Dopo anni e anni <strong>di</strong> evoluzione, l’umanità<br />

si sarebbe auto-annientata, se l’uomo non avesse trovato, per una qualche fortunata<br />

coincidenza, il modo <strong>di</strong> controllare i propri impulsi attraverso la legge? È vero, se guar<strong>di</strong>amo<br />

alla nostra storia con luci<strong>di</strong>tà, non possiamo non accorgerci che ci sono state più guerre<br />

che perio<strong>di</strong> <strong>di</strong> pace, e che anche oggi, nel mondo che noi altezzosamente chiamiamo “civilizzato”,<br />

non si riesce a trovare un equilibrio, un’armonia. Tuttavia credo che spiegare tutto<br />

questo con la semplice “incapacità” dell’uomo a comportarsi <strong>di</strong>versamente, sia un modo<br />

subdolo <strong>di</strong> giustificarlo. Non facciamo come i Manichei, che riconducevano tutti gli sbagli<br />

umani alla natura intrinsecamente malvagia dell’uomo! Sant’Agostino non ci ha messo molto<br />

a rendersi conto che si trattava <strong>di</strong> idee giustificatrici e inconcludenti.<br />

Veniamo dunque ad una conclusione: il fatto che l’uomo sia sempre in guerra non vuol<br />

<strong>di</strong>re che non sia in grado <strong>di</strong> stabilire la pace. Non si tratta <strong>di</strong> incapacità, ma <strong>di</strong> “debolezza”.<br />

Ci sono state persone straor<strong>di</strong>narie, che per la pace e la fratellanza universali sono morte:<br />

non erano forse questi, uomini e donne, come tutti gli altri? Lo stato <strong>di</strong> natura, per <strong>di</strong>rla<br />

con Chabod, è un’ipotesi: l’uomo si è sempre trovato a dover interagire con il suo simile, e<br />

la storia e la scienza ci <strong>di</strong>cono che anche gli uomini preistorici erano vissuti in comunità.<br />

Certo, è innegabile che una delle ragioni che li ha spinti a raggrupparsi è stata la necessità,<br />

tuttavia non è stata l’unica: la curiosità per i propri simili, il desiderio <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo sono scritti<br />

nella nostra natura, ed hanno svolto la loro parte. Né lo stato <strong>di</strong> pace, né lo stato <strong>di</strong> guerra, sono<br />

stati <strong>di</strong> natura, perché questo tanto <strong>di</strong>scusso stato <strong>di</strong> natura non esiste. Esiste l’uomo, con la<br />

sua razionalità e le sue passioni: egli può scegliere quale delle due seguire, e da questa scelta<br />

<strong>di</strong>penderanno i suoi rapporti con gli altri. Nella storia le passioni hanno prevalso, ma questo<br />

non vuol <strong>di</strong>re che gli uomini non sapessero cosa stessero facendo: tra bene e male gli uomini<br />

hanno scelto il male, perché l’hanno trovato più conveniente, e non perché non siano riusciti<br />

a riconoscerlo come tale. Non si tratta che <strong>di</strong> questo, del “non voler” seguire la via giusta in<br />

luogo <strong>di</strong> quella più conveniente: ogni volta che l’uomo sceglie il male piuttosto che il bene,<br />

l’o<strong>di</strong>o invece dell’amore, egli fallisce miseramente, e la sconfitta che da solo si infligge lacera<br />

la sua anima più profondamente <strong>di</strong> qualsiasi ferita provocata da un nemico al suo corpo.<br />

Francesco Orlando classe 3 a liceo classico sez. N – a.s. <strong>2008</strong>/2009<br />

Traccia: “Come è possibile che le matematiche, le quali in fondo sono un prodotto del<br />

pensiero umano, <strong>di</strong>pendente dall’esperienza, siano così mirabilmente adatte agli oggetti della<br />

realtà? È forse la ragione umana, al <strong>di</strong> fuori dell’esperienza, e solo col pensiero, in grado <strong>di</strong><br />

– 126 –


toccare a fondo le proprietà del reale?”. – A. Einstein, Conferenza all’Accademia Prussiana<br />

delle Scienze nel 1921.<br />

Svolgimento:<br />

“Toccare a fondo le proprietà del reale” significa propriamente sapere dell’Essere in sé,<br />

ambito dell’epistemologia affidato, da Aristotele, alla Metafisica e poi, a seguito della<br />

rivoluzione scientifica, conquistato progressivamente dal sapere scientifico, <strong>di</strong>stinto dalla<br />

speculazione filosofica essenzialmente per la <strong>di</strong>versità qualitativa dei quesiti che programmaticamente<br />

si propone <strong>di</strong> risolvere: com’è possibile che...?, anziché: perché ciò è come è,<br />

e non può essere altrimenti? Qualitativamente è anche <strong>di</strong>verso il metodo operativo: mentre<br />

la metafisica parte da princìpi logici a priori assunti per veri, onde evitare <strong>di</strong> scadere in un<br />

inutile scetticismo assoluto, dei quali è convenzione accertarne la veri<strong>di</strong>cità (cfr. il “principio<br />

<strong>di</strong> non contrad<strong>di</strong>zione”, logicamente vero per il nostro intelletto, ma non per la realtà esterna),<br />

la scienza, grazie al metodo scientifico, sicuramente muove da postulati analitici, ma indaga<br />

sulla realtà avanzando ipotesi, che sono empiricamente confermate da esperimenti che<br />

con<strong>di</strong>vidono almeno una medesima caratteristica: dunque, lo scibile non è sostenuto da<br />

una struttura convenzionale, ma da un confronto con l’esperienza, che ri<strong>di</strong>mensiona la<br />

razionalità umana.<br />

La matematica è la funzione che meglio sintetizza in sé la necessità <strong>di</strong> <strong>di</strong>sporre, in<br />

un or<strong>di</strong>ne spazio-temporale (Kant), i fenomeni percepiti dall’intelletto e l’indefinita contingenza<br />

del molteplice, <strong>di</strong> per sé <strong>di</strong>sorganizzato, se nessuno ne coglie l’or<strong>di</strong>ne. L’or<strong>di</strong>ne,<br />

infatti, sottintende delle relazioni alle quali la matematica sembra essere il linguaggio più<br />

affine. Il risultato è la fisica moderna, la geometria non euclidea e tutto il sapere che si<br />

esprime in un linguaggio che va <strong>di</strong> pari passo con la ragione, kantianamente intesa, per li<strong>di</strong><br />

dove si parla <strong>di</strong> “cosa in sé” e non <strong>di</strong> dati sensibili. Pertanto, come la razionalità filosofica<br />

manifesta il criticismo per ciò che è oltre lo scibile, la matematica è la funzione-interfaccia<br />

tra il nostro intelletto, ricercatore <strong>di</strong> relazioni universali, e l’indefinito campo dell’infinito.<br />

– 127 –


Attività <strong>di</strong> ricerca<br />

sull’equazione dell’iperbole<br />

riferita agli asintoti<br />

Il lavoro <strong>di</strong> ricerca che segue ha come argomento una <strong>di</strong>mostrazione che, utilizzando<br />

la geometria sintetica e tecniche <strong>di</strong> calcolo elementari, permette <strong>di</strong> ricavare in<br />

modo semplice e rapido l’equazione dell’iperbole equilatera riferita agli asintoti in<br />

alternativa ad altri proce<strong>di</strong>menti tra<strong>di</strong>zionali.<br />

Prof.ssa Elisa Valcavi<br />

INTRODUZIONE<br />

Tema principale dello stu<strong>di</strong>o della matematica nel II liceo classico è la geometria<br />

analitica. Con la geometria analitica si mettono in relazione le proprietà algebriche <strong>di</strong><br />

un’equazione con le corrispondenti proprietà geometriche delle curve che le rappresentano<br />

sul piano cartesiano. Le coniche sono appunto delle curve che vengono analizzate<br />

utilizzando le tecniche della geometria analitica. Queste curve si chiamano così perché<br />

si formano dall’intersezione nello spazio <strong>di</strong> una superficie conica con una superficie<br />

piana e una <strong>di</strong> queste curve è appunto l’iperbole. Esse vengono introdotte come luoghi<br />

geometrici cioè come insieme <strong>di</strong> punti del piano che gode <strong>di</strong> una determinata proprietà.<br />

Da qui la definizione geometrica dell’iperbole: assegnati nel piano due punti F 1 ed F 2,<br />

detti fuochi, si chiama iperbole la curva piana luogo geometrico dei punti P che<br />

hanno costante la <strong>di</strong>fferenza delle <strong>di</strong>stanze da F 1 e da F 2. In base a questa definizione<br />

appaiono chiari gli assi <strong>di</strong> simmetria della figura: il primo corrisponde alla retta passante<br />

per i fuochi ed il secondo alla sua perpen<strong>di</strong>colare passante per il punto me<strong>di</strong>o tra i due<br />

fuochi (centro <strong>di</strong> simmetria dell’iperbole). A questo punto, per stu<strong>di</strong>are l’equazione che<br />

rappresenta questa curva, dobbiamo introdurre un sistema <strong>di</strong> riferimento cartesiano e, se<br />

vogliamo scegliere il più congeniale, faremo in modo che gli assi cartesiani coincidano<br />

con gli assi <strong>di</strong> simmetria. Pertanto se i fuochi si trovano sull’asse delle ascisse, detta 2c<br />

la <strong>di</strong>stanza tra i fuochi, le loro coor<strong>di</strong>nate saranno F 1(-c;0) ed F 2(+c;0) e, detta 2a la<br />

<strong>di</strong>fferenza delle <strong>di</strong>stanze dai fuochi del punto P(x;y), l’equazione dell’iperbole con<br />

gli assi cartesiani coincidenti con gli assi <strong>di</strong> simmetria (equazione canonica) sarà:<br />

x 2<br />

a 2<br />

y 2<br />

b 2<br />

__ - __<br />

= l, con b 2<br />

= c 2 -a 2 .<br />

La simmetria dell’iperbole<br />

rispetto agli assi cartesiani<br />

si ritrova nell’equazione che<br />

la rappresenta in quanto la variabile<br />

x e la variabile y compaiono<br />

solo elevate al quadrato<br />

e quin<strong>di</strong>, se P(x;y) è un punto<br />

dell’iperbole, anche P’(-x;y),<br />

P’’(x;-y) e P’’’(-x;-y) saranno<br />

punti dell’iperbole.<br />

– 128 –


Tutte le caratteristiche della figura geometrica sono in relazione con le proprietà<br />

dell’equazione ed in particolare, solo nel caso dell’iperbole, noi possiamo introdurre un<br />

nuovo concetto matematico: gli<br />

asintoti dell’iperbole. Se si considerano<br />

le rette <strong>di</strong> equazione:<br />

b -b<br />

y = _ x e y = __ x<br />

a a<br />

Tutti i punti dell’iperbole<br />

sono interni alle porzioni <strong>di</strong> piano<br />

delimitate dagli asintoti ed<br />

inoltre “la curva, allontanandosi<br />

dall’origine, si avvicina sempre<br />

<strong>di</strong> più a queste rette senza mai<br />

intersecarle”.<br />

Nel caso particolare in cui a=b, l’equazione dell’iperbole <strong>di</strong>venta: x 2 -y 2<br />

=a 2 e gli asintoti<br />

coincidono con le bisettrici del I e III<br />

quadrante e del II e IV quadrante con<br />

equazione y = x e y = -x. La cosa interessante<br />

è che, essendo queste bisettrici<br />

perpen<strong>di</strong>colari tra loro, si può<br />

stu<strong>di</strong>are come cambi l’equazione<br />

dell’iperbole se si cambia sistema <strong>di</strong><br />

riferimento scegliendo come assi<br />

cartesiani gli asintoti della curva. Se<br />

chiamiamo OX’Y’ il sistema <strong>di</strong> riferimento<br />

che ha per assi gli asintoti,<br />

le proiezioni ortogonali del punto P<br />

sugli assi saranno per definizione le<br />

sue coor<strong>di</strong>nate x’ e y’.<br />

Nel nuovo sistema <strong>di</strong> riferimento l’equazione<br />

è x’y’=k dove k è una costante, pertanto l’iperbole<br />

equilatera in questo nuovo sistema <strong>di</strong> riferimento<br />

è la rappresentazione grafica <strong>di</strong> due grandezze<br />

inversamente proporzionali tra loro.<br />

– 129 –


HP: P appartenente all’iperbole<br />

equilatera <strong>di</strong> equazione<br />

x 2 - y 2<br />

= a 2 nel sistema <strong>di</strong><br />

riferimento OXY, con gli<br />

assi cartesiani coincidenti<br />

con gli assi <strong>di</strong> simmetria.<br />

TH: Nel sistema <strong>di</strong> riferimento<br />

OX’Y’, con gli assi cartesiani<br />

coincidenti con<br />

gli asintoti, le coor<strong>di</strong>nate<br />

del punto P sod<strong>di</strong>sfano<br />

l’equazione x’y’ = k, con<br />

EQUAZIONE DELL’IPERBOLE EQUILATERA<br />

RIFERITA AGLI ASINTOTI<br />

a 2<br />

k = __<br />

2<br />

DIMOSTRAZIONE<br />

Considero il triangolo rettangolo isoscele OEF<br />

___ ___ _<br />

OF = OE √ 2 per il teorema <strong>di</strong> Pitagora.<br />

Essendo , α=PÂF perché angoli corrispondenti rispetto alle parallele EO e PB e alla trasversale<br />

OF, anche il triangolo APF è un triangolo rettangolo isoscele e pertanto l’altezza<br />

PH, relativa all’ipotenusa, lo <strong>di</strong>viderà in due triangoli rettangoli isosceli.<br />

Considero il triangolo rettangolo isoscele PHF con HF = ~ PH.<br />

Essendo<br />

___ ___<br />

OE = y’ e OB = x’<br />

___ ___<br />

PH = y e OH = x<br />

si avrà<br />

___ ___ ___<br />

y’ OF ___ OH+HF x+y<br />

= _ ________ ____<br />

= _ = _<br />

√ 2 √ 2 √ 2<br />

Considero il triangolo rettangolo isoscele OAB<br />

___ ___ _<br />

OA = OB √ 2 per il teorema <strong>di</strong> Pitagora.<br />

– 130 –


Essendo PH altezza del triangolo isoscele APF, poiché l’altezza è anche me<strong>di</strong>ana, si<br />

avrà:<br />

___ ___ __<br />

x’ OA __ OH-AH x-y<br />

= _ _______ ___<br />

= _ = _ .<br />

√ 2 √ 2 √ 2<br />

Scomponendo in fattori: x 2 -y 2<br />

= (x-y)(x+y).<br />

_ _<br />

Essendo: x-y = x’√ 2 e x+y = y’√ 2,<br />

sostituendo si avrà: x 2 -y 2<br />

= 2x’ y’.<br />

Ma poiché x 2 -y 2<br />

= a 2 per ipotesi, sarà 2x’ y’ = a 2 .<br />

a 2<br />

Pertanto x’ y’ __<br />

= c.v.d.<br />

2<br />

– 131 –<br />

Francesco Lancellotti III C


MAURIZIO CASTELLAN<br />

Miscellanea <strong>di</strong> matematica<br />

INTRODUZIONE<br />

Il primo contributo è un argomento <strong>di</strong> goniometria: si offre una trattazione generale della<br />

risoluzione delle equazioni goniometriche omogenee <strong>di</strong> primo e <strong>di</strong> secondo grado.<br />

Il secondo contributo è una variante <strong>di</strong> un classico problema <strong>di</strong> Matematica ricreativa<br />

noto come il problema della “scacchiera mutilata”.<br />

Il terzo contributo tratta alcune proprietà delle operazioni nell’insieme dei numeri<br />

naturali.<br />

Il quarto contributo si occupa <strong>di</strong> un teorema che utilizza solo i primi assiomi della<br />

Geometria Euclidea (Geometria Assoluta).<br />

ATTIVITÀ DI RICERCA N° 1<br />

Premessa<br />

• Si <strong>di</strong>ce equazione omogenea <strong>di</strong> primo grado in seno e coseno ogni equazione della<br />

forma:<br />

a sin x+b cos x = 0<br />

• Si <strong>di</strong>ce equazione omogenea <strong>di</strong> secondo grado in seno e coseno ogni equazione della<br />

forma:<br />

a sin 2 x+b sin x cos x+c cos 2 x = 0<br />

Il proce<strong>di</strong>mento or<strong>di</strong>nario per la loro risoluzione è il passaggio alle equazioni che si<br />

ottengono <strong>di</strong>videndo membro a membro per cos x per le equazioni <strong>di</strong> 1° grado e cos 2 x per<br />

quelle <strong>di</strong> 2° grado, ottenendo così (essendo tgx = ___ sen x ) le equazioni in tgx seguenti:<br />

cos x<br />

atgx+b = 0<br />

atg 2 x+btg+c = 0<br />

Queste due equazioni sono equivalenti a quelle <strong>di</strong> partenze nel dominio<br />

D = R-{x|x = (2k+1)90 0 , con k ∈ Z}<br />

notiamo infatti che per i valori x = (2k+1)90 0 , con k ∈ Z il primo membro delle equazioni in<br />

tgx perdono <strong>di</strong> significato (tgx non è definita in tali valori) mentre non perdono significato<br />

le equazioni <strong>di</strong> partenza. Se si vogliono conoscere le soluzioni delle equazioni <strong>di</strong> partenza in<br />

tutto R alle soluzioni delle equazioni in tg occorre aggiungere le eventuali soluzioni del tipo<br />

x = (2k+1)90 0 , con k ∈ Z.<br />

– 132 –


Le note che seguono stabiliscono in quali casi le equazioni <strong>di</strong> partenza hanno soluzioni<br />

<strong>di</strong> questo tipo.<br />

Equazioni omogenee <strong>di</strong> 1° grado.<br />

Proposizione 1<br />

Una equazione omogenea <strong>di</strong> primo grado in seno e coseno: a sin x+b cos x = 0<br />

ha soluzioni del tipo x = (2k+1)90 0 , con k ∈ Z sse a = 0<br />

Dim.<br />

a sin ((2k+1)90 0 )+b cos ((2k+1)90 0 ) = 0<br />

± a+0 = 0<br />

quin<strong>di</strong> ci sono soluzioni del tipo x = (2k+1)90 0 , con k ∈ Z se e soltanto se a = 0.<br />

Proposizione 2<br />

Data una equazione omogenea <strong>di</strong> secondo grado in seno e coseno:<br />

a sin 2 x+b sin x cos x+c cos 2 x = 0<br />

(i) se a = 0 l’equazione in tg(x) associata è lineare: btgx+c = 0,<br />

i valori del tipo x = (2k+1)90 0 , con k ∈ Z sono soluzioni;<br />

(ii) se a ≠ 0 l’equazione in tg(x) associata è <strong>di</strong> secondo grado: atg 2 x+btg+c = 0,<br />

i valori del tipo x = (2k+1)90 0 , con k ∈ Z non sono soluzioni<br />

Dim.(i) a = 0<br />

b sin x cos x+c cos 2 ________________ x ____ 0<br />

=<br />

cos 2 x cos 2 x<br />

e<br />

btgx+c = 0<br />

b sin ((2k+1)90 0 ) cos ((2k+1)90 0 )+b cos 2 ((2k+1)90 0 ) = 0<br />

Dim.(ii) a ≠ 0<br />

a sin 2 x+b sin x cos x+c cos 2 x 0<br />

______________________ = ____<br />

cos 2 x cos 2 x<br />

atg 2 x btg+c = 0<br />

– 133 –


e<br />

a sin 2 x+b sin x cos x+c cos 2 x = 0<br />

a sin 2 ((2k+1)90 0 )+b sin ((2k+1)90 0 ) cos ((2k+1)90 0 )+c cos 2 ((2k+1)90 0 ) = 0<br />

a = 0<br />

Silvia Fe<strong>di</strong><br />

classe 2ª H (P.N.I.), a.s. <strong>2008</strong>-2009<br />

ATTIVITÀ DI RICERCA N° 2<br />

Introduzione<br />

Come è noto il problema <strong>di</strong> matematica ricreativa soprannominato “il problema della<br />

scacchiera mutilata” [1] nasce dalla domanda: “se si eliminano le due caselle bianche poste<br />

ai vertici <strong>di</strong> una scacchiera 8×8 è possibile ricoprire esattamente senza sovrapposizioni la<br />

superficie restante con 31 tesserine rettangolari <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni 1 e 2 volte il lato <strong>di</strong> una<br />

casella?”<br />

La risposta è no e lo si può provare con il seguente semplice ragionamento [1].<br />

Si parte dalla considerazione ovvia che ogni tesserina posta sulla scacchiera copre sempre<br />

una casella nera e una casella bianca; ne segue che dopo aver utilizzato le prime 30 tesserine<br />

sono state coperte 30 caselle nere e 30 caselle bianche: restano scoperte solo due caselle<br />

entrambe <strong>di</strong> colore nero che l’ultima tesserina non potrà mai ricoprire!<br />

Con il medesimo ragionamento si prova che il problema non ha soluzione anche nel<br />

caso le due caselle asportate, purché dello stesso colore, non siano ai vertici della scacchiera.<br />

Si può inoltre provare che se le tessere sono <strong>di</strong> colore <strong>di</strong>fferente il problema ha sempre<br />

soluzione.<br />

Tutto ciò può essere espresso nel seguente modo:<br />

Proposizione 1<br />

Con<strong>di</strong>zione necessaria e sufficiente affinché la scacchiera<br />

mutilata sia ricoperta dalle tesserine è che le due caselle tolte siano<br />

<strong>di</strong> colore <strong>di</strong>fferente.<br />

Proviamo ora a generalizzare il problema con una scacchiera<br />

6×6 che si vuole ricoprire con tasselli <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni 1 e 3 volte il lato<br />

<strong>di</strong> una casella, dopo aver eliminato tre caselle in alto a sinistra come<br />

in figura:<br />

– 134 –


Proposizione 2<br />

Non è possibile tassellare la superficie in figura con tasselli 1×3<br />

Dimostrazione<br />

Si può utilizzare il ragionamento fatto all’inizio per la scacchiera<br />

mutilata, utilizzando però 3 colori.<br />

Si parte dalla considerazione ovvia che ogni tesserina posta sulla<br />

scacchiera copre sempre una casella nera, una casella bianca e<br />

una grigia; ne segue che dopo aver utilizzato le prime 10 tesserine<br />

sono state coperte 10 caselle nere, 10 caselle bianche e 10 caselle<br />

grigie: restano scoperte due caselle grigie e una nera che l’ultima<br />

tesserina non potrà mai ricoprire!<br />

Con il medesimo ragionamento si prova che il problema non ha<br />

soluzione anche nel caso le tre caselle asportate, purché due dello stesso colore, non siano<br />

quelle in alto a destra..<br />

Osserviamo infine che in questa variante, a <strong>di</strong>fferenza del caso classico, se si tolgono<br />

tre caselle <strong>di</strong> colore <strong>di</strong>fferenti, la soluzione del problema non è garantita, come risulta nel<br />

seguente esempio:<br />

Bibliografia:<br />

La casella A non può essere tassellata.<br />

[1] M. GARDNER, Enigmi e giochi matematici, Vol. 1, Sansoni, Firenze 1972.<br />

ATTIVITÀ DI RICERCA N° 3<br />

Premessa<br />

Elenchiamo alcune definizioni ed assiomi dei numeri naturali.<br />

– 135 –<br />

Fabio Moricca<br />

classe 4ª H (P.N.I.), a.s. <strong>2008</strong>-2009


a-b = c se b+c = a<br />

Definizione <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza<br />

Assioma (proprietà <strong>di</strong>stributiva del prodotto rispetto alla somma)<br />

a (b+c) = ab+ac<br />

Siamo ora in grado <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare il seguente teorema<br />

Teorema (proprietà <strong>di</strong>stributiva del prodotto rispetto alla <strong>di</strong>fferenza)<br />

a (b-c) = ab-ac<br />

Dimostrazione<br />

Proviamo a sommare ac e a(b-c):<br />

ac+a(b-c) per l’assioma si ha: ac+a(b-c) = a(c+(b-c)) e per la definizione <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza:<br />

ac+a(b-c) = a(c+(b-c)) = ab; ma allora ancora per la definizione <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza applicata a<br />

ac e ab si ha: ab-ac = a(b-c).<br />

Q.E.D.<br />

ATTIVITÀ DI RICERCA N° 4<br />

Premessa<br />

Simone Moretti<br />

classe 4ª H (P.N.I.), a.s. <strong>2008</strong>-2009<br />

Elenchiamo gli assiomi della geometria Euclidea che verranno utilizzati.<br />

Assiomi <strong>di</strong> appartenenza<br />

0) Esistono almeno due punti <strong>di</strong>stinti.<br />

1) Ogni coppia <strong>di</strong> punti A e B <strong>di</strong>stinti appartiene ad una e una sola retta.<br />

2) Data una retta r, esiste almeno un punto che non appartiene ad r.<br />

3) Data una retta r esistono almeno due punti <strong>di</strong>stinti che appartengono ad r.<br />

Assiomi <strong>di</strong> or<strong>di</strong>namento<br />

4) Data una retta r e due suoi punti P e Q esiste un punto della retta S compreso tra P e Q.<br />

– 136 –


Teorema<br />

Per ogni punto P esistono due rette che non lo contengono.<br />

Dimostrazione<br />

Considerato il punto P, per l’assioma (0) esiste almeno un altro punto Q <strong>di</strong>stinto da P, e<br />

per l’assioma (1) esiste la retta r che passa per P e per Q.<br />

Per l’assioma (4) esiste sulla retta r un punto Z compreso tra P e Q, e per l’assioma (2),<br />

un punto B esterno alla retta r.<br />

Ancora per l’assioma (1) esistono la retta s passante per B e Q e la retta t passante per B<br />

e Z.<br />

Ora la retta s non può passare per P, altrimenti le rette s e r per l’assioma (1) (passando<br />

ambedue per P e Q) dovrebbero coincidere, con la conseguenza che anche B apparterrebbe<br />

alla retta r, ma questo è assurdo perché B è esterno alla retta r. Analogamente si <strong>di</strong>mostra che<br />

P non appartiene alla retta t.<br />

Q.E.D.<br />

– 137 –<br />

Ludovica Gallo<br />

Violetta Tulelli<br />

GiorgioPiccinini<br />

Valerio Vitali<br />

Giulia Scalia<br />

classe 4ª H (P.N.I.), a.s. <strong>2008</strong>-2009


MARCO PESCETELLI<br />

Lezione sul genere poetico<br />

Ho letto le vostre definizioni <strong>di</strong> poesia (una ventina <strong>di</strong> foglietti in tutto). Quello che<br />

ne viene fuori, giustamente, è un quadro molto variegato, composto <strong>di</strong> corrispondenze, ma<br />

anche <strong>di</strong> contrasti. Si oscilla tra un’idea <strong>di</strong> poesia come espressione imme<strong>di</strong>ata <strong>di</strong> sentimenti<br />

a un’idea <strong>di</strong> poesia come espressione me<strong>di</strong>ata <strong>di</strong> pensieri, si oscilla tra un’idea <strong>di</strong> poesia come<br />

attività facile, naturale a un’idea <strong>di</strong> poesia come tormento. E ci sono tante altre polarità:<br />

• poesia come regno della soggettività, oppure<br />

• poesia come regno dell’assoluta oggettività.<br />

Qualcuno ha scritto: «La poesia è quel mezzo che permette <strong>di</strong> esprimere ciò che è veramente<br />

importante agli occhi del poeta e su cui, sempre a suo parere, è opportuno riflettere».<br />

Dunque assoluta soggettività. Qualcun altro invece ha scritto: «La poesia è un insieme <strong>di</strong><br />

immagini che colpiscono il poeta senza che sia lui a cercarle. Non è sostitutiva della vita, ma<br />

è una <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong>versa, un altro modo <strong>di</strong> vedere il mondo, senza fare scelte, ma fotografando<br />

la realtà nel suo insieme». Qui la poesia è paragonata alla fotografia. E coerentemente<br />

viene descritta come «un insieme <strong>di</strong> immagini che colpiscono il poeta senza che sia lui a<br />

cercarle», dunque un movimento dall’esterno verso l’interno, come se queste immagini<br />

fossero la luce che s’imprime su una pellicola fotografica. Assoluta oggettività. Ho poi trovato<br />

definizioni <strong>di</strong> poesia come evasione, da una parte, e <strong>di</strong> poesia come azione, dall’altra. «La<br />

poesia è evasione, è un mondo incantato» ho letto su un foglietto, «è un viaggio intellettuale<br />

che ti fa evadere dalla Realtà». Su un altro foglio invece ho letto: «poesia è fare, creare qualcosa<br />

<strong>di</strong> nuovo e <strong>di</strong> vivo». E credo che questa affermazione non si riferisca soltanto all’ambito<br />

letterario, cioè «creare qualcosa <strong>di</strong> nuovo e <strong>di</strong> vivo» nella tra<strong>di</strong>zione letteraria, ma forse si<br />

riferisce anche all’impatto che una poesia può avere sulla realtà.<br />

David Maria Turoldo ha scritto:<br />

[...] un solo verso,<br />

fessura sull’infinito come<br />

il costato aperto <strong>di</strong> Cristo -, anche<br />

un solo verso può fare<br />

«più grande l’universo». (ST, In ricordo <strong>di</strong> Pessoa 9-13).<br />

Dunque un verso può allargare, può espandere l’universo, e non solo quello letterario.<br />

Altrove Turoldo ha scritto che<br />

Poesia<br />

è rifare il mondo, dopo<br />

il <strong>di</strong>scorso devastatore<br />

del mercadante (ST, Poesia).<br />

Quin<strong>di</strong> la poesia sarebbe una riformulazione più umana del mondo. Turoldo, come il<br />

suo amico Pasolini, era un poeta civile. Entrambi credevano seriamente nella possibilità <strong>di</strong><br />

cambiare le cose attraverso le parole, ed entrambi, seppur in modo <strong>di</strong>verso, hanno pagato<br />

il prezzo <strong>di</strong> questa convinzione. Credo però che gran parte della poesia – per non <strong>di</strong>re tutta –<br />

sia, in ultima analisi, poesia civile, in quanto alternativa appunto al <strong>di</strong>scorso del mercadante,<br />

alternativa al vuoto <strong>di</strong> senso <strong>di</strong> altri linguaggi, come quello me<strong>di</strong>atico, ad esempio.<br />

– 138 –


Continuiamo la rassegna delle vostre definizioni. Alcune pongono problemi interpretativi,<br />

ermeneutici. Uno <strong>di</strong> voi ha fatto precedere alla definizione <strong>di</strong> poesia tre domande retoriche:<br />

«Si può definire la poesia? Si può pretendere <strong>di</strong> capire l’espressione più irrazionale d’un<br />

uomo? Si può essere certi nel trovare un significato?». La risposta implicita, ovviamente, è<br />

“no”, infatti conclude: «La poesia è una frase ambigua che ognuno capisce in modo <strong>di</strong>verso...»<br />

(e quest’affermazione termina con tre puntini <strong>di</strong> sospensione, come a rappresentare l’ambiguità<br />

della poesia e tutte le sue possibili interpretazioni). E qualcuno ha ad<strong>di</strong>rittura usato i tre<br />

puntini <strong>di</strong> sospensione come definizione <strong>di</strong> poesia: «Poesia è...». Poesia sarebbe ambiguità,<br />

e <strong>di</strong> qui il relativismo che investe ogni possibile interpretazione. Mi viene in mente quel che<br />

<strong>di</strong>ceva Calvino a proposito della fiaba: chi comanda al racconto non è la voce, è l’orecchio.<br />

E quin<strong>di</strong> è chi ascolta, o chi legge ad avere un ruolo determinante in quello scambio <strong>di</strong> produzione<br />

e ricezione che è la letteratura.<br />

Ora vorrei che foste voi a leggere quello che avete scritto. Vorrei provare a fare <strong>di</strong>alogare<br />

le varie definizioni <strong>di</strong> poesia:<br />

(definizioni dei ragazzi)<br />

sentimento, emozione, imme<strong>di</strong>atezza, soggettività<br />

• È la capacità <strong>di</strong> esprimere le proprie emozioni più profonde.<br />

Espressione del sentimento interiore (Ungaretti, Montale, Neruda, Brecht).<br />

• La poesia per me è l’espressione imme<strong>di</strong>ata <strong>di</strong> sentimenti vissuti dall’autore che quasi<br />

spontaneamente, per necessità, vengono fuori e vanno trasposti. È questa quin<strong>di</strong> un’esperienza<br />

personale (Montale, Ungaretti, Pascoli, D’Annunzio).<br />

• La poesia è una forma <strong>di</strong> espressione nella quale l’artista cerca <strong>di</strong> esprimere la sua forma<br />

più intima <strong>di</strong> pensiero.<br />

...specchio dell’anima... (Ungaretti, Primo Levi, Quasimodo, Brecht).<br />

• La poesia è l’espressione <strong>di</strong> sentimenti, situazioni, stati d’animo (Montale, Ungaretti,<br />

D’Annunzio, Pascoli).<br />

• Forse è l’espressione dei movimenti dell’anima <strong>di</strong> una persona, anche se propriamente<br />

non so cosa intendo (Ungaretti, Whitman, D’Annunzio, Cechov, Brecht).<br />

• La poesia è una sensazione che nasce dal <strong>di</strong> dentro, è la descrizione <strong>di</strong> un’emozione. Lega<br />

la scrittura, le parole, con i sentimenti.<br />

• È un modo abbastanza libero per esprimere <strong>di</strong>rettamente le proprie sensazioni, emozioni,<br />

problemi, etc... senza dover per forza razionalizzare il tutto.<br />

Cosa accomuna queste definizioni? Qui l’essenza della poesia è colta nel sentimento, nell’emozione.<br />

Poesia sarebbe l’espressione della propria intimità. Sarebbe un’effusione sentimentale,<br />

quasi un travaso su carta della propria interiorità, senza filtri, senza sovrastrutture,<br />

senza me<strong>di</strong>azioni <strong>di</strong> carattere razionale... È una visione, credo, un po’ limitante dell’attività<br />

poetica. Poesia <strong>di</strong>venterebbe sinonimo <strong>di</strong> confessione, se non ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> seduta psicanalitica.<br />

Qualcuno <strong>di</strong> voi ha accennato a un valore terapeutico della poesia: «La poesia è una<br />

– 139 –


forma <strong>di</strong> espressione artistica che permette <strong>di</strong> esprimere i sentimenti, anche quelli più viscerali,<br />

e può aiutare il poeta in <strong>di</strong>ssi<strong>di</strong>o con il mondo». Sottoscrivo, la poesia è una valvola <strong>di</strong><br />

sfogo per chi scrive, ma non esiste soltanto una poesia egocentrica, incentrata sull’io.<br />

Credo che questo pregiu<strong>di</strong>zio - cioè l’abbinamento automatico tra poesia e <strong>di</strong>ario, tra poesia<br />

e lirismo - derivi dal peso che ha avuto nel nostro immaginario l’ermetismo <strong>di</strong> Ungaretti.<br />

Soprattutto l’Ungaretti dell’Allegria. E forse anche il petrarchismo.<br />

Ma la poesia è anche altro.<br />

1. La rottura <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione intesa come <strong>di</strong>scorso lirico incentrato sul soggetto può essere<br />

in<strong>di</strong>viduata nell’opera <strong>di</strong> Aldo Palazzeschi. Egli esce dalle convenzioni seriose del <strong>di</strong>scorso<br />

lirico e propone un tipo <strong>di</strong> poesia decisamente anti-lirica. L’io non è più in primo piano,<br />

il <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>venta impersonale. Spesso vengono messi in paro<strong>di</strong>a i temi lirici tra<strong>di</strong>zionali.<br />

Ve<strong>di</strong> l’esempio (1) qui riportato:<br />

Lasciatemi <strong>di</strong>vertire. Canzonetta:<br />

Tri tri tri<br />

fru fru fru,<br />

uhi uhi uhi<br />

ihu ihu ihu.<br />

Il poeta si <strong>di</strong>verte,<br />

pazzamente,<br />

smisuratamente.<br />

Non lo state a insolentire,<br />

lasciatelo <strong>di</strong>vertire<br />

poveretto,<br />

queste piccole corbellerie<br />

sono il suo <strong>di</strong>letto.<br />

Cucù rurù,<br />

rurù cucù,<br />

cùccu ccurucù!<br />

Cosa sono queste indecenze?<br />

Queste strofe bisbetiche?<br />

Licenze, licenze,<br />

licenze poetiche.<br />

Sono la mia passione.<br />

Fàrafàra farafà,<br />

tàratàra taratà,<br />

pàrapàra parapà,<br />

làralàra laralà!<br />

Sapete cosa sono?<br />

Sono robe avanzate,<br />

non sono grullerie,<br />

sono la... spazzatura<br />

delle altre poesie.<br />

[...]<br />

– 140 –


Insomma, Palazzeschi rompe con la tra<strong>di</strong>zione. Appartiene alla cosiddetta avanguar<strong>di</strong>a<br />

futurista. E nella storia della poesia italiana assistiamo ad un altro momento <strong>di</strong> rottura con la<br />

tra<strong>di</strong>zione, col passato: la neoavanguar<strong>di</strong>a degli anni Sessanta, il famoso Gruppo 63, che ha<br />

avuto tra gli esponenti <strong>di</strong> punta Edoardo Sanguineti. Sanguineti ha scritto recentemente: «Ho<br />

appartenuto a una generazione che aveva la possibilità – una possibilità in cui credevo –<br />

<strong>di</strong> farla finita con il lirismo, con la metafisica della poesia, con tutti i mo<strong>di</strong> del “poetese”, con<br />

la separatezza della poesia». La sua era una guerra contro la poesia intesa come dominio del<br />

sublime, come co<strong>di</strong>ce separato e superiore. Ma non voglio farvi adesso una storia della poesia,<br />

volevo semplicemente ricordare che esistono poesie anti-liriche.<br />

Esempio (2): pren<strong>di</strong>amo Toti Scialoja (un autore contemporaneo, morto pochi anni fa –<br />

1998). Toti Scialoja ha pubblicato un libro <strong>di</strong> versi intitolato Poesie con animali. Sono brevi<br />

testi, quasi filastrocche: «Vive a Zara / anzi vi langue / la zanzara senza zeta / non s’azzarda a<br />

succhiar sangue / ma nient’altro la <strong>di</strong>sseta». È un esempio tra i tanti che si potrebbero fare <strong>di</strong><br />

poesia senza un io in primo piano e senza nessun tipo <strong>di</strong> effusione sentimentale o afflato<br />

lirico. Definire la poesia unicamente come espressione <strong>di</strong> un sentimento significa anche<br />

spogliarla del potenziale ironico che potrebbe avere. E l’ironia, l’anti-lirismo hanno caratterizzato<br />

la poesia <strong>di</strong> tutti tempi, non sono una novità novecentesca.<br />

2. Poesia comica e <strong>di</strong>alettale<br />

Esempio (3): pensate ai poeti comico-realistici del Duecento o a Vincenzo Gioacchino<br />

Belli, il poeta <strong>di</strong>alettale romano. Belli viveva e scriveva nella Roma papalina del primo<br />

Ottocento e le sue poesie ci restituiscono con grande ironia l’ambiente popolare dell’epoca,<br />

intriso <strong>di</strong> una religiosità superficiale, <strong>di</strong> facciata:<br />

Er giorno der giu<strong>di</strong>zzio<br />

Quattro angioloni co’ le tromme ‘n bocca<br />

Se metteranno uno pe’ cantone<br />

A ssonà: poi co’ tanto de vocione<br />

Cominceranno a dì: “Fôra a chi ttocca”.<br />

Allora vierà ssù ‘na filastrocca<br />

De schertri da la terra a pecorone,<br />

Pe’ ripijà ffigura de perzone,<br />

Come purcini attorno de la bbiocca [la biocca è la ‘chioccia’, la gallina che alleva i pulcini]<br />

E ‘sta bbiocca sarà Dio bbenedetto,<br />

Che ne farà ddu’ parte, bianca, e nera:<br />

Una pe annà in cantina, una sur tetto.<br />

All’urtimo uscirà ‘na sonaijera<br />

D’angioli e, come si ss’annassi a letto,<br />

Smorzeranno li lumi, e bbona sera.<br />

Torniamo alle nostre definizioni. Poco fa abbiamo accennato al concetto <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zione letteraria<br />

in rapporto a due momenti <strong>di</strong> frattura: l’avanguar<strong>di</strong>a e la neoavanguar<strong>di</strong>a. Quello che<br />

manca nel gruppo <strong>di</strong> foglietti che abbiamo letto finora è proprio l’ipotesi della profon<strong>di</strong>tà storica<br />

dell’attività poetica, del fatto che se si scrive è perché c’è una tra<strong>di</strong>zione letteraria alle<br />

spalle, e la poesia è innanzitutto un <strong>di</strong>alogo tra poeti, contemporanei o appartenenti a epoche<br />

<strong>di</strong>verse. Se no appiattiamo tutto sul presente, o ancora peggio, sulla <strong>di</strong>mensione in<strong>di</strong>viduale.<br />

– 141 –


Se <strong>di</strong>ciamo che «la poesia è l’espressione imme<strong>di</strong>ata <strong>di</strong> sentimenti vissuti dall’autore<br />

che quasi spontaneamente, per necessità, vengono fuori» esclu<strong>di</strong>amo una comunicazione col<br />

passato e col presente letterario. Promuoviamo un mito <strong>di</strong> verginità creativa, <strong>di</strong> verginità<br />

artistica che non esiste. Calvino <strong>di</strong>ceva che la letteratura è un lavoro in comune. C’è un<br />

canone, insomma, a cui possiamo aderire, o a cui possiamo reagire – come hanno fatto le<br />

avanguar<strong>di</strong>e – ma quello che ci precede e quello che ci sta intorno non lo possiamo ignorare.<br />

Un esempio: nella raccolta Canti ultimi (1991) David Maria Turoldo scrive:<br />

Parole, e segni, e immagini,<br />

ringhiere alle nostre solitu<strong>di</strong>ni (CU, In muta attesa 1-2).<br />

Il senso <strong>di</strong> questi due versi è che le parole, i segni e le immagini possono alleviare il<br />

nostro senso <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne, sono come ringhiere cui possiamo appoggiarci. Ma soffermiamoci<br />

sull’immagine «ringhiere alle nostre solitu<strong>di</strong>ni». Le solitu<strong>di</strong>ni si appoggiano alle ringhiere,<br />

l’immateriale si appoggia al materiale. Questa metafora, se noi an<strong>di</strong>amo a scavare, non è una<br />

pura invenzione <strong>di</strong> Turoldo, non è una genuina espressione del suo mondo interiore, ma è un<br />

vero e proprio topos letterario inaugurato da Corrado Govoni. Govoni all’inizio del Novecento<br />

scrive «La tristezza s’appoggia a una spalliera» 1 (anche qui l’immateriale s’appoggia al<br />

materiale), e pochi anni dopo Giuseppe Ungaretti scriverà i famosi versi della poesia Stasera 2<br />

Balaustrata <strong>di</strong> brezza<br />

per appoggiare stasera<br />

la mia malinconia.<br />

Dunque Govoni, Ungaretti e Turoldo rappresentano tre momenti <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione letteraria.<br />

Tra i loro testi c’è un rapporto <strong>di</strong> parentela. Questo è un esempio <strong>di</strong> come la parola poetica<br />

non sia mai isolata, irrelata. No. La parola poetica è parola plurale (ve<strong>di</strong> AA.VV., Parola<br />

plurale. Sessantaquattro poeti fra due secoli, Sossella, Roma 2005; E. Testa, Dopo la lirica.<br />

Poeti italiani 1960-2000, Einau<strong>di</strong>, Torino 2005). La parola poetica non è parola singolare,<br />

è parola plurale. È parola – potremmo <strong>di</strong>re – ‘abitata’. Abitata dalla tra<strong>di</strong>zione letteraria,<br />

abitata dalla storia (anche contemporanea, ovviamente). Nel caso <strong>di</strong> un poeta religioso come<br />

Turoldo, abitata dalla Bibbia e dalla tra<strong>di</strong>zione mistica. Direi che la parola ‘abitata’ della<br />

poesia è l’esatto contrario della parola ‘<strong>di</strong>sabitata’ <strong>di</strong> certo linguaggio politico attuale in cui<br />

la parola è leggera, senza spessore, detta e contraddetta.<br />

Non vorrei però essere frainteso sostenendo che la poesia è un <strong>di</strong>alogo tra poeti. Non<br />

vorrei che pensaste che la partita si gioca solo su un campo letterario. Mi ha colpito una frase<br />

che è stata letta prima, in cui uno <strong>di</strong> voi ha scritto che la poesia «non è sostitutiva della vita».<br />

Io concordo. La poesia si nutre <strong>di</strong> poesia, ma si nutre anche <strong>di</strong> vissuto. Prima accennavamo<br />

all’impatto della poesia sulla realtà. Ma vale la legge della reversibilità. Non <strong>di</strong>mentichiamo<br />

l’impatto della realtà sulla poesia. [E<strong>di</strong>tore: «continua a leggere»... «io devo continuare a vivere».<br />

Londra-L’infinità decrescente <strong>di</strong> Piermario Giovannone]. Insomma, vedrei il binomio<br />

vita-poesia in termini <strong>di</strong> compenetrazione più che <strong>di</strong> contrapposizione.<br />

Ora vorrei che leggessimo altre definizioni, perché ciò che abbiamo letto finora è troppo<br />

generico, potrebbe valere anche per altre forme <strong>di</strong> espressione artistica, come la musica,<br />

o l’arte figurativa. Possiamo fare una prova. Proviamo a sostituire a “poesia” la parola<br />

“canzone” e a rileggere alcune definizioni: «la canzone è la capacità <strong>di</strong> esprimere le proprie<br />

1 C. Govoni, Crepuscolo ferrarese 23, in Id., Poesie (1903-1959), a c. <strong>di</strong> G. Ravegnani, Milano, Mondadori, 1961,<br />

p. 103.<br />

2 G. Ungaretti, L’Allegria, a c. <strong>di</strong> C. Maggi Romano, Milano, Mondadori, 1982, p. 114.<br />

– 142 –


emozioni più profonde», «la canzone è l’espressione del sentimento interiore». Direi che<br />

funziona. Proviamo a sostituire a “poesia” “pittura” (leggo altre definizioni): «la pittura è<br />

l’espressione <strong>di</strong> sentimenti, situazioni, stati d’animo» (non fa una grinza), «la pittura è un<br />

modo abbastanza libero per esprimere <strong>di</strong>rettamente le proprie sensazioni, emozioni, problemi,<br />

etc... senza dover per forza razionalizzare il tutto». Funziona anche in questo caso. Proviamo<br />

a sostituire a “poesia” la parola – scusate il termine – “incazzatura”: «l’incazzatura è<br />

un modo abbastanza libero per esprimere <strong>di</strong>rettamente le proprie sensazioni, emozioni, problemi,<br />

etc... senza dover per forza razionalizzare il tutto». Purtroppo funziona anche in questo<br />

caso.<br />

Dunque dobbiamo spingerci oltre, dobbiamo cercare altrove lo specifico della poesia, non<br />

perché quello che è stato detto finora sia sbagliato, ma perché non è sufficiente. Sarebbe<br />

riduttivo definire la poesia come personale sfogo emotivo.<br />

Raziocinio<br />

• La poesia è espressione <strong>di</strong> un particolare stato d’animo, <strong>di</strong> un sentimento e della propria<br />

visione del mondo: la poesia è espressione <strong>di</strong> se stessi.<br />

• La poesia è l’espressione della propria visione della vita. La poesia è influenzata dagli<br />

avvenimenti personali dell’artista. Con la poesia egli esprime le sue sensazioni.<br />

