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La maledizione della parola - Università di Palermo

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Aesthetica Preprint<br />

Supplementa<br />

<strong>La</strong> <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

<strong>di</strong> Fritz Mauthner<br />

Centro Internazionale Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Estetica


Aesthetica Preprint ©<br />

Supplementa<br />

è la collana e<strong>di</strong>toriale pubblicata dal Centro Internazionale Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Estetica<br />

a integrazione del perio<strong>di</strong>co Aesthetica Preprint © . Viene inviata agli stu<strong>di</strong>osi<br />

im pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle<br />

maggiori biblioteche e istituzioni <strong>di</strong> cultura umanistica italiane e straniere.<br />

Il Centro Internazionale Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Estetica<br />

è un Istituto <strong>di</strong> Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo<br />

<strong>di</strong> stu<strong>di</strong>osi <strong>di</strong> Estetica. Con d.p.r. del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente<br />

Morale. Attivo nei campi <strong>della</strong> ricerca scientifica e <strong>della</strong> promozione culturale,<br />

organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate <strong>di</strong> Stu<strong>di</strong>o, Incontri, Tavole<br />

rotonde, Conferenze; cura la collana e<strong>di</strong>toriale Aesthetica © e pubblica il perio<strong>di</strong>co<br />

Aesthetica Preprint © con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’<strong>Università</strong><br />

degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>Palermo</strong> ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.


Aesthetica Preprint<br />

Supplementa<br />

22<br />

Settembre 2008<br />

Centro Internazionale Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Estetica


Fritz Mauthner, 1849-1923


Fritz Mauthner<br />

<strong>La</strong> <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

Testi <strong>di</strong> critica del linguaggio<br />

a cura <strong>di</strong> Luisa Bertolini


Il presente volume viene pubblicato col contributo del Mi u r (p r i n 2006, responsabile<br />

scientifico prof. Gianna Gigliotti) – <strong>Università</strong> degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Roma “Tor<br />

Vergata”, Dipartimento <strong>di</strong> Ricerche Filosofiche.


In<strong>di</strong>ce<br />

Presentazione: Fritz Mauthner e la <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

<strong>di</strong> Luisa Bertolini<br />

1. Linguaggio e metafora in Fritz Mauthner 7<br />

2. Il linguaggio come metafora 13<br />

3. Metafora e rappresentazione 23<br />

4. <strong>La</strong> teoria <strong>della</strong> metafora 34<br />

Bibliografia 59<br />

<strong>La</strong> <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>della</strong> <strong>parola</strong>: Testi <strong>di</strong> critica del linguaggio<br />

<strong>di</strong> Fritz Mauthner<br />

Critica del linguaggio<br />

Prefazione 77<br />

Introduzione 78<br />

L’essenza del linguaggio 79<br />

Linguaggio e socialismo 90<br />

<strong>La</strong> superstizione <strong>della</strong> <strong>parola</strong> 93<br />

Pensare e parlare 96<br />

Anima e sensi 100<br />

L’arte <strong>della</strong> <strong>parola</strong> 102<br />

<strong>La</strong> metafora 104<br />

Dizionario <strong>di</strong> Filosofia<br />

Significato (Bedeutung) 117<br />

Coscienza (Bewusstsein) 120<br />

Cosa (Ding) 121<br />

Unità (Einheit) 123<br />

Conoscere (Erkennen) 129<br />

Umorismo (Humor) 132<br />

Ridere (<strong>La</strong>chen) 140<br />

Bello (Schön) 140<br />

Verità (Wahrheit) 148<br />

Mondo aggettivo 152<br />

Mondo sostantivo 154<br />

Mondo verbale 155


Le tre immagini del mondo<br />

Le tre nuove categorie 161<br />

Dappertutto tre mon<strong>di</strong>. L’attore 166<br />

Epilogo 166<br />

In<strong>di</strong>ce dei nomi 169


Presentazione<br />

Fritz Mauthner e la <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

<strong>di</strong> Luisa Bertolini<br />

1. Linguaggio e metafora in Fritz Mauthner<br />

«Mauthner è del tutto Mauthner, vorrei <strong>di</strong>re è più <strong>di</strong> quanto lo sia.<br />

È un uomo intelligente e pieno <strong>di</strong> spirito, ma c’è una stoffa <strong>di</strong> seta<br />

che credo si chiami cangiante. Si presenta molto bene, ma non si sa<br />

se sia verde, rossa oppure marrone; Mauthner evoca sempre qualcosa,<br />

quando però si vuol <strong>di</strong>re: “mi permetta”, è già andato via – Mauthner<br />

è l’ospite più splen<strong>di</strong>do, ma insieme anche il cameriere più or<strong>di</strong>nario,<br />

quello che ti porta via il piatto proprio quando stai per cominciare».<br />

Così lo scrittore berlinese Theodor Fontane ci presenta Fritz Mauthner,<br />

cogliendo in pochi tratti il carattere dell’uomo e del pensatore 1 : il contributo<br />

<strong>di</strong> questo filosofo – per lunghi anni <strong>di</strong>menticato e in Italia poco<br />

conosciuto 2 – si può riassumere infatti nel lavoro critico contro ogni<br />

ovvietà e pregiu<strong>di</strong>zio filosofico e nell’in<strong>di</strong>viduazione dell’analisi del linguaggio<br />

come terreno fondamentale per questa operazione. L’approdo è<br />

una posizione ra<strong>di</strong>calmente scettica e nominalistica che sembra esaurirsi<br />

nell’osservazione arguta e brillante che svuota ogni cosa <strong>di</strong> senso e lascia<br />

il lettore a mani vuote. Da una più attenta considerazione del percorso<br />

intellettuale <strong>di</strong> questo autore emergono però alcuni nuclei tematici che<br />

rivelano maturità teoretica e ritornano nella filosofia contemporanea,<br />

mostrando una sua fortuna, per così <strong>di</strong>re, sotterranea.<br />

Mauthner in<strong>di</strong>ca come compito <strong>di</strong> tutta la sua produzione intellettuale<br />

la critica del linguaggio e nella ricostruzione posteriore delle sue<br />

Erinnerungen 3 afferma <strong>di</strong> esservi stato in un certo modo predestinato<br />

in quanto ebreo nato in una provincia slava dell’Impero austro-ungarico,<br />

dove il tedesco era la lingua degli impiegati, <strong>della</strong> formazione,<br />

<strong>della</strong> poesia e dei parenti; il ceco la lingua dei conta<strong>di</strong>ni e delle donne<br />

<strong>di</strong> servizio, ma anche la lingua storica del regno <strong>di</strong> Boemia; l’ebraico,<br />

la lingua sacra dell’Antico testamento, <strong>di</strong>venuta il Mauscheldeutsch dei<br />

rigattieri ebrei, ma anche talora degli eleganti uomini <strong>di</strong> commercio 4 .<br />

In un altro passo lo scrittore attribuisce però il fallimento <strong>della</strong> scrittura<br />

poetica proprio a questo, al cattivo tedesco <strong>di</strong> Praga, il «tedesco<br />

cartaceo» 5 , troppo artificiale, imposto dal padre, oppure il cosiddetto<br />

Kleinseitner Deutsch, il tedesco con influenze austriache, parlato nel<br />

suo quartiere, oppure ancora il misto <strong>di</strong> tedesco e ceco, definito con<br />

7


spregio Kuchelbömisch, il ceco <strong>della</strong> servitù; <strong>di</strong> qui il rancore, che durerà<br />

per tutta la vita, per l’assenza <strong>di</strong> una lingua madre e <strong>di</strong> un <strong>di</strong>aletto,<br />

mescolato al risentimento per la mancanza <strong>di</strong> un’educazione religiosa<br />

6 . Orgoglio e rancore insieme caratterizzano del resto tutte le svolte<br />

principali <strong>della</strong> sua vita intellettuale: l’abbandono degli stu<strong>di</strong> per la<br />

poesia, la scelta <strong>della</strong> carriera giornalistica a Berlino, la svolta filosofica<br />

e il primo allontanamento dalla città nel quartiere <strong>di</strong> Grünewald, la<br />

fuga da Berlino e gli stu<strong>di</strong> filosofici e scientifici a Freiburg e, infine, la<br />

scelta dell’isolamento a Meersburg, sul lago <strong>di</strong> Costanza.<br />

Mauthner era nato il 22 novembre del 1849 a Horschitz (Horˇice),<br />

una piccola citta<strong>di</strong>na <strong>della</strong> Boemia orientale, vicino a Königgrätz e<br />

Sadowa, come egli ricorda con una punta <strong>di</strong> orgoglio nazionalistico tedesco<br />

7 , da padre ebreo «non religioso» e da madre «antireligiosa», in<br />

una famiglia borghese completamente assimilata che pochi anni dopo,<br />

nel 1855, si era trasferita a Praga per dare ai figli un’istruzione adeguata.<br />

Lo scrittore ricostruisce con astio il periodo <strong>della</strong> sua formazione e<br />

del suo insuccesso scolastico: dalla scuola privata elementare ebraica,<br />

la Klippschule (scuola dell’abbiccì), al Piaristengymnasium, scuola cattolica,<br />

dove metà degli studenti erano ebrei e non mancava qualche<br />

protestante, e infine nel Kleinseitner Gymnasium 8 , liceo <strong>di</strong> lingua tedesca.<br />

Alle lamentele contro l’astrattezza e la meccanicità degli stu<strong>di</strong><br />

si accompagna l’insofferenza per la preparazione superficiale in tutte e<br />

tre le lingue <strong>della</strong> sua formazione, il tedesco, il ceco e l’ebraico. Il 1866<br />

segna una svolta politica: la vittoria prussiana nella guerra contro l’Austria<br />

con la battaglia <strong>di</strong> Sadowa e l’occupazione <strong>di</strong> Praga provocano nel<br />

giovane Mauthner il passaggio da un coscienza genericamente austriaca<br />

(«non eravamo per la grande Germania» 9 ; «noi austriaci dovevamo rimanere<br />

i signori <strong>della</strong> Germania (credevamo <strong>di</strong> esserlo), per poter poi,<br />

in casa, farla finita con i cechi» 10 ) a un nazionalismo grande-tedesco<br />

con tratti talora fanatici e deciso o<strong>di</strong>o anticeco 11 . L’acutizzarsi del conflitto<br />

etnico, la progressiva <strong>di</strong>minuzione <strong>della</strong> componente tedesca nella<br />

Praga <strong>della</strong> seconda metà dell’Ottocento 12 , la rovina finanziaria del<br />

padre che muore nel 1874, costituiscono lo sfondo del periodo degli<br />

stu<strong>di</strong> universitari in giurisprudenza e del loro abbandono, anche in seguito<br />

a un attacco <strong>di</strong> emottisi, a favore <strong>della</strong> poesia. Queste premesse,<br />

a cui si aggiunge lo scarso successo letterario, rendono comprensibile<br />

la scelta, nel 1876, del trasferimento a Berlino.<br />

Mauthner sceglie Berlino e non Vienna, la città più veloce del mondo<br />

contro la capitale <strong>della</strong> lentezza: Berlino «la sola capitale tedesca del<br />

futuro» 13 , centro oltre che <strong>della</strong> politica e dell’economia, <strong>della</strong> scienza<br />

e <strong>della</strong> cultura, del giornalismo, delle riviste culturali, <strong>della</strong> produzione<br />

libraria e <strong>della</strong> critica teatrale. Qui si rivolge a Arthur Levysohn,<br />

<strong>di</strong>rettore <strong>di</strong> uno dei giornali più importanti <strong>della</strong> città, il “Berliner Tageblatt”<br />

dell’e<strong>di</strong>tore Rudolf Mosse 14 . Non trova imme<strong>di</strong>atamente una<br />

collocazione fissa, ma dalla metà del 1877 collabora regolarmente per<br />

8


sette anni al settimanale “Deutsches Montags-Blatt”, dello stesso e<strong>di</strong>tore,<br />

come scrittore satirico e critico teatrale. <strong>La</strong> fama improvvisa gli<br />

deriva dalle paro<strong>di</strong>e pubblicate su questo giornale a partire dall’inizio<br />

<strong>di</strong> giugno del 1878, raccolte l’anno dopo in un libro con il titolo Nach<br />

berühmte Muster 15 , al quale fanno seguito anche alcuni romanzi.<br />

Nell’ambiente culturale berlinese questo signore altissimo e magro,<br />

con naso adunco e una lunga barba che lo fa assomigliare a un antico<br />

profeta 16 , sembra a suo agio. <strong>La</strong> sua figura <strong>di</strong> intellettuale ebreo<br />

assimilato 17 si colloca al centro <strong>della</strong> vita culturale <strong>della</strong> capitale 18 .<br />

Molto ampio è anche lo spettro delle sue conoscenze personali: comprende<br />

nomi come Lou Andreas-Salomé, Else <strong>La</strong>sker-Schüler, Oskar<br />

Maria Graf, Richard Beer-Hofman, Kurt Hiller, Hermann Hesse, Erich<br />

Mühsam, Theodor Fontane, Maximilian Harden, Gerhard Hauptmann,<br />

Theodor Mommsen, Walter Rathenau e Franz Oppenheimer 19 . Anche<br />

sul piano personale questo momento appare sereno, segnato dal matrimonio<br />

con Jenny Ehrenberg e dalla nascita dell’unica figlia Grete.<br />

Mauthner non è però sod<strong>di</strong>sfatto <strong>di</strong> un successo che gli pare troppo<br />

effimero e mondano, si lamenta <strong>di</strong> aver speso tanti anni in un lavoro<br />

maledetto e <strong>di</strong> esserne a ragione stanco. Ma già dal 1891 egli aveva<br />

iniziato, la notte, quasi in segreto, un nuovo e imponente lavoro filosofico<br />

<strong>di</strong> analisi e <strong>di</strong> critica del linguaggio. Le ra<strong>di</strong>ci psicologiche <strong>di</strong><br />

questa scelta risalgono ancora più in<strong>di</strong>etro (un primo abbozzo, gettato<br />

nel fuoco, nel 1873, poi la ripresa segreta del tema e ventisette anni <strong>di</strong><br />

preparazione, come ci <strong>di</strong>ce Mauthner nella prefazione); decisivo sembra<br />

però l’incontro con il giovane scrittore anarchico Gustav <strong>La</strong>ndauer.<br />

Nonostante la <strong>di</strong>versità del carattere e delle opinioni politiche, per molti<br />

versi contrapposte 20 , <strong>La</strong>ndauer è <strong>di</strong> stimolo e <strong>di</strong> concreto aiuto nella<br />

stesura dell’opera, soprattutto dopo la morte <strong>della</strong> moglie <strong>di</strong> Mauthner<br />

nel gennaio del 1896 e l’insorgere <strong>di</strong> una grave malattia agli occhi. I tre<br />

grossi volumi dei Beiträge zu einer Kritik der Sprache verranno pubblicati<br />

tra il 1901 e il 1902 dall’e<strong>di</strong>tore Cotta e ottengono una risonanza<br />

maggiore <strong>di</strong> quanto l’autore lamenti 21 , non paragonabile però al suo<br />

successo come scrittore satirico.<br />

Per altri versi la critica del linguaggio ha origine proprio nell’attività<br />

giornalistica, nell’atto <strong>di</strong> mimesi dello scrittore <strong>di</strong> paro<strong>di</strong>e che si nasconde<br />

<strong>di</strong>etro la maschera del linguaggio altrui, per forzarne i momenti<br />

più deboli e rivelarne il pregiu<strong>di</strong>zio; nasce dall’avventarsi contro il linguaggio<br />

che egli usa quoti<strong>di</strong>anamente con successo, dal voler scavare<br />

da auto<strong>di</strong>datta nella cultura filosofica e scientifica del suo tempo alla<br />

ricerca <strong>della</strong> superstizione <strong>della</strong> <strong>parola</strong>, oscillando, come rivela nella<br />

prefazione, tra momenti <strong>di</strong> presunzione e momenti <strong>di</strong> abbattimento e<br />

mortificazione 22 .<br />

Il primo volume dei Beiträge prende avvio dall’impossibilità <strong>di</strong> definire<br />

l’essenza del linguaggio che imme<strong>di</strong>atamente si declina nelle <strong>di</strong>verse<br />

lingue, nei <strong>di</strong>aletti, nelle lingue particolari, nelle lingue in<strong>di</strong>viduali,<br />

9


spesso <strong>di</strong>verse nelle <strong>di</strong>verse fasi <strong>della</strong> vita, presente solo nel suono<br />

pronunciato che svanisce nell’attimo. Alla mancanza <strong>di</strong> una definizione<br />

analitica suppliscono allora le metafore che si accumulano una sull’altra<br />

e che si esauriscono nell’affermazione pragmatica che il linguaggio non<br />

è altro che l’uso del linguaggio. Con la metafora eraclitea che raffigura<br />

l’incessante mutamento del significato delle parole nell’immagine delle<br />

gocce d’acqua <strong>della</strong> corrente <strong>di</strong> un fiume Mauthner inizia la <strong>di</strong>ssoluzione<br />

