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Apocalisse, il giorno dopo - Baskerville

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D ANELE P UGLIESE, APOCALISSE, IL GIORNO DOPO<br />

autoritario e imbarazzato allo stesso tempo, e quasi timido inf<strong>il</strong>ava nel<br />

portaombrelli <strong>il</strong> fuc<strong>il</strong>e con la baionetta inastata, e i giocatori di tarocchi,<br />

con gli scopettoni e i polsini rotondi, che si ritrovavano puntualmente<br />

ogni <strong>giorno</strong> alla stessa ora: tutto questo era patria, qualcosa di più forte<br />

che una semplice terra natale, vasto e variopinto, eppure fam<strong>il</strong>iare, e<br />

patria: l’imperial-regia monarchia.<br />

E più avanti:<br />

“... l’Austria non è uno Stato, non è una patria, non è una nazione. È<br />

una religione. [...] E pensare” continuò <strong>il</strong> suo racconto <strong>il</strong> fratello di<br />

Chojnicki “che quest’uomo è pazzo! Io sono convinto che non lo è<br />

affatto. Senza <strong>il</strong> crollo della monarchia non sarebbe affatto pazzo!” così<br />

egli concluse <strong>il</strong> suo racconto. Noi tacevamo <strong>dopo</strong> discorsi del genere. Sul<br />

nostro tavolo gravava un s<strong>il</strong>enzio soffocante che non veniva da dentro di<br />

noi ma scendeva dall’alto. Noi non piangevamo la nostra patria perduta,<br />

la passavamo per così dire sotto s<strong>il</strong>enzio. [...] Vivi eravamo e presenti in<br />

carne e ossa. Ma in realtà eravamo morti.<br />

La sua è quella che è stata chiamata la «gaia apocalisse»:<br />

Frequentavo l’allegra, anzi sfrenata compagnia di giovani aristocratici,<br />

l’ambiente che, <strong>dopo</strong> quello degli artisti, più mi era caro nel vecchio<br />

impero. Ne condividevo la scettica leggerezza, la malinconica<br />

presunzione, la colpevole ignavia, l’arrogante dissipazione, tutti sintomi<br />

della rovina, di cui ancora non intuivamo l’approssimarsi. Sopra i<br />

bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisib<strong>il</strong>e<br />

incrociava già le sue mani ossute. Si imprecava allegramente, si<br />

bestemmiava finanche, senza scrupolo. Vecchio e solitario, lontano e per<br />

così dire pietrificato, pure vicino a tutti noi e onnipresente nel grande e<br />

variopinto impero, viveva e regnava <strong>il</strong> vecchio imperatore Francesco<br />

Giuseppe. Forse negli strati profondi delle nostre anime erano sopite<br />

quelle certezze che la gente chiama presentimenti, prima fra tutte la<br />

certezza che <strong>il</strong> vecchio imperatore moriva, ogni <strong>giorno</strong> in più di vita era<br />

un altro passo verso la morte, e insieme con lui moriva la monarchia,<br />

non tanto la nostra patria, quanto <strong>il</strong> nostro impero, qualcosa di più<br />

grande, più vasto, più nob<strong>il</strong>e che una semplice patria. Dai nostri cuori<br />

grevi nascevano le battute spensierate, dalla sensazione di essere votati<br />

alla morte un folle desiderio di qualsiasi affermazione di vita: di balli,<br />

feste popolari, ragazze, pranzi, gite, stravaganze d’ogni genere,<br />

scappatelle assurde, di ironia suicida, di critica feroce, del Prater, della<br />

Ruota Gigante, del Teatro delle Marionette, di mascherate, di balletti, di<br />

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