• La poesia è un tormentato tentativo <strong>di</strong> mettere per iscritto un determinato pensiero<br />

scaturito da un sentimento più o meno forte, più o meno vano (cfr. Ungaretti).<br />

Siamo ancora nell’ambito del sentimento, della poesia confessionale, ma si affaccia un<br />

nuovo elemento: quello della razionalità, della riflessione raziocinante (compaiono espressioni<br />

come «visione del mondo», «visione della vita»: Weltangshaung...). L’affacciarsi della<br />

componente razionale porta ad<strong>di</strong>rittura all’ipotesi del tormento («la poesia è un tormentato<br />

tentativo <strong>di</strong> mettere per iscritto un determinato pensiero»). Direi che siamo arrivati a bilanciare<br />

la componente irrazionale, emotiva delle precedenti definizioni. Poesia è sentimento,<br />

ma non solo: è anche pensiero. Ma è sufficiente? Proviamo a aggiungere ancora qualche elemento.<br />

Versi, valori ritmico-musicali<br />

• La poesia è un’espressione letteraria in versi in cui il poeta cerca <strong>di</strong> esprimere i suoi<br />

sentimenti più intimi.<br />

• La poesia per me è il tentativo <strong>di</strong> mettere in parole le sensazioni e i sentimenti <strong>di</strong> chi<br />

scrive in una forma letteraria il più possibile armoniosa. Riesce <strong>di</strong>fficile pensare come<br />

essa possa essere spontanea dal momento che il più delle volte le parole vogliono essere<br />

incastrate in rime e metri che richiedono un ragionamento più elaborato del semplice<br />

esprimere pensieri che scaturiscono dall’ispirazione (D’Annunzio, Pascoli, Hardy).<br />

• La poesia è un misto <strong>di</strong> intuizione e tecnica. Il poeta è colui che sa esprimere con<br />

la parola più giusta sistemata nel posto giusto nel verso ciò che intuitivamente viene<br />

provocato in lui da un’esperienza.<br />

• La poesia è una forma <strong>di</strong> espressione che mira alla musicalità e al ren<strong>di</strong>mento dell’aspetto<br />

intimo della personalità del poeta.<br />

– 143 –


In queste definizioni compaiono parole come verso, metro, rima, musicalità, ecc. Siamo<br />

arrivati a una definizione più tecnica <strong>di</strong> poesia, una definizione che contempla i valori ritmicofonici<br />

che caratterizzano da sempre il linguaggio poetico. Gian Luigi Beccaria ha scritto un importante<br />

saggio negli anni Settanta, in piena epoca strutturalista: L’autonomia del significante.<br />

Il significante, come sapete, è la sostanza fonica, la sostanza fonico-acustica<br />

<strong>di</strong> una lingua (se ad esempio voglio nominare quest’oggetto, in italiano mi servirò dei suoni<br />

“foglio”, in inglese dei suoni “sheet”: foglio e sheet sono due significanti). In poesia il significante<br />

assume un’importanza che non ha nel linguaggio parlato e non ha nella prosa. Beccaria<br />

cita un passo <strong>di</strong> un saggio <strong>di</strong> Roland Barthes, che sostiene che tra prosa e poesia ci sia una <strong>di</strong>fferenza<br />

quantitativa e non qualitativa, una <strong>di</strong>fferenza sintetizzabile in una doppia equazione.<br />

Se a, b, e c sono il metro, la rima e le figure <strong>di</strong> suono – es. allitterazione, assonanza, consonanza,<br />

ecc.<br />

Poesia = Prosa +a+b+c<br />

Prosa = Poesia -a-b-c<br />

Un esempio dell’importanza del significante in poesia è il fenomeno del fonosimbolismo.<br />

Sapete cos’è? Il fonosimbolismo è la corrispondenza analogica tra significante e significato.<br />

Il significante asseconda il significato. Il fonosimbolismo è stato definito anche ‘metafora<br />

acustica’. L’esempio più lampante è l’onomatopea: splash. Ma il fonosimbolismo può manifestarsi<br />

anche in altri mo<strong>di</strong>, in modo più <strong>di</strong>screto rispetto all’evidenza sonora dell’onomatopea.<br />

Attraverso l’allitterazione e l’assonanza.<br />

Esempio: può serpeggiare tra le parole <strong>di</strong> interi versi: «Tra l’erba e’ fior venìa la mala<br />

striscia, / volgendo ad ora ad or la testa, e ‘l dosso / leccando come bestia che si liscia». 3 Le<br />

sibilanti <strong>di</strong> testa, dosso, bestia rappresenterebbero i sibili della serpe, mentre i suoni <strong>di</strong> striscia<br />

e liscia suggerirebbero i suoi fruscii. Una simile testura <strong>di</strong> sibilanti ritorna nei versi <strong>di</strong> Diego<br />

Valeri, un poeta del Novecento, ancora una volta collegata allo strisciare <strong>di</strong> una serpe:<br />

«scivolano lungo muri lisci, / <strong>di</strong>leguavano via, serpenti, / con fischi lunghi e lenti strisci...». 4<br />

Il fonosimbolismo è un fenomeno antichissimo, presente già in epoca classica. Si cita<br />

normalmente l’esametro virgiliano «Quàdrupedànte putrèm sonitù quatit ùngula càmpum» (lo<br />

zoccolo percuote il campo polveroso con quadrupede rimbombo), dove il rimbombo degli<br />

zoccoli del cavallo è reso attraverso l’allitterazione <strong>di</strong> dentali (d, t) e velari (k). «Quadrupedante<br />

putrem sonitu quatit ungula campum»: sembra <strong>di</strong> sentire il galoppo del cavallo, reso anche<br />

dalla successione dei pie<strong>di</strong> dattilici. Beccaria, però, avanza l’ipotesi che il significante<br />

in poesia non si limiti ad assecondare il significato, ma assuma una propria in<strong>di</strong>pendenza,<br />

una propria autonomia, fondata sul gioco delle rime, delle assonanze, delle consonanze: una<br />

sorta <strong>di</strong> orchestrazione, <strong>di</strong> sinfonia<br />

Discen<strong>di</strong> all’orizzonte che sovrasta<br />

una tromba <strong>di</strong> piombo, alta sui gorghi,<br />

più d’essi vagabonda: salso nembo<br />

vorticante, soffiato dal ribelle<br />

elemento alle nubi; [...] (E. Montale, «Ossi <strong>di</strong> seppia», Arsenio 13-17)<br />

DiscENDI all’orizzONTE che sovrasta<br />

una trOMBA <strong>di</strong> piOMBO, alta sui gorghi,<br />

più d’essi vagabONDA: salso nEMBO<br />

vorticANTE, soffiato dal rib[elle]<br />

[ele]mento [alle] nubi; [...].<br />

3 Pg VIII 100-102 (valletta dei principi negligenti, Sordello in<strong>di</strong>ca la biscia).<br />

4 D. Valeri, Scherzo e finale, Dicembre 11-13.<br />

– 144 –


È un testo accordato (I-III verso: consonanza en<strong>di</strong>, onda; I-IV: onte, ante; II-III verso: omba,<br />

ombo, embo; IV-V verso: consonanza-assonanza elle, ele, alle). In questo caso il significante<br />

assume un’autonomia dal significato, e <strong>di</strong>venta eventualmente portatore <strong>di</strong> propri significati,<br />

evoca dei significati che appartengono ad una sfera irrazionale, non definibile.<br />

Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,<br />

sorgenti, sorgenti che sanno<br />

sorgenti che sanno che spiriti stanno<br />

che spiriti stanno a ascoltare...<br />

Ascolta: [...] (D. Campana, «Canti orfici», Il canto della tenebra 4-8).<br />

Sembra una formula magica. Questo ritmo regolare e tutte queste iterazioni lessicali<br />

(sorgenti-sorgenti, sanno-sanno, stanno-stanno, ascoltare-ascolta) creano una sorta d’incantesimo<br />

sonoro, <strong>di</strong> «gorgo canoro», come ha scritto De Robertis. E credo che fare luce in questo<br />

gorgo sia pressoché impossibile. Il significante qui sprigiona la sua magia, la sua forza<br />

evocativa.<br />

E leggiamo il terzo testo che ho riportato, <strong>di</strong> Edoardo Sanguineti. La poesia <strong>di</strong> Sanguineti<br />

è una lunga elencazione, costruita su analogie foniche. Un suono genera un altro suono,<br />

un significante origina un altro significante:<br />

nella mia vita ho già visto le giacche, i coleotteri, un inferno stravolto da un Doré 5<br />

il colera, i colori, il mare, i marmi: e una piazza <strong>di</strong> Oslo, e il Grand Hôtel<br />

des Palmes, le buste, i busti:<br />

ho già visto il settemezzo, gli anagrammi, gli ettogrammi,<br />

i panettoni, i corsari, i casini, i monumenti a Mazzini, i pulcini, i bambini,<br />

Ridolini:<br />

ho già visto i fucilati del 3 maggio (ma riprodotti appena in bianco<br />

e nero), i torturati <strong>di</strong> giugno, i massacrati <strong>di</strong> settembre, gli impiccati <strong>di</strong> marzo,<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>cembre: e il sesso <strong>di</strong> mia madre e <strong>di</strong> mio padre: e il vuoto, e il vero, e il verme<br />

inerme, e le terme:<br />

ho già visto il neutrino, il neutrone, con il fotone, con l’elettrone<br />

(in rappresentazione grafica, schematica): con il pentamerone, con l’esamerone: e il sole,<br />

e il sale, e il cancro, e Patty Pravo: e Venere, e la cenere: con il mascarpone (o<br />

mascherpone), con il mascherone, con il mezzocannone: e il mascarpio (lat.), a *manus<br />

carpere:<br />

ma adesso che ti ho vista, vita mia, spegnimi gli occhi con due <strong>di</strong>ta, e basta:<br />

(E. Sanguineti, «Cataletto», 13). 6<br />

Ci son dei giorni smègi e lombi<strong>di</strong>osi<br />

col cielo dagro e un fònzero gongruto<br />

ci son meriggi gnàli<strong>di</strong> e budriosi<br />

che plògidan sul mondo ingrangelluto,<br />

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi<br />

un giorno tutto gnacchi e timparlini,<br />

le nuvole buzzìllano, i bernecchi<br />

ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;<br />

5 Gustave Doré era un incisore francese dell’Ottocento che aveva illustrato la Comme<strong>di</strong>a.<br />

6 E. Sanguineti, Cataletto, 1981 (cataletto è la barella per trasportare i feriti, o la bara).<br />

– 145 –


è un giorno per le vànvere, un festicchio<br />

un giorno carmi<strong>di</strong>oso e pro<strong>di</strong>giero,<br />

è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio<br />

in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.<br />

(F. Maraini, «Gnosi delle Fanfole», Il giorno ad urlapicchio). 7<br />

3. Immagino che non abbiate capito l’80% delle parole. Infatti sono parole inventate. Fosco<br />

Maraini ha definito la propria poesia ‘metasemantica’, nel senso <strong>di</strong> ‘superamento della<br />

semantica’, ‘superamento del significato’. Nei suoi testi si rompe, si scioglie il legame<br />

arbitrario che normalmente lega significante e significato e le parole sono grumi fonici completamente<br />

ine<strong>di</strong>ti, sono suoni puramente evocativi.<br />

E a questo punto voglio citare due definizioni <strong>di</strong> poesia scritte da voi che si ricollegano<br />

a quello che abbiamo appena esemplificato: «Poesia è evocazione», «La poesia si affida al<br />

potere evocativo e <strong>di</strong> analogia <strong>di</strong> parole e suoni».<br />

E a proposito <strong>di</strong> vostre definizioni, su un altro foglietto ho letto che la poesia è la<br />

«massima forma <strong>di</strong> libertà espressiva». Non abbiamo il tempo <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re questo concetto.<br />

Voglio darvi semplicemente due stimoli ‘visivi’. Abbiamo appena esaminato tre stimoli,<br />

per così <strong>di</strong>re, ‘sonori’, ora aggiungerei due stimoli ‘visivi’. Il primo è Il Palombaro <strong>di</strong> Corrado<br />

Govoni, dalla raccolta Rarefazioni e parole in libertà (1915). Il secondo è Un niente <strong>di</strong> Giorgio<br />

Caproni, dalla raccolta Il conte <strong>di</strong> Kevenhüller (1986).<br />

Il palombaro. Se vi procurate il testo, le parole sono scritte a mano in caratteri <strong>di</strong>versi,<br />

in <strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong>verse (in orizzontale, in verticale), sono accompagnate a <strong>di</strong>segni, non ci sono<br />

segni d’interpunzione. Govoni in questo periodo aveva aderito alla poetica futurista, il cui<br />

motto era “parole in libertà”.<br />

Un niente. Dalla saturazione grafica della poesia <strong>di</strong> Govoni, passiamo ad un’estrema<br />

rarefazione dei segni. Notate gli spazi bianchi, i puntini <strong>di</strong> sospensione, le <strong>di</strong>slocazioni a<br />

destra (ad esempio arrivano al II verso, non parlano al V verso: sono parole <strong>di</strong>slocate a<br />

destra, che creano un vuoto nella parte sinistra del foglio, e questo vuoto rappresenta il nondetto,<br />

rappresenta il silenzio che sta <strong>di</strong>etro le parole e tra le parole). Quello che lega le due<br />

poesie, <strong>di</strong> Govoni e <strong>di</strong> Caproni, è un’attenzione all’aspetto visivo, cioè all’aspetto tipografico<br />

del testo, che nel Novecento assume una grande accentuazione rispetto al passato.<br />

Poesia-canzone<br />

Qualcuno <strong>di</strong> voi inserirebbe tra i poeti del Novecento Jim Morrison e Cristiano Godano<br />

[Marlene Kunz]. Questi due nomi pongono il problema della <strong>di</strong>gnità letteraria della lingua<br />

delle canzoni d’autore. I cantautori sono poeti? Quando a Fabrizio De André i giornalisti<br />

chiedevano: «ma lei si considera un poeta o un cantautore?», De André <strong>di</strong> solito rispondeva<br />

citando Benedetto Croce e <strong>di</strong>ceva: «Secondo Benedetto Croce chi scrive poesie dopo i <strong>di</strong>ciotto<br />

anni o è un poeta o è un cretino. A scopo precauzionale preferisco considerarmi un cantautore».<br />

I cantautori sono stati oggetto <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>, <strong>di</strong> tesi <strong>di</strong> laurea. Io però non credo che il testo<br />

<strong>di</strong> una canzone possa essere considerato poesia. Io credo che la canzone abbia una <strong>di</strong>gnità<br />

pari a quella della poesia, ma in quanto costituita <strong>di</strong> due parti inscin<strong>di</strong>bili e magicamente<br />

fuse: il testo e la musica. Questo è lo specifico della canzone. E nella canzone ha anche una<br />

fondamentale importanza il timbro <strong>di</strong> voce <strong>di</strong> chi canta. La canzone è un genere che attinge<br />

alla storia della letteratura – letteratura popolare anche – e alla storia della musica. Ma il<br />

7 F. Maraini, Gnosi delle Fanfole, Bal<strong>di</strong>ni & Castol<strong>di</strong>, Milano 1994.<br />

– 146 –


testo <strong>di</strong> una canzone non ha mai la concetrazione <strong>di</strong> significati semantici e fonici che può<br />

avere una poesia. Una poesia contiene in sé la musica, il testo <strong>di</strong> una canzone no.<br />

Inoltre, non mi sembra che il testo <strong>di</strong> una canzone o la musica <strong>di</strong> una canzone abbiano<br />

mai fatto progre<strong>di</strong>re i rispettivi settori a cui appartengono. La canzone non innova, conserva<br />

(es. Capossela, Paolo Conte)].<br />

Credo sia interessante riflettere sulla funzione sociale della canzone. La canzone è ascoltata,<br />

la poesia no. Ci si identifica in una canzone, non ci si identifica in una poesia. Mi riferisco<br />

a canzoni e poesie contemporanee. I numeri parlano chiaro. Un <strong>di</strong>sco <strong>di</strong> canzoni in<br />

Italia raggiunge normalmente 100.000 persone, un libro <strong>di</strong> poesie circa 3000 a <strong>di</strong>r tanto.<br />

Qualcuno ha pensato <strong>di</strong> ovviare a questo problema mettendo in musica le poesie [Paco Ibanez:<br />

«è come mettere delle ruote sotto le poesie»].<br />

ambiguità, non detto<br />

L’uomo, la parola e se stesso:<br />

poesia come liaison <strong>di</strong> indefiniti<br />

poesia come musica e preghiera<br />

La poesia è musica e preghiera. Credo tuttavia sia un’arte e un privilegio <strong>di</strong> pochi (Ungaretti,<br />

Alda Merini).<br />

– 147 –


Clessidra<br />

Il racconto <strong>di</strong> seguito presentato è stato scritto, durante lo scorso A.S. <strong>2008</strong>-2009, da<br />

Violetta Tulelli, attualmente alunna della classe V H del nostro <strong>Liceo</strong>, per partecipare<br />

alla 2ª e<strong>di</strong>zione del concorso La scienza narrata – Esperimenti <strong>di</strong> scrittura creativa.<br />

Il concorso, al quale hanno aderito alunni <strong>di</strong> alcuni Licei Classici e Scientifici <strong>di</strong><br />

Milano e <strong>di</strong> Roma, ha l’obiettivo <strong>di</strong> stimolare nei nostri studenti la capacità <strong>di</strong><br />

elaborare racconti che ruotino attorno a temi scientifici <strong>di</strong> varia natura. Nella fase <strong>di</strong><br />

stesura dei loro testi gli alunni sono stati seguiti dai membri della Giuria del concorso,<br />

coor<strong>di</strong>nata da Giovanni Nucci, attraverso una serie incontri, tenuti nelle scuole<br />

partecipanti e strutturati in forma <strong>di</strong> laboratorio. Referente del progetto per il nostro<br />

<strong>Liceo</strong> è stata la Prof.ssa Anna Paola Bottoni, che in questa sede si ringrazia per<br />

l’impegno profuso nell’iniziativa. Nel mese <strong>di</strong> Luglio 2009, a Roma, a Villa Miani,<br />

si è svolta la cerimonia <strong>di</strong> premiazione sia degli studenti che hanno scritto i tre racconti<br />

vincitori del concorso sia degli alunni che hanno elaborato le sei storie a cui la giuria<br />

ha deciso <strong>di</strong> attribuire una menzione <strong>di</strong> merito; tra questi ultimi è compresa Violetta<br />

Tulelli con il suo racconto intitolato Clessidra.<br />

Prof.ssa Maria Marchei<br />

Un’altra notte in bianco, la quarta. E quelle che erano venute prima non erano state<br />

migliori, spezzate da suoni, risvegli, immagini, ricor<strong>di</strong>.<br />

Guardava la luce che l’orologio <strong>di</strong>gitale sul como<strong>di</strong>no proiettava sul soffitto.<br />

03:20<br />

Ogni minuto si accendevano e poi, per un interminabile minuto, rimanevano accesi,<br />

segmenti <strong>di</strong>versi in quel piccolo universo <strong>di</strong>gitale. Gli altri, quelli che si spegnevano, non<br />

scomparivano del tutto; <strong>di</strong> loro restava un’ombra, un tratto privo <strong>di</strong> colore, impresso in un<br />

luogo indefinito.<br />

Pensò che le metafore ormai lo venivano a cercare dappertutto, lo accerchiavano con le loro<br />

allusioni. Il mondo era una metafora <strong>di</strong> se stesso, pensò, e per un attimo se ne compiacque. I<br />

numeri che vedeva svanire sul soffitto erano tempo, pezzi <strong>di</strong> vita, che se ne andava per sempre.<br />

S.C., anestesista rianimatore, pensò che tutti abbiamo un tempo che si consuma e che per<br />

il paziente della stanza 206, anni 23, quel tempo sarebbe presumibilmente finito nei minuti<br />

successivi alle 10:30 <strong>di</strong> quella mattina <strong>di</strong> ottobre.<br />

Come gli succedeva spesso in questi ultimi tempi, i pensieri lo attraversavano come raggi<br />

<strong>di</strong> luce, senza lasciargli il tempo <strong>di</strong> capire. Per fermarli provò ad afferrare la prima immagine<br />

che gli fosse apparsa nel buio. Era un cerchio.<br />

Si addormentò per qualche secondo e lo vide scomporsi, <strong>di</strong>latarsi, fondersi fino a prendere<br />

la forma <strong>di</strong> una goccia trasparente, dentro la quale precipitavano scintille senza spessore. Aprì<br />

gli occhi: l’immagine rubata al sogno era quella <strong>di</strong> una clessidra. Ce n’era una sulla scrivania<br />

nello stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> suo padre, tra il fermacarte in bronzo, comprato in una stamperia <strong>di</strong> Venezia, e<br />

le statuine dei rematori nubiani. Spesso la capovolgeva prima che tutti i granelli fossero scesi<br />

come un filo <strong>di</strong> seta.<br />

Gli dava una sottile felicità pensare che un suo piccolo gesto poteva cambiare il corso <strong>di</strong><br />

un equilibrio così perfetto.<br />

La clessidra. Era soltanto una convenzione, un modo <strong>di</strong> rappresentare il tempo, proprio<br />

come lo erano i numeri <strong>di</strong>gitali proiettati sul soffitto. Più fedele però all’idea <strong>di</strong> qualcosa che<br />

si consuma, più facile da capire.<br />

– 148 –


Poteva essere per il fatto che la clessidra era una cosa concreta, un’ampolla, uno spazio<br />

fatto <strong>di</strong> sabbia e <strong>di</strong> vuoti e le combinazioni geometriche dei numeri, invece, solo una presenza<br />

virtuale, che scompariva anche solo posando un <strong>di</strong>to sul piccolo cono luminoso del proiettore;<br />

oppure staccando una spina. Metafore, ancora metafore.<br />

S.C. si era laureato in me<strong>di</strong>cina con il massimo dei voti, si era specializzato in anestesia<br />

e rianimazione, partecipava a convegni internazionali e il mese prossimo avrebbe fatto parte<br />

del Comitato scientifico al Seminario <strong>di</strong> aggiornamento sull’Anestesia in neurochirurgia.<br />

Eppure c’erano infinite cose che non sapeva. Invece il portatile che in quelle notti gli faceva<br />

compagnia sembrava conoscere sempre tutte le risposte.<br />

Digitò: clessidra.<br />

Apparvero nell’or<strong>di</strong>ne: Clessidra a sabbia, Wikipe<strong>di</strong>a.<br />

“Clessidra Capital Partners”, fon<strong>di</strong> d’investimento.<br />

“Clessidra”, nebulosa planetaria della costellazione della Mosca, 8000 anni luce dalla<br />

Terra.<br />

“Clessidra”, primo videogame in italiano apparso su Internet nel 1996.<br />

“Clessidra”, rivista <strong>di</strong> orologeria.<br />

“Clessidra”, oggetti <strong>di</strong> antiquariato.<br />

Tornò con il mouse sul primo sito. Clessidre nell’antichità, nel Me<strong>di</strong>oevo, la clessidra con<br />

un anno <strong>di</strong> scorrimento custo<strong>di</strong>ta nel Museo della Sabbia a Nima, in Giappone, la clessidra<br />

più grande del mondo, quasi 12 metri, sulla Piazza Rossa <strong>di</strong> Mosca e la più piccola, 2 centimetri<br />

e mezzo, custo<strong>di</strong>ta ad Amburgo.<br />

Bene, per questa volta il computer non ne sapeva molto più <strong>di</strong> lui sulle questioni davvero<br />

importanti.<br />

Il tempo, per esempio, cos’era il tempo? Nel momento preciso in cui attraversava la<br />

strettoia, il granello <strong>di</strong> sabbia era il presente e lo stesso granello <strong>di</strong> sabbia, appena caduto,<br />

<strong>di</strong>ventava il passato.<br />

Era un granello <strong>di</strong> sabbia il tempo? E nella sua vita, nel suo tempo cosa c’era stato?<br />

Lunghi anni <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o, una storia con una ragazza dagli occhi orientali, tre anni <strong>di</strong><br />

pianoforte, Oni, il suo labrador dagli occhi gialli, un libro <strong>di</strong> racconti mai completato e oggi<br />

il paziente della stanza 206, in stato vegetativo persistente da circa cinque anni. Da qualche<br />

tempo il fatto <strong>di</strong> chiamarlo con un numero lo rassicurava, lo faceva sentire più protetto e<br />

meno vulnerabile. Invece all’inizio pensava a lui chiamandolo per nome; del resto conosceva<br />

il giorno del suo compleanno, le malattie che aveva avuto da piccolo, le facce dei suoi genitori<br />

e tutte le cose che aveva soltanto immaginato della sua vita, <strong>di</strong> come doveva essere fino al<br />

giorno <strong>di</strong> quell’incidente. In fondo le vite della gente si assomigliano più <strong>di</strong> quanto non<br />

sembri.<br />

S.C. faceva parte dell’equipe neurologica che aveva seguito il caso fin dall’inizio, quando<br />

lui stesso aveva comunicato ai familiari che in quella struttura clinica “non avrebbero dovuto<br />

cercare un miracolo o un risveglio, ma una <strong>di</strong>agnosi”. Già, ricordava <strong>di</strong> aver usato proprio<br />

questa espressione e allora gli era sembrata molto efficace. Oggi, cinque anni dopo, si trovava<br />

a chiedersi quanto la <strong>di</strong>agnosi coincidesse con la realtà. Provò a ripetersela in mente quella<br />

<strong>di</strong>agnosi, come se <strong>di</strong>segnandone la mappa sentisse <strong>di</strong> poter assumere decisioni logiche e<br />

coerenti.<br />

Il danno agli assoni della sostanza bianca cerebrale, che impe<strong>di</strong>va la connessione delle<br />

aree corticali tra loro e con il talamo, non era reversibile. L’ultima TAC <strong>di</strong>namica aveva<br />

rilevato 16 ml. al minuto <strong>di</strong> flusso ematico per 100 grammi <strong>di</strong> massa cerebrale, contro i 55<br />

ml in con<strong>di</strong>zioni normali. L’attività elettrica del cervello raggiungeva al massimo 10 micro-<br />

– 149 –


volt. Tutto questo era la <strong>di</strong>agnosi, più alcune formule: compromissione della reattività pupillare,<br />

assenza <strong>di</strong> consapevolezza e coscienza, danno dei riflessi encefalici.<br />

Ma in quelle notti insonni S.C. cercava qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso dalla <strong>di</strong>agnosi, cercava un<br />

frammento senza il quale il puzzle, che per cinque anni lo aveva inchiodato alla vita <strong>di</strong> uno<br />

sconosciuto, rischiava <strong>di</strong> non potersi ricomporre mai. Cercava <strong>di</strong> capire se quella che aveva<br />

davanti, e che clinicamente non poteva essere <strong>di</strong>chiarata morte, fosse ancora vita.<br />

Cosa c’era in quel gruppo <strong>di</strong> neuroni gravemente danneggiati? Una vita artificiale, una<br />

morte trattenuta, una morte interminabile?<br />

Aveva bisogno <strong>di</strong> capire se esistesse un punto preciso <strong>di</strong> passaggio, un limite che potesse<br />

definire la vita e la morte senza categorie interme<strong>di</strong>e. Come la strettoia nella clessidra nel<br />

momento in cui l’ultimo granello <strong>di</strong> sabbia cadeva. Il paziente della 206 era ancora,<br />

nonostante il suo stato <strong>di</strong> assenza, oggetto degli stessi sentimenti <strong>di</strong> amore, pietà, <strong>di</strong>sagio, che<br />

si provano verso chi vive.<br />

Ma chi è tenuto in vita in un presente senza tempo, bloccato nella strettoia della clessidra,<br />

non è veramente vivo eppure non è morto.<br />

Chi è allora?<br />

Perché la Scienza non riusciva a rispondere a questa domanda e l’Etica era così imprecisa?<br />

Per un attimo provò a immaginare che il punto <strong>di</strong> passaggio tra i due bulbi della clessidra,<br />

quel punto così minimo e perfetto da lasciare scorrere un solo granello alla volta, <strong>di</strong>ventasse<br />

un luogo infinito da percorrere, una galleria trasparente nella quale scivolare eternamente,<br />

senza cadere mai. Ripensò alle vacanze <strong>di</strong> Natale nella casa <strong>di</strong> Dorsoduro dove abitavano i<br />

nonni materni e al giorno in cui suo nonno aveva voluto portarlo a Murano per fargli vedere<br />

come si soffia il vetro. In una mattina fredda <strong>di</strong> fine <strong>di</strong>cembre, con l’aria grigia e opaca tra<br />

i colori pastello delle case, era rimasto incantato a guardare il vetro nella fornace, liquido come<br />

lava, raccolto in una bolla sulla canna del vetraio, soffiato fino a <strong>di</strong>ventare sottile come un<br />

raggio trasparente.<br />

Era quello il sogno? Una clessidra in cui un punto, semplice e certo, potesse <strong>di</strong>ventare<br />

una linea infinita? Un luogo senza meta, in un tempo eternamente sospeso?<br />

Ogni volta che si era posto domande come questa aveva finito per rispondersi con delle<br />

astrazioni: il Futuro, la Scienza, il Progresso, quello che fino a ieri sembrava irrealizzabile,<br />

quello che oggi non riusciamo a vedere, ma domani, forse, potrebbe avere un senso.<br />

Rimaneva però il mistero dell’oggi. Degli strumenti che l’uomo si era costruito e che lo<br />

tenevano appeso tra una vita e una morte ugualmente inaccettabili e incomprensibili.<br />

S.C. si alzò dal letto. Per un attimo pensò che i suoi movimenti fossero le uniche certezze<br />

che gli rimanevano della sua vita. Era in<strong>di</strong>scutibilmente vivo, lui, dalla parte dei vivi, il suo<br />

tempo scorreva nella sua clessidra, senza interruzioni, fino al giorno in cui la sabbia sarebbe<br />

finita.<br />

Si augurò, sperò, pregò che andasse davvero così per lui.<br />

La doccia, il caffè, la camicia pulita, non gli tolsero neanche un po’ della stanchezza e<br />

del peso che si sentiva addosso. Aprì la finestra e guardò il cielo inquadrato tra i profili grigi<br />

dei palazzi in un’alba <strong>di</strong> un giorno che avrebbe ricordato.<br />

Respirò, era ottobre e c’era aria <strong>di</strong> pioggia.<br />

Violetta Tulelli<br />

(4° ginnasio - sezione H) <strong>Liceo</strong> <strong>Ginnasio</strong> ORAZIO - Roma<br />

– 150 –


L’inferno bianco <strong>di</strong> mio nonno<br />

(UNA TESTIMONIANZA DI GUERRA DI UMBERTO TADIELLO)<br />

“La battaglia <strong>di</strong> Nikolajewka e la ritirata <strong>di</strong> Russia vissuta tra fame e freddo,<br />

tra nostalgia e paura.<br />

Un ritorno tanto atteso attraverso l’Europa e un viaggio dentro etnie e culture <strong>di</strong>verse.<br />

Una forte esperienza che ha segnato un’intera esistenza”.<br />

a cura <strong>di</strong> Susanna Ta<strong>di</strong>ello 1<br />

PREFAZIONE<br />

Questa è una grande storia, come mille altre storie sono già state scritte in passato. Ma<br />

c’è una particolarità, che può rendere il racconto entusiasmante ed interessante sia per me<br />

che per il lettore. Il mio personaggio non è una persona qualunque, anche se devo ammettere<br />

che nessuna delle persone che ha affrontato la Seconda Guerra Mon<strong>di</strong>ale deve essere considerata<br />

una “persona qualunque”. Il protagonista <strong>di</strong> questo umile racconto è mio nonno.<br />

Mi risulta <strong>di</strong>fficoltoso, se non impossibile, descrivere il mio stato d’animo quando, <strong>di</strong><br />

solito durante il fine settimana, provavo a racimolare una quantità spropositata <strong>di</strong> particolari<br />

della sua storia, mentre lui, confuso, cercava invano <strong>di</strong> farmi capire, tentava ancora <strong>di</strong> essere<br />

or<strong>di</strong>nato e <strong>di</strong> ripassare tutto in mente per non fare <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne; una confusione che sarebbe<br />

costata cara. Si intravede nei suoi occhi chiari, color azzurro, infiniti e malinconici, quell’aria<br />

<strong>di</strong> chi ha vissuto intensamente, ed è un’aria riconoscibile al primo impatto, al primo contatto;<br />

non è <strong>di</strong>fficile farlo parlare, strappargli qualche confidenza. Ha una voglia immensa, dentro<br />

<strong>di</strong> sé, <strong>di</strong> fare spazio ai ricor<strong>di</strong>, <strong>di</strong> tentare ancora <strong>di</strong> capire, <strong>di</strong> rispondersi, <strong>di</strong> riflettere e <strong>di</strong><br />

raccontare. Ripete volentieri ciò che magari ha già spiegato e che io, forse, non ho ancora<br />

colto come avrei dovuto. Il suo fardello è pesante, il suo carico è turpe, veemente e tuttora<br />

acceso. Comunica con naturalezza, con simpatia, a volte a gesti, picchiettando sul tavolo e<br />

facendo sobbalzare quaderni, registratori e me compresa.<br />

C’è voluto un po’ <strong>di</strong> tempo, un po’ <strong>di</strong> riflessione prima che iniziassi l’ardua impresa <strong>di</strong><br />

trascrivere l’esperienza vissuta da mio nonno. Devo, però, confidare che è sempre stato un<br />

mio desiderio quello <strong>di</strong> saperne <strong>di</strong> più. Capitava spesso che durante le cene importanti egli<br />

raccontasse dei suoi viaggi, dei fronti sui quali aveva combattuto coraggiosamente, sfidando<br />

la morte, la fame, la miseria, l’angoscia e la paura, per sessantatre mesi. Mesi duri, <strong>di</strong> guerra,<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>sperazione e desolazione, ai quali era incre<strong>di</strong>bilmente sopravvissuto grazie ad una<br />

scatoletta <strong>di</strong> “ovomaltina” spe<strong>di</strong>tagli da casa. Storie assurde, alle quali noi, ormai stufi <strong>di</strong><br />

sentirle, nemmeno ci cre<strong>di</strong>amo; si fermano fuori della nostra portata, lontano dai nostri<br />

orizzonti, dai nostri tempi, dalle nostre preoccupazioni. È capitato anche a me <strong>di</strong> non voler<br />

sentirne parlare, <strong>di</strong> non voler leggere nessun libro a riguardo, <strong>di</strong> non volere assistere ad<br />

1 La Dott.ssa Susanna Ta<strong>di</strong>ello ha presentato questo memoriale come tesina nell’ambito <strong>di</strong>sciplinare <strong>di</strong> storia, in<br />

occasione dell’Esame <strong>di</strong> Stato sostenuto presso il <strong>Liceo</strong> della Comunicazione Istituto “Maria Ausiliatrice” <strong>di</strong> Varese, nell’anno<br />

scolastico 2004-2005. Ispirandosi al memoriale la Dott.ssa Ta<strong>di</strong>ello ha poi realizzato un documentario, L’inferno<br />

bianco <strong>di</strong> mio nonno, che è stato oggetto della sua <strong>di</strong>ssertazione <strong>di</strong> laurea in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello<br />

Spettacolo presso la Facoltà <strong>di</strong> Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede <strong>di</strong> Brescia. Ringraziamo<br />

la Dott.ssa Ta<strong>di</strong>ello per aver gentilmente acconsentito alla pubblicazione del memoriale <strong>di</strong> suo nonno Umberto sulle pagine<br />

della “Miscellanea <strong>di</strong> Saggi e Ricerche”.<br />

– 151 –


alcun programma televisivo che documentasse gli avvenimenti dei lager o della guerra;<br />

pensieri atroci, da non farmi dormire la notte. Ma mio nonno mi ha dato la forza <strong>di</strong> affrontarli,<br />

<strong>di</strong> comprendere cosa fosse per lui la fame, la lontananza da casa, la paura della morte.<br />

Sono riuscita a non sentire più il peso struggente che mi affliggeva quando provavo a capire,<br />

a far rinvenire in me il grande problema <strong>di</strong> quella assurda guerra. Mi ha aiutato a capire che<br />

si può e si deve ricordare; bisogna saper affrontare il passato, perché esso è comunque parte<br />

della propria storia, del proprio vissuto.<br />

Mi fissa negli occhi e prosegue, elenca avvenimenti bizzarri, alterna ad un italiano poco<br />

curato un <strong>di</strong>aletto veneto passionale, carico <strong>di</strong> intenzioni e <strong>di</strong> emozioni. Alle volte non conclude<br />

le frasi, si perde, e a me tocca, a malincuore, lasciare una frase a metà; devo evitare<br />

<strong>di</strong> interromperlo, non gli piace, mi guarda con la coda dell’occhio e capisco che forse è<br />

meglio lasciare le mie domande alla fine. Si entusiasma, ride persino e prende in giro qualche<br />

tedesco, commisera qualche russo, rimpiange qualche compagno. Non rammenta bene i nomi<br />

dei suoi compari, ma cerca comunque <strong>di</strong> fare qualche piccolo sforzo, inutilmente. I ricor<strong>di</strong><br />

lo travolgono, lo investono, lo avvinghiano e lui, dolcemente, si lascia andare.<br />

Vorrei che questa storia venisse letta con amore, perché è questo che ha salvato mio<br />

nonno: l’amore per la vita, il desiderio <strong>di</strong> riconciliazione, la voglia <strong>di</strong> ricominciare in pace,<br />

la tenacia <strong>di</strong> chi affronta tutte le intemperie che il destino pone sulla sua strada, senza perdere<br />

il coraggio e la forza <strong>di</strong> rialzarsi.<br />

E per tutto questo è un racconto da amare.<br />

Susanna Ta<strong>di</strong>ello<br />

I primi mesi<br />

Fronte greco albanese<br />

Classe 1919. Correva l’anno 1940, avevo appena ventuno anni quando, un pomeriggio<br />

<strong>di</strong> Marzo, venivo chiamato alle armi. Destinazione Vipiteno. Dopo aver trascorso, come<br />

recluta, più <strong>di</strong> tre mesi d’addestramento, il ra<strong>di</strong>o <strong>di</strong>scorso del Duce annunciava la nostra<br />

entrata in guerra contro Francia e Gran Bretagna, il 10 giugno. Io ero arruolato nel secondo<br />

Reggimento Artiglieria Alpina, gruppo <strong>di</strong> Vicenza, ventesima batteria, <strong>di</strong>visione Tridentina.<br />

L’esercito italiano era assolutamente impreparato ad affrontare una guerra <strong>di</strong> livello<br />

europeo, ma l’Italia, in virtù del Patto d’acciaio, sottoscritto nel 1930, sarebbe stata obbligata<br />

ad intervenire al fianco della Germania fin dall’inizio del conflitto. E noi alpini ne fummo la<br />

prova.<br />

Il primo viaggio, compiuto fortunatamente in treno, venne fissato per l’inizio <strong>di</strong> maggio<br />

con lo scopo <strong>di</strong> raggiungere Chivasso, per poi ripartire nuovamente verso il Gran S. Bernardo,<br />

traversata che, quella volta, dovemmo fare interamente a pie<strong>di</strong>. Durante i giorni d’accampamento,<br />

Umberto <strong>di</strong> Savoia venne a farci visita e, dopo il rancio serale, sollecitò tutti i soldati<br />

che avevano familiari in Francia <strong>di</strong> far evacuare gli stessi per evitare <strong>di</strong> ucciderli con le nostre<br />

stesse mani. Arrivammo pressappoco il 24 giugno, ma la guerra era già finita, Hitler aveva<br />

attaccato la Francia e noi, giunti per coprire e bloccare il fronte ci trovavamo a 2300 metri<br />

senza neppure esserci accorti della fine. Non sparammo nemmeno un colpo. Ma la guerra<br />

cominciava ad estendersi come una macchia d’olio.<br />

Alla fine <strong>di</strong> giugno del 1940, avendo intuito che non c’era più nulla che potessimo fare,<br />

fummo rimandati in<strong>di</strong>etro dai nostri Generali. Tutti si auguravano un ritorno a casa, anche se<br />

privo <strong>di</strong> gloria, ma non fummo accontentati. Ci in<strong>di</strong>rizzarono in Piemonte, ma nell’agosto del<br />

’40 Mussolini decise <strong>di</strong> spe<strong>di</strong>re noi alpini in Grecia. Partimmo increduli per Brin<strong>di</strong>si, convinti<br />

però che la spe<strong>di</strong>zione era adatta a forze militari quali gli alpini, poiché la Grecia era ricoperta<br />

– 152 –


in parte <strong>di</strong> montagne ed altipiani; era certo il nostro compito. Riempimmo il treno con tutto<br />

l’equipaggiamento <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>sponevamo: artiglieria, armi <strong>di</strong> vario genere e muli carichi <strong>di</strong> bagagli<br />

e provviste. Dopo quin<strong>di</strong>ci giorni trascorsi ancora sulla penisola italica, ricoperti da<br />

piante per non essere scorti da truppe nemiche, ad ottobre c’imbarcarono in un porto <strong>di</strong>stante<br />

circa sei chilometri da Brin<strong>di</strong>si, raggiunto dopo uno scomodo viaggio in treno, per paura<br />

che gli aerei militari inglesi, provenienti dalle coste libiche, ci colpissero durante la traversata.<br />

Saremmo dovuti arrivare a Durazzo in pochi giorni, il trasporto fu effettuato durante la<br />

notte; vennero caricate ben venti navi, sulle quali i muli erano deposti in coperta e noi depositati<br />

nella cabina sotto <strong>di</strong> loro. Il silenzio assordante e penetrante fu rotto all’improvviso da<br />

un rumore stridulo e minaccioso. Comparvero gli aerei inglesi che, dall’Africa, erano venuti<br />

a bombardare Brin<strong>di</strong>si. Per fortuna il porto <strong>di</strong>sponeva <strong>di</strong> una contraerea, <strong>di</strong> mitragliatrici che<br />

facevano paura solo a guardarle, le quali riuscirono a respingere l’offensiva britannica e ad<br />

evitare cadute <strong>di</strong> bombe sulle nostre navi. La notte, durante il viaggio, per timore d’ulteriori<br />

attacchi, riuscimmo a <strong>di</strong>sporre d’alcune navi vedette che avrebbero dovuto localizzare i sottomarini<br />

nemici. Ma il cammino verso l’inferno non era ancora finito. Un sottomarino, non<br />

in<strong>di</strong>viduato, improvvisamente colpì una barca, una delle tante messe in fila e <strong>di</strong>stanti l’una<br />

dall’altra pressappoco un chilometro. Il mare aveva cominciato ad agitarsi, la burrasca aveva<br />

segnato in me l’inizio <strong>di</strong> una nuova e inaspettata paura; per la prima volta provavo quell’amaro<br />

sentimento che per nulla al mondo non avrei mai potuto e voluto rimpiangere. Ci munirono<br />

<strong>di</strong> un salvagente a fasce verticali che non sarebbe riuscito, in nessun modo, a sostenere<br />

i nostri corpi ancora in carne, poiché ignari della fame che ci aspettava al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> quell’oscuro<br />

e infame mare che aveva appena annientato un’intera imbarcazione <strong>di</strong> uomini; 1500<br />

uomini come noi, compagni, amici, conoscenti, soldati. Approdammo la mattina seguente,<br />

scaricammo le navi e i muli e, dopo una ventina <strong>di</strong> chilometri percorsi a pie<strong>di</strong>, ci accampammo<br />

lontano dal porto e dal pericolo.<br />

Nel frattempo Mussolini aveva mobilitato tutto il Paese, donne e uomini, per far in modo<br />

che le truppe arrivassero in meno <strong>di</strong> due mesi ad Atene. Alcuni soldati ci raggiunsero in aereo<br />

per la mancanza <strong>di</strong> ponti e corsi d’acqua che, prontamente, i greci avevano fatto saltare in aria.<br />

Intanto la fredda stagione avanzava, ma <strong>di</strong>versamente dall’invernata russa che pietrifica,<br />

congela e uccide senza pietà, quello era un inverno sopportabile, un inverno simile a quello<br />

<strong>di</strong> casa nostra; l’autunno era passato in fretta e il sole d’inverno, privo <strong>di</strong> forza, splendeva<br />

smunto senza tentar nemmeno <strong>di</strong> scaldare la terra fredda.<br />

Ci <strong>di</strong>sponemmo in accampamento a 2200 metri d’altezza, in trincee costruite su misura;<br />

la mia batteria riuscì ad accaparrarsi una casa abbandonata che era <strong>di</strong>fficilmente visibile agli<br />

occhi del nemico. Quell’abitazione era circondata all’esterno <strong>di</strong> fascine <strong>di</strong> legna secca che<br />

usammo prontamente per scaldarci e cucinare. Non c’era acqua, l’unico modo per procurarsela<br />

era <strong>di</strong> scendere per tre o quattro chilometri a valle, con sacchi ermetici caricati sui muli,<br />

dove inoltre era collocata la nostra sussistenza, e riempire i sacchi alle fontane che si<br />

trovavano sulla via; i viveri necessari per sopravvivere dovevamo andare a procurarceli a<br />

valle. Passammo un inverno quieto, con la presenza <strong>di</strong> pochissimi attacchi, alle volte era solo<br />

qualche granata a preoccuparci e a svegliare l’intero reggimento.<br />

Il nostro passatempo preferito era la caccia ai pidocchi, quelle bestie maledette! Bisognava<br />

lasciar bollire i vestiti in acqua, <strong>di</strong> solito approfittando della neve facendola sciogliere<br />

in grossi recipienti, per essere sicuri che gli animaletti sfollassero i nostri abiti. Non era<br />

un’operazione semplice, non solo perché le <strong>di</strong>vise facevano fatica ad asciugare, ma principalmente<br />

perché non ci era possibile accendere fuochi per nessun motivo.<br />

Una delle tante sere, ero <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a con un mio compagno; durante la notte ci avviammo<br />

a sorvegliare il campo e a fare da sentinelle. Ogni giorno la parola d’or<strong>di</strong>ne cambiava, per im-<br />

– 153 –


pe<strong>di</strong>re ad estranei <strong>di</strong> intrufolarsi nel nostro campo; poteva essere un nome <strong>di</strong> donna, Maria o<br />