<strong>di</strong> qualsiasi fondamento che assicuri al mondo e al soggetto<br />

conoscente una qualsiasi continuità e soli<strong>di</strong>tà. Come per il seguace <strong>di</strong><br />

Eraclito del Teeteto platonico le sostanze si sgretolano nel mutamento<br />

e le qualità si presentano solo negli attributi sensibili, nella consapevolezza<br />

che il compito critico esigerebbe, come pretendeva Socrate 23 , un<br />

nuovo linguaggio e che il linguaggio a nostra <strong>di</strong>sposizione è appunto<br />

il nostro linguaggio.<br />

Il problema <strong>di</strong>venta ancor più evidente per il linguaggio <strong>della</strong> psicologia<br />

cui Mauthner addebita <strong>di</strong> aver prodotto la duplicazione del<br />

mondo in interno ed esterno, linguaggio e pensiero, memoria e coscienza,<br />

e <strong>di</strong> aver applicato al mondo interno il linguaggio del mondo<br />

esterno. Mauthner vi trova tuttavia alcune in<strong>di</strong>cazioni importanti che<br />

si concludono nella teoria, se così si può chiamare, dei Zufallssinne,<br />

in gran parte ripresa dalla concezione <strong>di</strong> Ernst Mach, con qualche<br />

suggestione ricavata da Schopenhauer e Nietzsche. <strong>La</strong> tesi consiste<br />

nell’affermazione che i nostri organi <strong>di</strong> senso, costituitisi nel corso <strong>di</strong><br />

una evoluzione biologica che ha seguito vie traverse e casuali in una<br />

storia senza leggi, sono simili a filtri che lasciano passare solo una<br />

minima parte delle caratteristiche delle cose, che sono quin<strong>di</strong> inadatti<br />

a cogliere l’infinita complessità del reale e sufficienti soltanto allo<br />

scopo <strong>di</strong> orientarsi nel mondo, <strong>di</strong> sopravvivere e <strong>di</strong> comunicare. Le<br />

rappresentazioni, le immagini che ci facciamo delle cose, si mo<strong>di</strong>ficano<br />

continuamente come in un caleidoscopio e il concetto contenuto nella<br />

<strong>parola</strong>, cerniera provvisoria per un complesso <strong>di</strong> sensazioni, sorge dalla<br />

stratificazione <strong>di</strong> rappresentazioni simili, ma non identiche, che scivolano<br />

l’una sull’altra senza potersi mai sovrapporre in modo esatto. Mauthner<br />

è però consapevole <strong>della</strong> provvisorietà <strong>di</strong> una simile definizione,<br />

sa che in questa enunciazione vi sono aspetti metaforici, immagini che<br />

inducono all’inganno, come il concetto <strong>di</strong> immagine, appunto.<br />

Nella <strong>di</strong>samina delle teorie del linguaggio contemporanee, contenuta<br />

nel secondo e nel terzo volume, Mauthner accoglie sostanzialmente<br />

la teoria dei neogrammatici e in particolare <strong>di</strong> Hermann Paul che<br />

aveva accentuato la <strong>di</strong>ssoluzione dell’apriori <strong>di</strong> una lingua presupposta<br />

come unitaria nella comunità dei parlanti che raccontano storie comuni.<br />

Nonostante alcune critiche che rimangono alla superficie, Mauthner<br />

con<strong>di</strong>vide con Paul l’impostazione <strong>della</strong> ricerca delle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />

possibilità dell’accordo linguistico, l’accento posto sull’uso in<strong>di</strong>viduale<br />

<strong>della</strong> lingua, sulla <strong>di</strong>screpanza tra l’utilizzazione <strong>della</strong> <strong>parola</strong> da parte<br />

10


dell’in<strong>di</strong>viduo e quella sancita dall’uso, l’affermazione dell’impossibilità<br />

<strong>di</strong> comunicare il contenuto rappresentativo me<strong>di</strong>ante la <strong>parola</strong>, il<br />

ricoscimento del carattere polisemico del linguaggio e dell’inevitabilità<br />

del malinteso. <strong>La</strong> classificazione dei mutamenti linguistici costituisce<br />

poi la premessa <strong>della</strong> teoria <strong>della</strong> <strong>parola</strong> come metafora che Mauthner<br />

elabora aggiungendovi altre suggestioni provenienti dalla filosofia del<br />

linguaggio e dall’estetica.<br />

<strong>La</strong> pubblicazione dei Beiträge avviene in un periodo <strong>della</strong> vita <strong>di</strong><br />

Mauthner <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà e <strong>di</strong> depressione; nell’ottobre del 1905 si trasferisce<br />

a Freiburg con l’intenzione <strong>di</strong> de<strong>di</strong>carsi agli stu<strong>di</strong>, lontano dai rumori<br />

<strong>della</strong> grande città e dall’attività giornalistica. «A <strong>di</strong>cembre – scrive<br />

Kühn – segue il cane» 24 , e nelle lettere agli amici Mauthner riferisce<br />

<strong>di</strong> lunghe passeggiate con il cane nella solitu<strong>di</strong>ne e nel dubbio <strong>di</strong> non<br />

riuscire più a vivere. Riprende però lentamente gli stu<strong>di</strong>, frequenta<br />

l’università seguendo corsi <strong>di</strong> matematica e <strong>di</strong> <strong>di</strong>scipline scientifiche,<br />

conosce Hans Vaihinger e per suo tramite entra nella società kantiana,<br />

incontra Martin Buber, per il quale scrive la breve monografia <strong>di</strong>vulgativa<br />

Die Sprache. Ma la novità principale è la frequentazione <strong>di</strong> Hedwig<br />

Straub, scrittrice ebrea e tedesca 25 , che aveva stu<strong>di</strong>ato filosofia a Zurigo<br />

con Avenarius, il teorico relativista dell’esperienza pura 26 , e me<strong>di</strong>cina a<br />

Parigi e che aveva poi lavorato come me<strong>di</strong>co per <strong>di</strong>eci anni tra i beduini<br />

nel deserto del Sahara. Con l’aiuto <strong>della</strong> Straub, che <strong>di</strong>verrà la sua<br />

seconda moglie, Mauthner affronta un lavoro nuovo e impegnativo, la<br />

stesura <strong>di</strong> un <strong>di</strong>zionario dei principali termini filosofici.<br />

Das Wörterbuch der Philosophie, questo Mauthner voleva come titolo,<br />

non per vanità, scrive nell’introduzione, ma perché con l’articolo<br />

determinativo egli non intendeva il <strong>di</strong>zionario come unico o migliore,<br />

ma il <strong>di</strong>zionario dei termini che la filosofia ha usato, il <strong>di</strong>zionario <strong>della</strong><br />

nostra filosofia. <strong>La</strong> filosofia, a sua volta, è teoria del conoscere e la<br />

teoria del conoscere è critica del linguaggio, rassegnazione scettica <strong>di</strong><br />

fronte all’impossibilità <strong>di</strong> conoscere il mondo, che non vuole presentarsi<br />

come pura negazione, ma come il nostro miglior sapere. Nel circolo<br />

<strong>di</strong> memoria, pensiero e linguaggio – termini che si sovrappongono e<br />

spesso vengono identificati – le parole sono soltanto «i segni per ricordare<br />

o i nomi per le esperienze senza nome, numerose, troppe per<br />

essere senza parole e senza nome» 27 . Nel corso <strong>di</strong> una storia priva <strong>di</strong><br />

leggi e <strong>di</strong> <strong>di</strong>rezione le parole migrano assieme agli uomini e alle cose<br />

che essi portano con sé e con esse migrano anche i concetti astratti.<br />

Egli sceglie allora poco più <strong>di</strong> duecento parole <strong>della</strong> filosofia, delle<br />

quali non ricostruisce l’etimo alla ricerca <strong>di</strong> un significato originario,<br />

ma ne segue le migrazioni (Wortwanderungen) attraverso le derivazioni,<br />

i prestiti (Entlehnungen) e i calchi (Lehnübersetzungen). Non<br />

quin<strong>di</strong> un catalogo del mondo, ma un insieme <strong>di</strong> piccole monografie<br />

dei concetti astratti, <strong>di</strong> concetti morti e <strong>di</strong> concetti apparenti (Scheinbegriffe),<br />

ai quali nulla corrisponde nella nostra esperienza. Mauthner li<br />

11


chiama concetti «sostantivi», ipostatizzazioni arbitrarie del linguaggio,<br />

capaci tuttavia <strong>di</strong> dare vita a rappresentazioni che <strong>di</strong>ventano motivo<br />

dell’agire, pregiu<strong>di</strong>zi in grado <strong>di</strong> provocare una guerra <strong>di</strong> religione o<br />

la caccia alle streghe. <strong>La</strong> decostruzione critica assume così anche una<br />

<strong>di</strong>mensione pratica nella consapevolezza <strong>della</strong> potenza psicologica <strong>di</strong><br />

tali concetti, delle loro ra<strong>di</strong>ci nell’essenza stessa del linguaggio: «i concetti<br />

<strong>della</strong> filosofia – dato che la filosofia inizia là dove finisce il sapere<br />

dell’esperienza – rimangono sospesi nelle più alte regioni tra il pericolo<br />

dell’apparenza e il pericolo dell’antica mistica» 28 .<br />

<strong>La</strong> critica del linguaggio <strong>della</strong> filosofia si esprime già nell’impostazione<br />

enciclope<strong>di</strong>ca che rifiuta l’or<strong>di</strong>namento gerarchico per sostituirlo<br />

con il «criterio infantile» dell’or<strong>di</strong>ne alfabetico 29 , prende <strong>di</strong> mira le parole<br />

più usate, trasforma la domanda sull’essenza nell’indagine sull’uso<br />

del nome. Ne risulta una <strong>di</strong>samina dei problemi più importanti <strong>della</strong><br />

storia del pensiero che rivela conoscenze amplissime, ma anche conclusioni<br />

affrettate e soggettive. In ogni caso la materia è più or<strong>di</strong>nata, le<br />

conoscenze scientifiche si sono ampliate anche alle <strong>di</strong>scipline matematiche<br />

e fisiche, il tono – a parte qualche caso anche clamoroso 30 – più<br />

pacato. A questo non è certo estranea la presenza <strong>della</strong> Straub con la<br />

sua personalità delicata e tenace, con le sue conoscenze linguistiche e<br />

scientifiche.<br />

Con Hedwig, che sposerà l’anno seguente, si trasferisce nel 1909 a<br />

Meersburg sul lago <strong>di</strong> Costanza in una casa <strong>di</strong> vetro, la Glaserhäusle,<br />

dove trascorre gli ultimi anni de<strong>di</strong>candosi a un componimento poetico<br />

sulla figura del Buddha, alla mistica e ai quattro volumi dell’opera Der<br />

Atheismus und seine Geschichte im Abendlande, pubblicata nel 1920.<br />

Anche questo lavoro è concepito come critica del linguaggio e parte<br />

dalla <strong>di</strong>samina dei concetti <strong>di</strong> Dio, eresia, superstizione, ateismo e <strong>di</strong><br />

altri termini legati alla storia delle religioni, in particolare <strong>della</strong> religione<br />

cristiana. <strong>La</strong> ricostruzione <strong>della</strong> «liberazione dal concetto <strong>di</strong> Dio» 31<br />

prende in considerazione allora anche le critiche filosofiche, le soluzioni<br />

eretiche, le lotte contro il potere <strong>della</strong> Chiesa. <strong>La</strong> scepsi conoscitiva e<br />

linguistica impe<strong>di</strong>sce una soluzione materialistica e trasforma l’ateismo<br />

in una mistica senza Dio, nella quale non vi è nome per un Dio, come<br />

non vi sono nomi adeguati per le cose del mondo 32 . Ma l’i<strong>di</strong>llio del<br />

“Buddha <strong>di</strong> Meersburg” era già stato avvelenato da alcune polemiche<br />

politiche e religiose, ma soprattutto dallo scontro con <strong>La</strong>ndauer per gli<br />

articoli nazionalistici che Mauthner aveva scritto all’inizio <strong>della</strong> guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale e per il suo giu<strong>di</strong>zio negativo sulla partecipazione dell’amico<br />

alla Repubblica dei consigli <strong>di</strong> Monaco, nella repressione <strong>della</strong> quale<br />

<strong>La</strong>ndauer aveva trovato la morte, assassinato in prigione.<br />

Nel suo ultimo anno <strong>di</strong> vita Mauthner riassume le sue tesi filosofiche<br />

nello scritto Die drei Bilder der Welt, interrotto dalla morte, il 29<br />

giugno del 1923.<br />

12


2. Il linguaggio come metafora<br />

<strong>La</strong> filosofia <strong>di</strong> Mauthner non ha propriamente un inizio, e non vorrebbe<br />

averlo, eppure la sua critica del linguaggio prende avvio proprio<br />

nel modo più classico, con la citazione dal Vangelo <strong>di</strong> Giovanni: «in<br />

principio era la <strong>parola</strong>» 33 . Con la <strong>parola</strong> – continua però – gli uomini<br />

sono al principio del conoscere e rimangono fermi se restano presso la<br />

<strong>parola</strong>; chi voglia procedere oltre, deve liberarsi dalla <strong>parola</strong> e dalla superstizione<br />

<strong>della</strong> <strong>parola</strong>, riscattare il mondo dalla tirannia del linguaggio<br />

34 . Sembra un punto <strong>di</strong> partenza, ma l’autore ci avverte subito che<br />

l’espressione «in principio» muta il suo senso appena proce<strong>di</strong>amo oltre<br />

nel pronunciare le cinque parole <strong>della</strong> proposizione «in principio era<br />

la <strong>parola</strong>». Subito dopo, la metafora <strong>della</strong> scala accresce il <strong>di</strong>sagio del<br />

lettore <strong>di</strong>sorientato. I suoi gra<strong>di</strong>ni ci incatenano al linguaggio dell’attimo,<br />

<strong>di</strong> quel determinato gra<strong>di</strong>no che abbiamo toccato anche solo <strong>di</strong><br />

sfuggita e solo con le punte dei pie<strong>di</strong>, anche se ci siamo costruiti da<br />

noi i gra<strong>di</strong>ni per quell’attimo. Del resto non troviamo la scala, perché<br />

Mauthner – come farà Wittgenstein – l’ha <strong>di</strong>strutta: «devo annientare<br />

il linguaggio passo dopo passo <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> me e davanti a me e dentro<br />

<strong>di</strong> me, devo <strong>di</strong>struggere ogni piolo <strong>della</strong> scala mentre salgo. Chi vuole<br />

seguire, ricostruisca i pioli per poi <strong>di</strong>struggerli <strong>di</strong> nuovo» 35 .<br />

<strong>La</strong> circolarità <strong>di</strong> questo inizio si manifesta nella struttura delle prime<br />

pagine. In effetti non è questo l’inizio: come ha notato Elisabeth<br />

Bredeck, le prime pagine del testo presentano una successione apparentemente<br />

scoor<strong>di</strong>nata <strong>di</strong> citazioni e annotazioni: prima l’epistola de<strong>di</strong>catoria<br />

<strong>di</strong> Descartes dei Principia, a cui seguono, nella seconda e<strong>di</strong>zione,<br />

la prefazione con il programma <strong>di</strong> critica del linguaggio e l’in<strong>di</strong>ce, poi<br />

le citazioni <strong>di</strong> Locke, Vico, Hamann, Jacobi e Kleist 36 . L’invocazione<br />

dello spirito cartesiano si accosta al richiamo all’empirismo e alla tra<strong>di</strong>zione<br />

asistematica. L’approccio al tema è già decostruzione.<br />

Lo stile <strong>della</strong> scrittura riflette questa tensione: Mauthner non vuole<br />

procedere verso la verità, il linguaggio <strong>di</strong>venta un mezzo <strong>di</strong> sperimentazione,<br />

viene piegato e rotto, alla ricerca <strong>di</strong> una formulazione libera da<br />

norme e pregiu<strong>di</strong>zi 37 . È uno stile espressionistico, capace <strong>di</strong> far sentire<br />

davvero la lingua, provocatorio nell’uso compiaciuto degli ossimori 38 ,<br />

scan<strong>di</strong>to dagli scarti e dagli slittamenti improvvisi verso il basso, nella<br />

sciatteria ostentata <strong>della</strong> lingua da mercato. Non sempre il risultato è<br />

felice: talora l’autore risolve con arguzia ebraica un intreccio complesso,<br />

altrove si perde in lunghe <strong>di</strong>vagazioni che gli prendono la mano.<br />

