FIG. 1 Anno accademico 2009/10
Traccia II Anno accademico 2009/10 QUESITI CARAVAGGESCHI: I PRECEDENTI - 1929 Ma anche il Caravaggio ha sofferto e soffre tuttora, come i suoi antenati, <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zi eterocliti. La condanna <strong>di</strong> mero naturalismo inflittagli dal Baglione e dal Bellori è senza dubbio ingiusta; ma da ragione almeno d'una delle due facce dello stile <strong>di</strong> lui. Assai più sviate ci paiono le interpretazioni moderne. Parlare del Caravaggio <strong>di</strong>segnatore, o plastico, o colorista, o barocco, é ancora giu<strong>di</strong>carlo da questa o da quella delle prerogative del classicismo, nessuna delle quali gli potrebbe mai convenire. Non cosi parlare del luminismo ch’è la contro- parte stilistica della sua ineluttabile naturalezza. Dalle esperienze luministiche dei suoi precursori, fra cui erano anche quel Lotto che il Lomazzo (in questo argomento, come lombardo, molto piu autorevole del Vasari) chiama «maestro del dare il lume» e quel Savoldo in cui il Pino esalta «le ingegnose descrittioni dell’oscurità», il Caravaggio scopre la forma delle ombre: uno stile dove il lume, non più asservito, finalmente, alla definizione plastica dei corpi su cui incide, e anzi arbitro dell’ombra seguace della loro esistenza stessa. Il principio era per la prima volta immateriale; non <strong>di</strong> corpo ma <strong>di</strong> sostanza; esterno ed ambiente all’uomo, non schiavo dell’uomo. Già il lombardo Lomazzo, sebbene classicista, aveva definito in astratto: «lume é qualità senza corpo», anticipando a suo modo, <strong>di</strong> tre secoli, il «rien n’est ma- tériel dans l’espace» del lombardo Medardo Rosso. Che cosa importasse questo nuovo stile nei confronti col Rinascimento ch'era invece partito dall'uomo, e vi aveva sopra e<strong>di</strong>ficato una superba mole antropocentrica, cui anche la luce era ano<strong>di</strong>na servente, e facile intendere. All'artificio, al simbolo drammatico dello stile attendeva ora il lume medesimo, non l'idea che l’uomo poteva aver formato <strong>di</strong> se stesso. Ma quando in un battito del lume una cosa assommasse, e poiché non era più luogo a preor<strong>di</strong>narla nella forma, nel <strong>di</strong>segno, nel costume, e neppure nella rarità del colore, essa non poteva sortire che terribilmente naturale. Il <strong>di</strong>rompersi delle tenebre rivelava l'accaduto e nient'altro che l'accaduto; donde la sua inesorabile naturalezza e la sua inevitabile varietà, la sua incapacita <strong>di</strong> «scelta». Uomini, oggetti, paesi, ogni cosa sullo stesso piano <strong>di</strong> costume, non in una scala gerarchia <strong>di</strong> degnità. E anche <strong>di</strong> questo concepimento, che <strong>di</strong>rei fatalisticamente popolare, della vita, i precursori del Caravaggio avevan dato per più secoli prove tangibili, se anche non cosl coerenti come quelle ch’egli ora pro- poneva ed opponeva alle nuove circostanze. Di fronte alla soluzione gran<strong>di</strong>osa ed ottimistica, ma provvisoria, del barocco cui già il classicismo aveva dato l’avvio, la soluzione del Caravaggio trova infatti, nell'accordo deciso e perentorio fra il fisico e il metafisico, il segno del proprio valore, amaramente vero e perenne. Ed ogni stile autentico contiene in sé — o ha contenuto almeno fino al principio <strong>di</strong> questo secolo — la <strong>di</strong>alettica del dualismo tra natura e visione: naturalezza somma e somma astrazione s’in- vertono fra sé. Cosi nella macchia astratta e <strong>di</strong>rupata dal chiaroscuro caravaggesco, dove alla prima nulla si avvisa se non un collasso tragico e primor<strong>di</strong>ale <strong>di</strong> luce ed ombra, emerge subitamente, e come per fatale incidenza, l'avvenimento più vero, più tangibile, più naturale, insomma, che mai sia stato immaginato ed espresso. Qui è lo sbocco e la fine degli antichi fatti lombar<strong>di</strong> e insieme l’inizio <strong>di</strong> fatti nuovi, non tanto italiani, ma europei, che, attraversando il sonno agitato e fumante del vecchio gigante barocco, e senza punto smarrirsi in quei vapori, vengono a riunirsi con i maggiori raggiungimenti moderni. Dal « cavallo » protagonista della Conversione <strong>di</strong> San Paolo è una via, tortuosa fin che si vuole, ma una via che conduce agli a ombrelli » protagonisti nel quadro del Renoir. O, per portare una prova più <strong>di</strong>rettamente genealogica e stilistica: quando il contemporaneo Rubens copia per <strong>di</strong>letto la Deposizione caravaggesca della Vallicella, egli la sforza ed altera in ogni senso per il suo travaglio <strong>di</strong> Sisifo barocco. Ma quando, per sua e<strong>di</strong>ficazione, la copia il Cézanne, egli illumina con intelligenza incre<strong>di</strong>bile, dopo quasi tre secoli, la faccia quintessenziale, astratta, metafisica del modello caravaggesco. Nulla meglio <strong>di</strong> questa constatazione ultima ci può chiarire <strong>di</strong> che involucro sommamente ideale si ravvolga la terribile naturalezza del Caravaggio, ultimo dei « lombar<strong>di</strong>r »