Giovanna, <strong>di</strong> città o qualsiasi cosa venisse in mente al Generale. Si imponeva quin<strong>di</strong> l’“Alto<br />

là” a qualsiasi figuro che si avvicinasse al campo. Dopo essere montati <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a scorgemmo<br />

nell’oscurità un’ombra, bassa, acquattata, sembrava strisciare, mentre china su se stessa si<br />

avvicinava sempre <strong>di</strong> più. Gridammo spauriti l’Alto là <strong>di</strong> consuetu<strong>di</strong>ne, ma non ricevemmo<br />

alcuna risposta. Pronti a far fuoco, sparammo un colpo che risuonò improvviso nelle orecchie<br />

dell’intero accampamento, accorsero in molti a vedere che cosa fosse successo; spiegammo<br />

<strong>di</strong> fretta l’accaduto, mentre il Capitano ci trascinava vicino al corpo abbattuto. Intravedemmo<br />

imme<strong>di</strong>atamente il sangue correre caldo sulla neve e ci accorgemmo ben presto che non si<br />

trattava fortunatamente <strong>di</strong> un corpo umano, bensì <strong>di</strong> un grosso cinghiale. Fummo festeggiati<br />

a dovere, ed il Capitano, spaventato e atterrito, si complimentava con noi per la prontezza <strong>di</strong><br />

spirito esemplare data da noi soldati che, ancora increduli, accennavano un sorrisino misto a<br />

paura e sod<strong>di</strong>sfazione.<br />

Per andare a prendere l’acqua giù a valle io e Trettene, un mio compagno veronese, eravamo<br />

sempre <strong>di</strong>sponibili. La mattina <strong>di</strong> Natale del ’40 ci <strong>di</strong>rigemmo con i muli fino ad arrivare<br />

alla fonte. Caricate le bestie e ripreso il cammino per tornare all’accampamento percepimmo<br />

per la prima volta la fame che si faceva sentire sempre più rabbiosa; arrivati ad<br />

un grande serraglio ci accorgemmo che era abitato da un gregge <strong>di</strong> pecore molto in carne.<br />

«An<strong>di</strong>amo a domandare da mangiare», mi suggeriva sovente Trettene che non resisteva più<br />

ai dolori <strong>di</strong> stomaco. Il recinto era costruito interamente da fasce <strong>di</strong> legna e, <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> esse, due<br />

o tre cani abbaiavano minacciosi; cominciarono persino a ringhiare, ma noi non vedevamo<br />

nessun uomo, sembrava che il padrone se ne fosse andato o fosse scappato. Invece, ad un certo<br />

punto, un in<strong>di</strong>viduo mal messo, un vecchietto con la pelle ruvida e scura, ci venne incontro<br />

facendo segno <strong>di</strong> porre le armi a terra, <strong>di</strong> non sparare. A lui si aggiunsero altri tre uomini<br />

piccoli, bassi e increduli; sapevano sillabare solo poche parole nella nostra lingua, poiché<br />

alcuni soldati italiani erano già stati da quelle parti. Ci ringraziavano continuamente per non<br />

aver sparato e noi, approfittando della situazione, abbiamo chiesto un poco da mangiare.<br />

Erano ben felici <strong>di</strong> accoglierci e iniziarono a portare sul tavolo fette <strong>di</strong> polenta e un cocomero<br />

appoggiato sopra a del riso cotto. Divorammo tutto con gran foga, ringraziammo e poi<br />

ripartimmo per il campo dove saremmo <strong>di</strong> sicuro arrivati in ritardo.<br />

Impiegammo metà pomeriggio e, sotto la neve ed il freddo, arrivammo ancora vivi al<br />

nostro bivacco. Il Generale, appena scorte le nostre teste uscire dal velo bianco <strong>di</strong> neve, si mise<br />

a correre e gridando chiese spiegazioni per quel nostro inaspettato ritardo. Raccontammo <strong>di</strong><br />

aver mangiato la polenta e tra risa e schiamazzi tutto tornò ad acquietarsi.<br />

Nella primavera del 1941 Hitler aveva spe<strong>di</strong>to una corazzata <strong>di</strong> carri armati in Jugoslavia,<br />

senza nemmeno avvisare, e ci volle poco prima che i tedeschi arrivassero ad occupare Atene.<br />

Avevano conquistato la Grecia, come previsto da Mussolini. I greci si rivolgevano spesso<br />

a noi soldati italiani chiedendoci se eravamo impazziti dando retta a Mussolini, ma d’altra<br />

parte a noi toccava solo ubbi<strong>di</strong>re, non avevamo alcun potere <strong>di</strong> decisione. La simpatia dei<br />

greci verso noi italiani si spense precocemente. Dopo aver ritirato le truppe, c’imbarcarono a<br />

Durazzo per fare ritorno, verso luglio, a Bari. Sbarcati sulla penisola, Mussolini ci <strong>di</strong>chiarò eroi<br />

<strong>di</strong> guerra mentre passava in rassegna le truppe alle due e mezzo <strong>di</strong> notte: “Voi, gran<strong>di</strong> alpini<br />

che avete vinto la guerra”, senza sapere che avevamo solo mangiato polenta per tutto l’inverno.<br />

Non ci furono molti caduti, il clima favorì parecchio il nostro soggiorno giacché era simile al<br />

clima italiano. Eravamo vestiti come se avessimo dovuto affrontare l’inverno in patria; ci<br />

furono però affidate coperte e tende, gavette e cucchiai, ma la sera, appena il buio calava, una<br />

sentinella montava <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a e tutte le truppe si coricavano, evitando <strong>di</strong> accendere fuochi e <strong>di</strong><br />

illuminare il circondario. Il mio compito era <strong>di</strong> fare il telefonista, me lo avevano insegnato in<br />

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caserma; adoperavo ancora gli stessi strumenti adottati dalle truppe che nella Prima Guerra<br />

Mon<strong>di</strong>ale erano scese fino in Africa. Era un apparecchio mal ridotto, che trasmetteva l’alfabeto<br />

Morse, linea e punto. Era stato usato anche durante la guerra del 1937 dove era più adatto,<br />

ma nel nostro caso era facilmente visibile e intercettabile dal nemico. Reggevamo su una<br />

barella il rotolo <strong>di</strong> filo, dovunque il Capitano ci portasse per accamparsi, e la notte stendevamo<br />

il filo lungo un chilometro in mezzo ai boschi, fino a farlo arrivare alla trincea degli alpini che<br />

erano sempre <strong>di</strong>stanti almeno 500 metri. Noi avevamo l’artiglieria ed eravamo fondamentali,<br />

ma capitava che i fili venissero tagliati e che la comunicazione si rompesse.<br />

Era ottobre, un caldo ottobre del 1941, quando ci rispe<strong>di</strong>rono al nord, eravamo ormai<br />

persuasi che la guerra fosse finita, ci auguravamo con ansia che saremmo tornati a casa, dalle<br />

nostre famiglie, invece il treno ci destinò in un paesino piemontese chiamato Montanaro,<br />

vicino a Chivasso. Rimanemmo lì per sette od otto mesi, dormendo nei granai o nelle case<br />

vuote; io e i miei compagni ci sistemammo nei pressi <strong>di</strong> un asilo abbandonato per evitare <strong>di</strong><br />

dormire nelle tende. Ma l’imminente guerra con la Russia faceva poco sperare ad un ritorno<br />

ai nostri paesi natali.<br />

Nel luglio del 1942 Hitler aveva attaccato la nazione russa.<br />

Il fronte sul Don<br />

Dopo quin<strong>di</strong>ci giorni <strong>di</strong> treno raggiungemmo la Russia. Il viaggio era stato particolarmente<br />

<strong>di</strong>fficoltoso. Il freddo, la paura, la fame e la nostalgia ci facevano compagnia sui vagoni<br />

merci, caricati come meglio potevamo con muli, provviste e indumenti. La nostra batteria era<br />

circondata da otto muli <strong>di</strong>sposti alle due estremità del carro. Un vagone poteva ospitare quasi<br />

settanta uomini; noi invece eravamo appena in quattro. Il cibo riuscivamo a procurarlo quando<br />

il treno si fermava durante la notte per rifornirsi o per aspettare che un altro treno transitasse<br />

prima del nostro poiché il binario era unico; alle volte trovavamo un blocco <strong>di</strong> sussistenza<br />

lungo la via che ci sfamava per almeno due o tre giorni. Ci offrivano una pagnotta <strong>di</strong> pane,<br />

una scatoletta <strong>di</strong> carne per un giorno e, quando potevano, un piatto <strong>di</strong> pastasciutta, ma era sempre<br />

poco. L’acqua la prendevamo in giro, <strong>di</strong> solito alle fontane dei paesi stranieri. Per fare i<br />

bisogni saltavamo giù dal mezzo, che delle volte sostava per ore, in altre occasioni pisciavamo<br />

intanto che il treno si muoveva, aprivamo la porta e guai se il vagone <strong>di</strong>etro al nostro aveva<br />

il portone spalancato! Se invece non c’era la possibilità <strong>di</strong> aprire la carrozza usavamo gli<br />

elmetti che poi pulivamo a dovere.<br />

Attraversammo l’Ucraina, smontammo dal treno e percorremmo duecento chilometri a<br />

pie<strong>di</strong> per raggiungere il fronte. Il treno non poteva proseguire poiché le rotaie russe erano più<br />

grosse <strong>di</strong> quelle usate nel resto d’Europa. I soldati tedeschi avevano però trovato il modo <strong>di</strong><br />

penetrare in Russia tramite la ferrovia spostando le rotaie e sistemandole per chilometri e<br />

chilometri secondo la larghezza dei loro convogli. Arrivavano persino a formare reggimenti<br />

addetti a quel tipo <strong>di</strong> mansione. Eravamo 70.000 alpini giunti al fronte dopo aver viaggiato<br />

<strong>di</strong> notte e ci accorgemmo che tutto intorno a noi era deserto, pianura, ed eravamo totalmente<br />

allo scoperto. Fu deciso perciò che 25.000 uomini avrebbero dovuto spostarsi per raggiungere<br />

un altro fronte sicché, viaggiando <strong>di</strong> notte, ci avviammo per raggiungere la nuova meta.<br />

Il fiume Don, largo circa un chilometro, ci presentò i nemici russi che erano appostati al<br />

<strong>di</strong> là del corso d’acqua. Nel frattempo era arrivato l’inverno; il clima era peggiorato, la temperatura<br />

sfiorava i quaranta gra<strong>di</strong> sotto lo zero durante la notte e <strong>di</strong>eci gra<strong>di</strong> sopra lo zero <strong>di</strong><br />

giorno; nevicava, tempestava e gli alberi incorniciavano un paesaggio bianco e glaciale che<br />

apriva nei nostri cuori un vortice <strong>di</strong> nostalgia che cominciava a perdere sapore. I Russi non<br />

possedevano un grande esercito, tuttavia la loro forza consisteva nell’aspettare l’inverno e nel<br />

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costringere il nemico a dover sopportare il freddo. Loro erano ben equipaggiati rispetto a<br />

noi, portavano giacche imbottite, pantaloni grossi e le scarpe non erano <strong>di</strong> cuoio, come le<br />

nostre, che erano state usate anche nella guerra contro la Francia e sul fronte greco-albanese,<br />

le stesse scarpe utilizzate in Russia e in Africa settentrionale, era questa la formula standard<br />

dell’esercito italiano; indossavano inoltre sul capo cal<strong>di</strong> colbacchi.<br />

I tedeschi invece portavano i “valenchi”, la calzatura del conta<strong>di</strong>no russo, un rozzo stivale<br />

<strong>di</strong> feltro ampio e caldo.<br />

Sull’intero fronte dell’ARMIR c’erano solo una trentina <strong>di</strong> carri “L”, scatolette da una<br />

tonnellata, più leggeri <strong>di</strong> un camion, che non servivano a nulla: temevano persino i faciloni<br />

anticarro russi. E non solo non esistevano carri armati, ma neppure armi controcarro. I nostri<br />

cannoni <strong>di</strong> piccolo calibro non riuscivano a perforare le pesanti corazze dei carri sovietici. La<br />

nostra artiglieria era per lo più vecchia e superata: mancava quella semovente ed era scarsa<br />

la contraerea. Un confronto tra il nostro armamento e quello sovietico non aveva senso. Lo<br />

stesso <strong>di</strong>scorso delle armi valeva per le comunicazioni. Le poche ra<strong>di</strong>o erano antiquate e<br />

scadenti. Il parco automobilistico, scarso, logoro, inadatto, a malapena serviva le truppe <strong>di</strong><br />

linea. Grave era anche la <strong>di</strong>sorganizzazione logistica. Non pochi reparti vivevano sottraendo<br />

grano e patate ai tedeschi per sfamarsi. Disponevamo <strong>di</strong> scarso carburante, i nostri autoreparti<br />

vivevano alla giornata. Nelle retrovie c’erano pochi magazzini <strong>di</strong> materiale e vestiario, ma la<br />

<strong>di</strong>sorganizzazione era tale che i materiali non raggiungevano mai il fronte. Le truppe in linea<br />

erano costrette a contare i colpi, a fare economia delle munizioni.<br />

In linea non soffrivamo solo il freddo, ma anche la fame. Nelle migliaia <strong>di</strong> pacchi partiti<br />

dall’Italia, che le famiglie inviavano ai congiunti sul fronte russo, i soldati non trovavano<br />

soltanto vestiario, ma castagne e fichi secchi, farina e pane. Occorrevano tuttavia generi <strong>di</strong><br />

conforto, viveri ricchi <strong>di</strong> grassi e proteine, invece eravamo nutriti con pane e patate bollite.<br />

Malgrado questa situazione, il morale delle truppe reggeva bene anche se la rassegnazione<br />

prevaleva. Il lavoro in linea non mancava. Chi non era <strong>di</strong> vedetta o in posizione lavorava a<br />

scavare camminamenti e trincee, a imbastire ostacoli e fossi anticarro. Nell’imme<strong>di</strong>ato<br />

retrofronte le truppe vivevano nelle isbe, coabitavano con la popolazione civile. Il conta<strong>di</strong>no<br />

siciliano, il montanaro piemontese scoprivano comuni valori umani, si sgelavano e si specchiavano<br />

nella realtà conta<strong>di</strong>na sovietica. I <strong>di</strong>aloghi erano semplici, essenziali: ci si comprendeva<br />

magari parlando a gesti. Qualche volta le <strong>di</strong>scussioni si facevano anche vivaci e si<br />

concludevano con battute polemiche ma bonarie, botta e risposta, «Mussolini Kaputt», «Stalin<br />

Kaputt»; nonostante la guerra, l’o<strong>di</strong>o non avvelenava gli animi.<br />

Il problema sorgeva quando bisognava montare <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a; in Grecia si poteva stare all’aperto<br />

per anche un’ora, in Russia se sostavi fuori per più <strong>di</strong> cinque minuti ti congelavi gli<br />

arti e le estremità come le <strong>di</strong>ta e il naso. Una sera, uscito per fare da vedetta, scorsi vicino alla<br />

strada, che agevolava il trasporto delle macchine per la sussistenza, due sciatori che attraversavano<br />

la via ad una velocità esorbitante. Non feci in tempo a lanciare l’allarme, perché<br />

ero sicuro si trattasse <strong>di</strong> spie russe che passavano <strong>di</strong> notte a controllare il nostro campo. Poco<br />

lontano da noi alloggiava in una baraccopoli l’esercito tedesco nostro alleato che Hitler aveva<br />

munito <strong>di</strong> carri armati e armi pesanti. L’invi<strong>di</strong>a per il loro equipaggiamento era evidente e la<br />

sensazione <strong>di</strong> sicurezza che l’esercito tedesco rifletteva era palpabile nel respiro <strong>di</strong> ogni<br />

soldato italiano.<br />

La ritirata<br />

Da alcuni giorni ‘Ra<strong>di</strong>o Scarpa’ trasmetteva: «I russi cominciano ad attaccare. La Julia<br />

sta sostenendo forti attacchi», ma come al solito tutto era molto vago ed impreciso.<br />

– 156 –


In breve tempo però i russi sfondarono il fronte ed entrarono con carri armati formando<br />

un cerchio intorno a noi e, in due giorni, bloccarono la nostra sussistenza, eliminando tutti gli<br />

uomini che lavoravano per fornirci gli alimenti, che si <strong>di</strong>ceva fossero circa cinque per ogni<br />

soldato. Le colonne <strong>di</strong> camion furono bloccate, vennero uccisi tutti gli uomini e i tedeschi si<br />

trovarono circondati dai russi come noi italiani. Scoprimmo poco dopo che l’esercito russo<br />

era rifornito dagli americani, i quali portavano loro armi, facendolo <strong>di</strong>ventare sempre più<br />

forte e organizzato. Ma in quel momento l’unica cosa che ci preoccupava, oltre alla vita, era<br />

come procurarci il cibo. Andavamo, allora, nelle case russe ancora abitate e rubavamo quanto<br />

più potevamo; una situazione che ci rendeva sempre più simili alle bestie e sempre più carichi<br />

d’o<strong>di</strong>o per chi ci aveva ridotto a comportarci in quel modo così <strong>di</strong>sumano. Era una con<strong>di</strong>zione<br />

ignobile e che noi, stanchi <strong>di</strong> sopportare, avevamo imparato ad ignorare. Attaccavamo i muli<br />

ai pagliai dei nostri nemici e mangiavamo dalle loro mani, ma non potevamo farne a meno.<br />

Verso le sei e mezzo, dopo il rancio serale, i nostri Ufficiali ci <strong>di</strong>ssero: «Verso sera,<br />

quando tutto sarà buio, dovremo ritirare i pezzi dalla linea nel massimo or<strong>di</strong>ne e perfetto<br />

silenzio». Venne la notte. Raccogliemmo i pezzi e le munizioni dalla linea e tornammo<br />

in<strong>di</strong>etro; passammo davanti ad una sussistenza che conteneva ancora tanti viveri. Ci <strong>di</strong>ssero<br />

<strong>di</strong> entrare, <strong>di</strong> rifornirci e <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere tutto. Io, quasi in preda alla gioia o forse solo alla<br />

fame, presi un pezzo <strong>di</strong> formaggio grana e del cognac senza <strong>di</strong>menticare tutto quello <strong>di</strong> cui<br />

<strong>di</strong>sponevamo, effetti personali in genere: due passamontagna, tre magliette, tre paia <strong>di</strong> calze<br />

e gli scarponi. Uscii dal capannone e vi<strong>di</strong> passare una compagnia del Battaglione Verona.<br />

Quando gli alpini si mischiavano con gli artiglieri significava che la situazione era grave.<br />

All’alba del 17 gennaio 1943 il corpo d’armata alpini era irrime<strong>di</strong>abilmente accerchiato.<br />

La Vicenza e la Tridentina dovevano staccarsi dal Don puntando verso Podgornoje. Il Capitano<br />

sostò impaziente davanti a me, fissandomi negli occhi e con molta convinzione ripeté<br />

tra sé: “Non so come andrà a finire, ma non vorrei che facessimo la stessa fine <strong>di</strong> Napoleone”,<br />

e a me venne in mente una breve frase che avevo imparato a memoria in quinta elementare:<br />

“Nel 1812 Napoleone, con un formidabile esercito, mosse contro la Russia, ma l’audace<br />

impresa gli riuscì fatale che segnò il termine della sua fortuna. Dopo lunghi mesi <strong>di</strong> marcia<br />

senza riposi, arrivò a Mosca e la trovò abbandonata. Per Bonaparte fu la fine, costretto alla<br />

ritirata, venne bloccato dall’esercito russo sul fiume Beresina, dove i nemici annientarono<br />

la Grande armata francese”.<br />

Ironicamente il Capitano mi rimproverò per non aver informato Hitler e Mussolini <strong>di</strong><br />

quella inesorabile sconfitta <strong>di</strong> Napoleone; avrei voluto fare qualcosa, anche una piccola cosa<br />

in modo da cambiare la nostra triste situazione, ma rimasi impotente e l’esserne consapevole<br />

rendeva tutto più amaro. L’armata tedesca ricevette nel frattempo un comunicato <strong>di</strong> Hitler il<br />

quale or<strong>di</strong>nava al Generale von Paulus <strong>di</strong> resistere fino all’ultimo uomo. Friedrich von Paulus,<br />

uno dei pochi uomini astuti e intelligenti, accusò Hitler <strong>di</strong> essere <strong>di</strong>ventato pazzo, e lo ammonì<br />

pesantemente ricordandogli quando lui stesso declinò l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> raggiungere Stalingrado, che<br />

si trovava più a sud del fiume Don. Paulus sosteneva che se fossero andati avanti si sarebbero<br />

scontrati inevitabilmente con la morte e <strong>di</strong> sicuro non con una vittoria; decise allora <strong>di</strong> arrendersi.<br />

Per noi non fu certo una bella notizia, le armi più potenti erano in mano ai tedeschi,<br />

eravamo perduti senza <strong>di</strong> loro; i nostri Generali non sapevano più cosa fare.<br />

Si <strong>di</strong>spose, dopo una breve consulta, che avremmo dovuto incamminarci fino a Podgornoje<br />

passando per Opyt, una località <strong>di</strong>stante circa quaranta chilometri dal nostro campo base,<br />

dove ci saremmo concentrati e accampati aspettando notizie e or<strong>di</strong>ni. In quei momenti sentivo<br />

<strong>di</strong> essermi smarrito, non afferravo più il significato della mia missione, eravamo <strong>di</strong>ventati tutti<br />

quanti dei burattini, esuli pezze da combattimento pronte ad eseguire qualsiasi comando,<br />

incoscienti della nostra ignota fine; esanimi camminavamo nel freddo che ormai non <strong>di</strong>sturbava<br />

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nient’altro se non la mente incapace <strong>di</strong> ragionare, <strong>di</strong> immaginare, <strong>di</strong> riflettere. La vita si spegneva<br />

e, a poco a poco, anche il corpo si associava, calava come un’ombra sulle anime che,<br />

scialbe e traballanti, effettuavano per inerzia ogni decreto. La stanchezza che ci opprimeva non<br />

era tanto quella fisica, bensì quella mentale che ci riduceva inetti a comunicare e a socializzare.<br />

La ritirata fu drammatica. Si camminava, si correva, si combatteva, si scappava. Le piste<br />

erano segnate dai morti, dagli sfiniti che sarebbero morti assiderati. Le nostre colonne erano<br />

pesanti, sconvolte, in<strong>di</strong>fese. Neanche la notte concedeva respiro: pattuglie volanti e nuclei<br />

partigiani rastrellavano gli abitati, sorprendevano le truppe che sostavano, catturavano i gruppi<br />

<strong>di</strong> sbandati. In quell’atmosfera allucinante solo la popolazione conta<strong>di</strong>na era umana: soccorreva<br />

i nostri feriti e li sfamava. Il Don era gelato e transitabile anche dai carri armati sovietici.<br />

Ogni alpino nel frattempo ricevette un cappotto con pelliccia, un indumento cortissimo e<br />

ingombrante, ma abbastanza caldo.<br />

Attraversammo un campo <strong>di</strong> sussistenza, apparentemente abbandonato e <strong>di</strong>strutto, quando<br />

i tenenti ci inviarono a perlustrare la zona. Rovistammo fugacemente nei camion rovesciati<br />

e nelle baracche e quando ormai perdemmo quel barlume <strong>di</strong> speranza che ci restava, scorgemmo<br />

sotto delle assi <strong>di</strong> legno una fila <strong>di</strong> bottiglie contenenti vino e olio, tutte completamente<br />

ghiacciate e una forma <strong>di</strong> formaggio da venti chili circa che spaccammo a furia <strong>di</strong><br />

colpi con la baionetta. Io, nel mentre, ripassai con gli occhi tutta l’area cercando <strong>di</strong> non farmi<br />

sfuggire niente. Notai che appeso alla parete <strong>di</strong>etro le mie spalle c’era un canestro abbastanza<br />

grande che conteneva <strong>di</strong> sicuro vino. Mi avvicinai, lo sganciai dalla parete e lo posai a terra.<br />

Si strinsero a me i miei compagni, curiosi <strong>di</strong> conoscere il vero contenuto della damigiana:<br />

anice. Rimproverati per il troppo tempo perduto, ci rimettemmo in cammino, ma la fame ci<br />

chiamava continuamente. Cominciammo a mangiucchiare quel poco <strong>di</strong> formaggio che<br />

eravamo riusciti a spaccare e, successivamente, bevemmo dalla botte dell’anice. Siccome il<br />

liquido era gelato il suo tasso alcolico era salito notevolmente, ci ritrovammo così uno più<br />

ubriaco dell’altro, spossati e ancor più intontiti. Si <strong>di</strong>ce spesso che l’alcol, se bevuto in gran<br />

quantità, scalda le viscere e rianima il corpo. Nel nostro caso fu il contrario, il freddo aveva<br />

paralizzato le gambe, non riuscimmo più a camminare. «Monta a cavallo del mulo!», m’incitò<br />

il mio compagno, ma a noi non era consentito salire su quelle bestie per farci trasportare,<br />

solo agli alti ufficiali era permesso. Nello stato in cui mi trovavo però ero ormai in grado <strong>di</strong><br />

fare qualsiasi cosa senza pensare troppo alle conseguenze. Salii, con un balzo <strong>di</strong> cui ancora<br />

non mi capacito, e mi aggrappai forte per non cadere. Qualche soldato prese a salutarmi e a<br />

mettersi sull’attenti credendo che fossi un ufficiale. La temperatura scendette sotto i trenta<br />

gra<strong>di</strong> e, oltre alle gambe, tutto il corpo perse velocemente sensibilità; decisi <strong>di</strong> saltare giù dal<br />

mulo e <strong>di</strong> cominciare a camminare per riacquistare un po’ <strong>di</strong> calore.<br />

Camminammo tutta la notte, sino a mattina, per arrivare a Podgornoje. Tutti i reparti,<br />

come la raggiungevano, si sfasciavano, si <strong>di</strong>sperdevano nelle isbe. Confluivano lì colonne<br />

tedesche e italiane, colonne <strong>di</strong> automezzi, muli, slitte.<br />

Faceva molto freddo, tirava un vento che ci agghiacciava. Ed ecco l’or<strong>di</strong>ne: «In colonna<br />

pezzi a traino». Quella notte camminammo per circa 40 chilometri. Spesso il buio della notte<br />

era rischiarato da forti lampi accompagnati da boati. «Cosa sarà questo?» <strong>di</strong>cevamo tra noi.<br />

Correva voce che i lampi ed i boati fossero i depositi <strong>di</strong> munizioni fatti saltare per non lasciarli<br />

cadere in mano nemica. «Ma allora,» pensammo un po’ dubbiosi «ci stiamo ritirando?».<br />

Verso mattina ci trovammo in un grande paese.<br />

Era il 18 gennaio e la situazione si stava aggravando. Era ancora buio, nonostante fosse<br />

già mattino. Una nebbia mattutina impe<strong>di</strong>va <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere con chiarezza qualsiasi contorno<br />

<strong>di</strong> figure o cose. Entrai con dei miei compagni in un’isba e, stanco morto, mi buttai su un po’<br />

<strong>di</strong> fieno e mi addormentai. Dopo circa un’ora entrò il Tenente Tranquillini. «Ma chì se<br />

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dorme!», gridò in <strong>di</strong>aletto trentino. Ci alzammo tutti in pie<strong>di</strong>, il più velocemente possibile,<br />

come se niente fosse successo; vestiti lo eravamo già, ma svegli un po’ meno, così gli chiesi:<br />

«Cosa ghe se sior tenente?». Si avvicinò e ci <strong>di</strong>sse: «Si apprende per ra<strong>di</strong>o che siamo<br />

circondati per un raggio <strong>di</strong> circa 150-200 chilometri». «Ma sior Tenente, da dove xei passà<br />

i russi?», «Non lo sappiamo ancora <strong>di</strong> preciso, caso è che siamo circondati». La notizia<br />

fu come una martellata in testa, tanto ci lasciò sbigottiti e sconvolti. Il Tenente proseguì<br />

raccomandandoci <strong>di</strong> coprirci bene per ripararci dal freddo intenso, <strong>di</strong> tenere armi, munizioni,<br />

viveri e una coperta, il resto via tutto in modo da essere alleggeriti in previsione della molta<br />

strada da percorrere e dei combattimenti da sostenere. Passai in rassegna lo zaino e mi preparai<br />

a partire.<br />

Era l’alba. Fuori dall’isba sembrava la fine del mondo.<br />

L’abitato era avvolto in una pesante coltre <strong>di</strong> fumo, erano molti gli incen<strong>di</strong>. Tutte le isbe<br />

erano strapiene <strong>di</strong> uomini. Magazzini in fiamme, depositi <strong>di</strong> munizioni che saltavano in aria,<br />

sparatorie <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nate. Una puntata corazzata sovietica su Podgornoje avrebbe significato la<br />

fine <strong>di</strong> 30.000 uomini.<br />

Un po’ più tar<strong>di</strong> la colonna cominciò a muoversi. La Tridentina procedeva su due<br />

colonne: i cosiddetti reparti organici aprivano la marcia e la grande massa degli sbandati li<br />

seguiva. Si sentivano colpi <strong>di</strong> artiglieria, la nostra mitragliatrice Breda ogni tanto faceva<br />

sentire il suo crepitio, la colonna davanti a noi era lunghissima. In coda qualche compagnia<br />

<strong>di</strong> alpini e noi artiglieri, i russi non li vedevamo ma sapevamo che erano poco lontano. La sera<br />

ci accampammo, accendemmo dei fuochi e provammo a riposare, ma gli orrori veduti quel<br />

giorno ci vietavano <strong>di</strong> dormire, <strong>di</strong> riflettere, <strong>di</strong> ricordare la nostra Patria, ormai lontana, ormai<br />

perduta. Chi poteva sapere meglio <strong>di</strong> noi come la guerra portasse alla fine, al crollo, alla<br />

<strong>di</strong>struzione; n’eravamo testimoni, tutti i giorni, ininterrottamente consapevoli del nostro<br />

destino che ci avvicinava alla morte. Uomini smarriti, ormai ombre. Non riuscivamo a scaldarci<br />

<strong>di</strong> fronte ad un fuoco acceso perché incapaci <strong>di</strong> provare emozioni che avessero potuto<br />

animarci il corpo e risanare la mente oppressa ed abbattuta.<br />

Verso mattina noi eravamo ancora fermi, ci stavamo riposando quando vedemmo dei<br />

soldati con la <strong>di</strong>visa color kaki: erano ungheresi. Cavalcavano dei bellissimi cavalli e stavano<br />

scappando molto velocemente. Chiedemmo loro il perché <strong>di</strong> una fuga così veloce e ci <strong>di</strong>ssero<br />

che i russi stavano arrivando. Nessuno <strong>di</strong> noi si mosse. A mattina già inoltrata ci attaccarono.<br />

Riuscimmo a respingerli nonostante si presentarono con carri armati. Noi non avevamo<br />

armi adatte ad affrontare i carri armati in quanto la nostra artiglieria da montagna aveva in<br />

dotazione un obice da 75/13 adatto per la montagna e non per le immense steppe russe.<br />

Quegli attacchi si fecero sempre più duri e aspri. I russi non si limitavano ad attaccare<br />

un punto ben preciso della colonna, ma attaccavano in vari punti e questo rendeva molto più<br />

<strong>di</strong>fficile la <strong>di</strong>fesa. C’erano feriti, congelati, morti, mancavano i muli e scarseggiavano i viveri.<br />

Ad un tratto il silenzio apparente venne rotto da rumori <strong>di</strong> macchine, precisamente <strong>di</strong><br />

carri armati. Il Capitano si rallegrò pensando che fossero i tedeschi venuti in nostro aiuto.<br />

Sfilarono davanti a noi, incuranti, quattro carri giganteschi; tutti si alzarono per vederli, chi<br />

era stremato e stanco rimase seduto a terra in<strong>di</strong>fferente, troppo concentrato sull’agonia che<br />

lo affliggeva, <strong>di</strong>sinteressato a quello spettacolo. Poco dopo la foga si placò e iniziò a <strong>di</strong>ffondersi<br />

nell’aria gelida angoscia e paura. Non erano carri tedeschi, infatti non avevano sulla fiancata<br />

il simbolo tipico dell’armata sassone, bensì compariva ben visibile una stella, emblema<br />

dell’esercito russo. Inquietante fu come i russi attraversarono tranquillamente il nostro campo;<br />

noi per lo sfinimento e la scarsa prontezza <strong>di</strong> riflessi non reagimmo nemmeno, non<br />

attaccammo il nemico che, per quella volta, non ci degnò neanche <strong>di</strong> uno sguardo e neppure<br />

<strong>di</strong> un colpo <strong>di</strong> mortaio.<br />

– 159 –


Verso il 20 gennaio provato dalla fatica e dalla sofferenza <strong>di</strong> una vita così dura persi<br />

le nozioni del tempo, non rammentavo più il mese, il giorno e l’anno. Il Tenente Tranquillini<br />

doveva avere qualcosa che lo preoccupava, ma non <strong>di</strong>ceva niente. Stavo mangiando delle<br />

verze trovate in un’isba; si avvicinò a me, gliene offrii un po’, in silenzio accettò e mangiò.<br />

Colsi l’occasione per chiedergli come andavano le cose. «Male» mi rispose. «Abbiamo appreso<br />

che l’armata <strong>di</strong> Von Paulus è circondata e sembra che i tedeschi vogliano arrendersi».<br />

Confessò che quell’armata era molto forte e contava circa 350.000 uomini. Cosa potevamo<br />

noi alpini che eravamo in 60.000 e già mezzi fatti fuori? «Caro Ta<strong>di</strong>ello» mi <strong>di</strong>sse «in alto i<br />

cuori e sempre coraggio, altrimenti faremo la fine <strong>di</strong> Napoleone».<br />

Riprendemmo la marcia il giorno dopo, verso le prime ore del mattino, sempre in coda<br />

alla grande colonna. Il nostro Capitano però ci fece imboccare una deviazione inaspettata. Ci<br />

ritrovammo isolati dal resto del reggimento e in preda al panico quando sentimmo dei rumori<br />

<strong>di</strong> carri armati che proseguivano verso <strong>di</strong> noi. Decidemmo <strong>di</strong> tendere loro un’imboscata, piazzando<br />

a terra due mine anticarro. Aspettammo che si avvicinassero: il primo si bloccò proprio<br />

davanti a noi, nascosti tra le piante, il secondo tentò <strong>di</strong> fuggire, si girò, ma la bomba scoppiò<br />

proprio sotto <strong>di</strong> esso, <strong>di</strong>struggendolo e uccidendo tutti gli uomini al suo interno. Davanti<br />

ai nostri occhi uno spettacolo pirotecnico colorava il cielo e il fuoco generato dalle bombe<br />

scaldava un poco le nostre membra infreddolite. Ma non era tuttavia un intrattenimento<br />

allietante, mai la morte è <strong>di</strong>vertimento.<br />

In quel momento attraversammo un piccolo villaggio e ci <strong>di</strong>ssero che dovevamo raggiungere<br />

la testa della colonna con la nostra batteria. Strada facendo vi<strong>di</strong> sulla mia sinistra una<br />

colonna <strong>di</strong> macchine italiane mezze <strong>di</strong>strutte e per terra dei soldati morti. Doveva trattarsi <strong>di</strong><br />

un comando <strong>di</strong> qualche <strong>di</strong>visione <strong>di</strong> fanteria. Trovai un piccolo bidoncino <strong>di</strong> vino tutto ghiacciato.<br />

Lo attraccai al mio mulo e invitai i miei compagni a prenderne ogni tanto un sorso. Si<br />

fece notte, una notte d’inferno. Ci fermammo, scaricammo le munizioni e le ponemmo vicino<br />

ad un’isba la quale dopo poco prese fuoco. Il mio Tenente si <strong>di</strong>sperò: bisognava togliere<br />

le munizioni per evitare lo scoppio. Fu un lavoro particolarmente faticoso a causa della stanchezza<br />

e perché a malapena riuscivamo a stare in pie<strong>di</strong>. Poco dopo trovammo delle pecore<br />

vive, le uccidemmo per sfamarci cocendo la carne sul fuoco della casa che bruciava. Poi<br />

ripartimmo, ma fummo tempestati da molti or<strong>di</strong>ni e contror<strong>di</strong>ni e non capivamo più niente.<br />

Ci ritrovammo ben presto in testa alla colonna. Sentimmo <strong>di</strong>re che nelle retrovie i russi<br />

attaccavano con i carri armati, facendo molti prigionieri.<br />

Arrivammo vicino ad un villaggio e la nostra batteria si fermò e sparò alcuni colpi. Vi<strong>di</strong><br />

una persona che ci faceva dei cenni. Era il Tenente Milesi. Lo riconobbi perché era molto alto<br />

<strong>di</strong> statura. Voleva che gli portavamo le munizioni. Gli alpini occuparono il villaggio, ma si<br />

riprese subito a camminare.<br />

Notai sul fianco della strada un gruppo <strong>di</strong> alpini morti, ci fermammo a guardarli e tra noi<br />

pensammo: «Oggi a voi, domani a noi». Sembrava quasi che una mano pietosa li avesse<br />

ricomposti. La tormenta li aveva già ricoperti, non riconoscemmo nessuno.<br />

A sera ci fermammo in un altro villaggio. Entrai in un’isba sperando ardentemente che<br />

i russi non avrebbero attaccato e che ci avrebbero lasciato dormire in pace. Accesi il fuoco<br />

per scaldarmi, mi tolsi le scarpe e con le calze venne via anche la pelle delle <strong>di</strong>ta. Un Ufficiale<br />

mi <strong>di</strong>sse «Ti fa male graffiare?». «Si, signor Tenente». «Allora non sei congelato».<br />

Presi un po’ <strong>di</strong> paglia, mi sdraiai e mi misi a canterellare. Un mio compagno mi domandò:<br />

«Ehi, ti, ciò, sito drio a deventare mato? Cosa stai cantando?». «Canta», gli <strong>di</strong>ssi «che la<br />

te passa» e, mentre agitavo le mani con gran foga, intonai due note del Nabucco <strong>di</strong> Ver<strong>di</strong><br />

“Oh mia patria, sì bella e perduta” che avevo imparato a quin<strong>di</strong>ci anni nella corale del mio<br />

paese e che cantavo <strong>di</strong> solito in trincea, suscitando l’ira del mio Capitano, preoccupato giu-<br />

– 160 –


stamente che il nemico mi sentisse. Poi tra una confusione indescrivibile, presi miracolosamente<br />

sonno. Mi svegliai verso mattina e mi ritrovai ad<strong>di</strong>rittura sommerso da tre alpini che<br />

si erano buttati sopra <strong>di</strong> me per dormire. Tentai <strong>di</strong> venire a galla, mi drizzai in pie<strong>di</strong> e mezzo<br />

ubriaco uscii dall’isba. Scorsi il mio Capitano, mi gridò qualcosa, capii solo che dovevamo<br />

essere già partiti da due ore. Dopo poco la batteria era pronta e ripartimmo.<br />

Dopo un po’ ci ritrovammo <strong>di</strong> fronte ai russi. Colonna alt! Il nostro Capitano fece <strong>di</strong>sporre<br />

in posizione i pezzi, <strong>di</strong>ede gli or<strong>di</strong>ni e fece partire alcuni colpi. Una compagnia <strong>di</strong> alpini<br />

era davanti a noi, ci fecero segno che non avevano più bisogno. Togliemmo i pezzi per poi<br />

ripartire. Appena ci rimettemmo in moto arrivarono dei colpi <strong>di</strong> artiglieria che colpirono il<br />

posto dove eravamo noi.<br />

Il paese era così libero. Al nostro arrivo trovammo dei pezzi <strong>di</strong> artiglieria abbandonati<br />

con vicino dei morti. Ci fermammo per riposare un poco in attesa che i nostri altri reparti ci<br />

raggiungessero. Venne velocemente sera. Come sarebbe stata la notte? Eravamo sempre in<br />

attesa <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ni. Provai a ficcarmi in un’isba, ma non mi lasciarono entrare. C’era dentro un<br />

nostro Comando Generale. Dalla finestra vi<strong>di</strong> che gli Ufficiali <strong>di</strong>scutevano tra <strong>di</strong> loro e sul<br />

tavolo avevano delle carte geografiche. Dopo una notte passata all’ad<strong>di</strong>accio, al mattino<br />

ripartimmo. Ad un certo punto adocchiai gli alpini sciatori ritornare da una perlustrazione e<br />

parlare con un gruppo <strong>di</strong> ufficiali.<br />

Sentii che la 19ª Batteria sparava già, la nostra non ancora. Arrivavano dei colpi <strong>di</strong> artiglieria<br />

e uno colpì un pezzo della batteria già in azione. C’erano parecchi feriti, tra i quali il<br />

Capitano. Mi venne in mente <strong>di</strong> mio cugino Fer<strong>di</strong>nando, andai a controllare, non lo trovai, ma<br />

mi <strong>di</strong>ssero che non era tra i feriti. Ritornai al mio posto e vi<strong>di</strong> un Colonnello degli alpini<br />

chiamare un Maggiore. Gli <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> prendere i suoi uomini e <strong>di</strong> muovere in una data <strong>di</strong>rezione.<br />

Il Maggiore richiamò i suoi soldati, li fece osservare al Colonnello. Saranno stati circa<br />

una trentina. «Questi», <strong>di</strong>sse il Maggiore con le lacrime agli occhi «sono il resto <strong>di</strong> tutto il mio<br />

battaglione». Il Colonnello gli si avvicinò, gli batté una mano sulla spalla e gli sussurrò qualcosa<br />

che non capii. Il Maggiore gli <strong>di</strong>ede la mano, se le strinsero molto forte, sembrava più<br />

rasserenato. Si girò, prese con sé i suoi uomini e scomparve nella tormenta. Non so cosa si<br />

siano detti quei due uomini, ma penso che certe parole si <strong>di</strong>cano una sola volta nella vita.<br />

Gli alpini riuscirono a respingere i russi e ad entrare in paese, dopo poco arrivammo<br />

anche noi e non trovammo più niente da mangiare. Ci sbrigammo a ripartire e nel pomeriggio<br />

arrivammo in un altro villaggio, occupando anche quello. Ad un tratto mi accorsi che da una<br />

casa uscivano degli alpini che tenevano in mano del miele. Entrai anch’io e vi scoprii un<br />

allevamento <strong>di</strong> api. Presi due o tre cassette <strong>di</strong> api e <strong>di</strong> miele, le portai fuori e con i miei compagni<br />

mangiammo api e miele tutto assieme.<br />

Ad un certo punto sentii urlare il mio nome, era mio cugino Michele Ferrari, attendente<br />

del Generale della Divisione Julia. Ci abbracciammo e poi cominciammo a raccontarci le<br />

nostre avventure, o meglio <strong>di</strong>savventure. Mi parlò dei furibon<strong>di</strong> combattimenti sostenuti dalla<br />

sua <strong>di</strong>visione. Mi chiese qualcosa da mangiare perché da più giorni non trovava niente. «Sì,<br />

caro cusin, adesso tin dò mi». Mi avvicinai al mulo per prendere un barattolo <strong>di</strong> marmellata<br />

trovato in una piccola sussistenza, invece delusione: durante la notte me l’avevano portato via;<br />

ne provai un grande dolore.<br />

Al mattino riprendemmo a camminare; entrammo in un paese e quella volta non ci fu<br />

bisogno <strong>di</strong> sparare. Camminando tra le vie del paese trovammo, ad un certo momento, un<br />

ospedale. Niente <strong>di</strong> straor<strong>di</strong>nario in ciò, ma mi fermai ugualmente e con me tanti altri alpini,<br />

a guardare una scena che ora mi sconvolge a pensarci, ma allora mi lasciò quasi in<strong>di</strong>fferente.<br />

Con noi si trovavano dei tedeschi, si <strong>di</strong>ceva fossero SS. Camminavano con noi; praticamente<br />

si ritiravano anche loro con noi. Arrivati in quel paese erano entrati nell’ospedale. Non so cosa<br />

– 161 –


stessero facendo, ma vedevo ammalati saltare dalle finestre e fuggire come <strong>di</strong>sperati. Come<br />

ho detto la scena mi ha lasciato praticamente in<strong>di</strong>fferente, la guerra mi aveva fatto perdere il<br />

senso della sofferenza e del male. Anche quando il male lo provi <strong>di</strong> persona.<br />

Ripartimmo nuovamente, mentre un grido ci accompagnava: «Avanti! Avanti!». La fame<br />

mi aveva tolto le forze, ma come un lampo nella mente mi ricordai <strong>di</strong> avere nello zaino una<br />

scatola <strong>di</strong> Ovomaltina, me l’aveva spe<strong>di</strong>ta mia madre dall’Italia quando ero sul Don e l’avevo<br />

conservata nei viveri <strong>di</strong> riserva. Ne mangiai mezza scatola e l’altra metà la <strong>di</strong>e<strong>di</strong> al mio compagno<br />

Vinco. Quella scatola <strong>di</strong> Ovomaltina fu per me la manna in mezzo a quel mare <strong>di</strong> neve.<br />

La marcia si fece sempre più dura, si sprofondava nella neve, i muli non riuscivano a tirare i<br />

pezzi. Ci <strong>di</strong>cevano continuamente: «Bisogna passare questa piccola valle, al <strong>di</strong> là andremo<br />

meglio». Dopo molti sforzi riuscimmo ad attraversare la valle. Trovammo due lunghe<br />

baracche piene <strong>di</strong> fieno. Ne demmo ai muli e noi accendemmo dei fuochi per scaldarci, ma<br />

il Capitano Bavosa ci gridò: «Spegnete i fuochi, il nemico ci può vedere!». Mi avvicinai<br />

allora ai muli e ai pezzi, ma era ancora troppo freddo, perciò entrai nel capannone, mi misi<br />

sotto un po’ <strong>di</strong> fieno e presi sonno. Ad un tratto mi svegliai <strong>di</strong> soprassalto, dei soldati mi<br />

stavano calpestando. Sentii un grido dall’esterno. Saltai fuori mezzo attonito e intontito: il<br />

capannone aveva preso fuoco; ci scaldammo con quell’incen<strong>di</strong>o fino a mattina, nessuno sparò<br />

verso <strong>di</strong> noi fortunatamente. Prima che venisse l’alba eravamo già in movimento.<br />

Intanto erano tornati in<strong>di</strong>etro gli alpini: il Battaglione Verona e Edolo, ci avvisarono che<br />

non riuscivano a passare perché c’erano i carri armati russi. Ma a fronteggiare i russi erano<br />

rimasti sul posto altre batterie ed altri alpini. Dai colpi che si sentivano si capiva che la<br />

battaglia era intensa.<br />

Capitava spesso <strong>di</strong> dover chiamare dei battaglioni che si trovavano in coda alla colonna.<br />

Allora, dalla testa della coda, un Ufficiale gridava «Avanti il Battaglione Vestone» e nella<br />

notte l’eco sembrava arrivare fino alle stelle, per poi rimbalzare contro <strong>di</strong> esse e tornare<br />

in<strong>di</strong>etro, sbattendo addosso ai nostri corpi che per il trambusto facevano quasi fatica a rimanere<br />

in pie<strong>di</strong>. Quando la voce raggiungeva il Battaglione, passavano ancora delle ore prima<br />

che gli uomini arrivassero in cima alla colonna. Giungevano avvolti dalla tormenta, quasi<br />

fossero fantasmi e si mettevano a parlare con l’Ufficiale che li aveva chiamati in causa.<br />