Rimane l’obiettivo <strong>di</strong> presentare lo scetticismo linguistico nell’andamento<br />

stesso <strong>della</strong> lingua nella quale il significato <strong>della</strong> <strong>parola</strong> ripetuta<br />

slitta, viene trasposto, <strong>di</strong>venta ostensione <strong>della</strong> metafora.<br />

Forse è questa la ragione <strong>della</strong> sua fortuna tra i letterati e <strong>della</strong><br />

sfortuna presso i filosofi. Dalle lettere che Mauthner scrive a Hugo<br />

von Hofmannsthal, dopo la pubblicazione <strong>della</strong> Chandos-Brief 39 , tra-<br />

13


spare l’orgoglio <strong>di</strong> ritrovare nelle riflessioni del protagonista, lo scrittore<br />

classico che si commiata dalla <strong>parola</strong>, l’eco <strong>di</strong> molti passaggi <strong>della</strong> sua<br />

critica del linguaggio 40 e l’imbarazzata richiesta <strong>di</strong> un adeguato riconoscimento.<br />

Nonostante la reticenza del poeta ad ammettere <strong>di</strong> aver<br />

trovato esclusiva ispirazione dalle tesi del filosofo 41 su una problematica<br />

d’altronde molto presente nella letteratura austriaca del tempo, sappiamo<br />

che nella sua biblioteca sono presenti il primo e il terzo volume dei<br />

Beiträge e che nei fogli del Nachlass Mauthner viene citato più volte 42 .<br />

Christian Morgenstern, il poeta del grottesco e dell’assurdo, si <strong>di</strong>chiara<br />

invece esplicitamente seguace <strong>di</strong> Mauthner e attribuisce alla lettura <strong>della</strong><br />

Kritik der Sprache l’essere venuto in chiaro sull’essenza del linguaggio,<br />

giustificazione teorica del suo gioco poetico con la <strong>parola</strong> 43 .<br />

Mauthner è letto anche da Samuel Beckett e James Joyce, quando,<br />

tra il 1929 e il ’30 a Parigi, Joyce sta lavorando alla contaminazione<br />

linguistica <strong>di</strong> Finnegans Wake e Beckett cerca nei Beiträge qualcosa che<br />

possa servire alla scrittura <strong>di</strong> Joyce; ne copia su un quaderno – come<br />

riferisce a Linda Ben-Zvi – anche un lungo passo sul nominalismo e<br />

sulla sua in<strong>di</strong>mostrabilità, sull’inutilità <strong>della</strong> <strong>parola</strong> 44 . Sempre nell’ambito<br />

<strong>della</strong> sperimentazione linguistica, ma in un <strong>di</strong>verso contesto, negli<br />

anni sessanta, il viennese Oswald Wiener, nel suo romanzo <strong>di</strong> decostruzione,<br />

<strong>di</strong>e verbesserung von mitteleuropa, lo cita come provvisorio riferimento<br />

per una scelta ancor più ra<strong>di</strong>cale <strong>di</strong> rinuncia al linguaggio 45 .<br />

Infine Jorge Luis Borges afferma <strong>di</strong> consultare spesso il Wörterbuch der<br />

Philosophie <strong>di</strong> Mauthner e a lui si ispira in alcuni racconti 46 .<br />

<strong>La</strong> <strong>di</strong>ffidenza dell’accademia si conferma invece con il passare degli<br />

anni; nonostante l’opinione <strong>di</strong> Ernst Mach che prevedeva un riconoscimento,<br />

lento ma certo 47 , la letteratura critica tarda a prenderlo in<br />

considerazione e il suo nome rimane legato alla proposizione 4.0031 del<br />

Tractatus logico-philosophicus, nella quale Wittgenstein afferma: «tutta<br />

la filosofia è “critica del linguaggio”. Ma non nel senso <strong>di</strong> Mauthner».<br />

Solo a partire dal saggio <strong>di</strong> Gershon Weiler del 1958 è iniziato uno stu<strong>di</strong>o<br />

più attento del suo pensiero; eppure ancora Hans Kühn, il critico<br />

che gli de<strong>di</strong>ca il testo analitico più completo, corredato dall’intera bibliografia<br />

dei suoi scritti, lo intitola Gescheiterte Sprachkritik, il naufragio<br />

<strong>della</strong> critica del linguaggio. Gli stu<strong>di</strong> successivi, che prenderemo in<br />

considerazione in relazione a problemi specifici, hanno certamente un<br />

approccio più cauto, eppure affiora spesso l’idea che Mauthner non sia<br />

proprio un filosofo. In un certo senso non lo è, e non ha voluto esserlo.<br />

Egli rimane ai margini <strong>della</strong> tra<strong>di</strong>zione filosofica, scarta problemi, che a<br />

noi continuano a parere importanti, con battute <strong>di</strong> spirito che ci lasciano<br />

stupefatti per la superficialità; in qualche altro passo sembra voler<br />

cancellare con un solo gesto <strong>di</strong> insofferenza l’intero impianto dei temi<br />

<strong>della</strong> Critica <strong>della</strong> ragion pura e <strong>di</strong> un secolo successivo <strong>di</strong> interpretazioni.<br />

A tutto questo si aggiungono le querimonie sull’accademia che sanno<br />

più <strong>di</strong> risentimento che <strong>di</strong> consapevolezza. Mauthner propone però<br />

14


un cambiamento del punto <strong>di</strong> vista che richiede un’attenzione ine<strong>di</strong>ta<br />

alla <strong>di</strong>mensione empirica del linguaggio. Per questo la sua riduzione<br />

<strong>della</strong> filosofia a critica del linguaggio mantiene una <strong>di</strong>mensione filosofica<br />

e permette <strong>di</strong> tornare ai temi <strong>di</strong> prima con uno sguardo <strong>di</strong>verso: «dopo<br />

si ascolta, si pensa, si parla <strong>di</strong>versamente» 48 . Del resto la filosofia non<br />

ha mai preteso <strong>di</strong> fare <strong>di</strong> più e lo stesso Wittgenstein finirà per fare una<br />

critica del linguaggio proprio nel senso <strong>di</strong> Mauthner 49 .<br />

Partiamo allora dall’in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> Elisabeth Bredeck che, nel saggio<br />

sulle metafore del conoscere in Mauthner, suggerisce una lettura,<br />

per così <strong>di</strong>re, non letterale dell’opera: dopo un iniziale approccio analitico<br />

che cercava nel testo la contrad<strong>di</strong>zione e l’incoerenza, concede<br />

una valutazione più indulgente che ci presenta l’unica possibilità <strong>di</strong><br />

approccio all’opera <strong>di</strong> Mauthner, la lettura delle sue metafore. Il lavoro<br />

<strong>della</strong> stu<strong>di</strong>osa americana parte dall’analisi <strong>della</strong> circolarità dell’inizio e<br />

finisce con la citazione dantesca dei primi versi del ii canto del Para<strong>di</strong>so<br />

che chiude i Beiträge 50 : un nuovo gioco sull’inizio e la fine: Dante<br />

all’inizio del suo percorso verso la verità garantita da Dio 51 , Mauthner<br />

davvero alla fine e con il sorriso beffardo <strong>di</strong> chi <strong>di</strong>ce al lettore che il<br />

suo suggerimento a non seguirlo arriva troppo tar<strong>di</strong>.<br />

<strong>La</strong> conclusione non è del tutto una sorpresa perché lo stile argomentativo<br />

<strong>di</strong> Mauthner procede fin dalle prime pagine nel continuo<br />

spostamento del piano del <strong>di</strong>scorso, nella posizione <strong>di</strong> sempre nuove<br />

domande metafisiche che riguardano l’essenza del linguaggio e nello<br />

svuotamento delle stesse domande. Così nella prefazione alla seconda<br />

e<strong>di</strong>zione dei Beiträge Mauthner definisce come obiettivo principale del<br />

suo lavoro filosofico l’indagine sull’«essenza del linguaggio», ma suggerisce<br />

imme<strong>di</strong>atamente l’impossibilità <strong>di</strong> una definizione: il linguaggio<br />

è un termine generale, astratto, inafferrabile, perché è costituito dalla<br />

«massa enorme <strong>di</strong> tutti i suoni umani [...] detti o scritti dagli uomini<br />

per comprendersi in un qualche luogo <strong>della</strong> terra» 52 e, nello stesso<br />

tempo, si presenta soltanto nella singola <strong>parola</strong>, nel singolo suono che<br />

svanisce appena lo si è pronunciato; il linguaggio – concluderà poco<br />

più avanti – propriamente non esiste, preso in sé è una «non-cosa senza<br />

essenza (ein wesenloses Un<strong>di</strong>ng)» 53 .<br />

Eppure l’intenzione <strong>di</strong> lavorare sull’essenza del linguaggio non sembra<br />

un semplice espe<strong>di</strong>ente, perché la critica del linguaggio viene definita<br />

come un compito inevitabile. Ma se non è possibile un approccio<br />

analitico l’unica strada sembra la metafora e la prima metafora che<br />

Mauthner usa nei Beiträge per descrivere il linguaggio è eraclitea: la<br />

corrente del fiume rende in immagine il carattere instabile dei significati;<br />

il fiume, paragonato alla singola lingua, muta a sua volta il suo<br />

corso con l’andare del tempo. Non sod<strong>di</strong>sfatto del fluire dell’acqua,<br />

l’autore accenna alla possibilità <strong>di</strong> paragonare la lingua a una corrente<br />

d’aria e al letto <strong>di</strong> questa corrente. Ma l’immagine del fiume suggerisce<br />

anche l’inutilità – al fine <strong>di</strong> coglierne l’essenza – dello stu<strong>di</strong>o<br />

15


geografico-scientifico che ne ricostruisca il percorso o la costituzione<br />

fisico-chimica e richiama la mitologia delle <strong>di</strong>vinità fluviali che regolano<br />

il flusso dell’acqua. <strong>La</strong> trinità <strong>di</strong> pensiero, logica e grammatica,<br />

alla quale attribuiamo un valore normativo ed esterno al linguaggio,<br />

si nasconde piuttosto dentro <strong>di</strong> esso 54 .<br />

L’impossibilità <strong>di</strong> definire il linguaggio se non me<strong>di</strong>ante metafore,<br />

conduce Mauthner alla tesi che il linguaggio è semplicemente e pragmaticamente<br />

l’uso del linguaggio. L’uso suggerisce una nuova metafora:<br />

il linguaggio è un gioco <strong>di</strong> società le cui regole <strong>di</strong>ventano più cogenti<br />

quanti più giocatori vi partecipano 55 , ma anche la bella immagine del<br />

linguaggio come città del socialismo realizzato, nelle condutture <strong>della</strong><br />

quale scorrono luce e veleno, acqua e sporcizia 56 . Di qui si moltiplicano<br />

le metafore <strong>della</strong> <strong>male<strong>di</strong>zione</strong>: il linguaggio è l’ostetrica dalle <strong>di</strong>ta<br />

sporche che uccidono la partoriente 57 , è la sferza con la quale ognuno<br />

è guar<strong>di</strong>ano e schiavo dell’altro, è la scimmia addomesticata del circo<br />

che si crede un artista, è la <strong>di</strong>avolessa che ha promesso all’uomo i frutti<br />

dell’albero <strong>della</strong> conoscenza e in cambio gli ha dato un frutto cancerogeno,<br />

parole per cose, etichette per bottiglie vuote 58 ; il linguaggio è il<br />

vecchio frac del signore <strong>di</strong> Gerlach, rammendato fino a non essere più<br />

lo stesso 59 , è l’aringa immersa nella soluzione salata del pensiero 60 , è il<br />

veleno prodotto dall’uomo che gli antichi chiamavano antropotoxina 61 .<br />

L’accumulo <strong>di</strong> metafore vecchie e nuove mo<strong>di</strong>fica il significato <strong>di</strong> quelle<br />

tra<strong>di</strong>zionali e rivela non solo che il linguaggio non è un catalogo del<br />

mondo, ma che alla sua essenza appartiene il malinteso, l’incomprensione,<br />

la sinonimia (in senso aristotelico, per cui il bue e l’uomo, in<br />

quanto animali, sono sinonimi) e i più gravi malintesi si manifestano<br />

nella morale, nella politica, nel <strong>di</strong>ritto, nella cultura, dove «le parole<br />

ridono come a casa propria» 62 .<br />

Il crescendo delle metafore ha però anche un senso teoretico, vuole<br />

condurci alla tesi che la <strong>parola</strong> in quanto tale è metafora; essa non ha<br />

a che vedere né con il mondo esterno, né con quello interno, è carica<br />

solo <strong>della</strong> sua storia, non evoca immagini, ma «immagini <strong>di</strong> immagini<br />

<strong>di</strong> immagini» in uno sviluppo senza fine <strong>di</strong> metafora in metafora 63 .<br />

Questa autoreferenzialità <strong>della</strong> <strong>parola</strong> ha senso soltanto nella poesia,<br />

dove la <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>di</strong>venta magia e le parole, che conservano la ricchezza<br />

<strong>della</strong> metafora originaria, hanno peso – scrive Mauthner citando<br />

Maeterlink – grazie al silenzio in cui sono immerse 64 . Il silenzio <strong>di</strong> una<br />

mistica senza Dio, che si pone con il sentimento <strong>di</strong> fronte a una realtà<br />

inafferrabile al pensiero, è l’altro esito dello scetticismo linguistico <strong>di</strong><br />

Mauthner. L’invocazione del silenzio, apparentemente in contrad<strong>di</strong>zione<br />

con la scrittura <strong>di</strong> migliaia e migliaia <strong>di</strong> pagine, rimane un avvertimento<br />

critico: guardando al passato – egli scrive – la critica del linguaggio è<br />

scetticismo, guardando al futuro è misticismo 65 . <strong>La</strong> nostra analisi si<br />

limita allo sguardo verso il passato.<br />

L’esposizione <strong>della</strong> tesi che la <strong>parola</strong> è metafora si trova circa a<br />

16


metà del secondo volume dei Beiträge e si colloca dopo la critica alla<br />

questione dell’origine del linguaggio. Rovesciando il rapporto trascendentale<br />

tra Ursprung ed Entstehung, Mauthner rifiuta con decisione la<br />

questione delle origini del linguaggio e preferisce parlare <strong>di</strong> evoluzione<br />

<strong>della</strong> lingua, proponendoci <strong>di</strong> provare <strong>di</strong> nuovo con una metafora che<br />

prende il concetto nel senso più ovvio e comune e finisce con una<br />

nuova domanda su questo senso. <strong>La</strong> domanda è posta volontariamente<br />

in modo banale: qual è il nutrimento che fa crescere il linguaggio?<br />

<strong>La</strong> metafora dell’organismo, già criticata altrove 66 , introduce la tesi<br />

centrale: il linguaggio, che forse deriva dalle espressioni primor<strong>di</strong>ali<br />

dello stupore, <strong>della</strong> gioia e del dolore, si sviluppa – e questa è per<br />

il nostro autore una vera e propria ipotesi – attraverso la metafora:<br />

«il linguaggio – scrive – è cresciuto e ancor oggi cresce a partire dalla<br />

memoria umana (e memoria umana è a sua volta solo linguaggio)<br />

soltanto me<strong>di</strong>ante la trasposizione (Übertragung, metafeJrein) <strong>di</strong> una<br />

<strong>parola</strong> definita (fertig) su un’impressione indefinita, me<strong>di</strong>ante confronto<br />

dunque, me<strong>di</strong>ante questo atto eterno del à-peu-près, me<strong>di</strong>ante questo<br />

infinito circoscrivere e parlar figurato, che costituisce la forza artistica<br />

e la debolezza logica del linguaggio» 67 .<br />

L’idea del carattere essenzialmente metaforico del linguaggio non è<br />

certo una concezione originale <strong>di</strong> Mauthner; se ne potrebbero cercare<br />

le tracce in innumerevoli fili che annodano la storia <strong>della</strong> filosofia con<br />

la rinascita <strong>della</strong> retorica, con le teorie del conoscere, con le ricerche<br />

psicologiche e la nascita <strong>della</strong> semantica. Le tracce lontane vengono<br />

cercate da Mauthner nell’analisi gnoseologica del rapporto tra la <strong>parola</strong><br />

e la cosa degli empiristi inglesi e nella riflessione sul linguaggio<br />

<strong>di</strong> Vico, Hamann e von Humboldt; gli influssi più <strong>di</strong>retti si possono<br />

in<strong>di</strong>viduare invece nel <strong>di</strong>battito psicologico e linguistico <strong>della</strong> fine Ottocento.<br />