Vi<strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> Ufficiali, c’erano anche Generali e Colonnelli: stavano <strong>di</strong>scutendo. A<br />

guardarli in faccia sembravano pieni <strong>di</strong> coraggio e a questo proposito devo <strong>di</strong>re una cosa<br />

che non posso tacere. Durante tutto il periodo della guerra e specialmente quando i pericoli<br />

erano maggiori, non ho mai visto Ufficiali alpini venire meno ai propri doveri. Hanno sempre<br />

saputo essere all’altezza del loro compito sia come capacità che come coraggio.<br />

I russi per il momento se n’erano andati, ma le nostre con<strong>di</strong>zioni si facevano sempre<br />

più penose. Il freddo era terribile: si parlava <strong>di</strong> 40-45° sotto zero. Un soldato si attaccò al mio<br />

mulo, si faceva trascinare. Gli chiesi che cosa aveva, ma non rispondeva. Lo caricai sul mulo,<br />

ma dopo un po’ lo dovetti scaricare a terra, altrimenti sarebbe congelato; non era ferito, ma<br />

non aveva più forze. Mi accorsi solo allora che non era un semplice soldato, ma un Maggiore<br />

me<strong>di</strong>co <strong>di</strong> fanteria. Lasciai che si trascinasse ma in seguito non lo vedetti più.<br />

Sopra <strong>di</strong> noi passò nel frattempo una “Cicogna”: era russa, stava andando ad atterrare su<br />

una collina vicina. Il mio Capitano fermò un pezzo, lo posizionò, <strong>di</strong>ede le coor<strong>di</strong>nate <strong>di</strong> tiro<br />

e fece partire un colpo. Ne seguì subito un altro e l’aereo venne colpito, vedemmo due uomini<br />

fuggire. Ripartimmo. Un Ufficiale tedesco vicino a noi gridò: «Gut fanteria». Il Capitano,<br />

sorridendo, sussurrò con quella sua voce baritonale «Abbiamo ancora le navi da affondare,<br />

poi le abbiamo fatte tutte».<br />

Cominciava a fare un po’ meno freddo. Si continuava a camminare. Erano passati quasi<br />

otto giorni dall’inizio della ritirata. Presto saremmo arrivati alle porte <strong>di</strong> Nikolajewka. Io<br />

– 162 –


facevo parte del gruppo che era in testa alla colonna. Arrivavano dei colpi <strong>di</strong> mortaio e il mio<br />

Capitano ci fece fermare perché voleva rendersi conto personalmente <strong>di</strong> quanto stava succedendo.<br />

Decise poi <strong>di</strong> fare staccare la mia sezione e con il Tenente Tranquillini prendemmo<br />

un’altra strada. Chiedemmo al Tenente dove stavamo andando noi soli con due pezzi e ci<br />

rispose che dovevamo far cessare quegli attacchi che provenivano da destra. Ma ritornammo<br />

sui nostri passi senza dover sparare un colpo. Approfittai della situazione per sgattaiolare in<br />

un’isba. Quando entrai trovai sopra il camino un tipico cibo russo. Erano delle mele tagliate<br />

a fettine, infilzate con ago e filo e messe ad essiccare come una collana <strong>di</strong> fiori sopra al<br />

focolare. Ne portai fuori quel che riuscii a recuperare e invitai i miei compagni a servirsene.<br />

Intanto la Tridentina continuava i suoi combattimenti presso Sceliakino. Erano migliaia<br />

gli sfiniti in ginocchio lungo le piste e piangevano stendendo le mani come se chiedessero l’elemosina.<br />

Ma le colonne passavano, correvano, scappavano. Dopo aver raggiunto Nikitovka,<br />

come da or<strong>di</strong>ne dell’ARMIR, dovevamo superare due sbarramenti, ad Arnauto e Nikolajewka.<br />

Ci unimmo quin<strong>di</strong> al resto della colonna che era sempre ferma su una collina alla porte<br />

<strong>di</strong> Nikolajewka. Venne verso <strong>di</strong> noi un Colonnello a cavallo e ci comunicò che dovevamo<br />

avanzare perché davanti avevano bisogno <strong>di</strong> noi. Gli alpini tentarono <strong>di</strong> entrare in città, ma i<br />

russi li respinsero. C’era una ferrovia che ci <strong>di</strong>videva da loro. Non riuscimmo ad attraversarla.<br />

Piazzammo i pezzi, avevamo i colpi contati e come se non bastasse c’erano pure gli aerei che<br />

ci attaccavano. I morti e i feriti erano molti. Insieme ai soldati combattevano anche Generali,<br />

Ufficiali e <strong>di</strong> tutti i gra<strong>di</strong>. Cominciammo a scendere verso Nikolajewka. Era il 26 gennaio.<br />

Riuscimmo a passare la ferrovia, ma fummo ricacciati in<strong>di</strong>etro. Fu una battaglia dura, ma alla<br />

fine gli alpini riuscirono ad entrare in città e allora noi artiglieri fummo costretti a cessare il<br />

fuoco. Verso sera arrivò l’or<strong>di</strong>ne del Generale Riverberi: «Tridentina avanti!». Partimmo<br />

tutti, era l’ultimo <strong>di</strong>sperato tentativo. Quando i russi si accorsero che il grosso stava scendendo<br />

verso <strong>di</strong> loro misero in azione tutte le artiglierie. «Ostrega ghe semo!», pensai.<br />

Non me la sono mai vista brutta come in quel momento. «Mio Dio rimetto nelle Tue mani<br />

la mia vita», pregai come mai avevo pregato. Arrivavano colpi da tutte le parti; morti, feriti,<br />

urla, muli squarciati, sembrava impossibile vivere ancora. In mezzo a quell’inferno sentii<br />

una voce <strong>di</strong>sperata: «Mamma, mamma aiuto!». Non mi fu possibile soccorrere questo soldato,<br />

avrei saputo più tar<strong>di</strong> che era della mia batteria.<br />

Verso notte cominciammo ad entrare in città. Si sparava ancora, non capivo più niente.<br />

Sentii chiamare il mio cognome. Era la voce <strong>di</strong> un mio caro amico del Battaglione Verona:<br />

Luigi Lunar<strong>di</strong>. Ci identificammo dalla voce perché dall’aspetto eravamo irriconoscibili. Ci<br />

stringemmo in un grande abbraccio, cercando <strong>di</strong> farci coraggio: «Forza che forse ghe semo,<br />

e se troveremo ancora a Gambellara a magnare polenta e osei». «Ciao, ciao!». Ci saremmo<br />

ritrovati poi in Italia.<br />

Non riesco a descrivere quello che ho visto in quella città: confusione, soldati morti,<br />

feriti, congelati. Io non riuscivo a stare in pie<strong>di</strong> e mi meravigliavo <strong>di</strong> essere ancora vivo.<br />

C’era ancora il pericolo <strong>di</strong> trovare i russi.<br />

Ci fermammo in un piazzale dove c’era una chiesa; entrammo, eravamo i primi. In un<br />

attimo si riempì <strong>di</strong> persone. Accendemmo dei fuochi per scaldarci, mangiai qualcosa e cercai<br />

<strong>di</strong> riposarmi in pie<strong>di</strong>, proprio come le bestie. Ma la chiesa prese fuoco. «Fuori, fuori!» si<br />

urlava. Aiutammo gli alpini feriti ad uscire e ci ritrovammo tutti in mezzo al piazzale. Arrivavano<br />

degli spari, erano partigiani russi, un nostro ufficiale li volle andare a prendere. Erano<br />

riparati <strong>di</strong>etro un pagliaio. Non so se ci riuscì, non ne seppi più nulla. La notte passata all’aperto<br />

in quelle pietose con<strong>di</strong>zioni fu triste e desolante. Ci pro<strong>di</strong>gammo come meglio<br />

potevamo per aiutare i feriti e i congelati, ma non avevamo niente. Da <strong>di</strong>eci giorni ci mancavano<br />

tutti i rifornimenti.<br />

– 163 –


Al mattino riprendemmo a camminare, non sapevamo ancora che con quella battaglia<br />

si era aperta la porta verso la liberazione. Seppi più tar<strong>di</strong> che, mentre eravamo circondati,<br />

Ra<strong>di</strong>o Mosca trasmetteva che la sacca del Don sarebbe stata la tomba degli alpini d’Italia,<br />

ma poi la stessa emittente avrebbe riconosciuto che solo gli alpini riuscirono ad uscire dall’accerchiamento.<br />

Camminammo per alcuni giorni e notti senza fermarci e questo per evitare <strong>di</strong> essere<br />

accerchiati ancora.<br />

Avevamo perduto tutto, ci restavano solo i muli. A quelle bestie devo il mio grazie<br />

più caro perché sono state la nostra salvezza. A loro attaccavamo le slitte per portare feriti e<br />

congelati.<br />

Ci <strong>di</strong>ssero che dovevamo raggiungere un caposaldo tedesco, ma non riuscivamo a<br />

trovarlo. Una loro “Cicogna” guidò la nostra colonna. Non arrivavano rifornimenti, né viveri;<br />

eravamo sfiniti, passando dai villaggi portavamo via tutto quello che trovavamo. Se trovavamo<br />

una bestia la uccidevamo e la mangiavamo cruda.<br />

Un pomeriggio vedemmo delle autoblindo tedesche ferme con impianti ra<strong>di</strong>o funzionanti,<br />

ma poco dopo se ne andarono. C’era ancora pericolo <strong>di</strong> accerchiamento. Allora la<br />

marcia invece <strong>di</strong> cessare continuò. Marciammo per tutta la notte. Al mattino ci fermammo un<br />

momento. Vi<strong>di</strong> vicino a me un Ufficiale che si stava lavando le mani con la neve. Mi guardò<br />

e sorridendo mi <strong>di</strong>sse: «Di dove sei tu?», «Di Verona» gli risposi. «Coraggio allora, che a<br />

Verona ti riporterò ancora!». Solo dopo mi accorsi che era il mio Generale Reverberi. Quelle<br />

parole mi risuscitarono, lo ringraziai e dentro <strong>di</strong> me piansi <strong>di</strong> gioia. Mi girai e lo <strong>di</strong>ssi ai miei<br />

compagni e se avessi potuto l’avrei gridato a tutta la colonna.<br />

Continuammo a camminare.<br />

Passammo vicino al Comando tedesco che cercavamo. Avevano un grande allevamento<br />

<strong>di</strong> polli. Sfondammo la porta, nonostante una guar<strong>di</strong>a armata ce lo impe<strong>di</strong>sse. Io presi una<br />

decina <strong>di</strong> galline, le buttai sulla slitta e poi le coprii con degli stracci. I tedeschi imprecavano,<br />

ma noi non ci curavamo nemmeno <strong>di</strong> loro. Alla sera ci fermammo in un altro villaggio.<br />

Ci concessero <strong>di</strong> riposare tutta la notte. Entrammo in un’isba. C’erano solo tre donne. Consegnammo<br />

loro le galline incaricandole <strong>di</strong> cuocerle; lo fecero subito. Dopo tre ore il brodo<br />

caldo insipido era pronto accompagnato da una gallina a testa (e una penna sul cappello).<br />

Io non mangiai. Mi venne inoltre una forte febbre. Mi buttai giù e cercai <strong>di</strong> dormire.<br />

Verso mezzanotte la padrona <strong>di</strong> casa mi svegliò e mi <strong>di</strong>ede un po’ <strong>di</strong> brodo caldo. Rimasi stupito<br />

per la sua gentilezza e bontà. Bevvi il brodo, la ringraziai e ripresi a dormire. A questo<br />

punto tengo ad affermare, avendo avuto ancora modo <strong>di</strong> constatarlo, la grande cor<strong>di</strong>alità del<br />

popolo ucraino. Lasciavano capire <strong>di</strong> volerci bene nonostante in guerra fossimo nemici.<br />

Al mattino avevo ancora la febbre. Un mio amico mi caricò sulla slitta. Così ripartii con<br />

gli altri. Ma un camion tedesco investì la slitta: fui buttato nel fosso e rotolai per qualche<br />

metro. Saltai in pie<strong>di</strong> perché dovevo per forza camminare. Iniziai a sentirmi meglio, mi parve<br />

<strong>di</strong> non avere più la febbre. Ci voleva quello spintone per farmi guarire. Strada facendo<br />

incontrammo una colonna tedesca, chiedemmo da dove venivano: «Dalla Francia», ci risposero.<br />

Erano ben vestiti e ridevano a vederci in quelle con<strong>di</strong>zioni. «Poveretti» pensammo noi,<br />

«ve ne accorgerete!».<br />

Dopo qualche giorno ci fermammo ancora e il nostro capitano comunicò che forse<br />

eravamo fuori pericolo <strong>di</strong> accerchiamento. Sostammo qualche giorno per riprendere un po’<br />

le forze. Eravamo pieni <strong>di</strong> pidocchi e non riuscivamo a lavarci i panni. Lì venni a sapere che<br />

i Coman<strong>di</strong> Tedeschi avevano fatto una proposta ai nostri Coman<strong>di</strong>: raccogliere tutti gli uomini<br />

usciti dalla sacca e rifare un altro esercito. I nostri superiori avevano risposto con un secco<br />

rifiuto.<br />

– 164 –


D’improvviso una voce corse da un’isba all’altra, echeggiando nel cielo limpido, la coda<br />

stava ripartendo. La Tridentina guidava una colonna ininterrotta <strong>di</strong> sbandati che si allungava<br />

nella steppa con una profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> trenta chilometri. Il 27 gennaio i resti della Cuneense,<br />

irrime<strong>di</strong>abilmente accerchiati, con il generale Battisti, caddero prigionieri a Valuijki. Il 31 gennaio<br />

la Tridentina raggiunse finalmente gli avamposti tedeschi. Le truppe sfilarono così sotto<br />

gli occhi del generale Garibol<strong>di</strong>. I feriti più gravi furono i più fortunati: venivano caricati sui<br />

pochi autocarri italiani e sgombrati verso Charkov. Si calcolava che fossero usciti dalla sacca<br />

circa 20.000 italiani e circa 16.000 tedeschi ed ungheresi.<br />

La ritirata era finita, ma il calvario continuava. Le colonne della Tridentina dovettero<br />

riprendere una lunga marcia, interminabile, verso ovest. Il fronte era in movimento e i<br />

superstiti dell’ARMIR rischiavano <strong>di</strong> restare <strong>di</strong> nuovo insaccati. Settecento chilometri, poi i<br />

resti della Tridentina finalmente raggiunsero il punto <strong>di</strong> radunata, a Slobin. Con i giorni del<br />

<strong>di</strong>sgelo si ricostruirono sulla carta i reparti, si contarono i morti e i <strong>di</strong>spersi della ritirata.<br />

Se nel 1942 erano occorse 200 tradotte per portare il corpo d’armata italiano sul fronte russo<br />

allora ne bastarono 17 per ricondurre in Italia i superstiti.<br />

Il ritorno<br />

Dal giorno della nostra partenza, datata 17 gennaio, giorno dell’inizio della grande ritirata,<br />

camminammo per più <strong>di</strong> un mese, giorno e notte, in con<strong>di</strong>zioni estreme, <strong>di</strong>sumane e inconcepibili.<br />

Il 25 febbraio ci misero su un treno che sarebbe dovuto entrare in Italia <strong>di</strong> lì a poco.<br />

Le terre fredde della Polonia, dell’Ucraina e della Cecoslovacchia ci accolsero inermi, polari<br />

e quasi <strong>di</strong>sabitate. Fu un viaggio <strong>di</strong> ritorno, e per quanto fosse <strong>di</strong>fficile affrontarlo, visto che<br />

la mente non faceva altro che pensare ai giorni terribili passati in Russia, fu pur sempre un<br />

viaggio verso casa, verso la serenità.<br />

Attraversato il Tarvisio, giungemmo a Dobbiaco verso aprile, dove ci aspettavano<br />

quaranta giorni <strong>di</strong> contumacia. Fummo rintanati per evitare <strong>di</strong> contagiare la popolazione con<br />

malattie contratte in Paesi stranieri; queste si sarebbero sviluppate entro quaranta giorni, ma<br />

per fortuna nessuno <strong>di</strong> noi era grave. Ci pulirono, rivestirono e nutrirono a dovere.<br />

Con poca nostalgia nel cuore tornammo subito a Vipiteno, luogo delle nostre esercitazioni<br />

e del nostro servizio. Ci accampammo in mezzo ai boschi, in tenda, del resto era estate e<br />

il freddo russo era ormai un ricordo, anche se un ricordo amaro, <strong>di</strong>fficile da debellare. Dopo<br />

la <strong>di</strong>sfatta in Russia, dopo la <strong>di</strong>struzione dell’esercito italiano in Africa, ci godemmo un po’<br />

<strong>di</strong> pace. Il cielo stellato italiano, pressappoco uguale, se non del tutto, a quello russo, era<br />

comunque più piacevole e più luminoso sopra ai nostri occhi e tentava invano <strong>di</strong> far sparire<br />

le orribili memorie dei compagni trucidati, congelati o morti. Verso il 24-25 luglio il capitano<br />

radunò la batteria d’urgenza, tra lo scompiglio generale, annunciò: «Se vedete <strong>di</strong> notte o <strong>di</strong><br />

giorno dei paracadutisti, non sparate! Questo è l’or<strong>di</strong>ne!». Il dubbio avvolse l’intero battaglione<br />

che ipotizzava sintomi <strong>di</strong> crisi tra la potenza tedesca e il governo italiano, fatto sta che<br />

nemmeno gli Ufficiali erano consapevoli <strong>di</strong> quello che succedeva a livello internazionale e<br />

persino nazionale. Di che razza erano poi i paracadutisti?<br />

Venne l’8 settembre. Nessuno ancora capiva bene cosa stesse succedendo, non si sentiva<br />

<strong>di</strong>re niente. Verso le 20.00 la batteria tedesca contraerea, appostata nei pressi <strong>di</strong> un monte,<br />

cominciò a sparare nella nostra <strong>di</strong>rezione. La confusione fu notevole; perché mai i tedeschi,<br />

nostri alleati, ci sparavano contro? Sarebbe stata una totale pazzia. Noi oltretutto eravamo<br />

sprovvisti <strong>di</strong> armi e <strong>di</strong> muli, persi tutti in Russia. Il Tenente allora si avvicinò a me, <strong>di</strong>sse <strong>di</strong><br />

prendere con me altri artiglieri, le bombe a mano che ci restavano e <strong>di</strong> seguirlo fin su al<br />

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caposaldo tedesco; era intenzionato a fermare l’offensiva appena ricevuta. Il Tenente però<br />

precisò che dalle alte sfere non erano arrivati or<strong>di</strong>ni, lui voleva partire da solo, facendo tutto<br />

<strong>di</strong> testa sua. Respingemmo così la frettolosa offerta e tornammo ai ripari. Dopo poco gli<br />

attacchi cessarono, ma i tedeschi presero ad attaccare un’altra batteria alpina che si trovava<br />

in una <strong>di</strong>versa postazione. Anche loro, stupiti e inermi, assistettero all’attacco. Il provve<strong>di</strong>mento<br />

<strong>di</strong> uno dei loro capitani però fu decisivo. Egli non ammetteva che i tedeschi, ospitati<br />

in casa nostra, potessero permettersi <strong>di</strong> attaccare senza ragione. Prese le uniche munizioni che<br />

gli restavano e, impegnando la sua batteria nel contrattacco, <strong>di</strong>strusse completamente<br />

l’accampamento tedesco.<br />

La mattina del 9 settembre una camionetta tedesca arrivò al nostro caposaldo.<br />

I tedeschi, abbandonati dai loro Coman<strong>di</strong>, or<strong>di</strong>narono ai nostri Ufficiali <strong>di</strong> seguirli.<br />

Destinazione Germania. Pensavamo fosse questione <strong>di</strong> un mese, <strong>di</strong> un conflitto lampo; i<br />

tedeschi d’altra parte non sarebbero riusciti a reggere da soli la guerra che avevano loro stessi<br />

generato. Ci fecero abbandonare le poche bombe a mano che avevamo e ci incolonnarono per<br />

bene. Percorremmo 50 chilometri a pie<strong>di</strong>, da Vipiteno ad Innsbruck , un viaggio percorso nel<br />

dubbio e nello sconforto. L’Italia (i Coman<strong>di</strong> Generali) aveva deposto le armi, resasi conto<br />

della guerra atroce che stava combattendo, noi però ci trovavamo in Germania ignari <strong>di</strong> quello<br />

che i tedeschi avrebbero fatto <strong>di</strong> noi. Lo scoprimmo ben presto, quando per dormire fummo<br />

posti in bunker umi<strong>di</strong> e tetri, quando per stare in pie<strong>di</strong> non bastava quel pezzo <strong>di</strong> pane insipido<br />

e cartoccioso: eravamo stati rinchiusi in un campo <strong>di</strong> concentramento, chiamato Stalag<br />

ib, come “prede <strong>di</strong> guerra non <strong>di</strong>chiarata” e io come matricola numero 11771. Per fortuna<br />

(e questo non è un modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re) ci trasferirono in un campo <strong>di</strong> lavoro dove ci fecero costruire<br />

le trincee verso la Polonia, per quattro mesi consecutivi. Gli Ufficiali li allontanarono da noi,<br />

non sapevo bene se ricevessero dei trattamenti speciali, ma sicuramente era così. Eravamo più<br />

<strong>di</strong> 600.000 prigionieri italiani, uno più spaurito dell’altro, pronti però a fare onore alla Patria<br />

quando mai questo fosse stato richiesto.<br />

La situazione internazionale era misteriosa, nessuno capiva o sapeva dove la Germania<br />

sarebbe andata a parare, da chi avrebbe ricevuto aiuto e chi glielo avrebbe offerto. L’Italia era<br />

attraversata da un’ondata <strong>di</strong> crisi e contrad<strong>di</strong>zioni, ed era quasi vicina a scatenare uno scontro<br />

in opposizione alla sua alleata tedesca. Questi stessi Coman<strong>di</strong> Tedeschi vennero a chiedere<br />

soccorso a noi prigionieri italiani. Avremmo dovuto scegliere se combattere a fianco<br />

della Germania, in questo caso ci avrebbero rivestito e fornito <strong>di</strong> armi, o rimanere nelle con<strong>di</strong>zioni<br />

in cui ci trovavamo. La nostra richiesta, ed allora pretendevamo anche noi qualche<br />

cosa, avendo capito che i tedeschi senza gli italiani non ce l’avrebbero fatta, era <strong>di</strong> restituirci<br />

i nostri Ufficiali, da tempo separati da noi soldati e con i quali avremmo volentieri combattuto.<br />

Ma i nostri ufficiali rifiutarono <strong>di</strong> combattere a fianco della potenza tedesca. E noi aderimmo<br />

alla loro decisione. Fino a novembre fummo costretti a lavorare come forsennati per<br />

costruire le loro trincee, che a poco sarebbero servite senza dei soldati da far combattere.<br />

Verso l’inizio <strong>di</strong> gennaio fui trasferito nel campo <strong>di</strong> lavoro a Oels-Breslau, per lavorare<br />

in fabbrica. Con me c’era anche Fer<strong>di</strong>nando, mio cugino. La fabbrica si occupava <strong>di</strong> riparazioni<br />

alle locomotive a vapore, un lavoro non molto pesante, se non fosse stato per gli orari:<br />

do<strong>di</strong>ci ore <strong>di</strong> giorno una settimana e do<strong>di</strong>ci ore <strong>di</strong> notte la settimana successiva. Venivamo<br />

ripagati con il minimo in<strong>di</strong>spensabile per vivere, così per tre<strong>di</strong>ci mesi, in con<strong>di</strong>zione da<br />

olocausto; da ottantacinque chili arrivai a pesarne quarantotto. Passai lì due volte il Natale,<br />

nel 1943 e nel 1944, in quelle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> miseria.<br />

La mattina del 25 <strong>di</strong>cembre del 1944, uscii <strong>di</strong> nascosto per raccattare nel letamaio un<br />

cestino <strong>di</strong> bucce <strong>di</strong> patate. Corsi nella baracca, le pulii, le cucinai in un po’ <strong>di</strong> acqua insieme<br />

ad un pezzetto <strong>di</strong> burro, che ogni tanto ci davano insieme ad un pezzo <strong>di</strong> cioccolato, e le<br />

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mangiai, ma subito dopo mi colpì un mal <strong>di</strong> stomaco tremendo. Potevo <strong>di</strong>re <strong>di</strong> aver passato<br />

il Natale con la pancia piena, anche se questa ululava dal dolore dei crampi.<br />

Venivamo continuamente sorvegliati dalle SS e non potevamo assolutamente comunicare<br />

con l’esterno. In caso <strong>di</strong> svenimenti o malori (come mi è personalmente capitato) venivamo<br />

picchiati e bastonati dalle SS. Chi si ammalava e non poteva continuare il lavoro veniva<br />

portato via e <strong>di</strong> questi si perdeva ogni traccia.<br />

Intanto il fronte russo avanzava, noi eravamo in una zona in cui i russi non avrebbero<br />

faticato ad arrivare. In quel periodo, per fortuna, l’America entrò nel conflitto. Con le sue<br />

armate era sbarcata in Italia, non trovando però vittoria contro le armate tedesche provenienti<br />

dall’Africa. Noi invece ci trovavamo in mezzo tra russi e americani (provenienti dalla Francia<br />

e dalla Norman<strong>di</strong>a), ma nessuno sapeva cosa sarebbe successo. O almeno cosa avremmo<br />

dovuto fare noi prigionieri.<br />

Dove lavoravo io rischiavamo tutti i giorni <strong>di</strong> morire. Il freddo e la fame si <strong>di</strong>vertivano<br />

a logorare i nostri corpi smunti. Nella fabbrica eravamo circa in 3.000 uomini e io lavoravo<br />

in un reparto dove c’era un francese prigioniero <strong>di</strong> guerra. Era trattato meglio <strong>di</strong> noi, veniva<br />

sfamato dalla Croce Rossa Internazionale, noi non eravamo considerati prigionieri <strong>di</strong> guerra<br />

e quin<strong>di</strong> la Croce Rossa non poteva avere contatti <strong>di</strong> nessun tipo con l’Esercito Italiano catturato<br />

dai tedeschi. Lui viveva in una baracca nella quale aveva messo in pie<strong>di</strong> una ra<strong>di</strong>o, da<br />

essa riceveva notizie particolari che noi non potevamo avere da nessuno e che nessuno ci<br />

avrebbe mai comunicato: “i francesi sarebbero stati liberati dai russi e non dagli americani”.<br />

Era nata così una situazione <strong>di</strong> paura, se i russi avessero liberato i francesi avrebbero preso<br />

noi come prigionieri, avendo combattuto contro <strong>di</strong> loro sul fronte del Don. Con noi lavorava<br />

anche un ragazzo cecoslovacco e con lui ci <strong>di</strong>vertivamo a parlare <strong>di</strong> calcio; qualche anno prima<br />

infatti l’Italia aveva battuto due a uno la nazionale cecoslovacca ai campionati mon<strong>di</strong>ali,<br />

e noi scherzavamo con lui sapendo che era comunque molto affezionato a noi italiani.<br />

Insieme a lui e a tutti i prigionieri, finito il lavoro, ci incamminavamo verso la baracca che<br />

si trovava in periferia, vicino ad un’immensa <strong>di</strong>stesa <strong>di</strong> campi coltivati <strong>di</strong> patate, spinaci e<br />

barbabietole. Capitava che alle volte ci dessero il permesso <strong>di</strong> uscire, dopo il rancio serale, nel<br />

cortile della baracca. Una <strong>di</strong> quelle volte ci avventurammo nelle coltivazioni; raccogliemmo<br />

delle barbabietole e le pulimmo come meglio potevamo, con le mani e con gli stracci che<br />

avevamo addosso. Le assaggiai, ma erano talmente fredde che mi gelarono tutto lo stomaco e<br />

le budella. Un’altra volta, da quanto eravamo affamati, strappammo delle patate, lasciando le<br />

piante fuori dal terreno. I conta<strong>di</strong>ni si accorsero subito, presentarono denuncia al Comando del<br />

campo <strong>di</strong> concentramento e qualche giorno dopo venimmo tutti radunati nel grande cortile. Un<br />

Ufficiale tedesco, con quattro soldati, si mise davanti ai prigionieri, zittiti e impauriti come mai<br />

era successo. Negli occhi <strong>di</strong> tutti noi scorreva lentamente una fifa atroce, la paura per l’ira che<br />

i tedeschi ci avrebbero scatenato contro, e noi come sempre rimanevamo inermi, incapaci <strong>di</strong><br />

contestare. Un interprete, che allora era uno <strong>di</strong> noi, si accostò all’Ufficiale; questi cominciò a<br />

parlare, ad urlare e noi, che capivamo qualcosa della lingua tedesca, intuimmo che non erano<br />

<strong>di</strong> certo delle belle notizie e che si trattava certamente delle patate che avevamo rubate e mangiate<br />

crude. Quando l’Ufficiale finì <strong>di</strong> imprecare e <strong>di</strong> inveire, in<strong>di</strong>cando sovente le corde per<br />

l’impiccagione, il nostro interprete si fece avanti e, sicuro che i tedeschi non capivano niente<br />

<strong>di</strong> italiano e figuriamoci <strong>di</strong> <strong>di</strong>aletto, ci <strong>di</strong>sse queste parole: “Adesso vi <strong>di</strong>co una cosa, ma che<br />

nessuno <strong>di</strong> voi si azzar<strong>di</strong> a ridere, altrimenti lo uccido! Perché avete strappato così malamente<br />

le piante delle patate? Non potevate prendere una patata da ogni pianta? Bisognerà che venga<br />

io ad insegnarvi! Loro vi hanno detto che se trovano ancora qualcuno che fa una cosa del<br />

genere lo impiccano! State quieti, abbiate pazienza che ormai la nostra liberazione è vicina e<br />

quin<strong>di</strong> la sorte che loro hanno pensato per noi, non si avvererà, saremo noi a portarli sulla<br />

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forca!”. Ed ad<strong>di</strong>tava insistentemente verso la corda per impiccare i <strong>di</strong>sertori e, siccome i<br />

tedeschi proprio non capivano niente della nostra lingua e credevano che l’interprete traducesse<br />

alla lettera il loro <strong>di</strong>scorso, annuivano con la testa e ripetevano “sì sì” nella loro lingua. Noi<br />

imparammo la lezione, ancora sconcertati dal coraggio dell’interprete, che aveva avuto la<br />

prontezza <strong>di</strong> spirito <strong>di</strong> <strong>di</strong>re quelle cose <strong>di</strong> fronte all’ufficiale che, se solo avesse conosciuto un<br />

po’ <strong>di</strong> italiano, lo avrebbe fatto fucilare all’istante. Non saremmo più andati a rubar patate,<br />

anche perché quando erano crude, non erano per niente buone!<br />

Alla sera, quando rientravamo nella catapecchia un nostro compagno, come tanti altri <strong>di</strong><br />

noi, ci raccontava <strong>di</strong> aver imparato un canto che usavano intonare durante la Prima Guerra<br />

Mon<strong>di</strong>ale i nostri padri; faceva più o meno così: “Noi prigionieri, noi prigionieri <strong>di</strong> guerra,<br />

là sull’ingrata terra, sul suolo slesian, è grata, è grata e non si può dormir, la pelle è traforata,<br />

oh che crudel destin. Giunti in baracca, sul duro letto <strong>di</strong> legno, dove che pulci regno, pidocchi<br />

in quantità, è grata, è grata e non si può dormir, la pelle è traforata, oh che crudel destin”.<br />

A fine gennaio il francese mi fece notare dei rumori <strong>di</strong> cannone. Erano le truppe russe<br />

poco lontane da noi. Il francese però mi rassicurò che non sarebbero passati dal luogo in cui<br />

ci trovavamo, che sarebbero stati più a nord. Una mattina successe una cosa strabiliante.<br />

Usciti dal dormitorio non vedemmo nessun tedesco che sorvegliava il campo. Eravamo<br />

uomini <strong>di</strong> tutte le nazionalità e i tedeschi erano scappati, lasciando prigionieri russi, cecoslovacchi,<br />

italiani, francesi, polacchi, tedeschi in balia dell’ignoto.<br />

Insieme al ragazzo cecoslovacco decidemmo <strong>di</strong> partire per recarci al suo paese, convinti<br />

che i russi per <strong>di</strong> là non sarebbero passati. Camminammo per giorni e notti quando una mattina<br />

ci fermammo vicino ad una casa molto grande. Nella nebbia il padrone capì che eravamo<br />

italiani, ci fece aspettare sotto ad un portico e portò da mangiare. Gli chiedemmo poi delle<br />

informazioni sulla strada da percorrere, ricordandogli che non volevamo cadere in mano dei<br />

russi. Arrivammo quin<strong>di</strong> al confine con la Cecoslovacchia. Il nostro compagno cecoslovacco,<br />

esaminata la situazione e avendo visto che il confine pullulava <strong>di</strong> gendarmi tedeschi, decise<br />

<strong>di</strong> proseguire da solo. Ci <strong>di</strong>ede l’in<strong>di</strong>rizzo <strong>di</strong> casa sua, per poi scomparire nella nebbia.<br />

I tedeschi ci fecero passare e il giorno dopo entrammo in una citta<strong>di</strong>na cecoslovacca invasa<br />

dai russi; lì regnava la confusione, tra soldati e prigionieri nessuno capiva più niente. Cercammo<br />

<strong>di</strong> farci intendere da un cecoslovacco, per poter trovare il nostro amico, lasciato il<br />

giorno prima. Scoprimmo poi che eravamo a soli cento metri da casa sua. Trovatolo, ci in<strong>di</strong>cò<br />

una strada da seguire. Arrivati alla frontiera tra Cecoslovacchia e Polonia il blocco tedesco,<br />

oltre a fermarci, ci rinchiuse in una stanza per un paio <strong>di</strong> giorni. Una mattina due uomini<br />

armati ci caricarono su un treno. Da lì i russi non sarebbero passati ma, saliti sul treno, dopo<br />

30 chilometri, ci trovammo in un paese <strong>di</strong> collina. Fui il primo a scendere dal treno. Appena<br />

poggiai i pie<strong>di</strong> per terra un uomo, che <strong>di</strong> primo acchito pareva essere un conta<strong>di</strong>no, fece segno<br />

<strong>di</strong> seguirlo. E così tanti altri miei compagni furono scelti dalla gente del posto. Insomma,<br />

finimmo a lavorare a domicilio per i conta<strong>di</strong>ni. L’uomo mi chiese se avevo qualche amico da<br />

portare con me ed io prontamente scelsi mio cugino Fer<strong>di</strong>nando.<br />

Il conta<strong>di</strong>no ci portò a casa sua, ci fece conoscere sua moglie e sua figlia e avendo capito<br />

che eravamo pieni <strong>di</strong> pidocchi e sporchi come porci, ci fece fare il bagno e ci <strong>di</strong>ede i suoi<br />

vestiti. Ci confidò inoltre <strong>di</strong> essere il sindaco del paese e <strong>di</strong> non essere cecoslovacco, ma<br />

tedesco. Nella guerra del ’15-’18 fu preso prigioniero dagli italiani che lo portarono vicino a<br />

Mantova a lavorare in un’azienda agricola. Fortunatamente il popolo italiano lo aveva ospitato<br />

benevolmente, tanto che con noi si cimentava a parlare un po’ <strong>di</strong> italiano e giurava che<br />

ci avrebbe trattato molto bene, in onore degli italiani che lo avevano aiutato. Aveva inoltre due<br />

figli sul fronte russo che sarebbero dovuti essere ancora in vita, ma se quei ragazzi non fossero<br />

tornati a casa egli ci avrebbe tenuti come suoi figli.<br />

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Da febbraio fino ad aprile fummo trattati familiarmente, ci ristabilimmo con la salute e<br />

con il fisico, ridotti fino a poco prima a pelle ed ossa. La sera del 25 aprile il sindaco ci<br />

chiamò in una stanza. Non era un uomo <strong>di</strong> molte parole, aveva paura a parlare con noi<br />

prigionieri perché rischiava la fucilazione. Nella stanza, sopra ad un tavolino, borbottava<br />

insistente una vecchia ra<strong>di</strong>o. La voce che ne usciva pareva avere un accento inglese, o forse<br />

americano, ma parlava in italiano. Il conta<strong>di</strong>no ci chiese <strong>di</strong> ascoltare quali notizie sulla guerra<br />

stesse comunicando mentre lui, ancora spaurito e incerto, sarebbe uscito per strada a controllare<br />

che nessuno potesse vedere me e mio cugino. La ra<strong>di</strong>o parlava del fronte in Italia, non<br />

del fronte in Norman<strong>di</strong>a, e <strong>di</strong>ceva che gli americani si trovavano a Verona, dove avevano<br />

fatto saltare il ponte sull’A<strong>di</strong>ge, che però era già stato ricostruito. Gli americani si erano poi<br />

spinti nella zona <strong>di</strong> S. Bonifacio-Soave. Io e Fer<strong>di</strong>nando sobbalzammo, sentimmo un brivido<br />

correre giù per la schiena e il sangue fermarsi all’inizio della spina dorsale. Gli americani<br />

erano a casa nostra.<br />

Dopo due giorni, una mattina fredda e buia come le altre, ci alzammo con uno strano<br />

presentimento. Uscimmo in strada e nella nebbia scorgemmo un soldato russo, ubriaco, che<br />

avanzava lentamente. Feci segno a Fer<strong>di</strong>nando <strong>di</strong> nascondersi. Dopo due o tre ore, arrivò un<br />

blocco <strong>di</strong> soldati russi, in bicicletta, a cavallo e con i carri armati. Quando questi ci videro, ci<br />

puntarono subito le armi contro, pensando che fossimo tedeschi. Per fortuna in paese avevamo<br />

conosciuto dei prigionieri russi che si trovavano in quel momento per strada come noi.<br />

Intervennero cercando <strong>di</strong> placare l’ira dei soldati, questi capirono allora che eravamo italiani<br />

e abbassarono subito le armi. Si misero poi a cercare il mio padrone che prontamente si era<br />

nascosto in cantina sotto ai mucchi <strong>di</strong> patate con la moglie e la figlia.<br />

Il giorno successivo decidemmo <strong>di</strong> partire. Io, Fer<strong>di</strong>nando e altri <strong>di</strong>eci compagni ci incamminammo.<br />

In quel periodo ormai tutti combattevano contro tutti, partigiani, soldati, prigionieri,<br />

una gran confusione, e noi a pie<strong>di</strong>, dalla Cecoslovacchia, volevamo tornare a casa.<br />

Fummo fermati subito dai partigiani cecoslovacchi che ci portarono davanti alla corte <strong>di</strong><br />

un tribunale, convinti che fossimo tedeschi. Chiamarono successivamente un interprete che<br />

parlava italiano il quale ci comunicò che i cecoslovacchi volevano che noi italiani andassimo<br />

a togliere le mine da un campo. Era come mandarci a morire, tanto che, con spavalda prontezza,<br />

risposi: «Quelle sono mine tedesche, mandateci i tedeschi a toglierle!». I partigiani<br />

allora si resero conto della situazione e, con molta <strong>di</strong>sponibilità, compilarono un permesso per<br />

passare le frontiere in modo d’arrivare in Italia senza ulteriori problemi.<br />

Dopo qualche giorno entrammo in territorio austriaco. Lì un tedesco ci caricò su una<br />

corriera convincendoci che era <strong>di</strong>retto in Italia. Io e gli altri intuimmo che quel tedesco non<br />

doveva essere molto a posto, si comportava quasi come un pazzo e, nel giro <strong>di</strong> pochi giorni,<br />

ci ritrovammo in Serbia. Ci scaricò vicino ad una stazione deserta e, in un momento <strong>di</strong> panico,<br />

svanì nel nulla. Fummo costretti a dormire all’ad<strong>di</strong>accio, come meglio potevamo.<br />

La mattina seguente incontrammo un altro tedesco che ci caricò su una corriera più<br />

piccola <strong>di</strong> quella del giorno prima. Gli chiedemmo se poteva portarci in Italia ma questo,<br />

dopo averci fatto salire, finì per condurci in mano ai russi. Insieme ad un gruppo <strong>di</strong> prigionieri<br />

ci rinchiusero in uno stanzone sotto terra; eravamo talmente sfiniti che non riusciamo a<br />

reggerci in pie<strong>di</strong>. Con noi c’erano anche dei cecoslovacchi che, bene o male, riuscivano a<br />

capire e a parlare il russo. Ad un tratto l’aria cominciò a mancare, l’ossigeno presente ormai<br />

era consumato, pesante e nauseabondo. I cecoslovacchi allora decisero <strong>di</strong> parlare con i russi,<br />

arrivarono persino a sfondare la porta pur <strong>di</strong> respirare un po’ <strong>di</strong> aria pura. I russi permisero<br />

così <strong>di</strong> tenere l’uscio aperto a patto <strong>di</strong> non scappare. Riusciti ad ottenere quello che volevamo,<br />

ci addormentammo in pie<strong>di</strong> (eravamo un centinaio <strong>di</strong> persone) e tentammo <strong>di</strong> non pensare a<br />

quello che questi russi avrebbero potuto farci. Alle prime luci dell’alba ci accorgemmo che<br />

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fuori era tutto muto, nessuno fiatava e non si sentiva nessun tipo <strong>di</strong> rumore. Usciti, scoprimmo<br />

che tutto era deserto, i russi erano scappati.<br />

Dovevamo metterci <strong>di</strong> nuovo in cammino. Dovevamo a tutti i costi rientrare in Italia.<br />

Poco <strong>di</strong>stante da lì scorgemmo il fiume Danubio. Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> esso, gli americani. Ci avvicinammo<br />

e, nella confusione, una donna si accostò a me. «Siete italiani?», mi domandò e<br />

io, titubante e impaurito, risposi <strong>di</strong> sì. Dovevo correre il rischio <strong>di</strong> fidarmi <strong>di</strong> lei. Non avevo<br />

altra scelta, né io, né gli altri che erano con me. La donna allora entrò in un palazzo e quando<br />

ne uscì ci accompagnò sul ponte che segnava il confine. Fummo fermati dalle guar<strong>di</strong>e<br />

americane. Lei presentò dei documenti e parlò insieme alle guar<strong>di</strong>e senza che noi capissimo<br />

parola. Infine ci in<strong>di</strong>cò la via più giusta da seguire per arrivare in Italia e ci raccomandò <strong>di</strong><br />

non tornare più in<strong>di</strong>etro, <strong>di</strong> continuare a cercare la nostra terra, senza voltarci. Avrei voluto<br />

ritrovare quella donna per poterla abbracciare e poterle <strong>di</strong>re grazie mille e più volte, fu lei a<br />

salvarci e a darci la possibilità <strong>di</strong> vivere ancora. Se fossimo stati catturati <strong>di</strong> nuovo dai russi,<br />

ci avrebbero messo su un treno e mandati nel loro Paese, a morire nei loro campi <strong>di</strong> concentramento.<br />

Attraversato il Danubio però finimmo in un campo <strong>di</strong> concentramento americano. Più che<br />

<strong>di</strong> concentramento era un campo <strong>di</strong> raccoglimento <strong>di</strong> tutti i prigionieri che erano in mano<br />

agli americani. Fummo trattati abbastanza bene, ci <strong>di</strong>edero da mangiare e ci assicurarono che<br />

ci avrebbero riportati in Italia.<br />

Dopo qualche giorno, il primo <strong>di</strong> giugno, si formò un colonna <strong>di</strong> camion e camionette,<br />

ci caricarono su una <strong>di</strong> queste e, passati dal Tarvisio, raggiungemmo Mestre, dove ci aspettavano<br />

in un campo <strong>di</strong> raccolta. Eravamo in <strong>di</strong>ecimila prigionieri <strong>di</strong> nazionalità tutte <strong>di</strong>verse.<br />

Tirava un venticello tiepido e, sembra strano a <strong>di</strong>rlo, ma la brezza <strong>di</strong> quella sera odorava <strong>di</strong><br />

un profumo tutto italiano, tutto <strong>di</strong> casa, tutto <strong>di</strong> libertà. E anche se ci aspettavamo <strong>di</strong> essere<br />

riportati in Germania, anche se la paura <strong>di</strong> cadere ancora in mano ai russi era tanta, anche se<br />

gli americani ci controllavano a vista noi eravamo sicuri <strong>di</strong> essere in Patria, eravamo contenti<br />

<strong>di</strong> dormire al chiaror <strong>di</strong> luna, sotto una luna tutta italiana.<br />

La mattina dopo, il 2 giugno, venimmo svegliati da un Comandante americano. Ancora<br />

intontiti ci alzammo e cercammo <strong>di</strong> capire quale fosse il messaggio che doveva comunicarci:<br />

avrebbero riaccompagnato a casa, a piccoli gruppi, tutti i prigionieri, ma se volevamo eravamo<br />

liberi <strong>di</strong> tornare a pie<strong>di</strong>. Non c’era notizia più bella ed entusiasmante per noi. Finalmente, dopo<br />

tanti anni, qualcuno ci lasciava liberi <strong>di</strong> scegliere, e sicuramente quella era la scelta meno<br />

me<strong>di</strong>tata <strong>di</strong> tutta la mia vita.<br />

Non eravamo tanto lontani da casa, Mestre non <strong>di</strong>stava molto da Verona, solo 70 km.<br />

Così, ci incamminammo. Lungo la strada erano molte le persone che ci fermavano chiedendoci<br />

se avevamo visto i loro figli, i loro fratelli, i loro mariti, se erano <strong>di</strong>spersi o caduti in battaglia.<br />

Noi non sapevamo cosa rispondere. Come potevamo sapere dove fossero finiti tutti<br />

quegli uomini? Eravamo insicuri persino del nostro futuro.<br />

A metà cammino una camionetta carica <strong>di</strong> patate si fermò vicino a noi. Chiedemmo un<br />

passaggio all’autista che ci accompagnò fino a S. Bonifacio. Arrivati alle porte del nostro<br />

paese, una ragazza in bicicletta, Luciana, appena ci vide, corse a casa ad annunciare il nostro<br />

arrivo. L’intero paese era in subbuglio, tutti si affacciavano per vedere me e Fer<strong>di</strong>nando che,<br />

quasi come due eroi, tornavamo da un calvario durato troppi anni. Da casa, dalla contrada<br />

Perasolo, correvano attraverso i campi per abbracciarci.<br />

Una donna allora si avvicinò. La riconobbi subito: era Angelina, la madre <strong>di</strong> un mio<br />

compagno incontrato sul fronte russo. A piccoli passi si portò <strong>di</strong> fronte a me e sussurrò: «Hai<br />

notizie <strong>di</strong> mio figlio? Ti prego <strong>di</strong>mmi che cosa il destino ha deciso per lui?». Pareva molto<br />

triste, angosciata e per lo più ansiosa <strong>di</strong> sapere qualcosa <strong>di</strong> suo figlio, avrei potuto raccontarle<br />

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qualsiasi cosa e lei mi avrebbe creduto comunque. Decisi <strong>di</strong> <strong>di</strong>rle la verità: «Ho incontrato tuo<br />

figlio durante i furibon<strong>di</strong> combattimenti alle porte <strong>di</strong> Nikolajewka. L’ho riconosciuto e gli ho<br />

chiesto <strong>di</strong> unirsi al nostro reggimento, visto che del suo non c’erano più tracce. Lui ha rifiutato<br />

e ha continuato a cercare i suoi compagni. Da quel giorno non l’ho più visto e non ho avuto<br />

più sue notizie. Mi <strong>di</strong>spiace». La donna allora abbassò gli occhi, esitò un po’ e mi <strong>di</strong>sse una<br />

frase che ricorderò per tutta la vita: «Preferisco che mio figlio sia morto piuttosto che non<br />

sapere dove si trovi e che cosa stia facendo».<br />

In questo <strong>di</strong>ario non ho raccontato dettagliatamente tutto quello che mi è successo in<br />

63 mesi che ho sofferto lontano da casa. Tante cose che mi sono capitate le ricordo ancora<br />

bene, altre vagamente, altre ancora le sogno <strong>di</strong> notte e quando mi sveglio scompaiono all’improvviso.<br />

Se fossi stato uno scrittore o un giornalista avrei sicuramente scritto un libro<br />

appena tornato dalla Russia, ma credo che il lettore, accorto e intelligente, riesca a capire<br />

quello che ho provato anche grazie all’immaginazione e all’intuizione. La guerra che ho combattuto<br />

è stata una criminalità unica; non sono partito per servire la patria ma per servire dei<br />

criminali. Per fortuna gli americani sono venuti in nostro aiuto. Non abbiamo perso una guerra,<br />

abbiamo invece conquistato la libertà. Io auguro a tutta l’umanità, ai nostri figli e a tutte<br />

le generazioni future <strong>di</strong> non conoscere più trage<strong>di</strong>e <strong>di</strong> questo genere fino alla fine dei tempi.<br />

Bibliografia:<br />

GIULIO BEDESCHI, Nikolajewka c’ero anch’io, Mursia, Milano 1972<br />

MARIO RIGONI STERN, Il sergente nella neve, Einau<strong>di</strong>, Torino 1953<br />

GIULIO DE GIORGI, Con la <strong>di</strong>visione Ravenna, Longanesi & C., Milano 1973<br />

GIULIO BEDESCHI, La mia erba è sul Don, CDE, Cuneo 1985<br />

ARRIGO PETACCO, La nostra guerra 1940-1945: l’avventura bellica tra bugie e verità, Mondadori,<br />

Milano 1995<br />

GUIDO BALDI - SILVIA GIUSTO - MARIO MAZZETTI - GIUSEPPE ZACCARIA, Dal testo alla storia<br />

dalla storia al testo. Il primo Novecento e il periodo tra le due guerre, Paravia, Torino 2000<br />

BIOGRAFIA DI UMBERTO TADIELLO<br />

Ta<strong>di</strong>ello Umberto, classe 1919, si arruola nel 1940 nel secondo reggimento artiglieria<br />

alpina, gruppo Vicenza, ventesima batteria, <strong>di</strong>visione Tridentina. Il 10 giugno 1940, dopo solo<br />

tre mesi <strong>di</strong> addestramento, Benito Mussolini annuncia l’entrata in guerra contro la Francia<br />

e la Gran Bretagna.<br />

Il corpo alpino viene condotto sul fronte francese, dove però la guerra finisce subito.<br />

Nell’agosto dello stesso anno, il Duce decide <strong>di</strong> spe<strong>di</strong>re gli alpini in Grecia. La traversata,<br />

per via marittima, da Brin<strong>di</strong>si a Durazzo segna in Umberto l’inizio <strong>di</strong> una nuova e inaspettata<br />

paura quando un sottomarino nemico colpisce una delle imbarcazioni italiane.<br />

L’accampamento è a duemila metri d’altezza ed è costituito da trincee e case <strong>di</strong>roccate.<br />

Umberto passa l’inverno a procurare acqua per il reggimento e si impegna nel ruolo <strong>di</strong> telefonista<br />

e alla famosa caccia ai pidocchi.<br />

Nell’ottobre del 1941 viene rimpatriato in Italia, al nord, in un paese chiamato Montanaro,<br />

vicino a Chivasso.<br />

L’imminente guerra contro la Russia però faceva poco sperare ad un ritorno al paese<br />

natale: nel luglio del 1942 Hitler attacca la nazione russa.<br />

– 171 –


Il viaggio sul fronte russo è percorso in treno dove soldati, muli, armi, angosce, freddo<br />

e paura sono ammassati l’un l’altro negli stretti vagoni.<br />

Il fiume Don separa l’ARMIR dall’armata sovietica. Il corpo italiano è sprovvisto <strong>di</strong><br />

mezzi adeguati, quali il vestiario, le armi e un’adeguata preparazione militare. Il clima è<br />

insopportabile: quaranta gra<strong>di</strong> sotto lo zero quando cala il sole e <strong>di</strong>eci gra<strong>di</strong> sotto lo zero<br />

verso mezzogiorno. Il paesaggio è bianco, glaciale; tempesta, nevica e lentamente nel cuore<br />

degli alpini si apre un vortice <strong>di</strong> nostalgia che piano piano perde persino sapore.<br />

In linea non si soffre solo il freddo ma anche la fame. Nelle migliaia <strong>di</strong> pacchi, partiti<br />

dall’Italia, inviati dalle famiglie dei combattenti ci sono castagne, fichi secchi, farina e pane;<br />

occorrono tuttavia generi <strong>di</strong> conforto, viveri ricchi <strong>di</strong> proteine e grassi; invece i soldati sono<br />

nutriti a pane a patate. Umberto riceve da casa una scatoletta <strong>di</strong> Ovomaltina che contribuirà<br />

a salvargli la vita durante la ritirata.<br />

I russi cominciano ad attaccare; la Julia riesce a sostenere dei forti attacchi, ma ben<br />

presto i russi sfondano il fronte e riescono ad accerchiare l’esercito italiano. Anche i tedeschi<br />

sono accerchiati e si arrendono, contro le decisioni del Führer. I soldati incapaci ormai <strong>di</strong><br />

ragionare e ridotti ad agire per inerzia ad ogni comando vengono in<strong>di</strong>rizzati su Podgornoje.<br />

Ma la ritirata è ormai una corsa contro il tempo. Si cammina, si scappa, si combatte per<br />

sfuggire al nemico.<br />

L’ultimo e decisivo scontro avviene alle porte <strong>di</strong> Nikolajewka, dopo otto giorni dall’inizio<br />

della ritirata. È il 26 gennaio, e l’or<strong>di</strong>ne degli ufficiali è <strong>di</strong> entrare in città ed affiancarsi<br />

agli altri reggimenti alpini. La Tridentina è ancora ferma alle soglie della città e attacca solo<br />

verso sera in un ultimo e <strong>di</strong>sperato tentativo. Quando i russi si accorgono che il grosso dell’esercito<br />

sta scendendo azionano tutti i loro reparti artiglieria. Umberto pensa tra sé «Ostrega<br />

ghe semo. Dio, rimetto nelle tue mani tutta la mia vita» e prega come non ha mai fatto<br />

prima. Arrivano colpi da ogni parte; morti, feriti, muli squarciati, voci che urlano «Mamma,<br />

mamma aiuto!». In questo inferno sembra impossibile sopravvivere ancora. E ancora più<br />

impossibile sembra la tregua, che ora è giunta.<br />

Ra<strong>di</strong>o Mosca trasmette che la sacca del Don è la tomba degli alpini; ma sarà la stessa ra<strong>di</strong>o<br />

a riconoscere agli alpini il merito <strong>di</strong> essere usciti dall’accerchiamento.<br />

Si cammina ancora per qualche giorno per evitare <strong>di</strong> essere nuovamente accerchiati;<br />

l’esercito ha perso tutto, non ha più rifornimenti, rimane solo qualche mulo. Si fa razzia da<br />

ogni villaggio in cui si passa. Da un’isba all’altra le voci echeggiano: la cosa riparte. La Tridentina<br />

guida la lunga colonna <strong>di</strong> sbandati che si protende per trenta chilometri nella steppa.<br />

Il 27 gennaio i resti della Cuneense, irrime<strong>di</strong>abilmente accerchiati, cadono prigionieri a<br />

Valuijki. Il 31 gennaio la Tridentina raggiunge gli avamposti tedeschi e successivamente il<br />

punto dell’adunata, a Slobin.<br />

Dalla sacca sono usciti 20.000 uomini su 70.000. Se nel 1942 erano occorse 200 tradotte<br />

per portare l’ARMIR sul fronte russo, ora ne bastano 17 per ricondurre in Italia i superstiti.<br />

Umberto rientra in Italia ma, dopo l’8 settembre, viene fatto prigioniero dai tedeschi e<br />

condotto a pie<strong>di</strong> fino ad Innsbruck in un campo <strong>di</strong> lavoro nazista, con il cugino Fer<strong>di</strong>nando.<br />

Umberto passa due volte il Natale in una fabbrica addetta alla riparazione <strong>di</strong> locomotive a vapore,<br />

in con<strong>di</strong>zioni da olocausto. In caso <strong>di</strong> svenimenti o malumori si viene picchiati dalle SS.<br />

Chi si ammala viene portato via e <strong>di</strong> lui non hanno più notizie.<br />

Dopo la <strong>di</strong>sfatta tedesca i russi liberano il campo e Umberto e compagni hanno la<br />

possibilità <strong>di</strong> fuggire. Ma il blocco tedesco <strong>di</strong> frontiera li scopre e li manda a lavorare per i<br />

conta<strong>di</strong>ni tedeschi. Umberto viene scelto dal sindaco <strong>di</strong> un piccolo paesino e con lui porta<br />

Fer<strong>di</strong>nando. Il sindaco li accoglie come figli, e dopo l’arrivo delle armate russe, li lascia liberi<br />

<strong>di</strong> tornare a casa.<br />

– 172 –


I russi però riescono a catturarlo e a condurlo in un grande capannone. Il giorno dopo,<br />

al risveglio, si scopre che il capannone è stato abbandonato e si ripresenta l’occasione <strong>di</strong><br />

fuggire. Deve a tutti i costi tornare in Italia.<br />

Attraversato il Danubio, dopo tanta strada a pie<strong>di</strong>, viene rinchiuso in un campo americano<br />

che raccoglie soldati <strong>di</strong> tutte le nazionalità. Verso il 2 giugno gli americani si offrono <strong>di</strong><br />

riaccompagnare a casa i superstiti e li lascia liberi anche <strong>di</strong> incamminarsi a pie<strong>di</strong>. È la prima<br />

volta che Umberto e i suoi sono liberi <strong>di</strong> fare una scelta.<br />

Umberto s’incammina verso Verona; per strada la gente lo ferma e chiede notizie dei<br />

propri cari e lui non sa cosa rispondere. Una camionetta carica lui e Fer<strong>di</strong>nando e li conduce<br />

fino a S. Bonifacio, il loro paese natale. Appena arrivati, Luciana, una ragazza del paese,<br />

corre ad avvisare i parenti che, dai campi e dalle case si riversano in strada per abbracciarli<br />

e accoglierli con grande gioia.<br />

– 173 –


ANNA PAOLA BOTTONI<br />

L’utilizzazione in classe delle fonti memorialistiche:<br />

un lavoro <strong>di</strong> gruppo<br />

La memoria è spesso ingannevole e la <strong>di</strong>mensione storica degli eventi si acquisisce non<br />

solo con la conoscenza dei fatti ma con l’esperienza del tempo che <strong>di</strong>stingue un passato<br />

recente da uno remoto. Per i nostri studenti spesso, invece, ciò che non ricade nella sfera del<br />

quoti<strong>di</strong>ano finisce immancabilmente per appartenere al passato: eventi storici riconducibili a<br />

qualche decennio fa, vissuti magari dai propri nonni, finiscono così per essere assimilati a fatti<br />

risalenti a qualche secolo fa.<br />

L’asse temporale assume la connotazione <strong>di</strong> un contenitore che raccogliere informazioni<br />

relative a ciò che è avvenuto e si ritiene sia importante stu<strong>di</strong>are, possibilmente in un giusta<br />

successione dei fatti. Esso non è tuttavia sempre in grado <strong>di</strong> fornire agli studenti l’esatta<br />

percezione <strong>di</strong> quanto tali fatti siano <strong>di</strong>stanti dal proprio vissuto. Gli alunni non sempre si<br />

rendono conto <strong>di</strong> essere privilegiati osservatori della storia, <strong>di</strong> quella storia che, in modo così<br />

considerevole, ha contribuito alla fisionomia della nostra società attuale, potendo <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong><br />

uno strumento <strong>di</strong> indagine preziosissima e insostituibile quale la testimonianza <strong>di</strong>retta.<br />

Negli ultimi anni, purtroppo, si è affievolito il desiderio <strong>di</strong> sentir raccontare, essendo<br />

venuta meno la capacità <strong>di</strong> restare in ascolto. È scomparsa la curiosità <strong>di</strong> conoscere <strong>di</strong>rettamente<br />

cronache, fatti, avvenimenti, <strong>di</strong> lasciarsi coinvolgere dalla storia, intesa come l’espressione<br />

<strong>di</strong> una memoria collettiva che si innesta nel tessuto dei ricor<strong>di</strong> e delle esperienze<br />

<strong>di</strong> famiglia, raccontate dai suoi testimoni.<br />

La letteratura memorialistica, intesa come il recupero <strong>di</strong> una documentazione <strong>di</strong>aristica,<br />

epistolare o anche semplicemente come raccolta <strong>di</strong>retta <strong>di</strong> informazioni, ha il duplice scopo<br />

<strong>di</strong> avvicinare gli alunni alla storia, comprendendo l’importanza della testimonianza <strong>di</strong>retta,<br />

quella che Erodoto definisce “autoptica” nell’indagine storiografica, e <strong>di</strong> ingenerare in loro<br />

il desiderio <strong>di</strong> salvaguardare il ricordo <strong>di</strong> un passato recente. Non meno importante è il<br />

significato <strong>di</strong> raccordo, attraverso il racconto <strong>di</strong> episo<strong>di</strong> vissuti, fra generazioni che si avvicendano<br />

in una stessa famiglia, che cercano <strong>di</strong> leggere, da <strong>di</strong>verse prospettive, eventi che<br />

hanno fatto la storia <strong>di</strong> un’epoca. La testimonianza <strong>di</strong>retta, soprattutto se <strong>di</strong> un famigliare, ha<br />

un forte impatto emotivo: comunica ricor<strong>di</strong> e sentimenti. È nella soggettività del racconto che<br />

ci si interroga sulla parzialità e sull’atten<strong>di</strong>bilità, ma anche sulla stessa capacità <strong>di</strong> leggere gli<br />

avvenimenti che si sono vissuti personalmente o sull’apporto <strong>di</strong> quelle aggiunte postume,<br />

nate dai tra<strong>di</strong>menti della memoria o dai con<strong>di</strong>zionamenti <strong>di</strong> interpretazioni successive. È per<br />

questo che la forma <strong>di</strong>aristica, siano riflessioni, osservazioni o narrazioni estese, quando non<br />

è sottoposta a successivi riaggiustamenti, mantiene intatta tutta l’intensità espressiva e trascinante,<br />

capace <strong>di</strong> trasfondere nel lettore, anche in quello <strong>di</strong>stratto, quale un nostro alunno,<br />

il clima storico, quelle impressioni che si percepiscono da vicino quando gli eventi importanti<br />

ci vivono accanto o noi viviamo accanto a loro, prima <strong>di</strong> capire che saranno ricordati per<br />

sempre e faranno parte della memoria <strong>di</strong> un popolo.<br />

Si è pertanto pensato che una riflessione sull’importanza della letteratura memorialistica,<br />

al fine <strong>di</strong> comprendere il valore della testimonianza <strong>di</strong>retta, potesse essere oggetto <strong>di</strong><br />

un’attività laboratoriale da proporre agli studenti <strong>di</strong> una classe iniziale. Alcune alunne della<br />

mia classe, la IV L (Irene, Ludovica, Melissa e Margherita), hanno letto il memoriale <strong>di</strong><br />

– 174 –


Umberto Ta<strong>di</strong>ello, L’inferno bianco <strong>di</strong> mio nonno, trascritto dalla nipote Susanna. Le alunne<br />

hanno analizzato la struttura narrativa del memoriale, in<strong>di</strong>viduandone alcune caratteristiche<br />

(narratore, focalizzazione, spazio, tempo, descrizioni soggettive e oggettive), e hanno elaborato<br />

un commento al riguardo. Si riporta <strong>di</strong> seguito il commento svolto dalle alunne e rivisto<br />

dalla docente.<br />

Prof.ssa Anna Paola Bottoni<br />

Commento a “L’inferno bianco <strong>di</strong> mio nonno,<br />

una testimonianza <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> Umberto Ta<strong>di</strong>ello”<br />

(A CURA DEL GRUPPO DI LAVORO DELLA CLASSE IV L)<br />

– 175 –<br />

“Lui che ha lottato con tutte le sue forze;<br />

per non <strong>di</strong>menticare, per viverlo ogni giorno,<br />

senza che mai nessuno <strong>di</strong>menticasse”<br />

Primo Levi<br />

Sì, lui ha lottato, e anche con tutte le sue forze. Ed è anche grazie a lui che noi, oggi, in<br />

una realtà così <strong>di</strong>versa, non <strong>di</strong>mentichiamo. Umberto Ta<strong>di</strong>ello, attraverso la mano <strong>di</strong> sua<br />

nipote, ha rivissuto il suo passato, e ce ne ha reso partecipi, insegnandoci che non si deve<br />

<strong>di</strong>menticare. Anzi, si deve fare del passato un motivo in più per costruirsi il presente, e<br />

progettare il futuro.<br />

Susanna Ta<strong>di</strong>ello presenta nella sua tesina le memorie del nonno, che a ventuno anni, nel<br />

1940, fu chiamato alle armi nell’esercito del Duce, a combattere contro Gran Bretagna e<br />

Francia. Dunque il testo appartiene al genere memorialistico.<br />

Cosa leggiamo in queste pagine? “Storie assurde, alle quali noi, ormai stufi <strong>di</strong> sentirle,<br />

nemmeno ci cre<strong>di</strong>amo; si fermano fuori dalla nostra portata, lontano dai nostri orizzonti, dai<br />

nostri tempi, dalle nostre preoccupazioni. Sono pensieri atroci, da non farmi dormire la<br />

notte...”.<br />

Così ci riporta l’autrice; <strong>di</strong> sicuro attraverso la soggettività che troviamo tra le righe del<br />

testo, ci avviciniamo alla mentalità della guerra, una cosa così tremenda, così sofferta, che a<br />

noi “giovani d’oggi” non va neanche più <strong>di</strong> ricordare, anche perché tra i banchi <strong>di</strong> scuola la<br />

seconda guerra mon<strong>di</strong>ale è un argomento del programma d’obbligo. Un luogo comune<br />

abbastanza <strong>di</strong>ffuso vuol far credere che nelle nuove generazioni, e in generale, andando avanti<br />

con gli anni, vada via via affievolendosi, se non scomparendo del tutto, l’interesse per il<br />

passato. Noi però pensiamo che le vicende del passato riescano a rivivere solamente grazie<br />

a questo tipo <strong>di</strong> narrazione.<br />

Il testo de L’inferno bianco <strong>di</strong> mio nonno mescola in sé l’elemento dell’emotività che colpisce<br />

l’animo del lettore, e quello dell’oggettività con cui l’autore rappresenta realisticamente<br />

le esperienze che dovette affrontare sul fronte <strong>di</strong> guerra. È per questo aspetto che la narrazione<br />

si può definire anche un brano <strong>di</strong> carattere storico. Nonostante ciò, la lettura non si <strong>di</strong>mostra<br />

pesante e noiosa, ma anzi, si rivela fluida e scorrevole. Questo avviene poiché la scrittrice,<br />

Susanna, narra i fatti secondo il punto <strong>di</strong> vista del nonno: utilizza la prima persona per<br />

rappresentare gli eventi del passato, ossia come realmente li visse suo nonno Umberto. La<br />

storia soggettiva, rievocata dall’io narrante, è <strong>di</strong> sicuro più avvincente, ci sembra quasi <strong>di</strong><br />

percepire le emozioni, le lacrime e i sorrisi <strong>di</strong> orgoglio per aver <strong>di</strong>feso la patria a costo della<br />

vita, versando il sangue altrui per non perdere il proprio.


Ormai, oggi, nella mente del nonno i ricor<strong>di</strong> sono confusi, sormontati dal presente, così<br />

lontano da un mondo e da un’epoca che, tra paura e sod<strong>di</strong>sfazione, l’avevano <strong>di</strong> volta in volta<br />

reso felice o triste, ma comunque lo avevano visto da protagonista <strong>di</strong> una guerra mon<strong>di</strong>ale,<br />

che era <strong>di</strong>ventata soprattutto la sua guerra personale.<br />

“Mesi duri, <strong>di</strong> guerra, <strong>di</strong> <strong>di</strong>sperazione e desolazione, ai quali era incre<strong>di</strong>bilmente<br />

sopravvissuto grazie ad una scatoletta <strong>di</strong> “ovomaltina” spe<strong>di</strong>tagli da casa...”. Leggendo frasi<br />

come questa, i lettori si trovano <strong>di</strong> fronte a situazioni irreali, assurde, quasi inimmaginabili.<br />

Anche perché vicende come quelle narrate nel memoriale, se le leggiamo tra le pagine dei libri<br />

scolastici non riescono ad appassionarci quanto un romanzo vissuto in prima persona, un<br />

romanzo vero come quello vissuto da Umberto Ta<strong>di</strong>ello. È questa la storia che ci coinvolge<br />

e ci affascina <strong>di</strong> più, quella che più incontra il nostro modo <strong>di</strong> essere e <strong>di</strong> voler conoscere la<br />

realtà. La mentalità moderna ha offuscato i nostri pensieri, frastornando il nostro spirito con<br />

le cose materiali e gli ultimi ritrovati della tecnologia, ma non ha guastato il piacere <strong>di</strong> stupirci<br />

e <strong>di</strong> incuriosirci quando ci troviamo davanti a una storia vera, narrata con passione e sincerità.<br />

Sono passati così tanti anni da quei tristi eventi, ma la soggettività serve proprio a questo:<br />

a ritrovare noi stessi in una storia, in un passato che è anche il nostro, una parte <strong>di</strong> noi.<br />

Si deve sicuramente rispettare l’intenzione dell’autrice, che ha raccolto le memorie del<br />

nonno reduce dal fronte <strong>di</strong> guerra russo e dal campo <strong>di</strong> prigionia tedesco: ella chiede ai<br />

lettori <strong>di</strong> leggere il brano con amore. Difatti, in esso vi sono sentimenti, qualità, avventura,<br />

REALTA’. Una realtà, anche se dura, da affrontare, confrontandoci con un mondo che, se<br />

proprio non è il nostro, ha contribuito a formare il presente, la nostra verità.<br />

Dobbiamo quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>re che grazie agli occhi ormai stanchi e confusi dei nostri nonni,<br />

alle braccia che hanno portato tanti pesi, fucili, armi, che magari noi non toccheremo mai, noi<br />

possiamo prendere coscienza del nostro passato, <strong>di</strong> ciò che hanno vissuto le generazioni che<br />

sono state prima <strong>di</strong> noi. Neanche ci possiamo immaginare quello che “i vecchi” hanno subito,<br />

hanno affrontato, hanno visto con i loro occhi, quei vecchi che spesso sono il bersaglio delle<br />

nostre critiche quando il tempo logora le loro menti.<br />

“Si intravede nei suoi occhi chiari, color azzurro, infelici e melanconici, quell’aria <strong>di</strong> chi<br />

ha vissuto, ed è un’aria riconoscibile a primo impatto...”. Sono proprio quegli occhi melanconici<br />

che hanno toccato il cuore <strong>di</strong> Susanna, e le hanno fatto capire che doveva raccontare<br />

una storia, la storia <strong>di</strong> suo nonno, per farla conoscere al mondo, per farlo commuovere come<br />

s’era commossa lei. L’animo del protagonista è uno specchio, un po’ appannato dal tempo ma<br />

sempre limpido. Ricor<strong>di</strong> incancellabili, e la fatica <strong>di</strong> esprimerli... la fatica, che ha sopportato<br />

Umberto Ta<strong>di</strong>ello.<br />

“La seconda guerra mon<strong>di</strong>ale ha colpito in particolar modo il territorio italiano. Dovevano<br />

essere riparate le case, i ponti, le strade, e città intere, ma soprattutto andavano ricostruiti<br />

gli animi dei soldati, delle persone che avevano annullato la propria in<strong>di</strong>vidualità per servire<br />

lo Stato Fascista”. Così Susanna ci raffigura al meglio i paesaggi, i sentimenti, le emozioni<br />

vissute dal nonno, attraverso i suoi ricor<strong>di</strong> confusi, ma ancora pieni <strong>di</strong> passione. E ci capita<br />

in questo modo <strong>di</strong> trovarci tra la fitta neve delle montagne valicate dagli uomini del Duce, o<br />

in mezzo a un bosco ombroso della Russia, o sullo sfondo del paesaggio del Don, che preoccupava<br />

e insieme meravigliava i soldati, catapultati in questa <strong>di</strong>sperata avventura. Sentiamo<br />

quasi il forte odore penetrante <strong>di</strong> polenta fumante, offerta da un conta<strong>di</strong>no premuroso nella<br />

sua casa... quel profumo che fece risvegliare i sensi dell’uomo, e <strong>di</strong>ede una speranza in più,<br />

un appiglio più forte alla vita fuggevole.<br />

Loro, Umberto e il suo compagno, sapevano dall’inizio che andavano incontro a un<br />

destino incerto... “Chi poteva sapere meglio <strong>di</strong> noi come la guerra portasse alla fine, al crollo,<br />

alla <strong>di</strong>struzione; n’eravamo testimoni, tutti i giorni, ininterrottamente consapevoli del nostro<br />

– 176 –


destino che ci avvicinava alla morte. Uomini smarriti, ormai ombre...”. E ancora un’ultima<br />

citazione: “La vita si spegneva e, a poco, a poco, anche il corpo si associava, calava come<br />

un’ombra sulle anime che, scialbe e traballanti, effettuavano per inerzia ogni decreto. La<br />

stanchezza che ci opprimeva non era tanto quella fisica, bensì quella mentale che ci riduceva<br />

inetti a comunicare ed a socializzare...”.<br />

L’esperienza vissuta dal nonno, grazie alla nipote, è entrata a far parte del patrimonio<br />

delle memorie storiche del nostro Paese, e non andrà <strong>di</strong>menticata. Ma essa è ancor più preziosa<br />

perché, insegnandoci il passato, ci in<strong>di</strong>ca i valori con i quali costruire il nostro futuro:<br />

la volontà, lo spirito <strong>di</strong> sacrificio, la de<strong>di</strong>zione alla patria, la solidarietà verso gli altri, la<br />

comprensione verso tutti, perché tutti, in fondo, sono nostri fratelli, anche i nostri nemici.<br />

Un consiglio? Questo, è un racconto da amare.<br />

Irene, Ludovica, Margherita e Melissa<br />

(gruppo <strong>di</strong> lavoro della classe IV L)<br />

– 177 –


MARIO CARINI<br />

Esercizi <strong>di</strong> scrittura creativa<br />

per una classe del biennio<br />

Sommario: 1. Omaggio a Jorge Luis Borges: conclusioni alternative del racconto There are more things.<br />

- 2. Omaggio a Edgar Allan Poe: elaborazioni sul tema del seppellimento prematuro. - 3. C’era una<br />

volta... in IV A.<br />

Il presente lavoro nasce da esperienze <strong>di</strong> scrittura creativa proposte agli alunni della classe<br />

ginnasiale IV A, nel corso dell’anno scolastico <strong>2008</strong>-2009 e nell’ambito del percorso <strong>di</strong> lettura<br />

<strong>di</strong> testi tratti dall’antologia in uso (Luisa Brunero - Stefania Collina - Mauro Masera - Silvia<br />

Vignale, Il mondo dei testi, vol. A [Temi per iniziare, Testi della narrativa, Attraverso le<br />

culture], Paravia, Torino 2003) e relativi al programma <strong>di</strong> italiano per il biennio, più precisamente<br />

per il quarto ginnasio.<br />

1. OMAGGIO A JORGE LUIS BORGES:<br />

CONCLUSIONI ALTERNATIVE DEL RACCONTO<br />

THERE ARE MORE THINGS<br />

Uno dei testi letti nell’ambito del percorso <strong>di</strong> letture <strong>di</strong> narrativa, previsto per il quarto<br />

ginnasio, è stato il noto racconto <strong>di</strong> Jorge Luis Borges, There are more things, peraltro antologizzato<br />

in più testi scolastici. Il racconto <strong>di</strong> Borges è stato preso ad esempio dagli autori dell’antologia<br />

in uso, Il mondo dei testi, vol. A, per illustrare lo schema tipo della narrazione, che,<br />

com’è noto, comprende le seguenti fasi: una situazione iniziale <strong>di</strong> equilibrio, la rottura dell’equilibrio,<br />

peripezie attraverso cui la vicenda giunge fino al massimo punto <strong>di</strong> tensione<br />

narrativa (la Spannung, che coincide con la massima tensione psicologica del lettore), la<br />

ricomposizione dell’equilibrio, con lo scioglimento della tensione, la situazione finale che<br />

conclude la vicenda narrata. Esaminato nel susseguirsi delle fasi, la struttura del racconto<br />

There are more things presenta una evidente particolarità. Ma ricor<strong>di</strong>amone, anzitutto, la<br />

trama.<br />

La storia, narrata in prima persona, si apre con la morte dello zio del protagonista<br />

narratore, uno studente dell’università <strong>di</strong> Austin, in Texas. Lo zio, Edwin Arnett, un ingegnere<br />

delle ferrovie cultore <strong>di</strong> esoterismo e <strong>di</strong>scipline misteriosofiche, risiedeva in Argentina, a<br />

Turdera, presso Buenos Aires. Qui fa ritorno il protagonista, per venire a sapere che la residenza<br />

del defunto, la Casa Rossa, è stata venduta a un misterioso acquirente, <strong>di</strong> nome Max<br />

Preetorius. L’uomo ha apportato ra<strong>di</strong>cali cambiamenti alla casa, ristrutturandola completamente<br />

e rendendola, al contempo, pressoché inaccessibile. Strani episo<strong>di</strong> nel frattempo accadono:<br />

il cane del defunto zio viene trovato decapitato e mutilato, le araucarie che ornavano<br />

il giar<strong>di</strong>no della villa vengono abbattute, le finestre, da cui filtrano fessure <strong>di</strong> luce, rimangono<br />

perennemente chiuse. Finché un giorno il nuovo proprietario, Preetorius, non scompare<br />

anch’egli. Incuriosito da questi strani episo<strong>di</strong>, lo studente decide <strong>di</strong> parlare con l’architetto che<br />

aveva costruito la casa, Alexander Muir, vecchio amico <strong>di</strong> suo zio. Muir gli rivela <strong>di</strong> essersi<br />

rifiutato <strong>di</strong> eseguire le trasformazioni degli ambienti che gli aveva chiesto Preetorius, e ne dà<br />

– 178 –


una motivazione sconcertante (“Quell’ebreuccio <strong>di</strong> Preetorius voleva che io <strong>di</strong>struggessi la<br />

mia opera e che mettessi al suo posto una mostruosità. L’ignominia prende <strong>di</strong>verse forme”). 1<br />

Poi incontra il guardaspalle <strong>di</strong> un capobanda locale, che gli <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> aver visto qualcosa <strong>di</strong><br />

spaventoso nei <strong>di</strong>ntorni della villa. Quin<strong>di</strong> va a trovare il falegname che ha costruito il mobilio<br />

per Preetorius, il quale ricorda con <strong>di</strong>sgusto il suo cliente e pensa che sia certamente pazzo.<br />

Una notte d’estate, durante un violento temporale, il giovane studente, che nel frattempo<br />

è perseguitato da inquietanti sogni, decide <strong>di</strong> entrare nella villa apparentemente <strong>di</strong>sabitata.<br />

Il racconto si chiude con l’ingresso e l’esplorazione, da parte del narratore protagonista, dell’enigmatica<br />

Casa Rossa. Penetrato all’interno, il nostro vede con sua grande meraviglia spazi<br />

e arre<strong>di</strong> non concepiti per l’uso <strong>di</strong> normali in<strong>di</strong>vidui, ma per adattarsi a forme <strong>di</strong>ssimili da<br />

quelle umane. Così descrive quello che deve essere il letto dell’abitatore <strong>di</strong> quella casa:<br />

“Adesso recupero una specie <strong>di</strong> lungo tavolo operatorio, molto alto, a forma <strong>di</strong> U, con buchi<br />

circolari alle estremità. Pensai che poteva essere il letto dell’abitante, la cui mostruosa<br />

anatomia si rivelava così, obliquamente, come quella <strong>di</strong> un animale o un <strong>di</strong>o, me<strong>di</strong>ante la sua<br />

ombra”. 2 All’improvviso egli intravede nell’oscurità qualcuno o qualcosa salire per le scale<br />

all’interno della casa: sente che il rumore si fa più vicino, fino a trovarsi faccia a faccia con<br />

l’essere che abita la casa del defunto zio (“I miei pie<strong>di</strong> toccavano il penultimo scalino, quando<br />

sentii che qualcosa saliva per la rampa, opprimente e lento e plurale. La curiosità fu più<br />

forte della paura e non chiusi gli occhi”). 3 Qui il racconto si interrompe bruscamente, anche<br />

se Borges, per dare al lettore un qualche in<strong>di</strong>zio sulla forma dell’essere mostruoso, cita,<br />

ricordando Lucano, l’anfisbena (o anfesibena), 4 un mitico rettile che aveva il capo uguale alla<br />

coda.<br />

E’, come ognun vede, un racconto <strong>di</strong> genere fantastico, con qualche venatura orrorifica,<br />

soprattutto nelle allusioni alla misteriosa e mostruosa creatura che abita la Casa Rossa. La<br />

quale creatura non viene descritta compiutamente, ma soltanto intravista dal narratore (e dal<br />

lettore, la cui curiosità rimane alla fine inappagata). Il testo suggerisce che l’essere serpentiforme<br />

sia alieno, giacché la casa in cui abita presenta un arredamento dalle forme non adatte<br />

o non consuete a esseri umani, come quella sorta <strong>di</strong> letto fatto a U. Forse l’essere ha <strong>di</strong>vorato<br />

Preetorius, l’acquirente della casa misteriosamente scomparso? O, piuttosto, è il risultato<br />

<strong>di</strong> una mostruosa trasformazione fisica che avrebbe coinvolto lo stesso Preetorius? Spetta al<br />

lettore escogitare, ricollegando gli in<strong>di</strong>zi <strong>di</strong>sseminati nel testo, la risposta a quello che è un<br />

vero e proprio enigma, con cui Borges conclude la sua storia, una vicenda dal finale aperto.<br />

Il finale aperto è tipico delle narrazioni che si concludono con un enigma che non viene<br />

svelato <strong>di</strong> proposito al lettore: storie <strong>di</strong> questo genere, senza un catartico scioglimento ma con<br />

l’enigma adottato come soluzione del racconto, sono quelle che risultano essere più intriganti,<br />

più avvincenti per il lettore, perché non risolvono la Spannung, la tensione narrativa che<br />

permane suggestivamente invariata. 5 Il lettore resta con la sua curiosità inappagata ed è<br />

indotto a rileggere la storia più attentamente, nella speranza <strong>di</strong> scovare un in<strong>di</strong>zio che gli<br />

permetta <strong>di</strong> chiarire quanto del testo sia rimasto oscuro. Ma invano. Anche un’operazione <strong>di</strong><br />

rilettura può essere insufficiente a decifrare il mistero <strong>di</strong> una storia lasciata volutamente ed<br />

enigmaticamente incompiuta dall’autore.<br />

1 Jorge Luis Borges, There are more things, in Tutte le opere, a cura <strong>di</strong> Domenico Porzio, vol.II, Mondadori,<br />

Milano 2005, p. 599.<br />

2 Jorge Luis Borges, There are more things, cit., p. 602.<br />

3 Jorge Luis Borges, There are more things, cit., p. 603.<br />

4 In Lucano 9,719. Borges descrive questo mostro mitologico nel suo Manuale <strong>di</strong> zoologia fantastica (scritto con<br />

Margarita Guerrero), trad. <strong>di</strong> Franco Lucentini, Einau<strong>di</strong>, Torino 1998, p. 8.<br />

– 179 –


Una delle modalità <strong>di</strong> presentare l’enigma è nella mancata spiegazione <strong>di</strong> qualcosa che<br />

appare <strong>di</strong> basilare importanza per comprendere pienamente la storia: si pensi, ad esempio, alla<br />

famosa scena finale del romanzo Le avventure <strong>di</strong> Gordon Pym <strong>di</strong> Edgar Allan Poe (1838), ove<br />

appare il gigantesco essere dalla pelle più bianca della neve, nelle acque del mare antartico,<br />

<strong>di</strong> fronte agli stupiti e terrorizzati Gordon Pym e Dirk Peters. Com’è noto, il romanzo si<br />

interrompe proprio a questo punto, e al lettore resta l’inappagata curiosità <strong>di</strong> sapere chi o che<br />

cosa sia la gigantesca figura bianca a cui il protagonista sembra esser stato condotto nelle<br />

peripezie del suo lungo viaggio. 6 Anche l’ellissi della descrizione <strong>di</strong> creature strane, <strong>di</strong>ssimili<br />

o mostruose, nel corso della narrazione, provvede a mantenere la Spannung per la mancata<br />

spiegazione dell’autore.<br />

Va peraltro ricordato che la presenza <strong>di</strong> esseri mostruosi non ricorre spesso nella narrativa<br />

<strong>di</strong> Borges. Nel caso <strong>di</strong> There are more things l’elemento teratologico è giustificato dall’essere<br />

il testo stesso un omaggio a uno dei maestri <strong>di</strong> Borges, Howard Phillips Lovecraft,<br />

il celebre “solitario <strong>di</strong> Providence”, come recita l’epigrafe iniziale (Alla memoria <strong>di</strong> Howard<br />

P. Lovecraft). In effetti si possono rinvenire chiare analogie tra There are more things e uno<br />

dei racconti più noti della narrativa lovecraftiana, Il richiamo <strong>di</strong> Cthulhu. 7 Entrambi i<br />

racconti si aprono con l’improvvisa e misteriosa morte dello zio del protagonista narratore<br />

(nel testo <strong>di</strong> Borges è Edwin Arnett, ingegnere delle ferrovie cultore <strong>di</strong> <strong>di</strong>scipline e filosofie<br />

esoteriche, in quello <strong>di</strong> Lovecraft è il professor Angell, docente <strong>di</strong> lingue semitiche all’università<br />

<strong>di</strong> Providence). Un secondo motivo comune ai due racconti è il sogno: ne Il richiamo<br />

<strong>di</strong> Cthulhu in un manoscritto dello zio, il protagonista trova uno stu<strong>di</strong>o sull’opera <strong>di</strong> uno strano<br />

scultore, Wilcox, che ha scolpito un idolo mostruoso dopo aver visto, in sogno, un’antichissima<br />

città dalle colossali architetture <strong>di</strong> muri e colonne coperte <strong>di</strong> geroglifici. In There<br />

are more things il protagonista, all’alba, sogna, rappresentato come un’incisione <strong>di</strong> Piranesi,<br />

un anfiteatro labirintico che contiene il mostruoso Minotauro. Il terzo motivo è quello delle<br />

costruzioni <strong>di</strong>fformi, delle architetture che celano illusioni prospettiche e angoli impossibili:<br />

ne Il richiamo <strong>di</strong> Cthulhu la misteriosa città <strong>di</strong> R’lyeh, che si erge dall’oceano <strong>di</strong> fronte<br />

all’equipaggio dell’Alert ed composta da ciclopiche costruzioni, fatte <strong>di</strong> piani, intersezioni<br />

e angoli <strong>di</strong> una geometria non concepita da menti umane, trova il suo riecheggiamento nella<br />

Casa Rossa del racconto <strong>di</strong> Borges, trasformata, per volontà <strong>di</strong> Preetorius, in una <strong>di</strong>mora<br />

più adatta a esseri evidentemente non umani e forse neppure <strong>di</strong> questo mondo. Ancora: in<br />

Lovecraft l’orribile epifania del demoniaco e immane Cthulhu, dalle forme <strong>di</strong> drago e <strong>di</strong><br />

piovra, avviene quando i marinai dell’Alert penetrano nel gigantesco sacrario che funge da<br />

<strong>di</strong>mora del mostro. L’essere misterioso del racconto <strong>di</strong> Borges, dall’aspetto <strong>di</strong> anfisbena,<br />

appare dopo l’ingresso del protagonista nella apparentemente <strong>di</strong>sabitata Casa Rossa. Poco<br />

altro, però, al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> queste superficiali somiglianze, apparenta il grande scrittore argentino<br />

a Lovecraft, come ha posto in chiaro Guido Armellini nel commento al racconto <strong>di</strong> Borges,<br />

5 Sulle narrazioni con enigma finale riman<strong>di</strong>amo al nostro lavoro L’enigma irrisolto nelle strutture della narrativa,<br />

in “Annuario” del <strong>Liceo</strong> ginnasio statale <strong>Orazio</strong>, n. 1, anno scolastico 2007-<strong>2008</strong>, Roma <strong>2008</strong>, pp. 101-117.<br />

6 La misteriosa conclusione ha eccitato la fantasia <strong>di</strong> critici e romanzieri, che hanno cercato <strong>di</strong> spiegare razionalmente<br />

il mistero dell’apparizione anche in continuazioni narrative (o sequel). Riman<strong>di</strong>amo per le continuazioni del romanzo<br />

<strong>di</strong> Poe scritte da Verne e Lovecraft al nostro articolo Fantastica Antartide, in “Abstracta”, n. 48, 1990, pp. 70-<br />

77. Vd. anche L’enigma irrisolto nelle strutture della narrativa, cit., pp. 104-106.<br />

7 Com’è noto, in questo racconto, vero testo car<strong>di</strong>ne della narrativa lovecraftiana, lo scrittore americano espone<br />

la sua orrorifica cosmogonia: generazioni <strong>di</strong> colossali esseri mostruosi e semi<strong>di</strong>vini, gli abominevoli Gran<strong>di</strong> Antichi,<br />

avrebbero abitato la Terra, finendo per ritirarsi poi, in un millenario esilio, negli abissi marini, ma pronti ad affiorare alla<br />

superficie grazie ai riti evocatori <strong>di</strong> sette segrete, come quella del <strong>di</strong>o Cthulhu. Su Lovecraft vd. la fondamentale raccolta<br />

<strong>di</strong> saggi <strong>di</strong> Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, L’ultimo demiurgo e altri saggi lovecraftiani, Solfanelli, Chieti 1989.<br />

– 180 –


in un’antologia scolastica: “Se mettiamo a confronto questo racconto con Il richiamo <strong>di</strong><br />

Cthulhu <strong>di</strong> Lovecraft, possiamo subito notare importanti somiglianze sia per quanto<br />

riguarda gli ingre<strong>di</strong>enti (i personaggi, la natura degli in<strong>di</strong>zi e delle premonizioni, le caratteristiche<br />

sinistre del mistero a cui alludono) sia per quanto riguarda le tecniche (uso della<br />

voce e del punto <strong>di</strong> vista narrativo, struttura dell’intreccio) (...). Ma la <strong>di</strong>fferenza dal<br />

racconto <strong>di</strong> Lovecraft è netta; Borges infatti ha manipolato il mondo dello scrittore preso<br />

come modello, eliminandone alcuni caratteri propri della narrativa dell’orrore e mo<strong>di</strong>ficando<br />

ra<strong>di</strong>calmente gli effetti prodotti sul lettore. a) Lo stile <strong>di</strong> Lovecraft è sovrabbondante,<br />

ricco <strong>di</strong> espressioni truculente; quello <strong>di</strong> Borges è essenziale, secco, a volte <strong>di</strong>staccato e<br />

ironico (...). b) Il racconto <strong>di</strong> Borges esibisce in vari punti riferimenti dotti, rivolti a un<br />

pubblico colto, molto <strong>di</strong>verso da quello a cui si rivolgeva Lovecraft (...). c) Compaiono<br />

nel testo accenni alla complessità del reale e all’incapacità dell’uomo <strong>di</strong> capire il mondo<br />

che lo circonda (...). d) La parte che più <strong>di</strong>fferenzia questo racconto da quello <strong>di</strong> Lovecraft<br />

è la conclusione (...)”. 8 Sono autori, Borges e Lovecraft, che praticano generi narrativi<br />

<strong>di</strong>fferenti, il racconto fantastico il primo (che pre<strong>di</strong>lige le tematiche dell’assurdo, come le<br />

<strong>di</strong>storsioni temporali, i paradossi e le incongruenze del quoti<strong>di</strong>ano, elaborandole me<strong>di</strong>ante<br />

una complessa rete <strong>di</strong> motivi simbolici: si pensi alla ricorrenza del sogno e del labirinto),<br />

il racconto dell’orrore il secondo (con le anatomicamente dettagliate descrizioni <strong>di</strong> esseri<br />

mostruosi, i Gran<strong>di</strong> Antichi, protagonisti <strong>di</strong> una abominevole mitologia che si sviluppò all’alba<br />

dell’umanità). Laddove Lovecraft abbonda nelle descrizioni <strong>di</strong> corpi visci<strong>di</strong> e squamosi,<br />

<strong>di</strong> appen<strong>di</strong>ci tentacolari, <strong>di</strong> pelose gibbosità, <strong>di</strong> orrori innominabili, scadendo spesso<br />

in un eccesso <strong>di</strong> maniera, 9 Borges, invece, sorprende il lettore per la sottile allusività con cui<br />

suggerisce al lettore una presenza extraumana, ben più minacciosa e terrificante, a nostro<br />

giu<strong>di</strong>zio, delle mostruosità <strong>di</strong> Lovecraft.<br />

Proprio la mancata descrizione, il non detto, l’ellissi o omissione <strong>di</strong> una parte essenziale<br />

della narrazione che lascia alla fine inspiegato il mistero, mantiene e accresce la tensione<br />

narrativa nel lettore, aumentando l’effetto <strong>di</strong> turbamento e sottile <strong>di</strong>sagio. È un espe<strong>di</strong>ente che<br />

ricorre in numerosi altri racconti fantastici e del terrore, soprattutto allorché gli scrittori<br />

introducono nelle loro storie esseri enigmatici, misteriosi e minacciosi, astenendosi dall’offrire<br />

al lettore una chiara e compiuta descrizione. Sono gli scrittori che esaltano la <strong>di</strong>mensione<br />

dell’invisibile, un mondo altro, parallelo alla realtà, animato da oscure presenze non percepibili<br />

dai comuni sensi umani, perché troppo deboli e imperfetti. Pensiamo a un famoso racconto<br />

come L’Horlà <strong>di</strong> Guy de Maupassant (1887), 10 nel quale il narratore protagonista scopre<br />

8 Il piacere <strong>di</strong> avere paura, racconti dell’orrore e dell’assurdo, a cura <strong>di</strong> Guido Armellini, La Nuova Italia, Firenze<br />