Del resto il carattere originale <strong>della</strong> posizione <strong>di</strong> Mauthner<br />

non consiste tanto nella elaborazione <strong>di</strong> una nuova teoria, dato che<br />

tutti gli elementi che ne fanno parte si possono rintracciare nei suoi<br />

predecessori, ma – come ha notato Weiler – nel sottomettere questi<br />

elementi all’idea dominante <strong>della</strong> critica del linguaggio 68 . Questa impostazione<br />

richiede che anche la nostra ricerca debba considerare le<br />

tesi dell’autore in continuo <strong>di</strong>alogo con le posizioni teoriche che egli<br />

riprende, critica e decostruisce.<br />

<strong>La</strong> prima fonte citata dal nostro autore è Locke e più volte egli si<br />

ripromette <strong>di</strong> de<strong>di</strong>care un’analisi adeguata al suo libro sul linguaggio, il<br />

terzo del Saggio sull’intelligenza umana. Il pensatore inglese non considera<br />

però la metafora come uno strumento per comprendere la natura<br />

del linguaggio in generale; quando parla <strong>della</strong> metafora, la considera<br />

come un vero e proprio inganno nel suo alludere a incerte somiglianze<br />

più che analizzare e <strong>di</strong>stinguere 69 . Mauthner è interessato però a<br />

questo elemento <strong>di</strong> ambiguità che egli ritrova nel rapporto stabilito<br />

da Locke tra <strong>parola</strong> e idea, nell’affermazione che le parole sono segni<br />

17


sensibili per le idee; il che stava a significare che esse non sono segni<br />

delle cose e nemmeno delle idee che stanno nella mente dell’altro,<br />

che il loro contenuto rappresentativo è del tutto privato: l’esempio <strong>di</strong><br />

Locke è quello dell’oro, nel quale il bambino vede solo il colore brillante,<br />

mentre altri possono aggiungervi il peso, la malleabilità e altre<br />

caratteristiche. Ma la soggettività <strong>della</strong> rappresentazione viene arginata<br />

da Locke con la <strong>di</strong>stinzione tra vari tipi <strong>di</strong> idee; le idee semplici,<br />

corrispondenti alle qualità sensibili, resistono all’albero <strong>di</strong> Porfirio e<br />

alla definizione per via <strong>della</strong> <strong>di</strong>fferenza specifica (non c’è nulla che<br />

posso tralasciare dall’idea <strong>di</strong> bianco e <strong>di</strong> rosso per farle concordare<br />

nel genere “colore”), e in questa loro originarietà possono essere in<br />

qualche modo esibite e riprodotte. Nei mo<strong>di</strong> misti invece, come nel<br />

caso <strong>di</strong> “giustizia” o “beatitu<strong>di</strong>ne”, abbiamo a che fare con concetti<br />

astratti e combinati in modo del tutto arbitrario; nel caso poi delle<br />

sostanze egli sembra propenso a considerarle come una collazione <strong>di</strong><br />

caratteristiche da enumerare 70 , <strong>di</strong>fficilmente risolvibile in una chiara<br />

determinazione del significato. Nella definizione dell’oro allora l’enumerazione<br />

aggiungerà al colore giallo la duttilità, la fusibilità, la fissità<br />

e così via senza pretendere <strong>di</strong> penetrare nella sua essenza reale che ci<br />

rimane sconosciuta. Questa cautela critica è alla base dell’acuta analisi<br />

dell’ambiguità e delle oscurità del linguaggio che si accompagna alla<br />

consapevolezza <strong>della</strong> <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> questo compito: «tanto è <strong>di</strong>fficile illustrare<br />

il vario significato e le molteplici imperfezioni delle parole,<br />

quando non abbiamo altro che parole per farlo», una frase che, abbiamo<br />

visto, compare tra le citazioni che introducono la trattazione<br />

dell’essenza del linguaggio nel primo volume dei Beiträge 71 . In Locke<br />

Mauthner trova quin<strong>di</strong> l’attenzione posta sulla funzione del linguaggio<br />

nel processo stesso <strong>della</strong> conoscenza, l’idea <strong>della</strong> <strong>di</strong>screpanza tra contenuto<br />

rappresentativo e <strong>parola</strong> e quin<strong>di</strong> la necessità, nella formazione<br />

dei concetti astratti, <strong>di</strong> far uso <strong>di</strong> parole provenienti dalle operazioni<br />

su cose sensibili trasferendole ai processi del pensiero 72 .<br />

Per l’affermazione dell’origine metaforica del linguaggio è poi ancor<br />

più pertinente il riferimento a Vico, che egli cita subito dopo 73 . Nel<br />

pensatore napoletano Mauthner trova prima <strong>di</strong> tutto un’attenzione alla<br />

lingua come documento <strong>della</strong> storia dell’umanità e al suo legame con<br />

la “storia delle cose”, in una prospettiva antirazionalistica, come <strong>di</strong>mostra<br />

l’altra citazione posta all’inizio dei Beiträge, accanto a quella <strong>di</strong><br />

Locke: «homo non intelligendo fit omnia». Questa impostazione trova<br />

conferma nel racconto metaforico delle origini <strong>della</strong> storia ideale eterna<br />

che fa precedere geneticamente il parlar figurato all’uso dei termini<br />

propri: la metafora allora, come «accorciata Favoletta», condensa in un<br />

universale fantastico – phantastische Gattungsbegriff, traduce Mauthner<br />

– gli eventi <strong>della</strong> natura e del cielo e li attribuisce all’immagine <strong>di</strong> una<br />

<strong>di</strong>vinità, il nome <strong>della</strong> quale prende forma dal grido <strong>della</strong> paura. Tutte<br />

le lingue procedono quin<strong>di</strong> nel dare alle cose inanimate «trasporti del<br />

18


corpo animato, e delle sue parti, e degli humani sensi e umane passioni»,<br />

il che corrisponde a una delle definizioni <strong>di</strong> Quintiliano 74 . Vico procede<br />

oltre nell’esame <strong>della</strong> metonimia, che veste concetti astratti con<br />

l’effetto al posto <strong>della</strong> causa (la morte pallida), e <strong>della</strong> sineddocche che<br />

trasporta la parte al tutto, mentre assegna la figura dell’ironia a tempi<br />

più tar<strong>di</strong>, quelli <strong>della</strong> riflessione 75 .<br />

Mauthner scrive però <strong>di</strong> essere arrivato a Vico solo in un secondo<br />

momento, dopo aver elaborato la propria teoria e attraverso una suggestione<br />

<strong>di</strong> Goethe 76 ; lo considera più un precursore <strong>della</strong> critica del<br />

linguaggio che uno stimolo <strong>di</strong>retto al proprio lavoro. Del resto l’attenzione<br />

alla funzione <strong>della</strong> metafora non solo in ambito retorico e poetico,<br />

ma come strumento teorico in grado <strong>di</strong> spiegare aspetti fondamentali<br />

dell’evoluzione del linguaggio in generale, era elemento acquisito nella<br />

filosofia e nella linguistica dell’Ottocento tedesco. Mauthner stesso<br />

traccia un filo che collega Vico, Hamann e Herder 77 e, nonostante<br />

sia decisamente dalla parte <strong>di</strong> Herder nel negare l’origine <strong>di</strong>vina del<br />

linguaggio 78 , rivela una maggiore affinità e simpatia per le affermazioni<br />

oracolari del Mago del Nord che aveva letto nelle figure <strong>della</strong> Bibbia la<br />

traduzione del <strong>di</strong>aletto <strong>di</strong> Dio nel linguaggio dell’uomo.<br />

Hamann è fonte <strong>di</strong> ispirazione in primo luogo per lo stile, per il<br />

suo lento prendere avvio nel groviglio dei titoli, delle de<strong>di</strong>che spesso<br />

occasionali e incomprensibili, dei motti duplici e triplici 79 , per la sua<br />

sensibilità per la lingua che accosta la profezia a intermezzi scurrili,<br />

per la sua pre<strong>di</strong>lezione per la maschera, la paro<strong>di</strong>a e, non ultimo, la<br />

metafora. E le metafore che scorrono una sull’altra nell’Aesthetica in<br />

nuce <strong>di</strong>panano la tesi sull’origine del linguaggio dalla poesia, «lingua<br />

materna del genere umano» 80 , nel ventaglio delle immagini che dalla<br />

prima <strong>parola</strong> <strong>di</strong> Dio, “sia la luce”, alla creazione dell’uomo a sua<br />

immagine, proseguono in un crescendo <strong>di</strong> citazioni che devono essere<br />

state modello al lavoro <strong>di</strong> Mauthner. <strong>La</strong> trasposizione che avviene<br />

nel processo metaforico viene spiegata da Hamann con una ulteriore<br />

metafora: «pensare è tradurre: da un linguaggio <strong>di</strong> angeli in un linguaggio<br />

<strong>di</strong> uomini, ossia pensieri in parole, fatti in nomi, immagini in<br />

segni, che possono essere poetici o kyriologici, storici, o simbolici o<br />

geroglifici… e filosofici o caratteristici» 81 e questa stessa esigenza <strong>di</strong><br />

rendere in immagine, <strong>di</strong> mettere «mani, pie<strong>di</strong>, ali» 82 alle astrazioni e<br />

alle ipotesi è alla base <strong>della</strong> metacritica alla Critica <strong>della</strong> ragion pura<br />

dell’amico Kant, che Mauthner cita a più riprese. In questo breve testo<br />

Hamann aveva richiamato la tesi <strong>di</strong> Berkeley, ripresa da Hume, che<br />

tutte le idee generali non sono altro che idee particolari congiunte a<br />

una certa <strong>parola</strong> che dà loro un significato più esteso e fa sì, all’occorrenza,<br />

che ne richiamino altre in<strong>di</strong>viduali simili a loro. Il linguaggio<br />

<strong>di</strong>ventava così, come sottolinea Mauthner, primo e ultimo organo e<br />

criterio <strong>della</strong> ragione, senza altra garanzia all’infuori dell’uso e <strong>della</strong><br />

tra<strong>di</strong>zione 83 . Contro l’idolo <strong>della</strong> pura ragione Hamann richiama la<br />

19


priorità genealogica del linguaggio: suoni e lettere sono le pure forme<br />

a priori, dalle quali sorge la lingua più antica <strong>della</strong> musica, come dal<br />

ritmo del polso e del respiro la prima misura del tempo e dalle figure<br />

del <strong>di</strong>segno e <strong>della</strong> pittura la determinazione dello spazio 84 . Non<br />

idee innate, <strong>di</strong>ce, ma certo matrici che vanno a ricomporre la frattura<br />

kantiana tra sensibilità e intelletto, facendo scorrere tra l’una e l’altro<br />

schiere <strong>di</strong> intuizioni e <strong>di</strong> concetti.<br />

Si può quin<strong>di</strong> considerare Mauthner come il continuatore <strong>di</strong> questa<br />

metacritica <strong>della</strong> ragione ed egli stesso ha la pretesa <strong>di</strong> presentare le<br />

proprie ricerche come continuazione e completamento dell’impresa<br />

del filosofo <strong>di</strong> Königsberg, come critica <strong>della</strong> ragione impura – Kritik<br />

der unreinen Vernunft, scrive Lüktenhaus a proposito, usando però<br />

un’espressione <strong>di</strong> Gerber 85 – come trasformazione <strong>della</strong> critica <strong>della</strong><br />

ragione in critica del linguaggio. Il primo passo in questa <strong>di</strong>rezione è<br />

stato fatto, secondo Mauthner, proprio da Kant nella Kritik der Urteilskraft,<br />

da intendersi come una critica dei concetti e delle parole<br />

nell’ambito del bello; «sarebbe stato meglio – scrive – che fosse stato<br />

così anche per la ragion pura: avremmo la critica del linguaggio» 86 .<br />

Certamente la <strong>di</strong>samina kantiana <strong>della</strong> forma soggettiva del giu<strong>di</strong>zio<br />

estetico, <strong>della</strong> funzione dell’immaginazione, dell’analogia e delle ipotiposi<br />

simboliche nella terza critica doveva essere importante per Mauthner,<br />

ma egli non entra nel merito.<br />

Le metacritiche <strong>di</strong> Hamann e Herder costituiscono poi solo una<br />

prima tappa <strong>di</strong> un processo <strong>di</strong> relativizzazione e <strong>di</strong> storicizzazione dell’apriori<br />

che prosegue nel corso dell’Ottocento con la «trasposizione del<br />

trascendentale dal pensiero al linguaggio» attuata da von Humboldt 87 ,<br />

con la <strong>di</strong>alettica tra a priori e a posteriori nello spirito dei popoli <strong>della</strong><br />

Völkerpsychologie <strong>di</strong> Steinthal e si conclude nell’estrema <strong>di</strong>namicizzazione<br />

delle analisi dei neogrammatici sull’uso <strong>della</strong> lingua e lo scarto in<strong>di</strong>viduale<br />

88 . Mauthner trae le conseguenze <strong>di</strong> questo percorso e in questo<br />

senso lo si può senz’altro considerare, come scrive Lia Formigari,<br />

partecipe <strong>di</strong> un approccio “attualistico” al tema del linguaggio che ha<br />

il suo lontano ascendente nel concetto <strong>di</strong> ejnevrgeia <strong>di</strong> von Humboldt<br />

e nello stesso tempo «il punto <strong>di</strong> non ritorno» <strong>di</strong> quella tra<strong>di</strong>zione 89 .<br />

<strong>La</strong> ripresa <strong>della</strong> visione <strong>della</strong> lingua come «qualcosa <strong>di</strong> continuamente,<br />

in ogni attimo, transeunte», non opera (e[rgon), ma attività (ejnevrgeia),<br />

secondo la famosa definizione <strong>di</strong> von Humboldt 90 , avviene infatti solo dal<br />

lato <strong>della</strong> definizione dell’atto in<strong>di</strong>viduale del parlare, mentre l’accento<br />

posto sulla produttività conoscitiva, sulla creazione <strong>della</strong> soggettività e la<br />

fiducia nella corrispondenza tra rappresentazioni proprie e altrui, fondata<br />

sul riferimento alla totalità <strong>della</strong> lingua, vengono lasciate cadere nella<br />

critica antimetafisica. Nello stesso tempo la frattura che si è aperta tra<br />

contenuto rappresentativo e <strong>parola</strong> pronunciata, teorizzata dal principale<br />

esponente dei neogrammatici, Hermann Paul, e ripresa da Mauthner,<br />

rappresenta davvero un «punto <strong>di</strong> non ritorno».<br />

20


Nella ricostruzione storica delle teorie sul linguaggio del secondo<br />

volume dei Beiträge von Humboldt rimane un riferimento molto importante<br />

e l’ammirazione per la sua presa <strong>di</strong> posizione politica autenticamente<br />

liberale e contraria a ogni <strong>di</strong>spotismo si mescola al consenso<br />

per la tesi che le lingue in ultima analisi – con una leggera forzatura <strong>di</strong><br />

Mauthner – rimangono creazioni dell’in<strong>di</strong>viduo 91 . A Mauthner piace<br />

il carattere asistematico <strong>di</strong> un pensiero che non perviene a definizioni<br />

conclusive, e non tanto perché le consideri ovvie, ma proprio perché<br />

non ne viene davvero a capo, forse per il carattere circolare <strong>di</strong> ogni<br />

<strong>di</strong>scorso sul linguaggio. Queste osservazioni rimandano all’impossibilità<br />

<strong>di</strong> cogliere l’essenza del linguaggio se non per mezzo <strong>di</strong> metafore, alla<br />

considerazione <strong>della</strong> lingua come un tessuto, una «rete <strong>di</strong> analogie»<br />

in cui si è cristallizzata una visione del mondo 92 , come un cerchio dal<br />

quale è possibile uscire solo passando in un’altra lingua – metafora<br />

questa che ritorna nei Beiträge – ma in una visione unitaria, a sua volta<br />

resa in metafora con l’immagine del prisma 93 .<br />

Mauthner passa invece subito alla critica delle formulazioni, a suo<br />

parere oscillanti e contrad<strong>di</strong>ttorie, sullo spirito che creerebbe la lingua<br />

e sulla lingua che creerebbe lo spirito; ripete l’accusa <strong>di</strong> Steinthal nei<br />

confronti del maestro, <strong>di</strong> voler cioè dedurre il linguaggio dal pensiero,<br />

mentre sarebbe più semplice ricavare dal linguaggio le leggi del<br />

pensiero. In particolare il nostro autore riprende il concetto <strong>di</strong> innere<br />

Sprachform, che von Humboldt aveva posto a fondamento <strong>della</strong> <strong>di</strong>versa<br />

attenzione delle lingue ai <strong>di</strong>versi aspetti delle cose, del prevalere <strong>della</strong><br />

componente intellettiva oppure <strong>di</strong> quella sintetica, e gli conferisce<br />

un senso del tutto <strong>di</strong>verso ed empirico. Ritiene che questo concetto<br />

sia finalistico e contrad<strong>di</strong>ttorio, perché assegna una forma a qualcosa<br />