1990, p. 216. Dalla citazione abbiamo tolto tutte le in<strong>di</strong>cazioni relative agli esercizi che accompagnano il testo.<br />

9 Una rappresentazione grafica, ad opera <strong>di</strong> Yak Rivais, dei vari Cthulhu, Dagon, Shoggoth, etc., le mostruose creature<br />

partorite dalla fantasia allucinata dello scrittore <strong>di</strong> Providence, si può vedere tra le illustrazioni del <strong>di</strong>scusso volume<br />

Howard Phillips Lovecraft, Opere complete, nota biografia <strong>di</strong> August Derleth, presentazione <strong>di</strong> Giuseppe Lippi,<br />

Mursia, Milano 1983 3 . Sugli artisti che hanno tradotto graficamente gli incubi <strong>di</strong> Lovecraft: Gianfranco de Turris e<br />

Sebastiano Fusco, Gli illustratori <strong>di</strong> Lovecraft, in L’ultimo demiurgo e altri saggi lovecraftiani, cit., pp. 87-91.<br />

10 Emblematico, in proposito, Maupassant nel racconto L’Horlà: “Com’è profondo, questo mistero dell’invisibile!<br />

Non possiamo scandagliarlo coi nostri miseri sensi, con gli occhi che non sanno scorgere né il troppo piccolo né il troppo<br />

grande, né il troppo vicino né il troppo lontano, né gli abitanti d’una stella né gli abitanti d’una goccia d’acqua... con<br />

le orecchie che c’ingannano, poiché ci trasmettono le vibrazioni dell’aria in note sonore. Sono le fate che compiono il<br />

miracolo <strong>di</strong> cambiare in rumore quel movimento, e con questa metamorfosi danno vita alla musica che rende canora<br />

l’agitazione della natura... col nostro odorato, più debole <strong>di</strong> quello dei cani... col nostro gusto, che riesce appena a<br />

<strong>di</strong>scernere l’età d’un vino! Ah, se avessimo altri organi che compissero in nostro favore altri miracoli, quante cose<br />

potremmo ancora scoprire intorno a noi!” (Guy de Maupassant, L’Horlà, in Racconti fantastici, trad. <strong>di</strong> Egi<strong>di</strong>o<br />

Bianchetti, Mondadori, Milano 1989, rist., p. 171)<br />

– 181 –


la presenza, nella sua stessa casa, <strong>di</strong> un essere invisibile e immateriale, che può spostare gli<br />

oggetti e si nutre <strong>di</strong> acqua e latte. Il gambo <strong>di</strong> un fiore che si piega, la pagina <strong>di</strong> un libro che<br />

si sposta senza che vi sia un filo d’aria, una massa opaca che si interpone fra lui e lo specchio,<br />

rivelano al protagonista che qualcuno è dentro casa sua e lo sta osservando. Ma egli non<br />

riesce a vedere nulla. Angosciato dalla presenza dell’essere, l’uomo, in un crescendo <strong>di</strong> follia<br />

ossessiva, finisce per incen<strong>di</strong>are la sua stessa casa, facendo bruciare vivi i suoi domestici. Chi<br />

è il misterioso, invisibile essere? Maupassant non lo rivela, ma sembra in<strong>di</strong>care al lettore che<br />

si tratti <strong>di</strong> un ulteriore sta<strong>di</strong>o dell’evoluzione umana, una creatura superiore, lo Horlà, 11<br />

destinata a prendere il posto dell’uomo sulla Terra. 12 Un altro impressionante racconto,<br />

che presenta non poche analogie con quello <strong>di</strong> Maupassant, è La cosa maledetta dell’americano<br />

Ambrose Bierce (1842-1913), 13 che si apre con la lugubre scena <strong>di</strong> nove uomini attorno<br />

al cadavere, steso su un tavolo, <strong>di</strong> un altro uomo. L’uomo è stato orribilmente massacrato<br />

durante una battuta <strong>di</strong> caccia. Interrogando l’unico testimone dell’omici<strong>di</strong>o e leggendo alcune<br />

pagine del <strong>di</strong>ario della vittima, i nove uomini, ossia il Coroner e i giurati del tribunale <strong>di</strong> San<br />

Francisco (e assieme a loro il lettore), giungono alla conclusione che l’assassino è un misterioso<br />

essere invisibile. Bierce non rappresenta l’essere, ma lascia intuire al lettore la sua forma,<br />

allorché descrive le spighe <strong>di</strong> avena che si piegano e vengono schiacciate dalla creatura<br />

che avanza minacciosa o il corpo della vittima, Hugh Morgan, che nella <strong>di</strong>sperata lotta contro<br />

il mostro, appare e scompare, agitandosi nella stretta <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> solido ma non percepibile<br />

dalla vista. L’impossibilità <strong>di</strong> vedere chiaramente l’invisibile massacratore, la cui forma<br />

resta nel racconto inspiegata, ma del quale viene abbondantemente descritta la terribile<br />

devastazione operata sul corpo <strong>di</strong> Morgan, crea nel lettore un forte effetto <strong>di</strong> tensione. 14 Un’altra<br />

paurosa creatura invisibile è quella escogitata da Robert S. Hichens (1864-1950) nel racconto<br />

Come scoprì l’amore il professor Guildea: 15 un vecchio e cinico professore, completamente<br />

<strong>di</strong>sincantato sui sentimenti umani e sull’amore, è costretto a subire il corteggiamento<br />

implacabile <strong>di</strong> una misteriosa creatura invisibile, che si è insinuata a casa sua. L’uomo prima<br />

è incuriosito da questa stranissima esperienza, poi, vista l’impossibilità <strong>di</strong> liberarsi dell’intruso,<br />

ne viene terrorizzato fino a morire letteralmente <strong>di</strong> paura. Nel racconto lo strano essere<br />

che atterrisce Guildea in casa sua non viene mai descritto, e l’autore ricorre all’ingegnoso<br />

espe<strong>di</strong>ente del pappagallo <strong>di</strong> Guildea, che si agita e arruffa le penne nello sforzo <strong>di</strong> imitare<br />

qualcuno percepito solo dall’animale, per dare al lettore l’idea della presenza, nella casa, dell’invisibile<br />

fantasma. A cosa possa assomigliare l’essere che perseguita fino alla morte Guildea<br />

con il suo ossessivo “amore”, non viene affatto spiegato dall’autore. È il lettore che deve<br />

immaginarlo, attraverso gli in<strong>di</strong>zi, in verità scarsi, <strong>di</strong>sseminati nel testo. La rassicurante<br />

11 Preferiamo evitare l’elisione dell’articolo, per conservare l’h aspirata in francese.<br />

12 Alberto Savinio, in una sua originalissima analisi, attribuisce alla compresenza <strong>di</strong> un “altro” Maupassant, enigmatico<br />

e tenebroso, demoniaco doppio, la produzione narrativa fantastica, che coesiste assieme a quella d’impronta<br />

naturalistica: vd. Alberto Savinio, Maupassant e “l’altro”, Adelphi e<strong>di</strong>zioni, Milano 19822 , pp. 69-70.<br />

13 Ambrose Bierce, La cosa maledetta, in Tutti i racconti dell’orrore, a cura <strong>di</strong> Gianni Pilo e Sebastiano Fusco,<br />

Newton Compton e<strong>di</strong>tori, Roma 1994, pp. 39-45. Il tema della cosa invisibile è sfruttato da Bierce per rappresentare un<br />

mondo naturale dominato dal mistero e dall’orrore, come ha osservato Carlo Pagetti, I racconti <strong>di</strong> Ambrose Bierce, in<br />

Citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> un assurdo universo, E<strong>di</strong>trice Nord, Milano 1989, p. 63.<br />

14 Tensione che risulta alquanto stemperata, con un esito banalizzante, nella versione a fumetti del racconto <strong>di</strong><br />

Ambrose Bierce, realizzata da Gray Morrow (<strong>di</strong>segno) e Archie Goodwin (testo) e pubblicata sulla rivista americana<br />

“Creepy” (in italiano, col titolo Quella cosa maledetta!, è apparsa in Le spiacevoli notti <strong>di</strong> zio Tibia, a cura <strong>di</strong> Renata<br />

Pfeiffer, Mondadori, Milano 1973, rist., pp. 59-66). Nell’ultima vignetta la creatura viene svelata, mentre sta per aggre<strong>di</strong>re<br />

la sua vittima: un mostruoso scimmione dal corpo color rosso sangue.<br />

15 Robert S. Hichens, Come scoprì l’amore il professor Guildea, trad. <strong>di</strong> Luciano Bianciar<strong>di</strong>, Sellerio e<strong>di</strong>tore,<br />

Palermo 1994.<br />

– 182 –


spiegazione <strong>di</strong> un sacerdote, testimone della penosa vicenda, che attribuisce l’esperienza<br />

paranormale del professor Guildea e la sua fine a una malattia car<strong>di</strong>aca e paradossalmente<br />

recita il ruolo <strong>di</strong> un ostinato e scettico razionalista, non <strong>di</strong>rime affatto né la tensione né il<br />

mistero della vicenda.<br />

Anche nel cinema, in modo analogo alla letteratura, l’espe<strong>di</strong>ente dell’ellissi descrittiva<br />

ha per effetto <strong>di</strong> accrescere la tensione dello spettatore. Uno dei migliori film <strong>di</strong> fantascienza<br />

mai girati, La cosa da un altro mondo (1951) <strong>di</strong> Christian Nyby (ma il vero regista fu il<br />

grande Howard Hawks), deve il suo eccellente risultato al fatto che la feroce creatura aliena<br />

che attacca i militari americani nella base del Polo Nord, non viene mai pienamente mostrata.<br />

Questa singolare omissione descrittiva, che riteniamo sia l’unico caso nella cinematografia<br />

<strong>di</strong> fantascienza, conserva ancora oggi un notevole effetto perturbante nello spettatore e dà al<br />

film un’impronta suggestiva <strong>di</strong> misterioso fascino. 16<br />

Le considerazioni che abbiamo svolto ci hanno indotto a proporre agli studenti un esercizio<br />

<strong>di</strong> scrittura creativa: il completamento del racconto There are more things, ripreso dal punto<br />

in cui Borges lo ha lasciato interrotto. Che cosa avviene dopo che il narratore protagonista<br />

si trova faccia a faccia con il misterioso e mostruoso abitatore della Casa Rossa? L’esercizio<br />

assegnato è stato, perciò, il seguente: “Prova a scrivere la conclusione del racconto <strong>di</strong> Jorge<br />

Luis Borges”. Già in un nostro precedente lavoro, trattando dell’enigma irrisolto nelle<br />

strutture della narrativa, abbiamo in<strong>di</strong>cato alcune motivazioni, che riteniamo <strong>di</strong>datticamente<br />

valide, per lo svolgimento <strong>di</strong> questo esercizio <strong>di</strong> scrittura creativa, e ad esse qui vogliamo richiamarci:<br />

gli studenti possono esercitare le loro capacità analitiche e migliorare le competenze<br />

espressive; inoltre, terminata la lettura <strong>di</strong> una storia con finale aperto, continuano a essere<br />

emotivamente coinvolti, immaginando la sua possibile continuazione, e cominciano ad<br />

abituarsi a una lettura scaltrita che permetta <strong>di</strong> decifrare gli immancabili in<strong>di</strong>zi <strong>di</strong>sseminati nel<br />

testo per giungere a una più piena e consapevole interpretazione, purché la rielaborazione sia<br />

coerente con la logica interna della trama. 17 Ciò significa che se si vuole scrivere una continuazione<br />

in chiave razionalistica <strong>di</strong> un romanzo come, ad esempio, il Gordon Pym <strong>di</strong> Edgar<br />

Allan Poe (come, peraltro, ha fatto Verne con La Sfinge dei Ghiacci), bisognerà escludere ogni<br />

elemento soprannaturale.<br />

Peraltro, la continuazione <strong>di</strong> storie già concluse, il completamento o la riscrittura dei<br />

finali, anche come modalità <strong>di</strong> messa in <strong>di</strong>scussione dei meccanismi della storia stessa, sono<br />

esercizi previsti nel Ricettario <strong>di</strong> scrittura creativa <strong>di</strong> Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi<br />

(Zanichelli, Bologna 2003², rist., pp. 170-172) e si prestano molto bene all’approccio degli<br />

studenti con il testo narrativo, nelle classi del biennio. Segnaliamo al riguardo che il concorso<br />

internazionale «Scrivi con me», organizzato dal Ministero degli Affari Esteri in collaborazione<br />

con l’Accademia della Crusca nell’ambito delle manifestazioni per la Settimana della<br />

lingua italiana nel mondo, propone annualmente agli studenti delle scuole italiane un racconto<br />

<strong>di</strong> uno scrittore italiano, del quale essi devono scrivere il finale. I do<strong>di</strong>ci migliori scritti<br />

vengono poi pubblicati, assieme al racconto nella sua versione completa (ossia con il finale<br />

scritto dall’autore), in una apposita collana <strong>di</strong> volumetti, per cura dell’e<strong>di</strong>tore Gremese.<br />

Ricor<strong>di</strong>amo, fra i testi usciti nella serie “Un racconto con do<strong>di</strong>ci finali”: Dacia Maraini,<br />

16 Citiamo in proposito Giovanni Mongini: “La «cosa», il mostro, era un specie <strong>di</strong> creatura <strong>di</strong> Frankenstein con<br />

il cranio calvo e delle spine sulle nocche; fu Hawks, su richiesta dei produttori, che decise <strong>di</strong> tagliare tutte le scene dove<br />

esso appariva chiaramente (all’inizio la pellicola durava due ore e mezzo) e l’iniziativa del produttore fu ottima: soltanto<br />

intravista, la «cosa», interpretata da James Arness (il futuro Grahams <strong>di</strong> Assalto alla Terra) è estremamente convincente”<br />

(Giovanni Mongini, Storia del cinema <strong>di</strong> fantascienza, vol.I, Fanucci e<strong>di</strong>tore, Roma 1976, p. 70).<br />

17 Cfr. il nostro articolo L’enigma irrisolto nelle strutture della narrativa, cit., p. 116.<br />

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Berah <strong>di</strong> Kibawa, Gremese E<strong>di</strong>tore, Roma 2003; Alberto Bevilacqua, Il segreto della moglie<br />

scomparsa, Gremese E<strong>di</strong>tore, Roma 2004; Carlo Sgorlon, La fuga a Verona, Gremese E<strong>di</strong>tore,<br />

Roma 2005. Un’altra curiosità: la casa e<strong>di</strong>trice americana Bantam Books, Inc., ha pubblicato<br />

una collana <strong>di</strong> libri per ragazzi in cui le storie presentano finali multipli, che possono<br />

essere scelti dagli stessi lettori. In pratica ogni storia è un insieme <strong>di</strong> sequenze ciascuna<br />

delle quali rimanda alternativamente a due altre sequenze: la struttura “a grappolo” delle vicende<br />

presenta così ventotto finali <strong>di</strong>versi, che il giovane lettore può scegliere. La collana è<br />

Choose Your Own Adventure ed è stata tradotta dall’e<strong>di</strong>tore Mondadori con l’accattivante<br />

titolo Scegli la tua avventura. Citiamo, come esempio, il vol. n.13, L’abominevole uomo<br />

delle nevi (The Abominable Snowman) <strong>di</strong> R. A. Montgomery, trad. <strong>di</strong> Alessandra Padoan,<br />

Mondadori, Milano 1987: è lo stesso lettore ad essere coinvolto nella storia e a vivere<br />

l’emozionante avventura, come protagonista, <strong>di</strong> una spe<strong>di</strong>zione nell’Himalaya alla ricerca del<br />

leggendario Yeti. Attraverso le pagine si <strong>di</strong>ramano <strong>di</strong>fferenti percorsi <strong>di</strong> avventura, terminanti<br />

ciascuno con un finale <strong>di</strong>verso, talvolta sconcertante ma mai scontato (ad esempio, in un<br />

finale il lettore protagonista viene sbranato da una tigre, in un altro viene ucciso dai cacciatori<br />

<strong>di</strong> frodo, in un altro ancora si trova <strong>di</strong> fronte due Yeti che gli puntano contro un vecchio<br />

cannone <strong>di</strong> bronzo, e così via).<br />

Presentiamo ora i testi che hanno elaborato gli studenti, continuando il racconto There<br />

are more things. Le conclusioni sono state scritte dagli alunni Pasquale Ascione, Davide<br />

Cuccurugnani, Massimiliano De Pascalis, Federica Gobbi, Giorgia Gravina, Luca Lazzari,<br />

Simone Lazzari, Aurora Luciani, Andrea Lijoi, Emanuela Piu, Valentina Scanzani, Valentina<br />

Sebastiani, Giulia Simeone, della classe IV A. Il lettore non potrà non scorgere <strong>di</strong>fetti formali,<br />

ingenuità e approssimazioni. Va però tenuto presente che si tratta <strong>di</strong> alunni <strong>di</strong> una quarta<br />

ginnasiale, all’inizio del loro percorso <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o dei testi letterari. Avvertiamo doverosamente<br />

che ai racconti sono state apportate lievi correzioni formali, ma sempre nel rispetto <strong>di</strong> un’assoluta<br />

fedeltà ai testi scritti dai giovani autori.<br />

There are more things<br />

concluso da Pasquale Ascione<br />

Un lungo brivido mi percorse la spina dorsale. Paura, terrore, erano le sensazioni che<br />

provavo. Il mio corpo rimaneva immobile, voleva scappare, non sarebbe mai voluto entrare<br />

in quella tetra casa. Però una morbosa curiosità me lo impe<strong>di</strong>va, volevo vedere in faccia la<br />

misteriosa creatura che abitava quella casa.<br />

Tanti pensieri mi annebbiavano la mente, quand’ecco che vi<strong>di</strong> un’ombra sulla parete.<br />

Essa si ingigantiva sempre più. Non <strong>di</strong>stinguevo bene l’ombra, però riuscii a concentrarmi e<br />

a notare la forma del corpo: un corpo magrissimo, con la testa enorme, sproporzionata al<br />

corpo.<br />

L’ombra si stava avvicinando sempre più. Non ebbi il coraggio <strong>di</strong> girarmi: la paura sconfisse<br />

la curiosità e scappai. Non mi voltai, <strong>di</strong>fficilmente sarei ritornato sui miei passi. Una<br />

volta uscito dalla casa, corsi senza sosta. Tornato a casa, cominciai a riflettere: dentro <strong>di</strong> me<br />

ero <strong>di</strong>spiaciuto <strong>di</strong> non aver visto la creatura, ma credo che avrei avuto una reazione esagerata.<br />

Più tar<strong>di</strong> mi calmai.<br />

La mattina seguente pensai ancora a come avevo trascorso la sera prima. Ero rimasto<br />

scioccato da quella sera. Tutto a un tratto non avevo più voglia <strong>di</strong> chiarire questo mistero, non<br />

sarei mai voluto rientrare nella Casa Rossa <strong>di</strong> mio zio. Io stesso non mi riconoscevo più, la<br />

curiosità che avevo fino a pochi giorni fa era totalmente scomparsa. Allora non volli preoccuparmi<br />

più della Casa Rossa.<br />

– 184 –


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concluso da Davide Cuccurugnani<br />

Fui colpito da una luce abbagliante, che mi impe<strong>di</strong>va <strong>di</strong> tenere gli occhi aperti, nonostante<br />

la vacua curiosità mi spingesse avanti.<br />

Da una luce così forte potevo aspettarmi un calore pari solo a quello del sole, e invece<br />

freddo, un freddo gelido e pungente.<br />

Avevo paura. Paura <strong>di</strong> andare avanti, verso l’ignoto, verso l’inizio o la fine <strong>di</strong> qualcosa.<br />

Ben presto sentii sotto i miei pie<strong>di</strong> il vuoto, ma nonostante questa inquietante situazione<br />

avanzai, continuando a salire verso la luce. Arrivai a sentire qualcosa, a sentirmi toccare da<br />

qualcosa, o forse da qualcuno!<br />

Non sentivo il peso <strong>di</strong> quel tocco, ma lo percepivo, e percepivo dentro <strong>di</strong> me una forte<br />

angoscia. Fu un attimo, e poi... buio!<br />

È <strong>di</strong>fficile spiegare come da una luce così abbagliante si possa passare al buio più oscuro.<br />

A spezzare il buio c’erano solo raggi <strong>di</strong> luce viola.<br />

Ero immobile. Steso o in pie<strong>di</strong> non era chiaro, ma ero immobile. Non c’era niente a<br />

trattenermi, ma era come se avessi il corpo paralizzato, pur non essendo legato. Intorno a me<br />

voci e bisbigli incomprensibili. Sibili nel buio, dove solo la luce violacea mi rassicurava.<br />

Il panico mi invadeva, il mio corpo lottava contro le impercettibili barriere che lo bloccavano.<br />

Qualcosa nell’oscurità si accorse del mio <strong>di</strong>sagio. I bisbigli tacquero e un raggio <strong>di</strong><br />

luce viola mi illuminò in pieno il volto. Sentii il solito tocco, ma questa volta più intenso. Lo<br />

sentii sul mio viso, quel tocco che mi dava una tenue, rassicurante sensazione. L’angoscia era<br />

ancora viva in me, ma non volevo più liberarmi. E mentre pensavo, un dolore fulminante mi<br />

attraversò il cranio.<br />

Smisi <strong>di</strong> pensare, gli occhi immobili verso il buio, mentre sentivo la mia testa aprirsi<br />

come una noce. Ma quel tocco, che sempre percepivo, continuava a rassicurarmi e ad allontanare<br />

sia la paura sia il dolore.<br />

Ad un tratto mi sentii leggero, sentii che le braccia e le gambe fluttuavano nel nero vuoto<br />

attraversato dai raggi violacei.<br />

Non sentivo più dolore, non sentivo nulla. Mi agitavo nel vuoto, mi sembrava <strong>di</strong> volare.<br />

Nemmeno sentivo <strong>di</strong> respirare, ma mi accorgevo comunque che ero vivo. Non respiravo, ma<br />

vivevo. Non chiudevo gli occhi, ma continuavo a vedere. E mentre fluttuavo... cad<strong>di</strong>.<br />

Mi svegliai, come se la notte prima fossi stato ubriaco. Avevo un grosso mal <strong>di</strong> testa, ma<br />

sulla mia testa non c’erano ferite né aperte né rimarginate.<br />

Tornai nella casa dello zio, entrando dalla finestra come la notte prima. Come era<br />

possibile che mi trovassi esattamente fuori dalla casa? Ripensandoci, era possibile che fossi<br />

salito sul tetto e vi avessi camminato sopra, in uno stato <strong>di</strong> alienazione totale, e poi fossi<br />

caduto. Ma non era possibile, era troppo alto, e mi sarei dovuto aggrappare ad un albero. Ma<br />

anche così, avrei sbattuto quanto meno la testa.<br />

Uscii imme<strong>di</strong>atamente da quella casa <strong>di</strong>sabitata e maleodorante, per <strong>di</strong>rigermi nel mio<br />

albergo. Entrato nella mia camera, mi sdraiai sul letto guardando il soffitto, concentrandomi<br />

nei miei pensieri, per evitare che quel comodo letto mi facesse assopire.<br />

Ora tutto mi era chiaro. Lo zio Edwin grazie a Muir aveva scoperto qualcosa <strong>di</strong> inimmaginabile<br />

e indescrivibile. La quarta <strong>di</strong>mensione, la <strong>di</strong>mensione del tempo!<br />

Ecco dove ero stato, in una <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> tempo contrario, <strong>di</strong>verso o ad<strong>di</strong>rittura inesistente.<br />

Quelle cose la cui presenza avevo sentito vicino a me quella sera, dovevano essere<br />

– 185 –


alieni. Alieni? Discorsi folli nella mia testa si ripetevano ossessivamente. Perché sentivo<br />

ancora quel dolore nella testa? Gli alieni mi avevano fatto qualcosa? O ero io che deliravo ed<br />

ero sconvolto da un incubo?<br />

Una cosa era sicura: mio zio non era un pazzo né tanto meno un imbroglione che volesse<br />

vendere le sue idee al primo credulone.<br />

Quello che <strong>di</strong>ceva era vero, e chissà in quale modo aveva pagato la sua verità. E io sarei<br />

morto con questa certezza, che non avrei potuto comunicare a nessuno, perché nessuno poteva<br />

capire ciò che io avevo provato.<br />

Ma cosa era realmente successo, chi fossero i miei torturatori e dove mi ero trovato, non<br />

l’avrei mai scoperto. E non avrei mai capito se tutto ciò era un avvertimento o non piuttosto<br />

una condanna da cui non mi sarei mai liberato.<br />

<br />

There are more things<br />

concluso da Massimiliano De Pascalis<br />

Ero talmente curioso che non sentivo più il tremore che mi aveva invaso il corpo. Come<br />

sarebbe apparsa la creatura? Quali <strong>di</strong>mensioni avrebbe avuto? Oramai stavo per scoprirlo, tirarsi<br />

in<strong>di</strong>etro non era più possibile. Come io avevo percepito la sua presenza, anche lui aveva<br />

percepito la mia. Arrivato a questo punto, la paura si intrecciava con la curiosità e non riuscivo<br />

a <strong>di</strong>stinguere l’una dall’altra.<br />

Nel frattempo, per non farmi vedere, tornai con passo felpato al piano <strong>di</strong> sopra e mi nascosi<br />

in un angolo, favorito dalla mancanza <strong>di</strong> luce. Trascorsi pochi minuti, sentii uno strano<br />

rumore, simile allo strisciare <strong>di</strong> qualcosa, o piuttosto a un sibilo. Rimasto da solo e al buio,<br />

ero attanagliato dalla paura.<br />

Ecco che nuovamente sentivo quel sibilo fasti<strong>di</strong>oso e inquietante, solo che questa volta<br />

sembrava più acuto.<br />

Mi sembrava tutto come un film dell’orrore, in cui la preda, cioè io, aspetta impaurita <strong>di</strong><br />

essere catturata e uccisa. Di colpo sentii un brivido <strong>di</strong>etro la schiena, come se mi si avvertisse<br />

che la creatura era entrata nella stanza in cui mi trovavo. Impaurito, riuscii a farmi un po’<br />

<strong>di</strong> coraggio e cercai <strong>di</strong> scrutare nel buio in cerca <strong>di</strong> una qualche sagoma, il mio predatore. Dopo<br />

qualche attimo ecco che i miei occhi, tra le fitte tenebre, riuscirono a catturare un’immagine<br />

confusa <strong>di</strong> un essere dalle gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni, simile a un serpente, dai gran<strong>di</strong> occhi luminosi.<br />

La cosa strana era che riuscivo a contare ben quattro occhi, <strong>di</strong>visi a coppie, che spuntavano<br />

da una forma possente e apparentemente viscida, tanto che rifletteva la poca luce anche<br />

nel buio più intenso.<br />

L’essere per qualche minuto si agitò piegandosi su se stesso prima <strong>di</strong> sdraiarsi su quella<br />

specie <strong>di</strong> letto a forma <strong>di</strong> U. Impaurito e allo stesso tempo curioso, lentamente mi alzai in pie<strong>di</strong><br />

e lo andai ad osservare più vicino. Mi avvicinai talmente che potei sentire il suo respiro sul<br />

mio corpo, notai anche le due gran<strong>di</strong> teste, una anteriore e l’altra posteriore. La mia impressione<br />

nel vederlo fu talmente intensa che incautamente lo colpii ad un fianco. L’essere aprì<br />

subito i suoi quattro occhi e si sollevò, come per volermi respingere. Preso dal panico, cominciai<br />

a correre, inseguito dal grande e goffo mostro. Per la paura non riuscivo a voltarmi;<br />

trovata finalmente la porta d’ingresso, uscii in strada e continuai a correre per un lungo tratto,<br />

fino a che, stremato, crollai a terra privo <strong>di</strong> sensi.<br />

Questa fu l’ultima cosa che ricordai, prima <strong>di</strong> svegliarmi sul letto della clinica del mio<br />

paese.<br />

– 186 –


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concluso da Federica Gobbi<br />

La figura che mi si parò davanti aveva fattezze talmente mostruose che, nonostante il<br />

terrore, non riuscii ad urlare. Rimasi a boccheggiare con gli occhi spalancati, fissando quell’essere<br />

mostruoso. Era una specie <strong>di</strong> enorme lucertola, con tante zampe e due teste, con<br />

occhi gran<strong>di</strong> e gialli che mi fissavano vitrei. Sulla coda, simile a quella degli scorpioni,<br />

luccicava una goccia <strong>di</strong> veleno. Ancora incapace <strong>di</strong> muovermi e parlare, continuai a fissare<br />

inorri<strong>di</strong>to quel mostro che saliva lentamente per le scale, convinto che la mia vita sarebbe<br />

finita in pochi attimi. Tutto intorno c’era silenzio. L’unico suono che mi arrivava era il<br />

martellante battere del mio cuore e il sordo rumore <strong>di</strong> tutte quelle zampe sugli scalini.<br />

Mentre quella “cosa” continuava minacciosa a salire, finalmente, ritrovando un po’ <strong>di</strong><br />

luci<strong>di</strong>tà, mi resi conto che anche se quei quattro occhi stavano fissando me, era come se non<br />

riuscissero a vedermi. In silenzio mi appiattii contro il muro, in una specie <strong>di</strong> buco che un<br />

tempo doveva essere stato un ripostiglio, e avvolto dalle tenebre guardai quel mostro che<br />

ormai era arrivato nel punto in cui mi ero fermato. Trattenni il respiro. Ad un tratto la piccola<br />

finestrella che avevo <strong>di</strong> fronte si spalancò a causa del vento. Il mostro, colto <strong>di</strong> sorpresa,<br />

chiuse gli occhi e, riaprendoli, li spalancò in un modo incre<strong>di</strong>bile, voltandosi verso la finestra.<br />

Per un po’ si guardò intorno, poi chiuse nuovamente gli occhi. Quando li riaprì avevano<br />

<strong>di</strong> nuovo quello sguardo vitreo, come assente. Come in preda al sonnambulismo riprese la sua<br />

salita lenta e opprimente.<br />

Aspettai, respirando a fatica, che arrivasse in cima. Dopo alcuni minuti, che a me sembrarono<br />

ore, iniziai a scendere lentamente e in modo silenzioso, fino ad arrivare alla porta.<br />

Cautamente aprii la porta e uscii. La pioggia mi fustigò il volto. Appena fuori da quella casa<br />

iniziai a correre. Il cuore mi batteva fortissimo, al punto tale che temetti che mi sarebbe uscito<br />

fuori dal petto. Finalmente arrivai a casa, entrai e mi accasciai sul pavimento, preso da un<br />

irrefrenabile tremore. Non riuscivo a togliermi dalla testa quella “cosa” e tutti quegli occhi<br />

perfi<strong>di</strong> e gialli che mi fissavano ma non mi vedevano.<br />

Non so per quanto tempo rimasi così, forse minuti, forse ore, poi ritornai in me e iniziai<br />

a chiedermi da dove venisse e che cosa volesse quella specie <strong>di</strong> lucertolone.<br />

Ci pensai e ci ripensai, ma l’unica conclusione a cui arrivai era che in tutto quello c’entrava<br />

Preetorius.<br />

Avevo bisogno <strong>di</strong> parlare con qualcuno e decisi <strong>di</strong> andare da Muir, anche perché sapevo<br />

che la polizia non mi avrebbe creduto. Presi un bel respiro, uscii e mi incamminai. Arrivai a<br />

casa <strong>di</strong> Muir e bussai impaziente. Muir mi venne ad aprire. Entrai. Sul tavolo c’erano dei<br />

biscotti. “Accomodati”, mi <strong>di</strong>sse in<strong>di</strong>cando una se<strong>di</strong>a. Mi sedetti e, dopo un paio <strong>di</strong> biscotti,<br />

iniziai a raccontargli tutto, nei minimi particolari. “...per questo credo che la chiave <strong>di</strong> tutto<br />

sia Preetorius!”, <strong>di</strong>ssi concludendo il mio racconto. Aspettai paziente una risposta, ma Muir<br />

stette in silenzio. Alzai lo sguardo verso lo specchio e sobbalzai. Dietro <strong>di</strong> me c’era l’inquietante<br />

Preetorius che stringeva qualcosa in mano. Feci per alzarmi, quando sentii un dolore<br />

lancinante alla testa che mi fece svenire. Quando rinvenni mi trovai nella Casa Rossa, con le<br />

braccia e le gambe legate. Accanto a me c’era Preetorius, in un angolo Muir, con gli occhi<br />

bassi, seminascosto dalle tenebre, e avanti a me c’era quel mostro.<br />

Preetorius mi <strong>di</strong>sse: “Complimenti, ragazzino, sei sveglio... ma troppo curioso per i miei<br />

gusti. Adesso vedrai cosa succede ai ficcanaso”. Il mostro venne minaccioso verso <strong>di</strong> me, con<br />

gli occhi spalancati. Questa volta la paura fu più forte della curiosità, e chiusi gli occhi.<br />

– 187 –


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concluso da Giorgia Gravina<br />

Aprii gli occhi e riuscii a scorgere una figura strana: sembrava un serpente con due teste,<br />

ma non feci in tempo a guardare bene. Lo strano essere mi prese, e mentre mi stringeva a sé,<br />

sentii un pizzico all’altezza del collo. In quel momento provai una strana sensazione, come<br />

<strong>di</strong> smarrimento. Mi sentivo la testa vuota ed ero come paralizzato. Persi i sensi.<br />

Mi risvegliai in uno strano luogo. Ero certo <strong>di</strong> trovarmi nella Casa Rossa, ma in quale<br />

stanza? Riuscii ad aprire meglio gli occhi e capii finalmente dove mi trovavo: era la stanza<br />

da letto del mostro. In quel momento mi ricordai che quando ero piccolo e giocavo a nascon<strong>di</strong>no,<br />

scappavo sempre da una porta posteriore situata proprio nella camera da letto. La<br />

prima cosa che mi venne in mente, fu quella <strong>di</strong> scappare da lì. Non era proprio una cattiva<br />

idea, ma c’era un piccolo intoppo: ero legato mani e pie<strong>di</strong> al letto del mostro. Ero <strong>di</strong>sperato,<br />

non sapevo cosa fare. Fuori pioveva e tirava un forte vento freddo. Mentre pensavo a come<br />

portare in salvo la pelle, mi venne in mente che nella tasca destra del mio cappotto c’era un<br />

coltellino canadese, che mi serviva per le emergenze e che portavo sempre con me. Il cappotto<br />

era abbastanza vicino a dove mi trovavo e riuscii a tirar fuori dalla tasca il coltellino. Lo aprii<br />

dalla parte della lama e inizia a tagliare la corda che mi teneva legato al letto. Proprio sul più<br />

bello, quando la corda stava per cedere, sentii la porta cigolare e dei passi d’uomo risuonare<br />

sul pavimento <strong>di</strong> legno. Era Preetorius che veniva a “farmi visita”.<br />

Non capivo più niente. Prima la mostruosa anfisbena, ora lo strano compratore: ma che<br />

legame c’era tra questi due esseri? Alla mia domanda rispose subito Preetorius: “Ve<strong>di</strong> figliolo,<br />

la vita è assai crudele con alcuni. Il destino, ahimè, ti ha riservato una brutta fine. Sono venuto<br />

su questo pianeta perché mi serve un po’ <strong>di</strong> sangue umano da portare sul mio, e il saggio dei<br />

saggi ha scelto proprio te. Non devi, però, essere triste, è una fine <strong>di</strong>gnitosa, in fondo!” Da<br />

queste parole riuscii a ricollegare tutto: il cane morto, lo strano letto, la luce biancastra. “Ora<br />

è tutto chiaro!”, esclamai ad alta voce. Preetorius sentendo la mia esclamazione, rise e <strong>di</strong>sse<br />

con tono severo: “Vedo che sei un ragazzo sveglio. Ma non abbastanza da capire che è stato<br />

un errore venire a “trovarci” a casa nostra, ci hai reso le cose molto più facili...” E con una<br />

risatina maligna sgusciò via.<br />

Quando calò il silenzio nella stanza e sentivo solo il battito del mio cuore, a quel punto<br />

presi una decisione, pensando che era troppo presto per morire. Allora ripresi a tagliare e<br />

visto che lo spietato alieno non si era accorto che la corda era lacerata, non fu <strong>di</strong>fficile riuscire<br />

a liberarmi. Quando fui finalmente libero, con passi leggeri andai verso la porta, la aprii e me<br />

ne andai in fretta e furia. La prima cosa che pensai e feci fu <strong>di</strong> andare dallo sceriffo. Gli raccontai<br />

tutto e mi credette. Preetorius alla fine fu imprigionato e lo strano essere alieno fatto<br />

a pezzi e bruciato.<br />

<br />

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concluso da Luca Lazzari<br />

La paura pervase il mio corpo. Rimasi immobile, come pietrificato. Benché volessi chiudere<br />

gli occhi, non ci riuscivo. La curiosità era troppa, avrei finalmente svelato il mistero.<br />

Sarei stato il primo e forse l’ultimo a vedere ciò che nessuno aveva mai visto e mai avrebbe<br />

– 188 –


veduto. Qualcosa fuori da ogni immaginazione, che mi avrebbe paralizzato, ma che al tempo<br />

stesso mi avrebbe stupito. Mille domande e mille pensieri offuscarono la mia mente. Sarei<br />

riuscito a sopravvivere, oppure tra breve sarei morto? E poi, chi era quell’essere e che cosa<br />

poteva volere dagli umani? Ma il suo aspetto era davvero così terrificante? Per quanto mi sforzassi,<br />

non riuscivo a trovare delle risposte alle mie domande. Mentre riflettevo e mi ponevo<br />

questi quesiti, il tempo e tutto ciò che si trovava intorno a me sembrava essersi fermato.<br />

Venni riportato alla realtà da qualcosa <strong>di</strong> freddo e viscido che si avvolse intorno alla mia<br />

gamba. Sentii il cuore battermi in gola. Ero terrorizzato. Cercai <strong>di</strong> svincolarmi da quella<br />

presa. Ci riuscii e corsi <strong>di</strong> nuovo al piano superiore. Sentii che la misteriosa creatura si stava<br />

avvicinando. Mano a mano che saliva le scale, riuscivo ad intravedere qualcosa. Quando lo<br />

vi<strong>di</strong> completamente, rabbrivi<strong>di</strong>i.<br />

Era simile a una piovra. Aveva lunghi tentacoli e un grosso occhio al centro della testa.<br />

L’essere iniziò a emettere versi, qualcosa che non riuscii a capire. Ad un certo punto prese uno<br />

strano strumento da un mobile e iniziò a <strong>di</strong>gitare dei tasti. Capii che era un traduttore tarato<br />

sulla mia lingua, quando prese a parlarmi in modo comprensibile. Mi spiegò che era un detenuto<br />

sfuggito alla giustizia del suo pianeta con una navicella spaziale, atterrato sul nostro pianeta<br />

in attesa che si fossero calmate le acque. Per potersi meglio nascondere aveva assunto le<br />

sembianze umane e comprato la casa. Mi <strong>di</strong>sse che ormai era stato scoperto e, non avendo altre<br />

soluzioni, mi avrebbe ucciso. In questo modo non avrei potuto raccontare niente.<br />

Vi<strong>di</strong> i suoi tentacoli avvicinarsi verso <strong>di</strong> me. Ma prima che potesse afferrarmi, presi un<br />

vecchio ombrello gettato in un angolo e con uno sforzo gli conficcai la punta nell’occhio.<br />

L’orribile alieno emise un urlo agghiacciante. Approfittando della sua cecità, lo attirai con la<br />

mia voce alla finestra e lo spinsi <strong>di</strong> sotto. Cadde giù al suolo violentemente, rimanendo tramortito.<br />

Mentre guardavo giù, ancora impaurito, vi<strong>di</strong> comparire all’improvviso due strani<br />

esseri che immobilizzarono il mostro e scomparvero assieme a lui.<br />

Ritornai a casa frastornato. In tutta questa vicenda <strong>di</strong> una cosa sola ero sicuro: non avrei<br />

mai <strong>di</strong>menticato un’esperienza simile.<br />

<br />

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concluso da Simone Lazzari<br />

Avevo una grande tensione addosso. Non sapevo cosa si stesse avvicinando, ma sentivo<br />

che non era un essere umano, bensì una misteriosa creatura che, sotto false sembianze, aveva<br />

comprato quella casa. Mi chiedevo cosa facesse tutto il giorno chiuso nella sua abitazione<br />

e se ci fossero altri esseri uguali a lui. In quel momento molte <strong>di</strong> queste domande vagavano<br />

nei miei pensieri, ma capii che ben presto ne avrei avuto la risposta. Mi sembrava <strong>di</strong><br />

essere in un film giallo, nel momento in cui si scopriva il colpevole. Già me lo immaginavo<br />

brutto, magari con alcune parti del corpo particolari e strane. Quello <strong>di</strong> cui ero certo era che<br />

avrei scoperto qualcosa <strong>di</strong> veramente incre<strong>di</strong>bile, che avrebbe svelato molti misteri sulla<br />

presenza <strong>di</strong> altre forme <strong>di</strong> vita, oltre quella umana, nell’universo.<br />

Intanto i passi si facevano sempre più vicini. A ogni gra<strong>di</strong>no salito, cresceva anche la mia<br />

ansia, la mia agitazione. Per un attimo avrei voluto scappare, nascondermi sotto il tavolo o<br />

<strong>di</strong>etro qualcosa, ma le mie gambe erano ferme, immobili, come pietrificate. Ormai non potevo<br />

più pensare, già si cominciava a scorgere l’ombra <strong>di</strong> quella creatura. Rimasi sorpreso nel<br />

vedere che in realtà davanti a me c’era Alexander Muir, l’architetto che aveva progettato questa<br />

casa. Gli chiesi cosa facesse qui e lui mi rispose che aveva sentito strani rumori e, trovando<br />

– 189 –


la porta aperta, era venuto a controllare. Allora, pensando che ne potesse sapere qualcosa, gli<br />

domandai qualche informazione sullo strano personaggio che vi abitava. Lui, spaventato,<br />

si guardò attorno, poi con voce tremante <strong>di</strong>sse che secondo lui non era un uomo normale perché<br />

non usciva mai e alcuni oggetti dell’arredamento, come d’altronde avevo notato anch’io,<br />

erano <strong>di</strong> proporzioni maggiori rispetto a quelle consuete. Inoltre in questa costruzione ci<br />

doveva essere qualcosa che mio zio aveva trovato involontariamente e <strong>di</strong> cui si era ritenuto<br />

il legittimo proprietario. Stranamente, trascorsi alcuni mesi, mio zio era morto e subito dopo<br />

si era presentato un signore interessato a comprare la casa anche al doppio della cifra proposta<br />

dal miglior offerente. Tutto questo era sospetto.<br />

Mentre riflettevamo su questi strani fatti, avanzando a vicenda le nostre “teorie”,<br />

sentimmo dei passi lenti, pesanti. Ci spaventammo e cercammo un posto dove nasconderci,<br />

per non farci scoprire. Vedemmo un arma<strong>di</strong>o grande abbastanza per contenere due persone e<br />

ci rifugiammo lì. Per la curiosità non chiusi del tutto l’anta, ma lasciai un piccolo spiraglio<br />

per vedere. Sentivo i passi avvicinarsi. Alla fine, ecco apparire la figura <strong>di</strong> cui avevo tanto<br />

cercato <strong>di</strong> capire l’aspetto. Davanti a me c’era una buffa creatura, come quelle che si vedono<br />

nei film <strong>di</strong> fantascienza, con una testa ovale, lunghe <strong>di</strong>ta, senza capelli e con due occhi alquanto<br />

sporgenti. Pareva infuriato, forse perché non riusciva a trovare l’oggetto che era stato<br />

nascosto da mio zio dentro la casa. Ascoltai attentamente. Sentii che l’essere parlava nella<br />

nostra lingua, ma capii soltanto una frase, nella quale specificava l’inutilità dell’uccisione<br />

<strong>di</strong> mio zio. A quelle parole l’ira si impadronì <strong>di</strong> me: uscii dall’arma<strong>di</strong>o all’improvviso e lo colpii<br />

violentemente alla testa, facendolo cadere a terra. Subito Alexander mi chiamò e insieme<br />

andammo via <strong>di</strong> corsa da quella casa.<br />

Cosa sia successo dopo non lo so, ma la cosa <strong>di</strong> cui sono certo è che non ho ucciso quel<br />

mostro: è vivo e probabilmente sta ancora cercando, in quella casa, il misterioso oggetto.<br />

<br />

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concluso da Andrea Lijoi<br />

A un certo punto vi<strong>di</strong> un essere dall’aspetto terrificante, che aveva tutta l’aria <strong>di</strong> essere<br />

un vampiro. Era vestito <strong>di</strong> nero, con un mantello lungo fino ai pie<strong>di</strong>. I suoi occhi giallastri<br />

cambiavano colore emettendo bagliori rossastri e il suo viso, solcato da profonde rughe, era<br />

palli<strong>di</strong>ssimo. Egli avanzava senza parlare, con passi lenti. Con voce tremante gli chiesi: “È<br />

lei Max Preetorius?” Ed egli con voce profonda e tetra mi <strong>di</strong>sse: “Va’ via!” Io, preso dal<br />

panico, scappai, decidendo <strong>di</strong> non tornare più in quella casa.<br />

Quando mi sentii abbastanza lontano e al sicuro, mi accorsi <strong>di</strong> aprire gli occhi e mi trovai<br />

nella mia stanza, sdraiato sul mio letto. Dalla finestra socchiusa filtrava la luce del sole e<br />

fuori, tra il verde degli alberi, si sentivano gli uccelli cinguettare. Ero calmo e tranquillo.<br />

Capii allora che tutto era stato un terribile incubo.<br />

<br />

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concluso da Aurora Luciani<br />

Quando si accese la luce mi trovai davanti esattamente lo stesso essere il cui nome avevo<br />

pronunciato pochi secon<strong>di</strong> prima: l’anfisbena.<br />

– 190 –


Avevo letto molti documenti che lo descrivevano, da Plinio a Lucano, da Brunetto Latini<br />

a sir Thomas Brown.<br />

Sapevo perfettamente che non era un essere reale, ma ciò che mi trovai davanti agli occhi<br />

in quel momento tradì tutte le mie conoscenze.<br />

Era esattamente come me lo ero immaginato leggendo i racconti e le testimonianze, esattamente<br />

come mi aspettavo che fosse l’essere che poteva abitare quella casa, la Casa Rossa,<br />

la casa <strong>di</strong> mio zio.<br />

Nonostante me lo aspettassi, provai, però, stupore, <strong>di</strong>sgusto, e al tempo stesso fui affascinato<br />

nel vedere il lungo corpo verde acido e nero, le due spaventosissime teste che corrispondevano<br />

alle estremità del mostro e quei terribili denti con i quali, se solo avesse voluto,<br />

avrebbe potuto uccidermi, senza che io mi potessi minimamente opporre.<br />

Non mi uccise. Anzi, mentre già pensavo alla mia morte, alle persone che erano a me care<br />

e che da quel momento non avrei più rivisto, il mostro, la terribile anfisbena, cominciò a<br />

parlarmi. Aveva una voce aspra, sibilante, non umana. Mi stupii: non avrei mai pensato che<br />

un essere simile a un serpente potesse parlare, potesse ascoltare, potesse avere pietà.<br />