<strong>di</strong> interiore che non può aver forma, in<strong>di</strong>cando talora l’insieme delle<br />

idee che fanno riferimento alla lingua, talora l’uso del linguaggio 94 . In<br />

concreto però il filosofo illuminista, come Mauthner non si fa scrupolo<br />

<strong>di</strong> definire von Humboldt 95 , intenderebbe per forma interiore <strong>della</strong><br />

lingua una cosa <strong>di</strong>versa a ogni paragrafo: la logica del pensiero come<br />

essa si esprime nella grammatica oppure la grammatica astratta come<br />

si esprime nelle singole forme linguistiche e qualche volta persino il<br />

tertium comparationis che compare alla fantasia nella formazione <strong>di</strong><br />

nuove parole 96 . Non dobbiamo allora prenderlo alla lettera, la forma<br />

interna è soltanto la nostra sensibilità (Gefühl) linguistica per la nostra<br />

madrelingua che ci fa intendere una <strong>parola</strong> inesistente come “flierbte”<br />

come un imperfetto del verbo altrettanto inesistente “flierben”.<br />

Per <strong>di</strong>mostrare la sua tesi <strong>della</strong> <strong>parola</strong> come metafora, Mauthner attinge<br />

però al bagaglio delle argomentazioni e degli esempi degli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

semantica, che non solo avevano in<strong>di</strong>viduato nella creazione dell’espressione<br />

figurata uno dei principali processi che accompagnano il mutamento<br />

semantico, ma ne avevano fornito anche una trattazione analitica.<br />

Mauthner conosce e cita numerosi stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> semasiologia, il filone <strong>di</strong><br />

21


icerca che nella Germania dell’Ottocento costituisce la premessa <strong>della</strong><br />

nascita <strong>della</strong> semantica, <strong>di</strong>sciplina inaugurata dalla pubblicazione, nel<br />

1897 a Parigi, del testo <strong>di</strong> Michel Bréal Essai de sémantique. Science des<br />

significations. Di Bréal cita il detto: «noi siamo, più o meno, dei <strong>di</strong>zionari<br />

viventi <strong>della</strong> lingua francese» 97 , invero per criticarlo subito dopo per la<br />

mancanza <strong>di</strong> un approfon<strong>di</strong>mento psicologico. Ma l’approccio semantico<br />

dello stu<strong>di</strong>oso francese era vicino alla critica del linguaggio per il concetto<br />

non normativo delle leggi linguistiche che si limitano a rilevare delle<br />

regolarità, per la concezione del rapporto tra le parole e le cose e per<br />

l’importanza centrale <strong>della</strong> metafora. <strong>La</strong> logica del linguaggio è per Bréal<br />

una logica <strong>di</strong> tipo particolare, avanza per tappe, devia, sosta e riparte,<br />

procede per analogie e contiene continui riferimenti soggettivi. Bréal<br />

de<strong>di</strong>ca poi una particolare attenzione alla metafora, affermando come<br />

sia spesso <strong>di</strong>fficile riconoscere le metafore più antiche, ormai scolorite;<br />

esse poi non rimangono legate alla lingua in cui nascono, ma viaggiano<br />

da un i<strong>di</strong>oma a un altro. Questo contribuisce a dare alla <strong>parola</strong> un<br />

carattere polisemico: il linguaggio designa le cose, ma in modo incompleto<br />

e inesatto; i sostantivi racchiudono solo quella parte <strong>di</strong> verità che<br />

può essere racchiusa da un nome e che è necessariamente più piccola<br />

quanto maggiore è il grado <strong>di</strong> realtà posseduto dall’oggetto 98 . «Il linguaggio<br />

– conclude con una tesi che Mauthner ripete più volte – può<br />

solo restituirci l’eco del nostro stesso pensiero» 99 .<br />

Il linguista più vicino a Mauthner è però Hermann Paul: egli lo<br />

cita spesso, anche se talora in maniera polemica 100 . L’esponente principale<br />

del movimento dei neogrammatici, influenzato dal darwinismo<br />

<strong>di</strong> Spencer, aveva proposto un approccio ra<strong>di</strong>calmente empiristico alla<br />

scienza del linguaggio, considerata come <strong>di</strong>sciplina storica, <strong>di</strong>samina<br />

delle espressioni degli uomini nel loro operare concreto. Mauthner in<strong>di</strong>ca<br />

il passo in avanti compiuto da Paul rispetto alla Völkerspychologie<br />

nel focalizzare l’interesse sull’in<strong>di</strong>viduo, sull’uso linguistico del parlante<br />

e sulle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità <strong>di</strong> comprensione da parte dell’interlocutore,<br />

e <strong>di</strong> giungere così all’idea fondamentale che ogni innovazione<br />

fonetica e semantica sia opera dell’in<strong>di</strong>viduo 101 . Nei Prinzipien der<br />

Sprachgeschichte Mauthner poteva trovare un’impostazione psicologica<br />

<strong>di</strong> stampo herbartiano, centrata sul meccanismo, conscio e inconscio,<br />

<strong>di</strong> aggregazione delle rappresentazioni nella mente dell’in<strong>di</strong>viduo, e<br />

un’indagine sul rapporto tra questo piano, privato e incomunicabile, e<br />

l’uso linguistico. <strong>La</strong> spiegazione storico-genetica dei mutamenti fonetici<br />

e semantici, fondata sulla <strong>di</strong>alettica <strong>di</strong> significato usuale <strong>di</strong> un termine e<br />

<strong>di</strong> significato occasionale 102 , era basata sul riconoscimento del carattere<br />

polisemico <strong>di</strong> molte parole in uso e sulla necessità quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> rendere<br />

tale significato univoco e concreto allo scopo <strong>della</strong> comprensione tra<br />

parlanti. Queste deviazioni dall’uso comune venivano classificate da Paul<br />

secondo gli opposti principî <strong>della</strong> specializzazione 103 e dell’ampliamento<br />

del significato 104 , principî ai quali egli aveva aggiunto il trasferimento<br />

22


a quanto collegato nello spazio, nel tempo e per causa 105 . <strong>La</strong> metafora<br />

<strong>di</strong>ventava allora uno dei mezzi più importanti per la creazione <strong>di</strong> nomi<br />

per complessi rappresentativi per i quali non esistono ancora parole<br />

che li designino, ma anche per quelli che già possedevano un nome,<br />

costituendo un complesso <strong>di</strong> immagini se<strong>di</strong>mentate che caratterizza le<br />

<strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> interesse degli in<strong>di</strong>vidui e dei popoli.<br />

<strong>La</strong> rassegna dei tipi <strong>di</strong> metafora <strong>di</strong> Paul non rappresenta però soltanto<br />

un fondo <strong>di</strong> «idee ed esempi» a cui attingere 106 : il nuovo rapporto<br />

stabilito dall’analisi dei neogrammatici tra linguistica e psicologia<br />

e il riferimento a Herbart impegnano Mauthner a fare i conti con la<br />

tra<strong>di</strong>zione degli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> psicologia 107 , aprendo un altro ventaglio <strong>di</strong><br />

prospettive che richiedono una sintesi.<br />

3. Metafora e rappresentazione<br />

In un primo momento sembra senz’altro <strong>di</strong> poter definire la concezione<br />

mauthneriana <strong>della</strong> metafora con il cattivo attributo <strong>di</strong> “psicologica”,<br />

riconducendola alla categoria peggiorativa <strong>di</strong> “psicologismo”,<br />

se inten<strong>di</strong>amo con questo termine la <strong>di</strong>ssoluzione dell’apriori e la sua<br />

spiegazione in termini genetici. Lo stesso Mauthner riba<strong>di</strong>sce più volte<br />

<strong>di</strong> voler ridurre la filosofia a psicologia e per la linguistica afferma che<br />

essa costituisce soltanto un capitolo <strong>della</strong> psicologia 108 . Nello stesso<br />

tempo però il nostro filosofo afferma che lo psicologismo «sarebbe la<br />

verità, se la nostra psiche non dovesse parlare» 109 , se la <strong>parola</strong> potesse,<br />

per così <strong>di</strong>re, assomigliare alla rappresentazione. Ma l’idea <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

come metafora è collegata al suo carattere polisemico, ambiguo, non<br />

riconducibile a un concetto definito, ma a una pluralità <strong>di</strong> rappresentazioni;<br />

in ogni momento – egli scrive – sono presenti una quantità <strong>di</strong><br />

rappresentazioni in<strong>di</strong>viduali che stanno pronte fuori <strong>della</strong> «cruna <strong>della</strong><br />

nostra coscienza» 110 e che passiamo velocemente in rassegna. Alla <strong>parola</strong><br />

corrisponde la se<strong>di</strong>mentazione <strong>di</strong> rappresentazioni simili, mai eguali<br />

però, che fluttuano una sull’altra, senza poter combaciare in modo esatto.<br />

Più avanti l’autore tornerà a riflettere sul termine “rappresentazione”<br />

che già in<strong>di</strong>cherebbe un’attività spirituale complessa, richiedendo a sua<br />

volta la me<strong>di</strong>azione del linguaggio 111 : provvisoriamente possiamo <strong>di</strong>re<br />

allora che la <strong>parola</strong> evoca un mondo <strong>di</strong> associazioni, un complesso <strong>di</strong><br />

sensazioni e <strong>di</strong> percezioni sensibili. Gli organi <strong>di</strong> senso a loro volta non<br />

sono poi certamente lo specchio del mondo, essi hanno avuto un’evoluzione<br />

casuale, orientata dai criteri dell’economia e del bisogno, costituiscono<br />

quin<strong>di</strong> dei filtri, dei setacci, che lasciano passare soltanto una<br />

minima parte delle caratteristiche delle cose 112 . Questa selezione è stata<br />

essenziale per la vita quoti<strong>di</strong>ana, perché una configurazione più precisa<br />

degli organi <strong>di</strong> senso che ci facesse percepire <strong>di</strong>fferenze microscopiche,<br />

come ad esempio l’intera variazione delle oscillazioni ondulatorie stu-<br />

23


<strong>di</strong>ate dalla fisica nel campo dei suoni e dei colori, non avrebbe reso<br />

possibile l’orientamento dell’uomo nel mondo.<br />

Sul piano gnoseologico una conoscenza trasparente del mondo rimane<br />

impossibile: intelletto e mondo non combaciano, non si adattano l’un<br />

l’altro come un guanto alla mano o la mano al guanto (e con questo rovesciamento<br />

allude alla rivoluzione copernicana <strong>di</strong> Kant, e – stando alla<br />

metafora – non ci è nemmeno dato sapere se nel guanto vi sia davvero<br />

una mano 113 ); il mondo svanisce nell’illusione, <strong>di</strong>ssolto nelle ombre del<br />

mito <strong>della</strong> caverna <strong>di</strong> Platone e coperto dal velo <strong>di</strong> Maya delle antiche<br />

dottrine dei Veda interpretate da Schopenhauer, coinvolgendo anche<br />

il soggetto nel mistero dell’inconoscibile. Ma lo scetticismo ra<strong>di</strong>cale,<br />

applicato all’ambito del soggetto del conoscere, apre un nuovo piano<br />

<strong>di</strong> indagine per la critica del linguaggio e la seconda parte del primo<br />

volume dei Beiträge si presenta come un’acuta <strong>di</strong>samina delle teorie<br />

psicologiche del tempo che ne in<strong>di</strong>vidua alcune importanti aporie. <strong>La</strong><br />

duplicazione del mondo attuata dal materialismo, dallo spiritualismo, ma<br />

anche dal parallelismo psico-fisico ha, secondo Mauthner, come imme<strong>di</strong>ata<br />

conseguenza l’applicazione al mondo interno dei concetti elaborati<br />

per il mondo esterno, con il risultato <strong>di</strong> costruire enigmi senza soluzione<br />

sul rapporto tra anima e corpo e problemi senza senso, come il tentativo<br />

<strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare la collocazione dell’anima o la <strong>di</strong>atriba sull’anima degli<br />

animali 114 . Allo stesso modo la psicologia fisiologica, che scopre nel<br />

cervello i correlati fisici delle associazioni psichiche, non farebbe altro<br />

che raddoppiare l’enigma 115 , e Fechner, che chiama parallele due cose<br />

che invero coincidono, risolverebbe il problema del rapporto tra fisico<br />

e psichico soltanto a parole: i pesci – commenta Mauthner con una<br />

metafora – vedono la superficie del mare da sotto, gli uccelli dall’alto<br />

e in psicologia noi ci troviamo nell’imbarazzante situazione <strong>di</strong> un uomo<br />

che possa guardare solo da un lato lo specchio del mare 116 . Anima e<br />

corpo sono quin<strong>di</strong> solo parole, metafore appunto; l’io, con i suoi confini<br />

incerti e incostanti, illusione delle illusioni 117 , la coscienza «vuoto<br />

pleonasmo» 118 : lo specchio del nostro cervello riflette <strong>di</strong> volta in volta<br />

quello che gli è davanti, ma non si può guardarvi dentro come in uno<br />

specchio oculare 119 .<br />

Mauthner afferma <strong>di</strong> aver maturato queste sue convinzioni nel suo<br />

periodo <strong>di</strong> formazione a Praga; fa risalire l’idea <strong>della</strong> povertà dei nostri<br />

cinque sensi, <strong>della</strong> struttura contingente <strong>della</strong> sensibilità, alla lettura <strong>di</strong><br />

Nietzsche (ma su questo più avanti) e sostiene <strong>di</strong> essere stato stimolato<br />

alla critica del linguaggio da una conferenza sul principio <strong>di</strong> conservazione<br />

del lavoro che Ernst Mach aveva tenuto a Praga nel 1872. Si<br />

tratta invero <strong>di</strong> una ricostruzione a posteriori 120 , ma questo non toglie<br />

che si possano rintracciare nelle pagine dei Beiträge molte suggestioni<br />

che derivano con evidenza dalla rilettura del lavoro <strong>di</strong> Mach.<br />

Il testo <strong>della</strong> prolusione contiene una <strong>di</strong>samina critica dei concetti<br />

fondamentali <strong>della</strong> fisica considerati secondo il motto «la storia ha fatto<br />

24


tutto, la storia può mutare tutto» 121 . I concetti, sostiene Mach, sono<br />

astrazioni che debbono essere sempre riconducibili ai fenomeni sussunti;<br />

per alcuni concetti abbiamo scordato il percorso compiuto per<br />

raggiungerli e li chiamiamo metafisici 122 . <strong>La</strong> scienza si deve limitare alla<br />

connessione più ampia possibile dei fatti, senza cercare <strong>di</strong> immaginare<br />

qualcosa <strong>di</strong>etro i fenomeni, e deve essere consapevole che quello che<br />

li tiene insieme è sempre una forma arbitraria, che varia con il nostro<br />

punto <strong>di</strong> vista culturale 123 . Universalizzare questo punto <strong>di</strong> vista,<br />

come tenta <strong>di</strong> fare la concezione meccanica del mondo, significa, per<br />

Mach, ritornare alla metafisica; la conclusione è kantiana: se il mondo<br />

è una macchina, in cui il movimento <strong>di</strong> certe parti è determinato dal<br />

movimento <strong>di</strong> altre, nulla è però determinato per l’intera macchina 124 .<br />

Accanto poi al proce<strong>di</strong>mento che collega i fenomeni, la scienza ha<br />

anche il compito <strong>di</strong> scomporre i fatti complessi in fatti più semplici,<br />

non ulteriormente scomponibili: questi fatti-base, come egli li chiama,<br />

non sono altro che incomprensibilità non abituali ridotte a incomprensibilità<br />

abituali e la scelta <strong>di</strong> questi fatti-base «è questione <strong>di</strong> como<strong>di</strong>tà,<br />

storia e abitu<strong>di</strong>ne» 125 . In breve, la conferenza <strong>di</strong> Praga conteneva tutti<br />

i presupposti per una critica del linguaggio <strong>della</strong> metafisica nella scienza,<br />

come Mauthner riconosce più volte.<br />

<strong>La</strong> critica al meccanicismo veniva poi confermata dalle ricerche<br />

successive dello scienziato sullo spazio e sul tempo <strong>della</strong> percezione,<br />

sui suoni e sui colori, esposte nel libro Die Analyse der Empfindungen,<br />

la cui prima e<strong>di</strong>zione è del 1886. Nelle Osservazioni preliminari<br />

antimetafisiche, che introducono le ricerche fisiologiche, il punto <strong>di</strong><br />

partenza del nostro conoscere viene descritto fenomenologicamente:<br />

«colori, suoni, calore, pressioni, spazi, tempi ecc. sono connessi fra<br />

loro in modo molteplice e ad essi sono legati <strong>di</strong>sposizioni, sentimenti e<br />

volizioni. Da questo tessuto emerge ciò che è relativamente più stabile<br />

e durevole, imprimendosi nella memoria ed esprimendosi nella <strong>parola</strong>.<br />

Come relativamente più durevoli si segnalano innanzitutto complessi<br />

coor<strong>di</strong>nati (funzionalmente) nello spazio e nel tempo <strong>di</strong> colori, suoni,<br />

pressioni ecc., i quali proprio perciò assumono nomi specifici e vengono<br />

in<strong>di</strong>cato come corpi (Körper). Tali complessi non sono affatto<br />

persistenti in senso assoluto» 126 . In questa formulazione Mach evita<br />

l’espressione “complessi <strong>di</strong> sensazioni”: gli elementi sono sensazioni al<br />

livello dell’astrazione, dell’idealizzazione, cioè dell’or<strong>di</strong>namento <strong>di</strong> una<br />

serie che permette <strong>di</strong> renderli oggetto <strong>di</strong> esperimento 127 ; essi – scrive<br />

Mach – sono sensazioni soltanto sotto un certo rispetto: un colore è<br />

un oggetto fisico in relazione alla sorgente <strong>di</strong> luce, è una sensazione<br />

in relazione alla retina 128 . I complessi <strong>di</strong> elementi si compongono poi<br />

variamente e possono esigere una descrizione fisica o fisiologica oppure<br />

psicologica: in relazione all’elemento or<strong>di</strong>natore si danno <strong>di</strong>verse immagini<br />

del mondo, come <strong>di</strong>rà Mauthner, oppure reti a <strong>di</strong>verse maglie,<br />

come <strong>di</strong>rà Wittgenstein.<br />

25


Questo approccio permetteva a Mach <strong>di</strong> sfuggire alla duplicazione<br />

metafisica <strong>di</strong> soggetto e oggetto, <strong>di</strong> fenomeno e cosa in sé, <strong>di</strong> illusione<br />

e realtà: la matita immersa nell’acqua, emblema dell’illusione dei sensi,<br />

risulta otticamente spezzata, ma tattilmente e metricamente <strong>di</strong>ritta. I<br />

complessi, or<strong>di</strong>nati herbartianamente in modo seriale (or<strong>di</strong>namento<br />

spaziale e temporale, serie cromatica o tonale), sono poi scomponibili<br />

senza il residuo <strong>di</strong> una cosa in sé: la sostanza, al contrario, non è altro<br />

che l’ipostatizzazione <strong>di</strong> un’entità che viene staccata dalla serie delle<br />

sensazioni in base a un’istanza <strong>di</strong> totalità.<br />

E semplice complesso <strong>di</strong> elementi risultava anche l’altro polo del<br />

conoscere, l’io, che perdeva così la sua identità definita. Mach sancisce<br />

in questo modo la fine dell’io, fonte, a suo <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> tutte le assur<strong>di</strong>tà metafisiche,<br />

e in<strong>di</strong>ca come premessa <strong>di</strong> questa concezione un’osservazione<br />

<strong>di</strong> Lichtenberg sulla <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> tracciare una netta linea <strong>di</strong> demarcazione<br />

tra le rappresentazioni che <strong>di</strong>pendono da noi e quelle che non<br />

ne <strong>di</strong>pendono. Lichtenberg osservava che non si dovrebbe <strong>di</strong>re “ich<br />

denke”, ma piuttosto “es denkt”, allo stesso modo in cui si <strong>di</strong>ce “es<br />

blitzt” 129 . Riassumendo con un appunto <strong>di</strong> Mach: «Mondo e io sono<br />

più o meno soltanto sintesi (Zusammenfassungen) arbitrarie» 130 .<br />

Mach offriva così alla cultura del suo tempo un approccio ai concetti<br />

<strong>di</strong> io, cosa, spazio, tempo e causa, che costituì un punto <strong>di</strong> riferimento<br />

non solo per scienziati, ma anche per scrittori e letterati: la<br />

sua critica al feticismo del linguaggio, alla «superstizione <strong>della</strong> <strong>parola</strong>»<br />

– come egli si esprime in Erkenntnis und Irrtum, citando l’antropologo<br />

Tylor 131 – ritorna in espressioni e in immagini, spesso con richiami<br />

espliciti, in tutta la riflessione sulla crisi <strong>della</strong> <strong>parola</strong>, sul <strong>di</strong>vario, ormai<br />

riconosciuto, tra le parole e le cose, nella <strong>di</strong>ssoluzione e nelle estreme<br />

<strong>di</strong>fese dell’io nella letteratura <strong>della</strong> Vienna dell’inizio del Novecento<br />

(basti citare Musil, Hofmannsthal e Weininger). Non stupisce quin<strong>di</strong><br />

che Mauthner nel periodo <strong>della</strong> stesura dei Beiträge torni a quella<br />

lontana suggestione, legga i libri <strong>di</strong> Mach e cerchi anche <strong>di</strong> stabilire<br />

un contatto personale con il pensatore moravo 132 .<br />

<strong>La</strong> definizione del rapporto tra fisico e psichico come semplice<br />

<strong>di</strong>versità <strong>di</strong> rapporti tra elementi che possono essere oggetto <strong>di</strong> descrizione<br />

da parte <strong>della</strong> fisica, <strong>della</strong> fisiologia oppure <strong>della</strong> psicologia,<br />

l’inutilità <strong>di</strong> riferirsi a una componente ulteriore che faccia da sostrato<br />

ai due ambiti – come ancora il parallelismo tendeva a fare – ritorna<br />

nelle analisi gnoseologiche e antropologiche <strong>di</strong> Mauthner, nell’affermazione<br />

<strong>della</strong> <strong>di</strong>versità solo <strong>di</strong> grado tra il pensiero animale e quello<br />

dell’uomo, nella definizione dell’intelletto come capacità intuitiva che si<br />

sviluppa per necessità <strong>di</strong> sopravvivenza biologica, nella considerazione<br />

<strong>della</strong> memoria non solo come se<strong>di</strong>mentazione psichica, ma anche materiale<br />

delle esperienze in tutte le vie sensibili e motorie 133 . Quando<br />

Mach paragona l’attività <strong>della</strong> memoria all’uso <strong>di</strong> vecchi violini ben<br />

suonati e Mauthner si meraviglia <strong>di</strong> quante tracce mnemoniche debba<br />

26


contenere l’ala <strong>di</strong> un uccello, non si tratta <strong>di</strong> banali osservazioni materialistiche,<br />

ma <strong>della</strong> considerazione <strong>della</strong> natura in una prospettiva<br />

storica e dell’uomo come parte <strong>di</strong> essa. Nell’analisi del linguaggio questo<br />

significa <strong>di</strong> nuovo partire dalla sua <strong>di</strong>mensione naturale: Mauthner,<br />

come Mach, afferma che si impara a parlare come si impara a respirare<br />

e a camminare 134 .<br />

Katherine Arens, che ha ampiamente analizzato il debito intellettuale<br />

<strong>di</strong> Mauthner nei confronti <strong>di</strong> Mach, lo riassume nel para<strong>di</strong>gma<br />

del «funzionalismo», nell’affermazione cioè del valore contingente dei<br />

modelli teorici che, <strong>di</strong> volta in volta, si presentano come sistemazioni<br />

parziali dei dati empirici in funzione <strong>di</strong> determinati problemi da<br />

risolvere 135 . Questa impostazione del problema del conoscere non<br />

approdava però in Mach a un esito scettico, non alla rassegnazione,<br />

alla rinuncia compiaciuta e malinconica dell’Ignorabimus <strong>di</strong> du Bois-<br />

Reymond (e che in alcuni momenti ritroviamo anche in Mauthner),<br />

né si presentava come un’incursione dello scienziato nel campo <strong>della</strong><br />

filosofia che si ripromettesse <strong>di</strong> risolverne gli enigmi; in Erkenntnis<br />

und Irrtum egli si definirà un cacciatore domenicale <strong>della</strong> filosofia 136 :<br />

un cacciatore, possiamo <strong>di</strong>re, capace <strong>di</strong> muoversi senza assunzioni preconcette<br />

e <strong>di</strong> colpire nel segno i preconcetti <strong>di</strong> un’intera tra<strong>di</strong>zione<br />

del pensiero.<br />

Anche Mauthner, quando si interroga sulla possibilità <strong>di</strong> fare <strong>della</strong><br />

linguistica una scienza, si paragona al viaggiatore che può solo descrivere<br />

i costumi <strong>di</strong> un popolo, ma egli espande il modello funzionalistico <strong>di</strong><br />

Mach nella <strong>di</strong>rezione dello scetticismo: il mondo è immagine soggettiva<br />

dei nostri Zufallssinne, la scienza non ha alcun fondamento possibile, la<br />

logica è vuota tautologia, il soggetto metafisico è ridotto all’io empirico,<br />

a sua volta frantumato nell’indeterminatezza dei suoi confini. A questo<br />

proposito con un’osservazione simile a quella <strong>di</strong> Mach e <strong>di</strong> Lichtenberg,<br />

Mauthner sostiene: la mia sensazione “verde”, grün, significa originariamente<br />

che io vengo begrünt, il prato mi verdeggia, begrünt mich 137 .<br />

Limitarsi alla descrizione fenomenologica farebbe quin<strong>di</strong> saltare le categorie<br />

<strong>della</strong> grammatica; l’autocritica del linguaggio <strong>di</strong>viene il suici<strong>di</strong>o<br />

del linguaggio.<br />

Il confronto con Mach si fa poi più serrato a partire dal periodo<br />

nel quale Mauthner sta ultimando il secondo volume dei Beiträge e<br />

appare ancora più chiaramente nel terzo. Oltre alla lettura dell’Analisis,<br />

delle Vorlesungen e <strong>della</strong> Mechanik, Mauthner ha affrontato anche la<br />

Wärmelehre (uscita nel 1896) che nell’ultima parte tratta con ampiezza<br />

il linguaggio <strong>della</strong> scienza. L’applicazione del modello biologico darwiniano<br />

allo sviluppo delle idee scientifiche in termini <strong>di</strong> trasformazione e<br />

<strong>di</strong> adattamento permette a Mach l’approfon<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> alcune riflessioni<br />

sulla teoria del conoscere. Si tratta in primo luogo del processo psicologico<br />

dell’associazione, <strong>della</strong> comparazione come base dell’astrazione:<br />

così, ad esempio, i termini in<strong>di</strong>canti colore, forse nati dall’arte del ta-<br />

27


tuaggio che riproduce le tinte dei fiori e dei frutti, <strong>di</strong>vengono autonomi,<br />

astratti, vengono intesi senza pensare al loro primitivo riferimento. <strong>La</strong><br />

formazione del concetto deriva allora dall’in<strong>di</strong>viduazione dell’uguaglianza<br />

<strong>di</strong> una parte <strong>di</strong> un complesso <strong>di</strong> sensazioni con una parte <strong>di</strong><br />

un altro complesso, che permette l’associazione per somiglianza. Ma<br />

il passaggio più interessante <strong>di</strong> questa trattazione, almeno dal punto<br />

<strong>di</strong> vista <strong>di</strong> Mauthner, è il rapporto che Mach stabilisce tra concetto e<br />

intuizione. Il concetto – afferma Mach– è enigmatico: se lo consideriamo<br />

dal punto <strong>di</strong> vista logico, lo ve<strong>di</strong>amo come il prodotto psichico più<br />

preciso e determinato, se ne cerchiamo il contenuto intuitivo, reperiamo<br />

soltanto un’immagine confusa. Il proce<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> formazione delle idee<br />

viene paragonato alla composizione delle figure <strong>della</strong> pittura dell’antico<br />

Egitto, che non corrispondono a un’unica percezione visiva, ma sono<br />

composte <strong>di</strong> percezioni <strong>di</strong>verse: la testa e il capo sono rappresentati<br />

<strong>di</strong> profilo, ma la copertura del capo e il petto si vedono <strong>di</strong> fronte; si<br />

tratta <strong>di</strong> una sorta <strong>di</strong> percezione interme<strong>di</strong>a che appunta l’attenzione<br />

su alcuni aspetti e ne trascura altri. Nella stessa nota, che rimanda a<br />

questa osservazione contenuta in una conferenza, Mach cita Paul Carus<br />

che definisce il concetto in analogia alle somiglianze <strong>di</strong> famiglia che il<br />

suocero Hegeler aveva osservato in alcune foto composte da Galton 138 .<br />

L’immagine è in<strong>di</strong>viduale, come le foto dei singoli componenti <strong>della</strong><br />

famiglia, il concetto non sta in rapporto con una immagine definita,<br />

con una rappresentazione finita (fertig), è piuttosto un’in<strong>di</strong>cazione a<br />

esaminare alcune caratteristiche <strong>della</strong> rappresentazione, a in<strong>di</strong>viduare<br />

le somiglianze <strong>di</strong> famiglia. Acquisire un concetto significa allora avviare<br />

un sistema <strong>di</strong> operazioni che si può apprendere solo nella prassi,<br />

nell’esercizio, come ci si deve esercitare per imparare la matematica o<br />

una lingua straniera. <strong>La</strong> definizione del concetto in Mauthner riprende<br />

allora questa impostazione nell’affermare che il concetto non è in<br />

relazione con una determinata rappresentazione, ma con «una catena<br />

o un tessuto, una rete o ancor più esattamente un piccolo mondo, un<br />

microcosmo <strong>di</strong> associazioni <strong>di</strong> idee», un microcosmo «che non è uni<strong>di</strong>mensionale<br />

come una catena, non bi<strong>di</strong>mensionale come un tessuto<br />

o una rete, ma tri<strong>di</strong>mensionale o, in relazione al tempo, quadri<strong>di</strong>mensionale<br />

come un mondo» 139 .<br />

Nel capitolo sul linguaggio <strong>della</strong> Wärmelehre Mach, riprendendo<br />

l’idea del carattere operativo dell’acquisizione del concetto, sostiene che<br />

i segni sonori hanno preso senso e significato alla presenza <strong>di</strong> osservatori<br />

comuni e <strong>di</strong> una comune attività, citando Geiger 140 e Noiré 141 , ma questi<br />

riferimenti non sembrano a Mauthner sufficienti, egli pensa <strong>di</strong> essere<br />

andato più avanti <strong>di</strong> questi autori nella critica del linguaggio 142 .<br />

Nel Wörterbuch der Philosophie (1910) Mauthner continua a fare riferimento<br />

al pensiero <strong>di</strong> Mach in numerose voci e con molte citazioni,<br />

lo considera anche una fonte per la sua teoria delle tre immagini del<br />

mondo. Ora ha anche a <strong>di</strong>sposizione Erkenntnis und Irrtum (1905), il<br />

28


testo epistemologico che riassume e approfon<strong>di</strong>sce i risultati <strong>di</strong> tutta la<br />

riflessione <strong>di</strong> Mach sulla formazione dei concetti scientifici, sulla loro<br />

ra<strong>di</strong>ce nel precategoriale e nel linguaggio or<strong>di</strong>nario. <strong>La</strong> <strong>parola</strong> viene<br />

definita come centro <strong>di</strong> associazioni, viene indagata nel sua <strong>di</strong>mensione<br />

magica e superstiziosa, nella sua funzione nel processo <strong>di</strong> astrazione,<br />

nei suoi significati mutevoli e nei suoi trasferimenti e, in una nota,<br />

troviamo anche il riconoscimento dello stimolo ricevuto dalla lettura<br />

degli scritti <strong>di</strong> Mauthner. In particolare vanno poi segnalate le pagine<br />

in cui Mach tratta il concetto <strong>di</strong> analogia e afferma l’importanza<br />

dell’uso euristico delle immagini nella scienza 143 .<br />

Mauthner si propone per la filosofia un compito analogo a quello<br />

che Mach ha svolto nei confronti dei principali concetti <strong>della</strong> scienza,<br />

ma il <strong>di</strong>verso punto <strong>di</strong> vista e la <strong>di</strong>fferenza dell’oggetto in questione<br />

svelano la <strong>di</strong>mensione scettica e ra<strong>di</strong>cale del progetto del filosofo. L’or<strong>di</strong>namento<br />

alfabetico, «triviale» (termine dal paradossale doppio senso:<br />

volgare o riferito alla cultura del trivio me<strong>di</strong>evale), «brutale» e «infantile»,<br />

si adatta perfettamente alla <strong>di</strong>mensione circolare del suo pensiero,<br />

alla condensazione in nuclei decentrati dell’argomentazione; non solo,<br />

esso rappresenta l’unico or<strong>di</strong>ne possibile che permette i riman<strong>di</strong> da un<br />

qualsivoglia punto ad un altro e una consultazione semplice. L’enciclope<strong>di</strong>a<br />

filosofica che espone lo stato <strong>della</strong> filosofia sancisce nel contempo<br />

la mancanza del suo fondamento, l’impossibilità <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare un<br />

criterio gerarchico nel nostro conoscere, <strong>di</strong> mettere or<strong>di</strong>ne nel sapere;<br />

e nell’etimo del termine (e[gkuklo") Mauthner non vuole cogliere<br />

l’idea <strong>di</strong> completezza, ma del girare in cerchio, del mordersi la coda 144 .<br />