Mi raccontò della casa e <strong>di</strong> Preetorius: “Quando arrivai, questa casa era piena <strong>di</strong> mobili,<br />

molte pareti, tanti libri, carte ancora fresche d’inchiostro e un bellissimo cane. Ma <strong>di</strong> queste<br />

cose non me ne facevo niente, così me ne sbarazzai. Misi or<strong>di</strong>ne alla casa: buttai i mobili<br />

e i libri in una buca, demolii le pareti, uccisi il cane. Mi feci fare i mobili <strong>di</strong> cui avevo bisogno,<br />

trasformai la casa nella mia reggia. In verità queste cose le fece Preetorius, ma che <strong>di</strong>fferenza<br />

fa? Preetorius non aveva certo un bell’aspetto e molti lo reputavano un uomo strano.<br />

In effetti i suoi comportamenti non erano molto umani. Non aveva né amici né parenti in<br />

questo mondo; l’unico che aveva era se stesso, ossia me”.<br />

A quell’affermazione capii tutto. Preetorius e l’essere che mi trovavo davanti erano la<br />

stessa cosa, la stessa mente. Ma come era possibile essere uomo e al tempo stesso anfisbena?<br />

Stavo per chiederglielo, ma questi mi precedette spiegandomi ogni cosa: “Io sono e<br />

sono sempre stato un’anfisbena. Anche quando la mia mente era nel corpo <strong>di</strong> Preetorius sono<br />

sempre rimasto tale. Sono, però, l’ultima anfisbena e se tuo zio non mi avesse protetto<br />

probabilmente non sarei qui. Tuo zio mi trovò nei deserti d’Africa, gli stessi in cui i soldati<br />

<strong>di</strong> Catone affrontarono i miei avi secoli or sono. Mi prese con sé e mi portò in questa casa.<br />

Fece <strong>di</strong> me quel che sono adesso: imparai a parlare, a capire, a ragionare. Riuscii a comprendere<br />

così bene la mente umana che finii, giorno dopo giorno, anno dopo anno, per<br />

assomigliare sempre più a quell’essere ripugnante che era Preetorius: né uomo né anfisbena.<br />

Quando tuo zio morì decisi così <strong>di</strong> fare un passo in<strong>di</strong>etro. Pre<strong>di</strong>sposi la casa in modo tale<br />

che un’anfisbena ci avrebbe potuto vivere. Buttai i libri, con amarezza, ma consapevole che<br />

se fossi tornato come ora sono mai sarei stato capace <strong>di</strong> sfogliarli. Preferii ri<strong>di</strong>ventare quel<br />

che ero dato che da solo non sarei mai stato in grado <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare un uomo a tutti gli effetti.<br />

Ora che ti ho raccontato la mia storia, la storia della casa e <strong>di</strong> tuo zio, vattene. Preferisco star<br />

solo”.<br />

Me ne andai, sorpreso <strong>di</strong> come quell’essere poteva essere docile e avere sentimenti così<br />

nobili.<br />

Fuori non pioveva più, era già mattino e il sole splendeva regalando un gra<strong>di</strong>to tepore.<br />

Mi affrettai lungo il Sentiero delle Mandrie, trovai la buca dove erano seppelliti i mobili, i<br />

libri <strong>di</strong> mio zio e insieme con essi tutte le carte. Vi<strong>di</strong> taccuini interi con <strong>di</strong>segni e stu<strong>di</strong> sulle<br />

anfisbene, li presi.<br />

Mi recai poi nel pomeriggio al cimitero da mio zio. Allora capii cosa lui avrebbe voluto.<br />

La notte stessa tornai alla Casa Rossa. Entrai, non c’era nessuno. Avevo deciso <strong>di</strong> continuare<br />

ciò che mio zio, Edwin Arnett, aveva cominciato. Aspettai.<br />

– 191 –


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concluso da Emanuela Piu<br />

In quell’istante un brivido percorse il mio corpo. Il mio viso ruotò lentamente verso il<br />

basso e vi<strong>di</strong> l’essere.<br />

Non sapevo cosa fare, se urlare, scappare o rimanere lì, inerme. Lo scorrere del tempo<br />

era lento, quasi impossibile.<br />

Quella specie <strong>di</strong> serpente a doppia testa salì i gra<strong>di</strong>ni con grande abilità e, inevitabilmente,<br />

si accorse della mia presenza. Le teste del serpente si trovavano alle due estremità<br />

del corpo. Quella che era più vicina ai miei pie<strong>di</strong> si alzò lentamente, scrutandomi dal basso<br />

verso l’alto. A quel punto i suoi occhi raggiunsero i miei: gli occhi gran<strong>di</strong> e rossi, pieni <strong>di</strong><br />

rabbia, posti al centro della piccola testa, rendevano l’essere ancor più mostruoso. Con un<br />

movimento inaspettato il serpente eresse metà del suo corpo, spalancando le enormi fauci ed<br />

emettendo un suono quasi assordante. In un istante addentò la mia caviglia. Il sangue<br />

cominciò a scorrere, mentre urlavo <strong>di</strong> dolore. Scalciando nell’aria cercai <strong>di</strong> liberarmi della<br />

bestia, ma essa, addentandomi profondamente nella carne, si attorcigliò alla gamba, mordendo<br />

con l’altra bocca il mio petto. Il dolore era atroce. Gridavo più che potevo ma le mie<br />

urla erano inutili.<br />

In pochi secon<strong>di</strong> l’essere era riuscito a immobilizzarmi. Capii che ormai la mia ora era<br />

giunta.<br />

<br />

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concluso da Valentina Scanzani<br />

Sentii qualcosa <strong>di</strong> caldo e <strong>di</strong> viscido strisciare lungo le scale, contro le mie gambe... Era<br />

buio, non riuscivo a capire cosa mi trovassi davanti.<br />

Non avevo paura, ero curioso, curioso <strong>di</strong> scoprire cosa c’era a pochi centimetri <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza<br />

da me... Mi poteva fare del male? Forse mi poteva uccidere? Dovevo avere paura? O forse<br />

era semplice e innocuo...<br />

Era rimasto fermo, immobile su quella scala verticale. Forse anche lui mi stava osservando<br />

e formulava ipotesi e teorie su <strong>di</strong> me, forse anche lui pensava cosa ero, se ero pericoloso...<br />

Non mi muovevo, ero fermo, appoggiato alla balaustra <strong>di</strong> legno, il più possibile attaccato<br />

alla ringhiera per tenermi un po’ più lontano dalla creatura. Ripensavo a cosa avevo visto al<br />

piano superiore della casa, un tavolo a forma <strong>di</strong> U e degli specchi montati come una grande<br />

V. Non ero in grado <strong>di</strong> formulare ipotesi sulla mostruosa anatomia <strong>di</strong> questo essere. Continuavo<br />

a non muovermi, respiravo in silenzio. Il suo respiro non lo sentivo, anche se c’era<br />

un’incre<strong>di</strong>bile pace. Forse aveva ragione Lucano... Poteva essere un’anfisbena o forse una<br />

creatura simile a quella descritta nella “Metamorfosi” <strong>di</strong> Franz Kafka? No, no! Stavo vaneggiando!<br />

La paura e l’ansia mi stavano facendo delirare. Erano solo creature fantastiche, uscite<br />

da racconti <strong>di</strong> fantasia...<br />

Ma lo sentivo muovere, lo sentivo strisciare. Ero quasi sicuro che non aveva gli arti inferiori<br />

e le mie precedenti riflessioni mi portavano a credere che non avesse neppure quelli<br />

superiori. Ma allora che razza <strong>di</strong> essere mi trovavo davanti?<br />

– 192 –


Sentivo che si stava avvicinando a me. Dovevo rimanere immobile? Scappare? Mi mossi<br />

anch’io, piano piano, un passo per volta. Mi sembrava <strong>di</strong> essere su una scacchiera, un passo<br />

per volta, un passo a testa. Decisi <strong>di</strong> fare la prima mossa: presi un lungo respiri e corsi su in<br />

cima alla scalinata. Arrivato <strong>di</strong> sopra, la mia mano timorosa fece girare per la terza volta<br />

l’interruttore della luce.<br />

Non sempre la fantasia è solo un sogno, a volte c’è un legame con la realtà. Quello che<br />

è stato <strong>di</strong> me quella notte, in quella casa, non lo so... So solo che oggi sono ancora vivo e in<br />

quella casa non ci metterò mai più piede. Forse non sono stato l’unico a vedere quella creatura<br />

o forse quelle <strong>di</strong> Lucano non erano solo fantasie... Ma quel che ho visto io era qualcosa<br />

chiamato anfisbena.<br />

<br />

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concluso da Valentina Sebastiani<br />

Ero emozionato ma anche impaurito, allo stesso tempo. Sentivo che l’essere si avvicinava<br />

a me sempre più. Mi mise la mano sulla spalla. Era l’essere che mi stavo aspettando <strong>di</strong><br />

vedere? Mi conosceva? Io lo conoscevo? Queste mie perplessità restavano senza risposta, ma,<br />

finalmente, scorsi il viso dell’in<strong>di</strong>viduo che, sino a quel momento, era rimasto nella penombra.<br />

Fui molto sorpreso <strong>di</strong> vedere Muir che mi sorrideva.<br />

Senza dubbio, eravamo venuti per lo stesso motivo, entrambi lo sapevamo; per questo<br />

gli sorrisi <strong>di</strong> rimando.<br />

Fui lui per primo a parlare: “Da quanto tempo ti trovi qui?” “Da circa tre ore. Non ho<br />

scoperto nulla riguardo all’abitante. Ma <strong>di</strong>mmi, come sapevi che fossi qua?” “Credo che una<br />

raffica <strong>di</strong> vento ti abbia portato via il cappello. Ovviamente, ho capito da questo che eri nei<br />

paraggi: lo porti sempre con te. L’ho trovato in prossimità della porta, tieni”. “Grazie, non mi<br />

sono neanche accorto <strong>di</strong> averlo perso, talmente ero ansioso <strong>di</strong> entrare”.<br />

La comparsa <strong>di</strong> Muir mi <strong>di</strong>ede un motivo per rimanere a dare un’ultima occhiata alla casa.<br />

Accendemmo la luce. A sinistra si trovava l’enorme sala da pranzo. Una cosa che prima<br />

mi era sfuggita, era l’enorme pianoforte a coda al centro della stanza. Per possederlo, l’essere<br />

che abitava la casa doveva per forza avere delle mani... se almeno a quello gli serviva lo<br />

strumento. Il resto della casa era semivuoto, com’ero riuscito a vedere all’inizio.<br />

Prima che potesse rientrare l’abitante, ci <strong>di</strong>rigemmo verso la porta per andare via. Muir<br />

allora mi fermò: si era accorto <strong>di</strong> qualcosa, probabilmente. Infatti, con la luce accesa,<br />

potemmo osservare una grande impronta <strong>di</strong> piede, se così si poteva chiamare, sull’uscio. Era<br />

deforme, aveva solo tre <strong>di</strong>ta. L’unica conclusione che potei fare, fu quella a cui avevo pensato<br />

fin dall’inizio: quell’in<strong>di</strong>viduo non era umano.<br />

I giorni passarono. La casa rimase incusto<strong>di</strong>ta, senza segni <strong>di</strong> vita al suo interno. Nessuno<br />

vide più il “signor Pretorius”, il quale, con il passare del tempo, fu <strong>di</strong>menticato.<br />

<br />

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concluso da Giulia Simeone<br />

Cercai <strong>di</strong> scrutare nell’oscurità l’essere che in quel momento mi veniva incontro. Era gigantesco,<br />

sembrava un’enorme anfesibena. Ora non avevo più dubbi: l’essere non era umano.<br />

– 193 –


In quel momento non sapevo cosa fare, una parte <strong>di</strong> me voleva fuggire da quel luogo<br />

funesto, un’altra, invece, voleva capire meglio cos’era quell’essere. Nella mia testa si aggirava<br />

una parola mentre il mostro veniva verso <strong>di</strong> me, ma non riuscivo a ricollegarla con<br />

l’anfesibena che avevo <strong>di</strong> fronte. La parola era “Preetorius”, il misterioso forestiero che era<br />

scomparso improvvisamente dalla casa.<br />

Avevo troppi dubbi e in quel momento la paura stava prendendo il sopravvento, non<br />

riuscivo più a pensare e...<br />

Non seppi più nulla <strong>di</strong> ciò che era accaduto in quell’istante <strong>di</strong> paura: capii ciò che era<br />

successo solo quando mi svegliai e vi<strong>di</strong> Preetorius seduto accanto a me, su una poltrona <strong>di</strong><br />

pelle scura. Parlammo per un’ora intera e quello che egli mi <strong>di</strong>sse mi sembrava impossibile.<br />

Preetorius era uno scienziato che stu<strong>di</strong>ava il comportamento <strong>di</strong> animali particolari e rari.<br />

Aveva scelto la Casa Rossa per compiere i suoi esperimenti su una anfesibena, che però gli<br />

aveva arrecato gravi problemi. Preetorius, durante uno dei suoi esperimenti, aveva cercato <strong>di</strong><br />

immobilizzare con un sedativo l’anfesibena su un tavolo operatorio, ma la situazione gli era<br />

sfuggita <strong>di</strong> mano. L’anfesibena era scappata senza lasciare traccia.<br />

A quel punto Preetorius andò a cercarla e rimase fuori per molto tempo, fino a quando<br />

non decise <strong>di</strong> tornare nella Casa Rossa: allora trovò l’anfesibena che era <strong>di</strong> fronte a me e<br />

stava per inghiottirmi.<br />

Ora l’anfesibena si trovava chiusa in una gabbia. E era stato iniettato un sedativo, per evitare<br />

che scappasse <strong>di</strong> nuovo. Dopo lo scampato pericolo mi profusi a ringraziare Preetorius<br />

per avermi salvato la vita e me ne andai. Mentre camminavo nella notte mi tornarono in<br />

mente le congetture terrificanti che mi ero fatto su Preetorius. La prossima volta avrei dovuto<br />

riflettere prima <strong>di</strong> agire e non lasciarmi trasportare dalla mia irrefrenabile curiosità.<br />

2. OMAGGIO A EDGAR ALLAN POE:<br />

ELABORAZIONI SUL TEMA<br />

DEL SEPPELLIMENTO PREMATURO<br />

Uno dei testi pre<strong>di</strong>sposti nel percorso <strong>di</strong> narrativa seguito dagli alunni della classe IV A,<br />

è stato il racconto <strong>di</strong> Edgar Allan Poe (1809-1849) Il seppellimento prematuro, celebre testo<br />

del maestro della narrativa del terrore. Il protagonista narratore vive nella costante, ossessiva<br />

paura <strong>di</strong> essere sepolto vivo e <strong>di</strong> risvegliarsi nella tomba, giacché è vittima <strong>di</strong> perio<strong>di</strong>ci<br />

attacchi <strong>di</strong> catalessi che lo lasciano in una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> morte apparente. Perciò scongiura<br />

gli amici <strong>di</strong> non lasciarlo mai solo e <strong>di</strong> accertare la sua effettiva morte, se dovesse mai avvenire,<br />

e fa costruire nella tomba <strong>di</strong> famiglia una serie <strong>di</strong> marchingegni che dovranno permettergli<br />

<strong>di</strong> dare tempestivamente l’allarme, nel caso sia sepolto ancora vivo. Ma questo è proprio<br />

ciò che gli accade, stando al suo racconto: una volta, infatti, gli avviene <strong>di</strong> ridestarsi entro<br />

quella che crede una buia e stretta cassa, una bara. Ma non ricorda quando né perché sia<br />

finito nella tomba. Il terrore gli paralizza le membra, vorrebbe gridare e non può, si sente<br />

soffocare, prova momenti <strong>di</strong> indescrivibile panico, cerca invano i marchingegni che ha fatto<br />

<strong>di</strong>sporre entro la bara e non li trova. Raccoglie allora tutte le sue forze ed emette un ultimo,<br />

<strong>di</strong>sperato grido. Inaspettatamente una, due, tre voci gli rispondono: sono i suoi amici che lo<br />

afferrano e lo scuotono fortemente. Allora gli ritorna la memoria: si trova, infatti, nella cuccetta<br />

<strong>di</strong> uno sloop (una piccola imbarcazione a vela), ancorato alla riva <strong>di</strong> un fiume vicino<br />

Richmond, in Virginia. Qui egli aveva cercato rifugio per la notte, sorpreso da un temporale<br />

mentre stava andando a caccia con un amico. Nella stretta cuccetta si era addormentato, per<br />

risvegliarsi nel cuore della notte, senza però ricordare quanto era successo prima.<br />

– 194 –


È un racconto del terrore a lieto fine, cosa abbastanza rara nella narrativa <strong>di</strong> Poe. Oltre<br />

al protagonista narratore della storia, personaggio raffigurato con un carattere ipersensibile e<br />

nevrotico, e malato <strong>di</strong> ipocondria (come molti personaggi creati dallo scrittore <strong>di</strong> Boston), v’è<br />

da notare il tema del seppellimento o inghiottimento, peraltro anch’esso ricorrente in molti<br />

altri testi <strong>di</strong> Poe (e simbolicamente interpretato come una chiave <strong>di</strong> lettura della sua travagliata<br />

esperienza umana, nella quale affiora più volte una sorta <strong>di</strong> pulsione auto<strong>di</strong>struttiva: si pensi<br />

alla precoce per<strong>di</strong>ta dei genitori, ai <strong>di</strong>fficili rapporti con il patrigno John Allan, alla dolorosa<br />

e prematura scomparsa della giovanissima moglie Virginia Clemm, alla tara dell’alcolismo<br />

che lo portò a una terribile e misteriosa fine in una locanda <strong>di</strong> Baltimora). 18 Un’analoga esperienza<br />

<strong>di</strong> claustrofobia vive, ad esempio, Gordon Pym nell’omonimo romanzo, allorché viene<br />

nascosto dall’amico Augustus entro una cassa nel fondo della stiva del brigantino Grampus<br />

(cap.II). Alla conclusione del racconto La rovina della casa degli Usher, il suo proprietario,<br />

il vecchio e ipocondriaco Roderick, muore travolto dalla sorella, venuta dalla cripta a rimproverargli<br />

<strong>di</strong> averla sepolta ancora viva. E altri esempi si potrebbero citare.<br />

Anche per questo autore, abbiamo voluto proporre ai nostri studenti un esercizio <strong>di</strong> scrittura<br />

creativa: “Prova a immaginare un racconto in cui, come in quello <strong>di</strong> Poe, i personaggi<br />

siano bloccati in un luogo da cui non possono uscire e rappresenta le loro emozioni”. Partendo<br />

dal testo <strong>di</strong> Poe, gli studenti hanno elaborato racconti imperniati sulla situazione descritta<br />

nel Seppellimento prematuro, cambiando ovviamente il contesto, ossia attualizzandolo, 19 ma<br />

cercando <strong>di</strong> riecheggiarne, per quanto possibile, la soffocante atmosfera claustrofobica e le<br />

sensazioni <strong>di</strong> <strong>di</strong>sperato terrore provate dal protagonista. Attraverso la decostruzione e la personale<br />

ricostruzione del testo, me<strong>di</strong>ante la rappresentazione <strong>di</strong> situazioni analoghe <strong>di</strong> imprigionamento,<br />

gli studenti hanno potuto meglio comprendere i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> creazione <strong>di</strong> un racconto<br />

in cui l’orrore è basato sull’atmosfera, sulla parossistica tensione psicologica e non esteriorizzato<br />

in forme teratologiche più o meno impressionanti.<br />

Presentiamo <strong>di</strong> seguito i racconti elaborati dagli studenti che, lungi dal porsi in confronto<br />

con il testo del grande scrittore americano, vogliono essere tentativi <strong>di</strong> rielaborazione personale<br />

<strong>di</strong> temi e motivi che hanno poi avuto una loro fortuna nella tra<strong>di</strong>zione letteraria. Naturalmente<br />

non mancano ingenuità e approssimazioni, compensate però, per quanto possibile,<br />

dalla fantasia e dalla creatività dei giovani autori.<br />

<br />

Racconto <strong>di</strong> Lorenzo Botteghelli<br />

Senza esitazione si può affermare che non c’è niente <strong>di</strong> più terribile che rimanere chiusi<br />

per lungo tempo in un ascensore, soprattutto per chi soffre <strong>di</strong> claustrofobia. L’oppressione<br />

dei polmoni, il respiro affannato, l’angoscia che ti tormenta...<br />

Era una fresca sera <strong>di</strong> agosto, mi trovavo a Bologna. Ero appena uscito dallo stu<strong>di</strong>o dove<br />

lavoravo come me<strong>di</strong>co da cinque anni. Avevo avvisato la segretaria che quel giorno sarei<br />

uscito un’ora prima. Ero molto stanco, stressato dal lavoro e dalla mia vita infelice. Abitavo<br />

in un grande palazzo <strong>di</strong> quin<strong>di</strong>ci piani, in periferia.<br />

18 Sulla valenza simbolica del motivo tra<strong>di</strong>zionale dell’inghiottimento o <strong>di</strong>scesa, riman<strong>di</strong>amo a Jean Brun -<br />

Dominique Zahan - David L. Miller, Il vertice e l’abisso, la simbologia dell’ascesa e della <strong>di</strong>scesa, trad. <strong>di</strong> Anna Chiara<br />

Peduzzi e Rolando Galluppi, E<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> Red, Como 1994.<br />

19 La riscrittura <strong>di</strong> storie, con trasposizioni modernizzanti <strong>di</strong> personaggi e situazioni, è prevista tra le attività nel<br />

manuale <strong>di</strong> Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi, Ricettario <strong>di</strong> scrittura creativa, Zanichelli, Bologna 2003², rist., pp. 152-153.<br />

– 195 –


Anche se vi risiedevo da ben venti anni, quel palazzo mi incuteva comunque una certa<br />

inquietu<strong>di</strong>ne. L’idea <strong>di</strong> poter rimanere chiuso nell’ascensore mi angosciava molto e ogni volta<br />

che lo prendevo ero terrorizzato.<br />

Aprii lentamente il grande portone del palazzo, poi spingendo il pulsante chiamai l’ascensore:<br />

era una specie <strong>di</strong> rito che facevo ogni volta, per augurarmi <strong>di</strong> non rimanere chiuso<br />

in quel brutto luogo. Ma quella volta fu inutile.<br />

Prendendo l’ascensore incontrai altre due persone. Uno si chiamava Giovanni: sulla<br />

quarantina, al riparo <strong>di</strong> una vita or<strong>di</strong>nata (moglie, figlio, pranzo domenicale con i suoceri), era<br />

de<strong>di</strong>to in realtà a loschi affari. Mostrava una grande fretta. L’altro era un ragazzo, un se<strong>di</strong>cenne<br />

<strong>di</strong> nome Marco, intenzionato proprio quella sera a fuggire via con la sua ragazza.<br />

Proprio quando eravamo all’altezza tra il nono e il decimo piano, l’ascensore si arrestò<br />

<strong>di</strong> colpo. Rimasi immobile, all’istante un senso <strong>di</strong> angoscia mi attraversò tutto il corpo. Gli<br />

altri due, al contrario, non mostravano molta paura, piuttosto apparivano irritati. Premettero<br />

il pulsante <strong>di</strong> allarme e aspettammo. Purtroppo quella sera, dato che era molto tar<strong>di</strong>, il portiere<br />

era andato via da un pezzo. Provai una strana sensazione, mi sentii abbandonato al destino,<br />

incapace <strong>di</strong> ragionare e tanto meno <strong>di</strong> parlare, oppresso da un profondo, penoso senso <strong>di</strong> paura.<br />

Passarono due ore. Anche Marco e Giovanni, quando videro che non arrivava nessuno,<br />

cominciarono a farsi prendere dal panico: avevano perso la loro calma e si agitavano come<br />

vespe dentro un bicchiere rovesciato. Si fece notte tarda. Io mi ero rannicchiato in un angolo:<br />

piangevo silenziosamente, provando un sentimento che mai avevo provato prima, come se<br />

qualcosa mi stesse risucchiando l’anima, lasciandomi senza fiato. Quella fu la notte più lunga<br />

della mia vita. A poco a poco sentivo che me ne stavo andando da questo mondo.<br />

Ci ritrovò il mattino seguente il portiere che, vedendo l’ascensore fermo, <strong>di</strong>ede subito<br />

l’allarme. Quando ci portarono fuori io ero quasi morto, ormai svenuto da vari minuti, praticamente<br />

non respiravo più. Mi salvai per un pelo. Venni poi a sapere che Marco e Giovanni,<br />

invece, erano morti asfissiati.<br />

Mi parve <strong>di</strong> essere rimasto vivo per miracolo. Quando tornai <strong>di</strong> nuovo a respirare l’aria<br />

fresca, all’aperto, fu come rinascere. Da quel giorno non ho più preso l’ascensore, anche se<br />

fare a pie<strong>di</strong> molte rampe <strong>di</strong> scale non è uno scherzo, alla mia età.<br />

<br />

Racconto <strong>di</strong> Davide Cuccurugnani<br />

A <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tutti questi anni lo ricordo ancora, anche se quello che ricordo meglio è<br />

solamente la paura provata in quegli istanti. In verità non so neanche se è giusto definirli<br />

istanti, visto che a me sembrarono giorni.<br />

Molti anni fa, quando ero a metà tra il bambino e l’adolescente, mi capitava spesso <strong>di</strong><br />

andare in campagna da mia nonna. La poverina viveva sola e forse l’unica cosa che la rallegrava<br />

era la mia presenza e quella dei miei genitori. Mentre mia madre cucinava il pranzo<br />

domenicale e mio padre stu<strong>di</strong>ava le sue scartoffie in giar<strong>di</strong>no, io rimanevo a <strong>di</strong>scutere con mia<br />

nonna. Mi ricordo che mi raccontava sempre della guerra e <strong>di</strong> come questa apparisse agli occhi<br />

<strong>di</strong> una donna. Mi parlava della fame, della paura, ma soprattutto dei bombardamenti. Di questi,<br />

infatti, aveva un orrendo ricordo: ogni volta che lei e le persone che vivevano nel grande<br />

casale si nascondevano nel rifugio, c’era la costante paura <strong>di</strong> non uscirne più o <strong>di</strong> tornare fuori<br />

e <strong>di</strong> trovare il casale <strong>di</strong>strutto. Mi parlava anche del rifugio, descrivendolo come una grotta<br />

sotterranea molto umida, molto buia, ma tanto grande da contenere anche venti persone. Una<br />

volta mi <strong>di</strong>sse anche che la grotta non era <strong>di</strong>stante dal casale, ma mai e poi mai avrei dovuto<br />

– 196 –


entrarci, perché, lasciata per anni in stato <strong>di</strong> abbandono, ormai era pericolante. Avrei dovuto<br />

darle ragione. Mai come oggi capisco, che spesso l’eccessiva curiosità porta solo guai.<br />

Il mio fu un errore imperdonabile. Non fu una cosa programmata, visto che camminavo<br />

tranquillamente per la campagna. Era una così bella giornata autunnale che pensai <strong>di</strong> fare<br />

una passeggiata più lunga del solito. Finii così per addentarmi nel bosco e continuai a camminare<br />

senza pensare a quanto mi allontanavo da casa. Il bosco era veramente un luogo piacevole;<br />

non seguivo un sentiero, mi facevo semplicemente strada tra i cespugli e le erbacce.<br />

Continuai a camminare guardandomi intorno e notando che gli alberi sembravano ancora più<br />

alti con quei nu<strong>di</strong> rami sui quali spiccava qualche foglia rossiccia. A un certo punto mi fermai<br />

davanti a una grotta. Non era una grotta come le altre. Aveva una porta <strong>di</strong> legno!<br />

Avevo trovato il rifugio. Non ci pensai neanche un momento. Subito cercai <strong>di</strong> aprire la<br />

porta, ma era bloccata da un intreccio <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ci e così iniziai a buttarmi <strong>di</strong> peso contro <strong>di</strong> essa.<br />

Dopo numerosi tentativi la porta si aprì e io entrai. Subito dopo, con un rumore fragoroso,<br />

crollò una parte della volta della grotta. Evidentemente avevo in qualche modo spezzato<br />

delle ra<strong>di</strong>ci che tenevano il terreno compatto e avevo così causato una frana. L’entrata si<br />

chiuse, sommersa da tonnellate <strong>di</strong> terra. Il buio mi avvolse. Urlai come una bestia agonizzante,<br />

poi mi alzai <strong>di</strong> scatto. Sbattei la testa sul soffitto <strong>di</strong> roccia, e iniziai a barcollare dal dolore.<br />

Non avevo la più pallida idea della grandezza della grotta. La esplorai a fatica non solo per<br />

il buio, ma anche perché ero costretto a stare in ginocchio per il fatto che la volta era bassa.<br />

Non smisi mai <strong>di</strong> piangere e <strong>di</strong> gridare. Il tempo passava senza che io ne avessi una precisa<br />

percezione. Fu così che dopo aver girato carponi per lungo tempo, sbattei la testa alla parete.<br />

Sentii sul mio viso la nuda roccia e quel tremendo odore <strong>di</strong> muffa. Ci rimasi un bel po’, continuando<br />

a piangere e a gridare. Iniziò a fare freddo. Era più che normale, era ottobre inoltrato,<br />

il fatto che facesse freddo poteva solo significare che era scesa la notte. Iniziai a tremare come<br />

una foglia. Mi sentivo morire. Volevo morire. Non potete neanche immaginare cosa voglia <strong>di</strong>re<br />

non vedere e non sentire altro che la propria voce riecheggiare nella caverna. Non sapevo dove<br />

ero e non sapevo cosa fare. Ma cosa avrei potuto fare? Iniziai a muovermi per riscaldarmi, ma<br />

non ebbe alcun effetto. Allora cad<strong>di</strong> a terra, lasciandomi torturare dal freddo della notte. Dormii?<br />

Non lo so, e non lo capirò mai. In quel buio tutto era incerto. Avevo fame, freddo, paura.<br />

Piangevo e gridavo, con la voce che <strong>di</strong>veniva sempre più flebile. Mi accasciai a terra. Urlavo<br />

<strong>di</strong> quando in quando, perché stanco e <strong>di</strong>silluso dalla possibilità che qualcuno mi trovasse.<br />

Poi sentii un cane abbaiare. Mi alzai sulle ginocchia e cominciai a urlare. Urlavo con tutto<br />

il fiato che mi rimaneva. Non chiedevo aiuto, urlavo e basta. Qualcuno allora sentii il cane<br />

e me. Ero sicuro che ci fosse il padrone. Dopo <strong>di</strong> questo svenni.<br />

Quando mi risvegliai, mia madre mi teneva abbracciato e mio padre mi accarezzava la<br />

fronte. Ero nel mio letto, sano e salvo. Mi spiegarono che ero scomparso per un giorno e che<br />

ero stato ritrovato da un cercatore <strong>di</strong> funghi. A <strong>di</strong>rla così sembra un lieto fine. Ma in verità<br />

ancora oggi risento <strong>di</strong> questa esperienza. Sono <strong>di</strong>ventato claustrofobico, ma quello è il minimo.<br />

Il vero problema è che spesso nella notte fatico ad addormentarmi. Lo stare al buio, sdraiato,<br />

mi fa riprovare la stessa angoscia e la stessa paura della grotta. Prego Dio solo che <strong>di</strong>minuiscano<br />

queste notti insonni e che mi conservi quel poco <strong>di</strong> sanità mentale che mi resta.<br />

<br />

Racconto <strong>di</strong> Mirco Di Simone<br />

Ci sono luoghi che non dovrebbero mai essere scoperti e visitati, luoghi da cui è impossibile<br />

uscirne vivi, e uno <strong>di</strong> questi luoghi si trova proprio in quel tranquillo sito <strong>di</strong> villeg-<br />

– 197 –


gianti chiamato “Il Para<strong>di</strong>so in Terra”.<br />

Un giorno, una comune coppia <strong>di</strong> innamorati, Karl e Jusy, decisero <strong>di</strong> passare la loro<br />

prima vacanza insieme in quel residence, che era piaciuto molto ad entrambi dall’opuscolo<br />

che avevano trovato su Internet: un luogo a pochi metri dal mare, immerso nel verde e lontano<br />

dalla città inquinata e chiassosa, dalle strade intasate al minimo incidente.<br />

Secondo il loro piano vacanza, avrebbero trascorso, in quel para<strong>di</strong>so terrestre, sette giorni<br />

e sei notti, con pensione completa e uso gratuito <strong>di</strong> palestra e centro benessere, con tutti gli strumenti<br />

e i trattamenti che avrebbero <strong>di</strong> certo fatto <strong>di</strong>ventare quella vacanza in<strong>di</strong>menticabile.<br />

Inoltre avevano la possibilità <strong>di</strong> fare immersioni nell’oceano, visto che a poche decine <strong>di</strong> metri<br />

dalla costa c’era una barriera corallina che ospitava una grande varietà <strong>di</strong> pesci e coralli <strong>di</strong><br />

ogni colore.<br />

Karl e Jusy erano emozionatissimi all’idea <strong>di</strong> poter fare tutto ciò che volevano senza<br />

pensare alle preoccupazioni della città e del lavoro.<br />

Il primo giorno decisero <strong>di</strong> andare in palestra, per vedere l’ambiente e per tonificare un<br />

po’ il corpo in vista della spiaggia. Jusy voleva andare al centro benessere perché la palestra<br />

non le piaceva ma, come aveva promesso Karl la sera prima, ci sarebbero andati il giorno<br />

dopo. Scesi al piano <strong>di</strong> sotto, i due si <strong>di</strong>visero ed entrarono ognuno nel rispettivo spogliatoio.<br />

Mentre Jusy si spogliava fece amicizia con un’altra ragazza, venuta, anche lei, con il suo<br />

ragazzo per una settimana. In palestra parlarono tra <strong>di</strong> loro e decisero <strong>di</strong> incontrarsi nuovamente,<br />

con i loro partner, il giorno seguente al centro benessere.<br />

Quando tornarono nella loro camera, Karl chiese alla sua ragazza come fosse andata la<br />

giornata. Lei rispose vivacemente, raccontandogli <strong>di</strong> aver conosciuto una ragazza, <strong>di</strong> nome<br />

Jasmine, che era in villeggiatura col suo ragazzo. L’indomani si sarebbero riviste al centro<br />

benessere con i rispettivi compagni. A Karl piaceva l’idea e acconsentì a vedere i due.<br />

Il giorno seguente si incontrarono, come stabilito, al centro benessere e lì Jusy e Karl conobbero<br />

Jasmine e Alex. Lei era piccola e minuta, indossava un vestito <strong>di</strong> lino bianco che le<br />

stava un incanto, mentre lui era alto e possente, con degli addominali scolpiti, muscoli possenti<br />

che impressionarono la coppia: aveva indosso solo un costume a pantaloncino arancione,<br />

in modo da lasciare in bella mostra il suo fisico, costatogli molta fatica e sudore.<br />

Le coppie stettero insieme tutto il tempo e decisero che, mentre le donne sarebbero andate<br />

in spiaggia, gli uomini sarebbero andati a fare un’immersione nella barriera corallina.<br />

Arrivati al molo, Karl e Alex presero una barca e l’attrezzatura da sub e si <strong>di</strong>ressero verso<br />

la barriera dove si sarebbero immersi, come esperti sub. Una volta immersi, lo spettacolo che<br />

si presentò intorno a loro era incre<strong>di</strong>bile: c’erano ovunque pesci <strong>di</strong> ogni specie, comprese delle<br />

tartarughe marine, per non parlare della varietà <strong>di</strong> flora marina che andava dai coralli alle<br />

anemoni. Fecero un giro intorno per osservare meglio, quando l’attenzione <strong>di</strong> Alex cadde su<br />

una cavità poco profonda, dove si vedeva l’entrata <strong>di</strong> una grotta. Tornati in superficie, Alex<br />

raccontò all’amico ciò che aveva visto e propose <strong>di</strong> andarla ad esplorare il giorno dopo con<br />

Jasmine e Jusy.<br />

I due raccontarono l’accaduto alle due ragazze che risposero all’unisono accettando<br />

l’invito. Quella notte Jusy non riusciva a prendere sonno, tale era l’eccitazione per la mattina<br />

seguente.<br />

Verso le <strong>di</strong>eci, il giorno dopo, le due coppie si ritrovarono al molo, affittarono l’imbarcazione<br />

e l’attrezzatura, e partirono verso la barriera corallina alla ricerca della grotta. Quando<br />

arrivarono sul posto si immersero e trovarono subito la cavità, che lasciava passare solo una<br />

persona alla volta. Il primo ad andare fu Karl, seguito da Alex, Jusy e Jasmine.<br />

L’antro della grotta era ricoperto <strong>di</strong> rocce acuminate, taglienti come rasoi e nascoste per<br />

alcuni tratti da ammassi <strong>di</strong> alghe. Jusy pensò che sarebbe stato più sicuro andarsene e provò<br />

– 198 –


a comunicarlo agli altri, che invece proseguirono spe<strong>di</strong>ti verso l’interno <strong>di</strong> cui non si vedeva<br />

altro che nero.<br />

Improvvisamente ci fu una breve scossa che fece crollare l’entrata della grotta, condannandoli<br />

a rimanere lì dentro. Tutti si fecero prendere dal panico, ormai avevano poco ossigeno<br />

nelle bombole, ma Alex riuscì a calmarli spronandoli ad andare avanti. Forse avrebbero trovato<br />

l’uscita e si sarebbero salvati.<br />

Dopo un po’ che stavano nuotando, cominciarono a intravedere una luce che li guidò verso<br />

una grande cavità naturale, ov’erano alcuni scogli, che fuoriuscivano dall’acqua, su cui arrampicarsi<br />

e sostare. Rincuorati da questa scoperta, si calmarono e si posero la domanda <strong>di</strong><br />

come sarebbero potuti uscire da quella grotta. Karl esaminò il luogo: era una cavità rocciosa<br />

al <strong>di</strong> sopra del livello del mare, ecco perché c’erano gli scogli. Ma stranamente le pareti rocciose,<br />

invece <strong>di</strong> essere spigolose e sporgenti, erano straor<strong>di</strong>nariamente levigate e ricoperte <strong>di</strong><br />

una sostanza oleosa. Sulla volta c’erano delle rocce appuntite che Karl riconobbe essere stalattiti.<br />

Gli scogli su cui erano seduti Jasmine e Alex erano, invece, stalagmiti.<br />

Le uniche possibilità erano tornare in<strong>di</strong>etro con il poco ossigeno rimasto nelle bombole,<br />

cercando <strong>di</strong> spostare le rocce franate, o continuare a esplorare nella speranza <strong>di</strong> trovare una via<br />

d’uscita.<br />

Jusy e Jasmine erano terrorizzate e si misero a piangere. Karl e Alex, invece, rimasero<br />

calmi, convinti <strong>di</strong> potercela fare.<br />

La terra tremò nuovamente, ma stavolta i quattro sfortunati u<strong>di</strong>rono uno strano suono<br />

provenire dall’altra parte della cavità rocciosa. Sembrava un suono inumano, come doveva essere<br />

la creatura che l’aveva emesso. Mentre Alex stringeva convulsamente Jasmine tra le braccia,<br />

improvvisamente un tentacolo affiorò dall’acqua e avvolse la coppia, che incominciò a urlare<br />

<strong>di</strong>sperata e a <strong>di</strong>vincolarsi dalla stretta. Fu tutto inutile. Karl e Jusy assistettero alla scena<br />

impotenti e paralizzati dalla paura, mentre vedevano i loro amici scomparire nell’acqua.<br />

Al posto delle sagome urlanti e scalcianti della coppia affiorò un’enorme macchia <strong>di</strong><br />

sangue. Poi vennero su due tute vuote, che forse la bestia non aveva gra<strong>di</strong>to.<br />

Karl spinse Jusy, scioccata da quello che aveva visto, <strong>di</strong>etro uno scoglio. I due aspettarono<br />

che la bestia se ne andasse. Karl propose a Jusy <strong>di</strong> immergersi <strong>di</strong> nuovo, per arrivare nuotando<br />

fino all’ingresso della grotta, che forse era stato liberato dai detriti della frana, dalla seconda<br />

scossa. Così, i due si immersero nuovamente, facendo attenzione a non fare il minimo<br />

rumore per non attirare il mostro. Con il poco ossigeno che era rimasto nelle bombole,<br />

riuscirono ad arrivare all’entrata della grotta, e la videro sgombra dai detriti e dai massi. Ma,<br />

mentre stavano per uscire, Jusy vide che Karl veniva tirato verso l’interno da un grosso<br />

tentacolo, che gli si era avvolto alla caviglia. L’ultima cosa che Jusy vide <strong>di</strong> Karl fu il suo<br />

sguardo pieno <strong>di</strong> terrore e <strong>di</strong> morte, poi cominciò a nuotare il più velocemente possibile.<br />

Arrivata in superficie notò che era già notte.<br />

Non lontano da lei scorse un battello della guar<strong>di</strong>a costiera che stava pattugliando le<br />

acque. Jusy cominciò a gridare per farsi sentire da quelli della nave, ma prima che la guar<strong>di</strong>a<br />

costiera potesse puntarle il faro addosso per vederla, si sentì trascinare verso il fondo e tutto<br />

ciò che vide fu solo un buio paragonabile a quello della morte.<br />

<br />

Racconto <strong>di</strong> Giorgia Gravina<br />

Alex e Max erano andati a fare una verifica <strong>di</strong> contratto in una miniera per accertarsi che<br />

tutto fosse in regola e per controllare che nessun operaio lavorasse in nero. La miniera non era<br />

– 199 –


molto lontano dal loro campo e, per <strong>di</strong> più, <strong>di</strong>sponevano <strong>di</strong> una potente jeep. Arrivati alla<br />

miniera, dapprima andarono a parlare col <strong>di</strong>rettore, che gli propose <strong>di</strong> entrare nella galleria<br />

per dare un’occhiata. I due giovani accettarono e tutti e tre si incamminarono verso l’entrata<br />

della miniera.<br />

Appena entrati Alex sentì un rumore decisamente inquietante, ma non ci fece molto<br />

caso. Dopo qualche minuto risentì questo rumore. A questo punto Alex iniziò a preoccuparsi.<br />

Mentre si stava voltando, in pochi secon<strong>di</strong> vide alzarsi una nuvola <strong>di</strong> polvere nera e subito<br />

dopo fu sommerso, come i suoi compagni, da una valanga <strong>di</strong> terra e detriti. Un pilone aveva<br />

ceduto e i tre erano rimasti intrappolati lì sotto. Dovevano trovare il modo <strong>di</strong> uscire al più presto<br />

perché l’ossigeno stava finendo. Max era svenuto, mentre il <strong>di</strong>rettore della miniera era<br />

morto schiacciato da un pesante masso. Alex era <strong>di</strong>sperato, non sapeva cosa fare: l’uscita era<br />

bloccata e lui <strong>di</strong>sponeva soltanto <strong>di</strong> un piccolo martello.<br />

Quando Max riprese i sensi, i due erano ancora sotto cumuli <strong>di</strong> terra, e ci sarebbero rimasti<br />

chissà quanto se ad Alex non fosse venuta in mente un’idea. Gli operai erano andati a<br />

mangiare e sarebbero tornati <strong>di</strong> lì a poco, lui si sarebbe messo a battere le pietre per farsi sentire,<br />

e così li avrebbero liberati.<br />

Il tempo passava, e Alex e Max sentivano che le forze li stavano abbandonando. Tutto<br />

si faceva oscuro intorno a loro, era come se un buco nero stesse per inghiottirli, tutto prendeva<br />

strane forme. I ricor<strong>di</strong> del passato si affollavano nella loro mente.<br />

Ad un tratto Alex vide una luce fioca. Allora penso: “Ecco, sono arrivato in para<strong>di</strong>so”.<br />

E in quel momento chiuse gli occhi. Intanto gli operai avevano sentito i colpi e avevano iniziato<br />

a scavare per salvare i superstiti.<br />

Al risveglio Alex e il suo amico si ritrovarono in un ospedale. Max aveva un gran mal<br />

<strong>di</strong> testa e non riusciva a ricordare molto bene cosa era successo. Alex ricordava quella luce<br />

dal colore così strano, ricordava i colpi <strong>di</strong> piccone degli operai, ma dopo più nulla. In quel<br />

momento si aprì la porta della camera ed entrò il me<strong>di</strong>co, che raccontò tutto. Da quel giorno<br />

Alex non si avventurò più per le miniere ma scelse il più gratificante e meno rischioso lavoro<br />

d’ufficio.<br />

<br />

Racconto <strong>di</strong> Valentina Scanzani<br />

7 giugno 1944<br />

Mi chiamo Li<strong>di</strong>a, ho 17 anni, vivo a Reggio Emilia con i miei genitori, i miei nonni e<br />

Gianfranco, mio cugino. Lui ha la mia stessa età, abbiamo qualche mese <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza e siamo<br />

sempre stati uniti fin da bambini. Purtroppo i suoi genitori sono stati vittime dei tedeschi.<br />

Poco tempo fa sono stati uccisi due tedeschi, e la conosciamo tutti la matematica: per ogni<br />

tedesco ucciso, <strong>di</strong>eci dei nostri. Purtroppo loro non sono riusciti a scappare.<br />

Viviamo tutti insieme nella casa dei nonni, dove da bambini abitavano anche la<br />

mamma e lo zio. Dopo i rispettivi matrimoni avevano cambiato casa, ma con l’inizio della<br />

guerra e la morte degli zii abbiamo deciso <strong>di</strong> trasferirci tutti nella casa dei nonni. Non<br />

era molto lontana dalla nostra vecchia casa, ma era in campagna e i tedeschi ci passavano<br />

<strong>di</strong> rado...<br />

Ora ci sentiamo più sicuri, ma nulla è sicuro in tempo <strong>di</strong> guerra. Il nonno, il babbo e Gianfranco<br />

hanno cominciato a costruire un rifugio sotterraneo nella parte posteriore del cortile <strong>di</strong><br />

casa nostra. Il nonno <strong>di</strong>ce che quella è l’unica salvezza se i tedeschi decidono <strong>di</strong> venire a farci<br />

visita.<br />

– 200 –


È <strong>di</strong>fficile costruire un rifugio <strong>di</strong> queste <strong>di</strong>mensioni in cemento armato, con pareti e<br />

soffitto molto spessi, senza farsi vedere da nessuno. Per nostra fortuna non abbiamo molti<br />

vicini, solo sei o sette abitazioni e una vecchia locanda: anche loro si stanno affrettando a<br />

costruire rifugi per mettere in salvo le loro vite.<br />

22 giugno 1944<br />

Anche il nostro rifugio è finalmente terminato, non ci hanno messo molto, e io non ho<br />

più paura che i tedeschi mi possano uccidere, perché il babbo e il nonno hanno trovato il<br />

modo <strong>di</strong> salvare le nostre vite.<br />

Oggi pomeriggio stavo passeggiando nel campo vicino casa nostra con Gianfranco per<br />

raccogliere delle more. La nonna ci aveva incaricato <strong>di</strong> riempire il cestino <strong>di</strong> vimini, lo facevamo<br />

tutte le volte che germogliavano. Ma quest’oggi tornando a casa abbiamo sentito delle<br />

urla e poi un susseguirsi <strong>di</strong> spari. Allora ci siamo fermati e abbiamo aspettato accovacciati<br />