Nella rassegna dei tentativi storici <strong>di</strong> sistemazione enciclope<strong>di</strong>ca, oltre<br />

all’apprezzamento per il <strong>di</strong>zionario storico e critico <strong>di</strong> Bayle, «lessico<br />

<strong>di</strong> conversazione <strong>di</strong> tutti gli spiriti scettici» 145 , troviamo una citazione<br />

<strong>di</strong> Stumpf a conferma <strong>della</strong> provvisorietà e <strong>della</strong> circolarità del sistema<br />

delle scienze: «gli oggetti delle scienze non sono <strong>di</strong>sposti come cerchi<br />

concentrici intorno a un unico punto centrale, ma formano parecchie<br />

ondate, che si incrociano partendo da punti centrali autonomi» 146 .<br />

Al posto <strong>di</strong> concetti puri, ai quali siano state strappate, derubate<br />

per via <strong>di</strong> astrazione (un calco coniato da Boezio del greco ejx ajfairevsew",<br />

usato da Aristotele e tradotto in un altro contesto da Cicerone<br />

con detractio) tutte le caratteristiche concrete, troviamo soltanto le parole<br />

in uso nella filosofia, parole che sono migrate, sono state trasferite,<br />

traslate, assieme alle cose e ai popoli, portando con sé, nelle derivazioni,<br />

nei prestiti, nelle traduzioni e nei calchi, molteplici sfumature <strong>di</strong> senso.<br />

Mauthner non crede quin<strong>di</strong> alla possibilità <strong>di</strong> una definizione rigorosa<br />

dei singoli termini, afferma che una definizione «pulita» sarebbe tautologica,<br />

illusoria, come la pretesa <strong>di</strong> calmare la fame con un menù che<br />

pone accanto ai nomi francesi la loro traduzione in tedesco 147 .<br />

Questo non vale solo per le parole <strong>della</strong> filosofia, ma in genere per<br />

tutte le nostre parole. Possiamo <strong>di</strong>re che una <strong>parola</strong> ha significato allo<br />

29


stesso modo in cui possiamo <strong>di</strong>re che una cosa ha delle proprietà,<br />

anche se non c’è una cosa al <strong>di</strong> fuori e accanto alle sue proprietà. Il<br />

significato appartiene alla <strong>parola</strong>, non c’è un significato in sé, un significato<br />

«obiettivo-ideale» – e qui Mauthner scrive frettolosamente, tra<br />

parentesi: Husserl; lo possiamo in<strong>di</strong>care solo pressappoco, ricostruendo<br />

la storia <strong>della</strong> <strong>parola</strong>, criticando il significato momentaneo, riportando<br />

la <strong>di</strong>scussione su quel significato.<br />

L’indeterminatezza dei concetti e delle parole viene descritta con<br />

l’aiuto del termine “fringe”, che forse possiamo rendere con “margine”<br />

(Saum), “alone” (Hof), e che viene utilizzata da William James per<br />

in<strong>di</strong>care l’imprecisione dei confini <strong>della</strong> rappresentazione. Mauthner<br />

se ne serve in<strong>di</strong>fferentemente per la rappresentazione e per la <strong>parola</strong> e<br />

riprende l’immagine fluida <strong>della</strong> mente dello psicologo americano che<br />

deriva l’orlo sfrangiato delle rappresentazioni dalla successione delle<br />

onde delle impressioni che parzialmente si sovrappongono, accostandola<br />

alla teoria delle onde del linguista Johannes Schmidt.<br />

Per altri versi le parole, tutte le parole, sono già da sempre concetti,<br />

a <strong>di</strong>versi gra<strong>di</strong> <strong>di</strong> astrazione, e in<strong>di</strong>cano già da subito <strong>di</strong> aver perso il riferimento<br />

all’intuizione imme<strong>di</strong>ata; esse si formano attraverso il processo<br />

dell’associazione che non è affatto governato da leggi stabili, sistemate<br />

nei paragrafi <strong>della</strong> teoria psicologica, ma da regolarità (Gesetzmässigkeit<br />

e non Notwen<strong>di</strong>gkeit) che mutano da una lingua all’altra dando vita<br />

a sfere associative <strong>di</strong>verse, con<strong>di</strong>zionate dall’uso linguistico. Mauthner<br />

non nega che vi siano innumerevoli similarità nelle associazioni, come<br />

vi è una sorta <strong>di</strong> imprecisa comprensione nella prassi del linguaggio; si<br />

tratta però <strong>di</strong> somiglianze, affinità, parentele (ma non <strong>di</strong> sangue), analogie<br />

che escludono l’identificazione completa 148 . Analogia è ad<strong>di</strong>rittura<br />

un errore logico che inferisce da proprietà simili conosciute proprietà<br />

simili sconosciute, esigenza psicologica <strong>di</strong> generalizzazione, semplice<br />

comparazione che non può essere scambiata con la conclusione logica<br />

<strong>della</strong> proporzione matematica 149 . L’applicazione <strong>di</strong> conclusioni analogiche<br />

inconsce è colpevole <strong>della</strong> creazione del linguaggio «metaforico,<br />

improprio, non scientifico» che abbiamo usato per descrivere in immagini<br />

l’intera nostra vita interiore e abbiamo poi riportato all’esterno, per<br />

penetrare nell’interno delle cose, per spiegarne la loro natura 150 .<br />

Viene così riba<strong>di</strong>ta la <strong>di</strong>sgregazione del soggetto e dell’oggetto del<br />

conoscere, dell’io e <strong>della</strong> cosa. Ciò che comunemente chiamiamo cosa<br />

(Ding, Sache) non è quin<strong>di</strong> altro che il machiano complesso <strong>di</strong> sensazioni,<br />

e questa cosa è soltanto una rappresentazione astratta (Gedanken<strong>di</strong>ng),<br />

una cosa del pensiero. Mauthner precisa che con questo<br />

non intende un concetto inventato, uno Scheinbegriff, come potrebbe<br />

essere ad esempio l’idea <strong>di</strong> strega, né un fenomeno o un’apparenza<br />

(Erscheinung) nel senso <strong>di</strong> Berkeley e Kant, e nemmeno una cosa in sé,<br />

come continuano a sostenere i neokantiani, ma semplicemente la causa<br />

(Ursache) delle sensazioni, aggiungendo subito dopo che lo stesso con-<br />

30


cetto <strong>di</strong> causa è un enigma 151 . Se poi una cosa isolata propriamente<br />

non esiste, come afferma il nostro autore citando <strong>di</strong> nuovo Erkenntnis<br />

und Irrtum, non esiste nemmeno un io isolato, esso non è che la catena<br />

dei vissuti: cosa e io, insomma, sono finzioni provvisorie 152 .<br />

Mauthner cerca però <strong>di</strong> procedere oltre. Mentre Mach in Erkenntnis<br />

und Irrtum articola la sua <strong>di</strong>samina critica degli strumenti concettuali<br />

legati alla ricerca scientifica mantenendo le <strong>di</strong>stinzioni e la fiducia<br />

nel loro valore conoscitivo, anche se provvisorio, Mauthner opera una<br />

riduzione del pensiero a linguaggio, del concetto a <strong>parola</strong>, <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

a immagine, dell’immagine a immagine <strong>di</strong> immagine. L’identificazione<br />

delle funzioni del pensare e del parlare invero non è completa, perché<br />

anche in questo caso si tratta, possiamo <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi giochi linguistici,<br />

e <strong>di</strong>pende dall’estensione che attribuiamo ai due concetti 153 , ma<br />

questa cautela non viene sempre rispettata e spesso Mauthner riba<strong>di</strong>sce<br />

l’identità <strong>di</strong> pensiero e linguaggio, la valenza <strong>di</strong> mera <strong>parola</strong> del concetto,<br />

la natura metaforica del concetto stesso.<br />

I <strong>di</strong>versi punti <strong>di</strong> vista da cui guardare il mondo – che Mach aveva<br />

connesso alla possibilità <strong>di</strong> combinare in modo <strong>di</strong>verso il complesso <strong>di</strong><br />

elementi, ma che aveva sempre ricondotto alla descrizione scientifica<br />

– <strong>di</strong>ventano in Mauthner tre categorie grammaticali che egli chiama le<br />

tre immagini del mondo. Egli mantiene il termine greco <strong>di</strong> “categoria”,<br />

svuotandone il senso logico e conoscitivo, sulla scia dell’interpretazione<br />

grammaticale delle categorie aristoteliche <strong>di</strong> Trendelenburg: kathgorei'n<br />

– scrive – significa semplicemente “asserire”; forse allora sarebbe meglio<br />

usare il termine Aussaglichkeit, o Aussagenmöglichkeit, possibilità<br />

<strong>di</strong> asserire, ma Mauthner si accontenta del linguaggio in uso, consapevole<br />

<strong>di</strong> dover lavorare sullo slittamento del significato. Le categorie<br />

<strong>della</strong> grammatica sono dunque: l’aggettivo, il sostantivo e il verbo, ma<br />

anche qui non nel senso delle forme grammaticali tra<strong>di</strong>zionali. Si tratta<br />

<strong>di</strong> vere e proprie categorie <strong>della</strong> grammatica che trasferiscono dalla<br />

scienza alla filosofia la concezione machiana dei punti <strong>di</strong> vista.<br />

Il mondo aggettivo è il mondo delle impressioni sensoriali, dell’esperienza<br />

imme<strong>di</strong>ata, del dato; si presenta frantumato, pointilliert, come<br />

un quadro <strong>di</strong>pinto dai <strong>di</strong>visionisti, descritto da parole come “blu”, “rumoroso”,<br />

“dolce”, “duro”, ma anche “giusto”, “bello”, che «infilzano<br />

l’impressione con la punta dell’ago dell’attimo» 154 . Esso ci consegna le<br />

proprietà delle cose, senza permetterci <strong>di</strong> interrogarci su cosa esse siano<br />

al <strong>di</strong> là delle loro proprietà; il suo linguaggio, per essere coerente, dovrebbe<br />

essere costituito appunto <strong>di</strong> soli aggettivi, come nella grammatica<br />

dell’emisfero boreale del mondo immaginario <strong>di</strong> Uqbar nel racconto<br />

<strong>di</strong> Borges, che non <strong>di</strong>ce “luna”, ma una serie <strong>di</strong> aggettivi accostati.<br />

Il mondo sostantivo dà il nome alla sostanza, integra questo linguaggio<br />

sensistico con concetti mitologici, inventando gli dei, gli spiriti,<br />

le forze, le cause, ma anche le cose, le singole cose, che sono tutte ipostatizzazioni.<br />

Il mondo delle idee platoniche, immagini originarie delle<br />

31


cose, smascherate nel loro carattere apparente, irreale, è il para<strong>di</strong>gma<br />

filosofico <strong>di</strong> questo bisogno umano. L’errore <strong>di</strong> Platone è allora nella<br />

pretesa <strong>di</strong> farlo valere come l’unica immagine possibile del mondo;<br />

esso è invece pura parvenza.<br />

Il mondo verbale congiunge le sensazioni me<strong>di</strong>ante l’attività <strong>della</strong><br />

memoria e le trasforma nel mondo del <strong>di</strong>venire, nel mondo fluente <strong>di</strong><br />

Eraclito, descritto dalle parole come “passare”, “morire”, “godere”,<br />

“soffrire”, “causare”, “obbe<strong>di</strong>re”. Nei Beiträge Mauthner aveva assegnato<br />

a questa categoria il carattere <strong>della</strong> finalità e dello scopo, nel<br />

Wörterbuch limita questa <strong>di</strong>mensione a una parte dei verbi allo scopo<br />

<strong>di</strong> inserirvi anche quelli che designano mutamenti nella natura. Da notare<br />

poi che non tutti i verbi appartegono al mondo verbale; l’esempio<br />

più pregnante è il caso del verbo essere (sein) che, secondo Mauthner,<br />

appartiene evidentemente al mondo sostantivo 155 .<br />

Egli conclude poi l’esposizione <strong>della</strong> voce “verbale Welt”, ultima<br />

delle tre nell’or<strong>di</strong>ne alfabetico e nell’or<strong>di</strong>ne <strong>della</strong> scrittura, assegnando<br />

all’estensione dell’aggettivo l’approccio artistico al mondo, all’estensione<br />

del sostantivo il mistico, all’estensione del verbale la scienza. Preoccupato<br />

che questa partizione potesse apparire come una trinità <strong>di</strong> mon<strong>di</strong><br />

accostati l’uno all’altro, Mauthner riba<strong>di</strong>sce che il mondo ci è dato una<br />

volta soltanto, ma che questo unico mondo può essere visto come una<br />

somma <strong>di</strong> impressioni sensoriali oppure come un or<strong>di</strong>namento <strong>di</strong> cose<br />

oppure come una serie <strong>di</strong> mutamenti e – così conclude nel suo ultimo<br />

scritto Die drei Bilder der Welt – ciascuno <strong>di</strong> questi mon<strong>di</strong> costituisce<br />

una cosa in sé per gli altri due 156 , senza che sia possibile tradurre i tre<br />

linguaggi l’uno nell’altro o sovrapporre queste immagini per raggiungere<br />

una concezione unitaria del mondo.<br />

Nella voce “Als ob” <strong>della</strong> seconda e<strong>di</strong>zione del <strong>di</strong>zionario il nome<br />

<strong>di</strong> Mach ricompare tra gli esponenti <strong>di</strong> quella che egli chiama Philosophie<br />

der Fiktion, che possiamo tradurre con una leggera forzatura<br />

con “filosofia <strong>della</strong> finzione”, tenendo presente che il ricorso a questo<br />

termine con etimo latino in<strong>di</strong>ca il carattere creativo e inventivo del<br />

conoscere, piuttosto che il travisamento <strong>di</strong> una verità, peraltro <strong>di</strong>chiarata<br />

inesistente. <strong>La</strong> denuncia dell’inganno del linguaggio, che si articola<br />

nell’affermazione del carattere illusorio del conoscere e nella negazione<br />

dell’esistenza <strong>di</strong> una cosa in sé che ci assicuri l’omogeneità dei fenomeni,<br />

la conseguente impossibilità <strong>di</strong> fondare i valori e la ra<strong>di</strong>calità <strong>di</strong> una<br />

religione senza <strong>di</strong>o sembrano legare insieme i nomi che egli cita: oltre<br />

a Mach, Steinthal, <strong>La</strong>nge, <strong>La</strong>as, Vaihinger, Forberg e Nietzsche.<br />

Nel caso <strong>di</strong> Vaihinger si tratta piuttosto <strong>di</strong> una conferma che <strong>di</strong><br />

una fonte 157 . Lo stu<strong>di</strong>oso <strong>di</strong> Kant aveva elaborato una filosofia che<br />

ha molti punti <strong>di</strong> contatto con quella del nostro autore: il pensiero<br />

umano viene trattato alla stregua dei processi biologici naturali come<br />

un insieme <strong>di</strong> azioni e reazioni dell’animo a carattere finalistico e soggette<br />

all’evoluzione: il nostro organismo, immerso in un complesso <strong>di</strong><br />

32


sensazioni contrad<strong>di</strong>ttorie e soffocato dalle spire <strong>di</strong> un mondo esterno<br />

a esso ostile, produce e inventa, per sopravvivere, artifici del pensiero<br />

che danno vita, accanto all’arte <strong>della</strong> logica pura, a forme in<strong>di</strong>rette,<br />

meno nitide e rigorose, spesso contrad<strong>di</strong>ttorie rispetto al dato e in sé<br />

stesse, ma <strong>di</strong> innegabile valore euristico. <strong>La</strong> scala dell’artificiosità va,<br />

come scrive anche Mauthner, dalle finzioni massime <strong>della</strong> morale alle<br />

finzioni minime <strong>della</strong> scienza, ma l’intero mondo delle nostre rappresentazioni<br />

è affetto dalla soggettività e non è certo destinato a <strong>di</strong>ventare<br />

un’immagine imme<strong>di</strong>ata dell’essere.<br />

Particolare interesse è dato alle finzioni simboliche o analogiche,<br />

che vengono analizzate con argomenti molto simili alla teoria <strong>della</strong> metafora<br />