<strong>di</strong>etro un grosso cespuglio che i tedeschi andassero via. È passata almeno un’ora. Ormai non<br />

c’era nessuno fuori dalle case e le strade erano completamente vuote, o quasi... Davanti alla<br />

vecchia locanda c’erano cinque cadaveri: tre erano dei nostri e due erano tedeschi.<br />

Siamo rientrati a casa. La nonna e la mamma avevano avuto paura per noi due, ma<br />

eravamo tornati a casa sani e salvi. Il nonno e la nonna ci hanno spiegato che i tedeschi avrebbero<br />

sospettato qualcosa se fossero venuti e avessero trovato la casa vuota. Ormai siamo<br />

sicuri che passeranno questa stessa notte a rubare la vita a venti poveri innocenti.<br />

Il nonno e la nonna decidono che aspetteranno i tedeschi in pie<strong>di</strong>, così quelli non si<br />

insospettiranno e non scopriranno il nostro rifugio. Saranno il nonno e la nonna a decidere la<br />

sorte dei miei genitori.<br />

22 giugno 1944 notte<br />

Tra lamenti e pianti salutiamo i nostri cari, forse non li rivedremo mai più...<br />

Scen<strong>di</strong>amo e chiu<strong>di</strong>amo la porta: è una pesante porta <strong>di</strong> cemento armato con la blindatura<br />

protettiva, si chiude <strong>di</strong> scatto <strong>di</strong>etro le nostre spalle.<br />

Certo che qui sotto fa davvero freddo, e c’è così poca aria per quattro persone. Ho sempre<br />

avuto paura degli spazi piccoli e chiusi. Ho sempre sofferto <strong>di</strong> claustrofobia, è la mia<br />

paura più grande. A farci luce c’è qualche candela, la nonna <strong>di</strong>ce che basteranno per la notte.<br />

Mi prende un senso <strong>di</strong> panico e <strong>di</strong> sconforto, ormai è passata più <strong>di</strong> un’ora. La nonna <strong>di</strong>ce<br />

che dobbiamo aspettare. Si respira a fatica e con la mia ansia è ancora più <strong>di</strong>fficile riuscire a<br />

farsi forza. Anche la mamma si sente poco bene e riposa su una bran<strong>di</strong>na. Mio cugino invece<br />

è l’unico che sta benissimo, senza un minimo dolore. Io continuo a pensare a quando potrò<br />

uscire.<br />

Sono passate cinque ore, ma ancora sentiamo urla provenire da fuori casa nostra. Gianfranco<br />

<strong>di</strong>ce che sarebbe inutile uscire ora. Beh, forse ha ragione, ma io non respiro quasi più<br />

e ora penso realmente che non ce la potrò fare. Il nonno ed il babbo non hanno pensato molto<br />

alla grandezza <strong>di</strong> questo rifugio sotterraneo e nello sbrigarsi a portarlo a termine non hanno<br />

avuto modo <strong>di</strong> pensare che non c’era abbastanza aria...<br />

Nel frattempo, oltre alla terribile ansia, mi prende anche un sonno mostruoso: provo a non<br />

addormentarmi, ma ho un forte mal <strong>di</strong> testa e un nauseante mal <strong>di</strong> stomaco, e perdo i sensi.<br />

24 giugno 1944<br />

Apro gli occhi dopo quasi due giorni, mi trovo in una casa sconosciuta, <strong>di</strong>stesa sul letto<br />

<strong>di</strong> una cameretta <strong>di</strong> un bambino. Non capisco cosa ci faccio qui e chi mi ci ha portato, però<br />

so che sono riuscita ad uscire dal rifugio sotto la mia casa e soprattutto sono sopravvissuta<br />

– 201 –


alla strage dei tedeschi... Sento una voce familiare, mi alzo dal letto e mi affaccio alla finestra<br />

aperta. Vedo mio cugino che gioca con la palla con un altro ragazzo, anche lui è vivo ed<br />

è qui con me. Mi vede e mi fa un saluto con la mano, ed io ricambio con un leggero sorriso.<br />

Finalmente posso respirare, in quelle ore chiusa lì dentro, lottando per rimanere in vita,<br />

ho davvero temuto la morte.<br />

Intanto da <strong>di</strong>etro arriva mia madre che mi <strong>di</strong>ce, con estrema tristezza, che il babbo e il<br />

nonno hanno perso la vita e che l’hanno sacrificata per noi. Scoppio in un pianto infantile, lei<br />

mi consola con un abbraccio e mi <strong>di</strong>ce che la nonna e Gianfranco sono ancora vivi.<br />

Ora siamo a casa <strong>di</strong> un’amica della nonna, vicino Roma. La nostra ospite <strong>di</strong>ce che possiamo<br />

passare qui tutto il tempo che vogliamo, ma abbiamo già deciso che, appena la guerra<br />

finirà, torneremo ad abitare dove vivevamo prima <strong>di</strong> andare dai nonni, tutti e quattro insieme,<br />

cercando <strong>di</strong> rimarginare il dolore nel cuore per la per<strong>di</strong>ta dei nostri cari.<br />

<br />

Racconto <strong>di</strong> Giulia Simeone<br />

Sara e Lisa sono due ragazze italiane <strong>di</strong> <strong>di</strong>ciotto anni. La prima è impulsiva, coraggiosa,<br />

ha una forte personalità, la seconda è riflessiva, timida e sensibile. Sono molto amiche dall’età<br />

<strong>di</strong> sei anni e hanno terminato gli stu<strong>di</strong> insieme superando l’esame <strong>di</strong> maturità.<br />

Così decidono <strong>di</strong> fare un viaggio e realizzare il loro più grande sogno: andare in America.<br />

Con i loro risparmi e con l’aiuto dei genitori, riescono ad arrivare a Manhattan e ad alloggiare<br />

in un bellissimo albergo, il Grand Hotel Astoria, in una stanza al trentesimo piano<br />

<strong>di</strong> un maestoso grattacielo.<br />

Appena entrate, per loro è uno spettacolo vedere quelle luci, quello sfarzo e un atrio così<br />

grande. Dopo un giro nella gigantesca hall dell’albergo, Sara e Lisa entrano nella loro<br />

bellissima camera, arredata con mobili <strong>di</strong> lusso e molto confortevole. Sara ha già <strong>di</strong>sfatto le<br />

valigie ed è pronta ad uscire per vedere la città, tanto sa che l’orario della cena è alle 20,00 e<br />

sono appena le 16,00. La ragazza non ha problemi <strong>di</strong> fuso orario, è abituata a viaggiare.<br />

Al contrario, Lisa è stanca e preferisce rimanere in camera a riposare un po’, visiterà la città<br />

l’indomani.<br />

A quel punto Sara, vedendo che Lisa non vuole uscire, decide <strong>di</strong> fare solo un breve giro<br />

per continuare insieme il giorno dopo. Quin<strong>di</strong> saluta l’amica ed esce. Lisa intanto ha messo<br />

a posto le sue cose e sta per andare a riposare, ma spinta dalla curiosità decide <strong>di</strong> esplorare<br />

le stanze del piano. Mentre sta girando per il piano, una stanza colpisce la sua attenzione e vi<br />

entra. Si guarda intorno e vede che è un semplice ripostiglio. Fa per uscire ma si accorge che<br />

la porta si è chiusa alle sue spalle. È una porta automatica, con apertura solo dall’esterno.<br />

Lisa a questo punto capisce <strong>di</strong> non poter più uscire. Il panico l’assale. Cerca <strong>di</strong> chiudere<br />

gli occhi pensando che sia solo un brutto sogno e che non sia successo niente, ma quando<br />

li riapre si accorge che non è un brutto sogno, ma che è davvero bloccata in un ripostiglio,<br />

che non ha finestre ma soltanto una piccola presa d’aria. Lisa comincia a tremare e a<br />

battere i pugni sulla porta, urlando e chiedendo <strong>di</strong>speratamente aiuto. Nessuno però la sente,<br />

e neppure lei sa per quanto tempo dovrà rimanere lì dentro... L’unica cosa <strong>di</strong> cui Lisa è<br />

certa è che sarà morta prima che Sara torni e possa aiutarla. Come in un film, le vengono in<br />

mente tutti i momenti belli della sua vita. Si ricorda della sua famiglia, <strong>di</strong> suo fratello Giorgio<br />

che è sposato e ha messo su famiglia, delle scuole elementari e della prima volta che ha<br />

conosciuto Sara: immagini confuse si affollano nella sua mente e passano veloci come treni<br />

in corsa.<br />

– 202 –


Sono trascorse ormai quasi due ore e Lisa è stupita <strong>di</strong> essere ancora viva e <strong>di</strong> riuscire ad<br />

avere ancora un po’ <strong>di</strong> aria nei polmoni. Si sente svenire ma proprio quando sta per crollare<br />

sente il rumore della porta della sua camera che si chiude: Sara è tornata e la sta chiamando!<br />

In quel momento Lisa si sente rinascere: trova la forza <strong>di</strong> urlare e chiama Sara, che subito si<br />

accorge delle urla, accorre e apre la porta del ripostiglio, facendola finalmente uscire. Appena<br />

uscita Lisa si lancia tra le braccia <strong>di</strong> Sara, lasciandosi andare ad un lungo pianto liberatorio.<br />

Il giorno dopo Sara e Lisa escono insieme per visitare finalmente la città. Quando arriva<br />

il giorno della partenza ridendo si rendono conto che avranno più <strong>di</strong> un semplice viaggio<br />

da raccontare alle loro amiche.<br />

3. C’ERA UNA VOLTA... IN IV A<br />

Il percorso <strong>di</strong> letture programmate ci ha portato ad affrontare anche il genere della fiaba,<br />

che notoriamente si <strong>di</strong>stingue dalla favola per la più spiccata tendenza alla <strong>di</strong>mensione fantastica<br />

e la mancanza <strong>di</strong> un vero e proprio insegnamento morale. È stato merito, com’è noto,<br />

del Propp (del quale vanno ricordati i due fondamentali saggi Morfologia della fiaba e Le ra<strong>di</strong>ci<br />

storiche dei racconti <strong>di</strong> magia), aver posto in luce, dall’analisi dell’enorme patrimonio<br />

folkloristico russo, le strutture narrative delle fiabe e i ruoli dei personaggi, definiti secondo<br />

le sfere <strong>di</strong> comportamento (eroe, antagonista, aiutante, mandante, principessa e suo padre, donatore,<br />

falso eroe). La fiaba presenta una struttura analoga a quella dei testi narrativi, con una<br />

fase iniziale (presentazione dei protagonisti e preparazione dell’inganno da parte dell’antagonista),<br />

una fase ascendente della narrazione (con i danneggiamento preparato dall’antagonista<br />

e l’inizio della ricerca da parte dell’eroe), il momento culminante (l’eroe riesce a trovare<br />

l’oggetto della sua ricerca), la fase <strong>di</strong>scendente della narrazione (con il ritorno a casa dell’eroe<br />

e l’affrontamento <strong>di</strong> ulteriori prove), la conclusione (con l’inevitabile matrimonio dell’eroe<br />

della principessa).<br />

L’esercizio assegnato agli studenti, dopo la lettura <strong>di</strong> fiabe, appartenenti a <strong>di</strong>verse aree<br />

culturali, come Storia <strong>di</strong> Khalid ibn Abdallàh al-Qasri e del giovane ladro (da Le mille e una<br />

notte) e L’acqua della vita dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm (comprese nell’antologia in<br />

uso, Il mondo dei testi, vol. A, cit., alle pp. 161-163 e 167-170), è stata l’elaborazione originale<br />

<strong>di</strong> una fiaba (esercizio, peraltro, già previsto nel manuale, a p. 172), con l’aggiunta <strong>di</strong> una<br />

morale: “Prova a immaginare una breve fiaba con una morale tratta dalla nostra realtà quoti<strong>di</strong>ana”.<br />

Si è tentato, dunque, <strong>di</strong> elaborare un testo ibrido, che avesse le caratteristiche della<br />

fiaba e anche, in parte, della favola (il tipico insegnamento morale). Le competenze poste<br />

come prerequisiti dell’esercizio sono state le seguenti: a) saper raccontare un insieme <strong>di</strong> eventi<br />

in maniera sintetica; b) saper rispettare le regole linguistiche essenziali; c) saper in<strong>di</strong>viduare<br />

il messaggio del racconto. Gli obiettivi formativi sono stati: a) educare all’analisi e alla sintesi;<br />

b) educare all’espressione scritta e orale; c) educare alla comunicazione; d) educare allo<br />

spirito critico.<br />

I testi elaborati dagli studenti mostrano che essi hanno ben appreso i meccanismi della<br />

trama e sono stati in grado <strong>di</strong> conservare quel tono ingenuo tipico della narrativa fiabesca, ove<br />

l’elemento fantastico dei personaggi e degli ambienti si connette spesso alla crudeltà delle<br />

situazioni, che tanto colpiscono l’immaginario dell’infanzia (come ha ben osservato Giorgio<br />

Manganelli). 20<br />

20 Giorgio Manganelli, Enigma e violenza della fiaba, in UFO e altri oggetti non identificati 1972-1990, a cura<br />

<strong>di</strong> Graziella Pulce, Quiritta, Roma 2003, pp. 133-135.<br />

– 203 –


Fiaba <strong>di</strong> Lorenzo Cognetti<br />

C’era una volta un ragazzo <strong>di</strong> nome Glaus che lavorava in una bottega <strong>di</strong> un artigiano in<br />

un paesino me<strong>di</strong>evale dell’Occidente.<br />

I suoi genitori erano stati uccisi durante l’invasione <strong>di</strong> un popolo ostile proveniente dall’Oriente.<br />

Egli viveva con il suo padrino, il quale, non potendosi permettere le spese scolastiche,<br />

gli fece imparare un mestiere da un artigiano con cui avrebbe lavorato fino alla morte per mantenersi.<br />

Glaus era un ragazzo dotato <strong>di</strong> grande forza fisica e morale, ma soprattutto possedeva<br />

una grande bontà d’animo.<br />

Ogni giorno Glaus si recava al mattino dall’artigiano ad aiutarlo per costruire armi. Egli<br />

era molto affezionato all’artigiano e il sentimento provato da Glaus per lui era reciproco.<br />

L’artigiano rappresentava una figura paterna più <strong>di</strong> quanto lo fosse stato il padrino.<br />

Una sera, mentre il giovane ragazzo passeggiava per i vicoli del villaggio, vide all’improvviso<br />

due balor<strong>di</strong> che maltrattavano un povero vecchio. Glaus subito accorse e scacciò via<br />

i malviventi aiutando il povero anziano che, senza tanti ringraziamenti, si avviò per la sua<br />

strada. Un po’ colpito dall’atteggiamento del vecchio, Glaus tornò a casa.<br />

La mattina seguente, mentre lavorava a una spada che gli aveva affidato una guar<strong>di</strong>a del<br />

villaggio, uno strano uomo entrò nella piccola bottega e si avvicinò a Glaus <strong>di</strong>cendogli che<br />

il vecchio che aveva aiutato la sera precedente era lui e che quell’accaduto era una prova per<br />

capire se Glaus fosse l’eletto. Detto questo gli raccontò <strong>di</strong> un potente mago che era venuto<br />

in possesso <strong>di</strong> una polvere magica che, odorata da qualsiasi essere vivente, ne avrebbe determinato<br />

il controllo. Gli spiegò anche che lui era l’unico essere sulla terra capace <strong>di</strong> sconfiggere<br />

il mago e <strong>di</strong>struggere la polvere. Infine donò a Glaus una mappa dove era <strong>di</strong>segnata<br />

la strada per giungere al castello dello stregone e una spada con poteri magici. Poi scomparve<br />

nel nulla. Glaus un po’ scosso <strong>di</strong>sse tutto all’artigiano, il quale, consapevole <strong>di</strong> tutto<br />

ciò, poiché gli era stato detto già in precedenza, gli confermò il suo compito. Inoltre l’artigiano<br />

si offrì volontariamente <strong>di</strong> accompagnarlo in quella dura avventura e naturalmente<br />

Glaus accettò.<br />

La mattina seguente partirono. Il loro viaggio si fece subito <strong>di</strong>fficile poiché gli scagnozzi<br />

dello stregone, che era venuto a conoscenza del fatto che Glaus voleva <strong>di</strong>struggere la polvere,<br />

attaccarono la coppia <strong>di</strong> viaggiatori. Questi però riuscirono a respingerli.<br />

Il loro viaggio continuò fino ad arrivare al castello. Qui però trovarono in una delle<br />

torri, chiusa in una cella, una giovane principessa che era stata rapita dallo stregone. Glaus,<br />

colpito dall’incre<strong>di</strong>bile bellezza <strong>di</strong> quella fanciulla e soprattutto grazie al suo buon animo,<br />

promise alla giovane ragazza che l’avrebbe salvata dopo aver concluso il suo compito principale.<br />

L’eroe e il suo aiutante giunsero finalmente nella stanza principale dove vennero attaccati<br />

dallo stregone e da altri guerrieri.<br />

L’artigiano si occupò degli scagnozzi mentre Glaus fece un terribile duello con lo stregone.<br />

Il giovane, nonostante la magia del nemico, riuscì a sconfiggerlo trapassandolo con la<br />

spada. Dopo <strong>di</strong> che prese la boccetta dove si trovava la polvere magica e la gettò nel fuoco<br />

<strong>di</strong>struggendola. Naturalmente non si scordò della giovane ragazza rinchiusa nella torre: corse<br />

subito da lei, dopo aver compiuto la sua missione, e la liberò. Infine, felici e contenti, i due<br />

si sposarono e Glaus, alla morte dell’artigiano, che per lui era stato un padre, ere<strong>di</strong>tò la bottega<br />

e continuò a lavorare da artigiano.<br />

– 204 –


Fiaba <strong>di</strong> Federica Gobbi<br />

C’era una volta, in un tempo lontano e in un luogo sconosciuto, un re buono e giusto che<br />

governava in modo assolutamente imparziale ed equo ed era amato da tutti i suoi sud<strong>di</strong>ti. Non<br />

si poteva però <strong>di</strong>re altrettanto <strong>di</strong> sua figlia, la principessa Suri. La fanciulla era capricciosa e<br />

viziata e non era benvista dal popolo, che d’altra parte proprio non riusciva a capire come una<br />

ragazza tanto o<strong>di</strong>osa potesse essere figlia <strong>di</strong> una persona perbene come il loro re. L’unica dote<br />

<strong>di</strong> Suri era la sua incre<strong>di</strong>bile bellezza. Era una ragazza alta e slanciata, con i capelli <strong>di</strong> un caldo<br />

color miele che le ricadevano lisci sulle spalle e gli occhi <strong>di</strong> un castano molto chiaro. Ma si sa,<br />

spesso l’apparenza inganna, e nonostante la sua bellezza Suri non riusciva proprio ad avere la<br />

simpatia del popolo. Non che ci tenesse, ovvio, ma il re soffriva molto per i sentimenti che i<br />

suoi sud<strong>di</strong>ti provavano verso la figlia. Lei, che nutriva un immenso affetto nei confronti del<br />

padre, avrebbe voluto farlo felice, ma non si sforzava mai <strong>di</strong> essere gentile con qualcuno o <strong>di</strong><br />

aiutare chi ne avesse bisogno e per questo il popolo la <strong>di</strong>sprezzava.<br />

Un triste giorno la principessa sparì. I servi la cercarono proprio dappertutto: nel castello,<br />

nel giar<strong>di</strong>no, nella torre... Il re mandò ad<strong>di</strong>rittura le guar<strong>di</strong>e a setacciare tutto il regno, ma la<br />

principessa sembrava essere sparita nel nulla. Il povero re era <strong>di</strong>strutto per la scomparsa della<br />

figlia e il popolo, che d’altra parte amava il suo re, era triste assieme a lui, così l’intero regno<br />

<strong>di</strong>venne spaventosamente infelice. Alcuni mercanti che passarono per quel regno lo paragonarono<br />

ad<strong>di</strong>rittura al regno dei morti.<br />

Passarono le settimane e il re, che non si era dato per vinto, <strong>di</strong>ede l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> appendere<br />

manifesti per tutto il regno: chiunque avesse riportato la principessa Suri sana e salva da suo<br />

padre sarebbe stato nominato cavaliere e avrebbe ricevuto così tanto oro che gli sarebbe<br />

bastato per il resto della vita.<br />

Incitati da queste promesse molti uomini valorosi si misero alla ricerca dell’o<strong>di</strong>osa principessa,<br />

senza ottenere, purtroppo, alcun risultato.<br />

Qualche giorno dopo, in una decadente locanda, si formò una compagnia davvero insolita<br />

che aveva tutta l’intenzione <strong>di</strong> riportare quella vipera della principessa al re. Di questa<br />

compagnia facevano parte il vecchio ex re Arthur, mandato in esilio molto tempo prima,<br />

un ubriacone chiamato Achille e il giovane orfano Tonio, che non poteva avere più <strong>di</strong> tre<strong>di</strong>ci<br />

anni. Secondo loro erano i più adatti per quella missione, per un unico e semplice motivo:<br />

non avevano più niente da perdere.<br />

“Ma come faremo senza armature né armi ad affrontare i mille pericoli a cui potremmo<br />

andare incontro?”, chiese il sempre prudente Tonio.<br />

“A noi non servono armi! Siamo uomini coraggiosi e valorosi e non abbiamo bisogno <strong>di</strong><br />

coltelli o fucili per <strong>di</strong>fenderci!”<br />

“Forse potremmo chiedere al re <strong>di</strong> fornirci il necessario per il viaggio”, continuò il giovane<br />

orfano ignorando la risposta <strong>di</strong> re Arthur.<br />

Achille si staccò per un momento dalla bottiglia.<br />

“Potremmo provare,” <strong>di</strong>sse, “male che vada ci saremo fatti una bella passeggiata”.<br />

Così tutti, convinti, si recarono a palazzo.<br />

Dopo essere stati ricevuti nella sala del trono i nostri tre eroi fecero al re, che era in compagnia<br />

del suo fidato consigliere, le loro richieste. Quando finirono il consigliere <strong>di</strong> corte<br />

proruppe in una sonora risata.<br />

“Ma sire,” <strong>di</strong>sse, “non vorrete certo incoraggiare questi tre rozzi in<strong>di</strong>vidui. Insomma,<br />

tutti i più valorosi uomini del regno sono alla ricerca <strong>di</strong> vostra figlia e se non ci sono ancora<br />

– 205 –


iusciti loro, credo, anzi, sono più che sicuro che non ci riusciranno questi qui!”<br />

“Suvvia, mio fido consigliere,” lo ammonì il re in tono blando, “dobbiamo essere cortesi<br />

con i nostri ospiti”.<br />

Si alzò in pie<strong>di</strong> e avanzò verso <strong>di</strong> loro.<br />

“Bene, se esiste anche solo una remota possibilità <strong>di</strong> far tornare mia figlia accetto. Darò<br />

or<strong>di</strong>ne che i miei servi vi procurino tutto il necessario”.<br />

Così dopo una buona mezz’ora i tre compagni uscirono dal castello su tre bellissimi<br />

cavalli e armati <strong>di</strong> tutto punto.<br />

“Bene, abbiamo armi e armature... e ora che facciamo?”, chiese quel povero <strong>di</strong>avolo <strong>di</strong><br />

Achille.<br />

“Iniziamo le ricerche, naturalmente!”, rispose fiero re Arthur.<br />

“Già molti uomini sono alla ricerca della principessa, quin<strong>di</strong> se vogliamo trovarla per<br />

primi dovremo giocare d’astuzia”, spiegò Tonio ai suoi compagni. “Per prima cosa evitiamo<br />

<strong>di</strong> cercarla nel regno: ci hanno già provato i soldati del re e ci stanno tuttora provando decine<br />

<strong>di</strong> altre persone. Credo sia meglio uscire dai confini”.<br />

“Ma potrebbe essere pericoloso!”, osservò Achille.<br />

“Pericoloso?! Accidenti, che uomo codardo! Ma come si fa a dare il nome <strong>di</strong> un guerriero<br />

epico come Achillea una vecchia spugna come te?”, gridò il vecchio re. “Il nostro compito<br />

è quello <strong>di</strong> riportare a casa la principessa e ce la faremo, costi quel che costi. E adesso<br />

smettila <strong>di</strong> frignare come una femminuccia e preparati a fare una lunga cavalcata, vecchio<br />

ubriacone”.<br />

Detto questo spronò il suo cavallo e superò gli altri due.<br />

Una volta fuori dai confini del regno cercarono la principessa per giorni e giorni, fornendo<br />

minuziose descrizioni ai conta<strong>di</strong>ni del luogo e seguendo le più improbabili piste, ma<br />

della principessa neanche l’ombra.<br />

“Accidenti, quell’o<strong>di</strong>osa ragazza sembra essersi volatilizzata!”, <strong>di</strong>sse un giorno re Arthur<br />

agitando i pugni.<br />

“Dobbiamo giocare d’astuzia”, ripeté Tonio. “Cercarla così alla cieca non ci porterà a<br />

nulla. Dobbiamo fermarci un attimo e riflettere”.<br />

Camminarono per una decina <strong>di</strong> metri e poi si fermarono in una vecchia locanda.<br />

“Allora”, iniziò Tonio, “cerchiamo <strong>di</strong> andare per esclusione. La principessa non può<br />

essere ancora nel regno, o sarebbe stata trovata già da un pezzo, quin<strong>di</strong> dobbiamo capire ch<br />

<strong>di</strong>rezione ha preso il rapitore. Iniziamo escludendo il deserto e i villaggi che si trovano al <strong>di</strong><br />

là <strong>di</strong> questo: se il rapitore fosse entrato nel villaggio su un cammello le guar<strong>di</strong>e lo avrebbero<br />

trovato quantomeno sospetto”.<br />

“Ma potrebbe aver attirato la principessa da qualche parte, aspettandola con il suo cammello<br />

e magari un complice”, puntualizzò re Arthur.<br />

“Alquanto improbabile”, rispose Achille, che quando era lucido sapeva essere molto<br />

furbo. “Anche in quel caso un cammello non sarebbe passato inosservato”.<br />

“Allora esclu<strong>di</strong>amo anche tutti i villaggi che si trovano ad est. Nessuno può passare a<br />

causa <strong>di</strong> quel terribile drago”, aggiunse il vecchio re.<br />

“Potrebbe essere una specie <strong>di</strong> alleato”, <strong>di</strong>sse Tonio riflettendo ad alta voce.<br />

“Fidati, ragazzo, io quel drago l’ho visto e l’ho anche affrontato: quella bestiaccia non<br />

accetta amici o alleati”.<br />

“Ed esclu<strong>di</strong>amo il nord perché abbiamo già visitato tutti i villaggi che si trovano al<br />

confine: il popolo conosce la principessa e si sarebbe sicuramente accorto se fosse passata <strong>di</strong><br />

là”, concluse Achille.<br />

“Bene”, <strong>di</strong>sse Tonio sod<strong>di</strong>sfatto. “Allora non rimane che proseguire in questa <strong>di</strong>rezione”.<br />

– 206 –


E così fecero. Camminarono per ore e ore, fermandosi ad ogni villaggio.<br />

“Accidenti a quest’uccellaccio!”, <strong>di</strong>sse Arthur agitando il braccio verso un piccolo<br />

uccellino. “È da quando abbiamo lasciato la locanda che ci segue”.<br />

“Curioso...”, sussurrò Achille.<br />

A un certo punto si trovarono a un bivio.<br />

“Proviamo ad andare a destra”, suggerì Achille. Ma nell’attimo stesso in cui ebbe pronunciato<br />

quelle parole l’uccellino volò in picchiata verso <strong>di</strong> loro, cinguettando come un matto.<br />

Con il suo piccolo becco afferrò una manica della camicia <strong>di</strong> Tonio e prese a tirare come<br />

un forsennato verso sinistra.<br />

“Davvero molto, molto curioso...”, riprese a sussurrare Achille. Poi aggiunse a voce più<br />

alta: “Credo che faremmo meglio a seguirlo”.<br />

L’uccellino sembrò rilassarsi e volò cinguettando verso sinistra, seguito da quella strana<br />

compagnia. Non passarono neanche cinque minuti che l’uccellino si fermò e si posò sulla<br />

riva <strong>di</strong> un piccolo laghetto.<br />

Tonio, incuriosito, si sporse.<br />

“E adesso? Perché ci hai portato qui, mio piccolo amico?”, <strong>di</strong>sse rivolgendosi all’uccellino,<br />

che tutto concentrato stava immobile a fissare l’acqua.<br />

“Lo so io perché!”, esclamò Achille tutto contento. “Era una vecchia leggenda del mio<br />

villaggio, non credevo che esistesse davvero, eppure è così! Ascoltate bene, amici, l’acqua<br />

contenuta in questo laghetto è magica, la leggenda <strong>di</strong>ce che sono lacrime <strong>di</strong> fata. Ha il potere<br />

<strong>di</strong> mostrarti la via per qualsiasi luogo, basta fargli una domanda”.<br />

Tonio e Arthur si guardarono interdetti.<br />

“Beh”, <strong>di</strong>sse Arthur, “tentar non nuoce”.<br />

Allora Tonio si avvicinò al laghetto e chiese un po’ dubbioso: “Dov’è, o magico lago, che<br />

si trova la principessa che an<strong>di</strong>amo cercando?”<br />

L’acqua brillò e, tra lo stupore generale, mostrò la strada ai tre compagni.<br />

“Bene”, <strong>di</strong>sse Achille tutto sorridente, “allora an<strong>di</strong>amo!”<br />

Più fiduciosi si incamminarono verso il luogo che avevano visto nel laghetto.<br />

Camminarono e camminarono fino ad arrivare a una capanna, la stessa capanna che<br />

l’acqua magica aveva mostrato loro.<br />

Tonio si avvicinò e bussò alla porta.<br />

Venne ad aprire una ragazza bellissima che indossava un vecchio vestito logoro.<br />

I tre compagni spalancarono la bocca e gridarono all’unisono: “Pincipessa Suri?!”<br />

La ragazza sorrise e <strong>di</strong>sse: “Prego, accomodatevi pure”.<br />

Stupiti entrarono nella capanna, dove un vecchio dagli occhi celesti sedeva accanto al<br />

fuoco.<br />

“Siamo venuti a salvare la principessa”, <strong>di</strong>sse fiero re Arthur, “quin<strong>di</strong> arren<strong>di</strong>ti o pren<strong>di</strong><br />

una spada, vecchia canaglia. Ti assicuro che la pagherai per aver rapito la principessa”.<br />

“O cari”, <strong>di</strong>sse sorridente la principessa, “non c’è alcun bisogno che facciate del male a<br />

questo caro vecchietto. Sì, è stato lui a portarmi via, ma non per farmi del male, voleva solo<br />

insegnarmi una cosa. Vedete, in queste settimane ho vissuto come una conta<strong>di</strong>na e mi sono<br />

resa finalmente conto <strong>di</strong> quanto sia dura questa vita e <strong>di</strong> quanto sia stata ingiusta nei confronti<br />

del popolo. Vedrete, cari, non appena mi avrete riportato da mio padre vi renderete conto che<br />

la principessa capricciosa e presuntuosa che conoscevate voi non esiste più”.<br />

Superò i tre compagni, che continuavano a fissarla a bocca aperta, e andò vicino al<br />

vecchio.<br />

“Grazie mille, amico mio, per la lezione che mi hai insegnato. Spero che tu voglia<br />

scusarmi, ma credo proprio che adesso sia ora <strong>di</strong> tornare”.<br />

– 207 –


“Ma certo, piccola Suri, vai pure”, rispose il vecchio con la sua voce cristallina.<br />

Sorrise un’ultima volta e, trasformatosi in un uccellino, volò via.<br />

Suri rise e poi incitò i suoi salvatori, troppo stupiti per poter parlare, ad andare.<br />

Quando tornarono il regno era in festa: la notizia del salvataggio della principessa li<br />

aveva preceduti.<br />

Da quel giorno tutto andò per il meglio. I tre compagni, <strong>di</strong>ventati amici inseparabili,<br />

vissero per sempre nella ricchezza e sia la principessa che il consigliere <strong>di</strong> corte impararono<br />

delle gran<strong>di</strong> verità: la prima imparò a non trattare gli altri come non avrebbe voluto essere<br />

trattata e il secondo, che riguardo a quei tre si era proprio sbagliato, a non giu<strong>di</strong>care un libro<br />

dalla copertina.<br />

<br />

Fiaba <strong>di</strong> Aurora Luciani<br />

Era il 12 marzo 2059 e le tensioni tra i due Stati si facevano sempre più forti. Da anni<br />

continuavano gli attentati, le minacce e i telegiornali parlavano solo <strong>di</strong> questo.<br />

Poi quel giorno scoppiò la guerra: la notizia fu annunciata dal presidente in carica in<br />

quegli anni. Fu trasmessa su tutti i canali televisivi e pubblicata su tutti i giornali. Ormai non<br />

c’era persona in tutta la città che non ne fosse a conoscenza, compresi i due amici Ettore e<br />

Filippo. Avevano <strong>di</strong>ciannove anni, compiuti lo stesso giorno, il 12 marzo.<br />

Due giorni dopo si arruolarono nell’esercito e il giorno seguente partirono. Nonostante<br />

la stagione primaverile, faceva molto caldo, sembrava agosto. Ad arruolarsi erano centinaia<br />

<strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong> ragazzi e ormai la città dalla quale stavano partendo, la loro città natale, pareva<br />

già una città fantasma: vi rimanevano solo gli anziani nonni, le donne e i bambini urlanti<br />

che interrompevano ogni tanto quel silenzio tombale e le cui grida risuonavano nel vuoto.<br />

Nella notte in cielo si vedevano i bagliori delle bombe che, lanciate sugli e<strong>di</strong>fici, causavano<br />

immani <strong>di</strong>struzioni e la morte <strong>di</strong> innumerevoli persone innocenti.<br />

Intanto Ettore e Filippo insieme ad altri soldati, alcuni dei quali più giovani <strong>di</strong> loro – cosa<br />

<strong>di</strong>fficile a credersi – e altri <strong>di</strong> quasi venticinque anni più gran<strong>di</strong>, si preparavano a passare la<br />

notte in trincea. Da piccoli avevano visto numerosi documentari sulle guerre del passato, ma<br />

sentivano quelle testimonianze talmente lontane che talvolta gli sembravano frutto della fantasia<br />

<strong>di</strong> un bambino.<br />

Ora invece si trovavano lì e vedevano con i propri occhi la dura realtà della guerra.<br />

Nella trincea c’erano molti soldati, ma con uno <strong>di</strong> questi in particolare strinsero un forte<br />

legame.<br />

Si chiamava Sergio e veniva da una famiglia proveniente dalle campagne. Sergio era un<br />

tipo strano che credeva a streghe e maghi, a draghi e vampiri o altre cose del genere. Era un<br />

amico stravagante, ma in guerra era il migliore che avrebbero mai potuto trovare.<br />

Poi c’era il loro peggior nemico o, meglio, il nemico <strong>di</strong> tutti: il generale. Era un omuncolo<br />

basso e cicciotto, che aveva all’incirca quarantasette anni, dava or<strong>di</strong>ni a destra e a manca,<br />

con prepotenza e imponendo la sua autorità con la violenza e la minaccia.<br />

Era oramai quasi un mese che combattevano e non ne potevano più. Vedevano i loro<br />

amici cadergli tra le braccia o tornare dalla trincea mutilati o moribon<strong>di</strong>, vedevano le case che<br />

un giorno avevano ospitato feste, sorrisi, musica, risate <strong>di</strong> bambini o il suono <strong>di</strong> un carillon,<br />

invase da una nube grigia che, tetra come la morte, avvolgeva gli e<strong>di</strong>fici.<br />

Un giorno Filippo fu costretto a lasciare la trincea per compiere un’impresa molto rischiosa,<br />

che però sarebbe stata decisiva per la vittoria del suo Paese. Si doveva recare nel pa-<br />

– 208 –


lazzo del capo dello Stato nemico e tentare <strong>di</strong> ucciderlo, così la guerra si sarebbe ipoteticamente<br />

conclusa e lui, il suo amico Ettore, Sergio e le altre centinaia <strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong> ragazzi<br />

sarebbero potuti tornare a casa.<br />

Infatti era previsto che dopo la morte del presidente il Paese nemico sarebbe stato<br />

governato da un alleato e così, finalmente sottomesso, sarebbe stato sconfitto e annientato.<br />

Filippo era partito ed Ettore era molto in pensiero per lui. Le su preoccupazioni aumentarono<br />

quando sentì che l’amico era in grande <strong>di</strong>fficoltà.<br />

Forse sarebbe morto o forse no, ma Ettore doveva comunque andare a salvarlo. Quin<strong>di</strong><br />

andò dal generale a chiedergli il permesso <strong>di</strong> partire alla ricerca dell’amico, ma il generale<br />

glielo negò, affermando che la sua attività in trincea era essenziale per la riuscita del piano e<br />

dal quel giorno cominciò perseguitarlo tenendolo sotto strettissimo controllo. Ma Ettore non<br />

voleva sentire ragioni: sarebbe andato a salvare Filippo.<br />

Un giorno finalmente decise <strong>di</strong> partire. Ma come sarebbe arrivato in tempo?<br />

Non ce l’avrebbe mai fatta, ma Sergio lo aiutò. Il suo amico <strong>di</strong> trincea aveva una soluzione:<br />

<strong>di</strong>ede a Ettore il suo preziosissimo anello che gli consentiva <strong>di</strong> spostarsi molto velocemente.<br />

Così in qualche secondo Ettore avrebbe potuto raggiungere l’amico e portarlo in<br />

salvo. Bastava pensare intensamente alla persona che si voleva raggiungere e l’anello ti<br />

portava <strong>di</strong>rettamente da lei. Ora Ettore capiva tutte le stranezze <strong>di</strong> Sergio e ora credeva anche<br />

lui alla magia.<br />

Quando arrivò trovò Filippo ed altri compagni, imprigionati nelle carceri del palazzo<br />

presidenziale. Erano chiusi a chiave dentro una stanza che <strong>di</strong>ventava più piccola ogni secondo<br />

che passava. Ettore però riuscì ad entrare grazie all’anello e portò tutti in salvo. Li condusse<br />

al cospetto del capo dello Stato, ma questi era circondato da un intero esercito e, con voce<br />

acuta e aspra, or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> uccidere gli invasori. Ettore cercò invano <strong>di</strong> portare via Filippo, ma<br />

l’amico era già stato colpito da una pallottola, e così Ettore si ritrovò solo sconfitto nella sua<br />

trincea, mentre le lacrime gli rigavano le guance. Non si sentiva più un eroe, ma un vigliacco<br />

che aveva fallito. Era forse il generale l’eroe, che gli aveva consigliato <strong>di</strong> non fare cose troppo<br />

affrettate?<br />

Ma, come <strong>di</strong>ce un proverbio, le strade dell’inferno sono lastricate <strong>di</strong> buone intenzioni.<br />

E <strong>di</strong> cosa sono lastricate le strade del para<strong>di</strong>so?<br />

<br />

LA COLLANA RARA<br />

Fiaba <strong>di</strong> Giulia Simeone<br />

C’erano una volta, in un grande regno, un re e una regina che avevano due figli, un principe<br />

e una principessa. Il principe si chiamava Leonor e la principessa Giselle. Il principe, come<br />

da tra<strong>di</strong>zione, doveva <strong>di</strong>ventare l’erede al trono ma il re riteneva il figlio maschio inadatto<br />

al ruolo che gli spettava, sia per il suo carattere debole sia per il suo aspetto gracile.<br />

La figlia, infatti, pur essendo ancora una bambina, era, secondo il padre, più adatta al ruolo<br />

<strong>di</strong> regnante, per il suo carattere forte e astuto.<br />

Un giorno, però, la regina cercò <strong>di</strong> convincere il marito a mettere alla prova il figlio<br />

per vedere se davvero era inadatto al suo ruolo <strong>di</strong> regnante. La principessa, però, sentendoli<br />

parlare, capì che questo poteva essere un problema per la sua ascesa al potere e pensò <strong>di</strong><br />

intervenire, qualora il fratello fosse riuscito nell’impresa.<br />

L’indomani, alla vigilia della prova, la principessa si informò tramite una spia su ciò che<br />

il fratello doveva fare.<br />

– 209 –


Ella aveva scoperto che la prova consisteva nel cercare una collana molto rara, che era<br />

sorvegliata da due draghi alati che si trovavano nella misteriosa Terra del Fuoco. Questo<br />

luogo si trovava all’estremità del loro regno, nella sua parte più remota. Il principe, quin<strong>di</strong>,<br />

avrebbe dovuto attraversare tutto il regno fino ad arrivare al castello dov’era contenuto lo<br />

scrigno nero con la collana.<br />

La principessa era sicura che il fratello non potesse riuscire a superare una prova così<br />

pericolosa e <strong>di</strong>fficile, perciò decise <strong>di</strong> aspettare e vedere cosa sarebbe successo, poi in seguito<br />

sarebbe intervenuta.<br />

Così alla vigilia della partenza augurò buona fortuna al fratello che, intanto, aveva preparato<br />

il cavallo. Dopo che il fratello fu partito, la principessa <strong>di</strong>sse ad una spia <strong>di</strong> seguirlo<br />

durante il suo viaggio e <strong>di</strong> tornare in<strong>di</strong>etro il prima possibile, qualora ci fossero state notizie<br />

importanti. La spia, allora, dopo essere stata abbondantemente pagata, se ne andò.<br />

Passarono i giorni e il principe era ancora in viaggio verso la Terra del Fuoco, ma era affamato,<br />

così decise <strong>di</strong> fermarsi in un villaggio vicino. Sceso da cavallo, si fermò in una osteria<br />

e chiese da mangiare. Mentre mangiava, gli si avvicinò un ragazzo che gli <strong>di</strong>sse: “Sei in cerca<br />

della famosa collana, per caso?” Il principe allora educatamente gli rispose <strong>di</strong> sì e il ragazzo<br />

gli fece segno <strong>di</strong> seguirlo fuori. Il principe a quel punto lo seguì e il giovane gli <strong>di</strong>sse che poco<br />

<strong>di</strong>stante da lì abitava suo padre che faceva il fabbro ed era l’unico in grado <strong>di</strong> forgiare una spada<br />

capace <strong>di</strong> infondere coraggio a chi la portava e <strong>di</strong> riuscire a sconfiggere i due draghi. Il giovane<br />

continuò <strong>di</strong>cendo che solo i ragazzi umili e <strong>di</strong> buon cuore sarebbero riusciti a maneggiarla.<br />

Il principe allora accettò l’aiuto ringraziandolo e si fece accompagnare a casa dal padre.<br />

Una volta arrivati, il figlio chiamò il padre e gli chiese <strong>di</strong> forgiare per il principe la famosa<br />

spada, poiché sentiva in lui un animo buono. Così, dopo qualche ora il fabbro porse al<br />

principe la spada e quello subito si sentì coraggioso e sicuro <strong>di</strong> sé, pronto ad affrontare i due<br />

draghi e a recuperare la collana.<br />

Così il principe abbassò una leva e alzò il ponte levatoio, che lo fece passare ed entrare<br />

in una piazza, al centro del castello. Proprio lì c’era un pie<strong>di</strong>stallo su cui poggiava il famoso<br />

scrigno contenente la collana. Il principe si stava per avvicinare quando gli apparvero davanti<br />

due draghi che gli sbarrarono la strada. Il principe però non aveva più paura poiché sapeva<br />

che la sua spada e la sua voglia <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare al padre che non era un buono a nulla, l’avrebbero<br />

aiutato a sconfiggere i due draghi.<br />

Così si scagliò contro <strong>di</strong> loro con tutte le sue forze e dopo un sanguinoso scontro riuscì<br />

a trafiggerli con la sua spada magica. I due draghi caddero a terra. Allora il principe prese lo<br />

scrigno dal pie<strong>di</strong>stallo e riuscì ad uscire in tempo prima che crollasse tutto. Una volta uscito<br />

prese il cavallo e ripartì per ritornare a casa.<br />

Intanto la spia della principessa, dopo aver visto il principe sconfiggere i draghi e prendere<br />

lo scrigno, partì anche lui con il suo cavallo per riferire tutto alla principessa stessa.<br />

Anche il viaggio <strong>di</strong> ritorno durò molti giorni, ma ormai il principe era felice perché era<br />

ritornato a casa e aveva superato la prova brillantemente. Contemporaneamente, però, anche<br />

la spia della principessa arrivò a palazzo e andò ad avvertirla della vittoria del fratello. Allora<br />

la principessa, dopo aver sentito il racconto della spia, si infuriò e decise <strong>di</strong> intervenire. Così<br />

andò a congratularsi con il fratello <strong>di</strong>cendogli: “Fratello mio, sono molto contenta che sei<br />

tornato sano e salvo, e per giunta con lo scrigno! Ma ora vai a riposare e dàllo a me, così che<br />

possa custo<strong>di</strong>rlo fino a domani per darlo a nostro padre”.<br />

Il principe allora ringraziò la sorella e accettò consegnandole lo scrigno. A quel punto la<br />

principessa, felice del risultato da lei ottenuto, prese lo scrigno e lo portò in camera sua. Una<br />

volta riposta la collana in un altro scrigno, mise nel primo un’altra collana, così da far credere<br />

al padre che il fratello fosse un imbroglione.<br />

– 210 –


Il giorno dopo la principessa consegnò al fratello lo scrigno con dentro la collana falsa<br />

e gli <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> portarlo subito al padre. Così il principe andò dal padre consegnandogli lo scrigno<br />

e una volta che il re lo aprì riconobbe che la collana all’interno era falsa. Il re si infuriò<br />

e <strong>di</strong>sse al figlio che era solo un imbroglione e un incapace.<br />

La principessa intanto pregustava la vittoria e immaginava già come sarebbe stato essere<br />

regina, quando, ad un certo punto, un uomo si avvicinò <strong>di</strong>cendo al re che il principe non<br />

era un truffatore, ma che la collana era stata scambiata dalla principessa per avere il trono.<br />

L’uomo era la spia che aveva svolto prima il suo compito per la principessa, ma poi, spinto<br />

dai sensi <strong>di</strong> colpa, voleva rime<strong>di</strong>are.<br />

A quel punto il re punì la figlia, <strong>di</strong>cendole che il regno sarebbe passato al figlio e lei sarebbe<br />

rimasta chiusa in una torre finché non avesse riconosciuto i suoi sbagli.<br />

La principessa però era talmente orgogliosa che non volle mai riconoscere <strong>di</strong> aver sbagliato,<br />

così rimase chiusa nella torre per sempre.<br />

Il principe, invece, <strong>di</strong>venne l’erede al trono e ricevette le scuse del padre, che si rese<br />

conto <strong>di</strong> non averlo giu<strong>di</strong>cato per quello che era veramente. Perciò non bisogna mai giu<strong>di</strong>care<br />

nessuno dalle apparenze.<br />

– 211 –

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