<strong>di</strong> Mauthner. In modo affine alla creazione poetica e mitica il<br />

proce<strong>di</strong>mento analogico si costituisce nell’appercezione <strong>di</strong> una nuova<br />

intuizione da parte <strong>di</strong> una funzione rappresentativa nella quale esiste<br />

una relazione simile, una proporzione analoga a quella <strong>della</strong> serie già<br />

osservata delle sensazioni 158 . Il pensiero elabora cioè simboli o immagini<br />

che non intendono riprodurre la realtà al modo <strong>di</strong> uno specchio, ma<br />

introduce in essa forme <strong>di</strong> comparazione e connessioni che ne intessono<br />

i fili <strong>di</strong>spersi 159 .<br />

Vaihinger si rivela vicino a Mauthner anche nell’uso delle metafore<br />

che descrivono la funzione provvisoria dei concetti-finzione (non la loro<br />

falsità che sarebbe espressa da immagini come gli occhiali colorati o<br />

lo specchio deformante, immagine quest’ultima che troviamo invece in<br />

Mauthner). Egli sostiene che tutto ciò che incontriamo nella vita quoti<strong>di</strong>ana<br />

e nella scienza e che va sotto il nome <strong>di</strong> conoscenza è un insieme<br />

<strong>di</strong> gusci vuoti; rovescia così il senso <strong>della</strong> critica <strong>di</strong> Herbart all’apriori<br />

kantiano come guscio vuoto e afferma la vali<strong>di</strong>tà puramente strumentale<br />

<strong>di</strong> tali gusci, che si rompono quando non servono più, quando il<br />

fine viene raggiunto 160 . Definisce i concetti anche come «cerniere» che<br />

chiudono provvisoriamente la combinazione delle sensazioni 161 , oppure<br />

come «pezzi <strong>di</strong> ricambio» del meccanismo del pensiero 162 . Un’altra<br />

metafora suggerisce l’idea che tra mondo interno e mondo esterno vi<br />

sia una zona <strong>di</strong> permutazione, dove i valori dei due mon<strong>di</strong> sono illusoriamente<br />

assimilati gli uni a quelli dell’altro, «dove è reso possibile<br />

un vivo scambio fra i due e dove la sottile carta-moneta dei pensieri è<br />

scambiata nelle pesanti monete <strong>della</strong> realtà, dove, viceversa, il metallo<br />

<strong>della</strong> realtà viene dato in cambio <strong>di</strong> quella merce leggera, che ha reso<br />

possibile lo scambio. […] Poiché si è posseduta molta carta-moneta<br />

falsa, si sono introdotte furtivamente molte idee false, che non possono<br />

essere trasformate in valori materiali; non è senz’altro sufficiente<br />

tener conto del valore nominale <strong>della</strong> carta, ma si deve far riferimento<br />

all’aggio sull’oro, che essa può fare» 163 .<br />

Nonostante quin<strong>di</strong> le vie del conoscere e quelle dell’essere siano<br />

eterogenee, si possono ottenere risultati che permettono <strong>di</strong> orientarci<br />

164 . A questo proposito sono interessanti alcune note <strong>di</strong> Vaihinger<br />

33


sul fatto che nel flusso <strong>della</strong> percezione ricorrano determinate forme<br />

strutturali che hanno «una certa, precisa coloritura» che ci permette <strong>di</strong><br />

fissare gli oggetti come sostanze, come cose con delle proprietà. Non vi<br />

sono cose senza proprietà né proprietà senza cose: il concetto <strong>di</strong> zucchero<br />

è una finzione, il concetto <strong>di</strong> bianco è altrettanto una finzione,<br />

ma “lo zucchero è bianco” è un fatto. Il complesso qui ricomposto<br />

permette in qualche modo il passaggio dal pensiero che sembra operare<br />

per perifrasi alla prassi <strong>della</strong> comunicazione che richiede la finzione,<br />

l’errore <strong>della</strong> sostanza. Mauthner preferisce un esempio <strong>di</strong>verso: “lo<br />

zucchero è dolce”; con questo risulta forse più chiara la <strong>di</strong>stinzione<br />

tra il riferimento alla sensazione <strong>di</strong> dolce e la «regola del gioco» del<br />

linguaggio che chiama dolce e la sensazione e lo zucchero, mentre nella<br />

nostra coscienza non troviamo altro che la sensazione <strong>di</strong> dolce 165 . <strong>La</strong><br />

conclusione del nostro autore assume anche in questo caso una coloritura<br />

più scettica, che nega non solo la possibilità <strong>della</strong> comprensione<br />

del mondo, ma anche la sua conoscenza.<br />

4. <strong>La</strong> teoria <strong>della</strong> metafora<br />

Nella critica del linguaggio non poteva mancare la <strong>di</strong>samina <strong>della</strong><br />

tesi <strong>di</strong> Aristotele, che Mauthner presenta con l’accusa <strong>di</strong> voler spiegare<br />

il linguaggio figurato <strong>della</strong> poesia dal punto <strong>di</strong> vista logico, risolvendo<br />

ogni metafora nella proporzione matematica, completa o incompleta.<br />

<strong>La</strong> seduzione poetica consisterebbe allora nel lasciar indovinare uno<br />

o due membri, e qui l’autore accenna agli esiti barocchi <strong>di</strong> questa impostazione<br />

e non risparmia dell’ironia a proposito dell’esempio <strong>della</strong><br />

coppa come scudo <strong>di</strong> Dioniso 166 . A <strong>di</strong>fferenza però <strong>di</strong> tutti gli altri<br />

luoghi nei quali il nostro autore accenna o tratta del filosofo greco e,<br />

nonostante la conoscenza superficiale dei suoi testi e <strong>della</strong> letteratura<br />

critica, che gli verrà rimproverata dai recensori del libriccino polemico<br />

su Aristotele del 1904 167 , qui il nominalista si sofferma sulla teoria<br />

aristotelica e prende sul serio la sua analisi concettuale.<br />

Non solo il problema gli appare cruciale per l’esito <strong>della</strong> sua analisi<br />

critica, ma egli ha anche a <strong>di</strong>sposizione una serie <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> filologici e<br />

filosofici, apparsi in quegli anni in Germania, che convergono nella tesi<br />

del carattere essenzialmente metaforico <strong>della</strong> <strong>parola</strong> proprio a partire<br />

dalla <strong>di</strong>samina <strong>della</strong> tesi dello stagirita. Nella lettura <strong>di</strong> Aristotele<br />

Mauthner utilizza ampiamente il testo <strong>di</strong> Alfred Biese, Die Philosophie<br />

des Metaphorischen, che era stato pubblicato nel 1893, e la sua bibliografia<br />

che comprende il lavoro <strong>di</strong> Kurt Bruchmann, Psychologischen<br />

Stu<strong>di</strong>en zur Sprachgeschichte (1888), e l’importante libro sui tropi <strong>di</strong><br />

Gustav Gerber, Die Sprache als Kunst (1871, seconda e<strong>di</strong>zione 1884),<br />

che il nostro autore invero non cita mai, anche se rivela sorprendenti<br />

analogie con le sue conclusioni.<br />

34


<strong>La</strong> prima mossa del nostro autore consiste nel sottolineare in Aristotele<br />

l’uso del termine “metafora” come titolo generale dei tropi.<br />

Anche Biese aveva ravvisato in questo un merito del filosofo greco,<br />

nell’aver riconosciuto cioè anche nella metonimia e nella sineddocche il<br />

momento <strong>della</strong> Übertragung, del trasferimento. Su questo Mauthner è<br />

decisamente d’accordo: Aristotele – scrive – parla greco e per metafora<br />

intende “traslato”, non un termine tecnico secondo la classificazione<br />

<strong>della</strong> retorica latina. Il problema è solo apparentemente una questione<br />

<strong>di</strong> termini ed è stato più volte rilevato nella storia <strong>della</strong> teoria <strong>della</strong><br />

metafora: l’ambiguità dell’uso aristotelico che chiama “metafora” sia<br />

la figura come tale, il tropo, la trasposizione <strong>di</strong> un termine, sia la metafora<br />

in senso stretto, la figura retorica <strong>della</strong> somiglianza, rivela un<br />

interesse per il processo stesso <strong>della</strong> trasposizione e estende l’indagine<br />

dal nome a tutte le entità del linguaggio portatrici <strong>di</strong> senso 168 . Tale<br />

ampliamento permette <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare nella teoria aristotelica qualcosa<br />

<strong>di</strong> più dell’analisi <strong>di</strong> un semplice meccanismo <strong>di</strong> sostituzione, che è<br />

alla base <strong>della</strong> concezione <strong>della</strong> metafora come ornamento retorico<br />

o poetico, e <strong>di</strong> coglierne invece una <strong>di</strong>mensione gnoseologica, <strong>di</strong> stabilirne<br />

il valore semantico. Naturalmente le riflessioni novecentesche<br />

sulla metafora approfon<strong>di</strong>ranno questo approccio facendo ricorso agli<br />

sviluppi <strong>della</strong> logica e <strong>della</strong> linguistica, ma molte intuizioni e riflessioni<br />

erano già state formulate in queste letture <strong>di</strong> fine Ottocento. Questa<br />

prima affermazione <strong>di</strong> Mauthner sembra quin<strong>di</strong> cogliere bene lo spirito<br />

dell’indagine <strong>di</strong> Aristotetele, ponendosi imme<strong>di</strong>atamente sul piano del<br />

lovgo" semantico o linguistico 169 .<br />

Il punto <strong>di</strong> partenza <strong>di</strong> Aristotele era, quin<strong>di</strong>, la definizione <strong>della</strong><br />

metafora come ejpiforav, come trasferimento dal linguaggio or<strong>di</strong>nario,<br />

normale, consueto (<strong>parola</strong> come kuvrion) a un uso sempre più alterato<br />

(Morpurgo-Tagliabue scrive: al limite). <strong>La</strong> traduzione <strong>di</strong> kuvrion è stata<br />

a lungo <strong>di</strong>scussa nella storia dell’interpretazione e la resa con “termine<br />

proprio” aveva accentuato l’opposizione con “figurato”, ma nel contesto<br />

<strong>di</strong> una teoria che tende a escludere qualsiasi termine “proprio” il problema<br />

<strong>di</strong> cosa intendesse il filosofo su questo punto non viene nemmeno<br />

affrontato. A Mauthner interessa invece il processo <strong>di</strong> associazione che<br />

sta alla base del traslato.<br />

Nella Poetica, però, il criterio <strong>della</strong> classificazione è, almeno all’inizio,<br />

quello <strong>della</strong> sostituzione: l’uso più or<strong>di</strong>nario è quello <strong>di</strong> ricorrere<br />

a un termine generico per un fatto specifico o <strong>di</strong> impiegare termini <strong>di</strong><br />

specie per concetti <strong>di</strong> genere. Nonostante compaia già qui un processo<br />

<strong>di</strong> confronto logico-intuitivo 170 , questo <strong>di</strong>viene più esplicito con la<br />

metafora da specie a specie, come esempio <strong>della</strong> quale Aristotele cita<br />

due versi <strong>di</strong> Empedocle: «con la spada <strong>di</strong> bronzo avendogli attinta la<br />

vita» (come si attinge da una fonte con una tazza), e «con la tazza <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>struttibile bronzo avendo reciso l’acqua» (come con una spada) 171 .<br />

Infine la metafora per analogia: si chiamerà perciò la coppa “scudo <strong>di</strong><br />

35


Dioniso” e lo scudo “coppa <strong>di</strong> Ares”, oppure: la vecchiezza “sera <strong>della</strong><br />

vita”; secondo la proporzione tra due rapporti. Questo accostamento è<br />

importante – spiega Mauthner – per chiarire la <strong>di</strong>fferenza tra la metafora<br />

che pone il rapporto in modo imme<strong>di</strong>ato e la similitu<strong>di</strong>ne che si<br />

esplicita nel “come”. Vi sono similitu<strong>di</strong>ni complesse – continua – che<br />

<strong>di</strong>ventano sprone per una fantasia poetica, come quella omerica, che<br />

<strong>di</strong>menticano il paragone <strong>di</strong> partenza e procedono oltre, e similitu<strong>di</strong>ni<br />

in senso stretto; esse si basano su tre termini, come nel caso <strong>di</strong> “capelli<br />

neri come il carbone”, che egli chiama “regola del tre”. Il tertium<br />

comparationis è ancora un’altra cosa e si riferisce a un concetto più<br />

generale, al colore, nel caso dei capelli e del carbone, all’attributo, nel<br />

caso <strong>della</strong> coppa <strong>di</strong> Dioniso e dello scudo <strong>di</strong> Ares.<br />

<strong>La</strong> metafora quin<strong>di</strong>, a <strong>di</strong>fferenza <strong>della</strong> similitu<strong>di</strong>ne, è un paragone<br />

<strong>di</strong> due rapporti, nel qual viene tralasciato il concetto più comune.<br />

Nell’esempio <strong>di</strong> Mauthner “la prudenza è la madre <strong>della</strong> saggezza”, la<br />

saggezza si rapporta alla prudenza, come la figlia alla madre; il tertium<br />

comparationis è che la madre abbia procreato la figlia. Si potrebbe<br />

anche pensare che la figlia sia simile alla madre oppure che sia obbe<strong>di</strong>ente,<br />

ma noi non lo pensiamo. L’autore in<strong>di</strong>vidua qui un punto essenziale<br />

<strong>della</strong> teoria aristotelica: la cogenza dell’immagine. Anche Biese<br />

sottolinea questo momento dell’immagine e afferma esplicitamente che<br />

Aristotele ha riconosciuto l’essenza del metaforico nell’analogia, nella<br />

proporzione, nella relazione tra due rapporti offerta all’intuizione e<br />

chiama Veranschaulichung questa visualizzazione che egli, come vedremo,<br />

estenderà a tutti i processi dello spirito umano.<br />

Questa impostazione va quin<strong>di</strong> molto oltre il criterio <strong>della</strong> sostituzione,<br />

<strong>della</strong> cui insufficienza lo stesso Aristotele si era già reso conto<br />

nella Poetica, quando aveva aggiunto una metafora più poetica (detto<br />

del sole: «seminando la <strong>di</strong>vina fiamma») e la possibilità <strong>di</strong> negazione<br />

<strong>di</strong> una proprietà <strong>della</strong> <strong>parola</strong> estranea: lo scudo come coppa senza<br />

vino (estraneo ad Ares). Ma ciò che più importa è che la posizione <strong>di</strong><br />

Aristotele si approfon<strong>di</strong>sce nella Retorica, dove l’accento è spostato –<br />

seguo la lettura <strong>di</strong> Morpurgo-Tagliabue – sulla densità del significato,<br />

sull’icasticità, sull’evidenza. Ad Aristotele non interessa l’uso or<strong>di</strong>nario<br />

del nome, la catacresi; egli non indaga l’origine del linguaggio nel senso<br />

che sarà <strong>di</strong> Mauthner, ma approfon<strong>di</strong>sce la metafora come ajstei'on,<br />

come eloquio eminente, urbano, vivace e arguto. Le metafore sono<br />

allora «tanti piccoli veloci sillogismi» 172 , sillogismi retorici che egli<br />

chiama entimemi 173 ; nella trattazione <strong>della</strong> metafora però l’accento è<br />

posto non tanto sul contenuto, ma sull’operazione stessa, sulla necessità<br />

<strong>di</strong> una comprensione imme<strong>di</strong>ata, facile e veloce 174 . L’or<strong>di</strong>ne <strong>della</strong> nuova<br />

classificazione dei tipi <strong>di</strong> metafora risulta allora rovesciato rispetto<br />

alla Poetica e il criterio <strong>di</strong>verso: «le metafore ajstei'a non vengono più<br />

presentate come processi sostitutivi <strong>di</strong> generi e specie, ma come processi<br />

associativi: <strong>di</strong> concetti, <strong>di</strong> immagini, <strong>di</strong> parole» 175 . Ne risulta in<br />

36


primo luogo la maggior efficacia rispetto alla similitu<strong>di</strong>ne che esplicita<br />

nel “come” la relazione tra i termini e si prolunga nel paragone. Nella<br />

nuova rassegna la “metafora-concetto” – corrispondente al quarto<br />

tipo <strong>della</strong> Poetica, l’analogia o proporzione, strutturata per corrispondenze<br />

e antitesi – viene poi <strong>di</strong>stinta da una metafora «più semplice<br />

e tuttavia assai felice» 176 , la “metafora-immagine”, che naturalmente<br />

può ad<strong>di</strong>zionarsi alla prima. In questo caso non avviene una semplice<br />

sostituzione, e nemmeno si tratta <strong>di</strong> una similarità indefinita: vengono<br />

accostati a sorpresa alcuni aspetti dell’attributo. Essa consiste quin<strong>di</strong><br />

nel mettere sotto gli occhi (pro; ojmmavtwn poiei'n) le cose in atto, il che<br />

può voler <strong>di</strong>re che esse devono essere viste come presenti o in procinto<br />

<strong>di</strong> accadere, ma può anche significare che esse sono animate, e[myuca,<br />

personificate.<br />

A questa estensione del significato corrisponde in Biese l’importanza<br />

data alla <strong>di</strong>mensione del processo metaforico, inteso come «la<br />

sintesi dell’interno e dell’esterno, l’interiorizzazione dell’esterno e l’incarnazione<br />

dello spirituale», non solo nel linguaggio, ma in genere in<br />

tutta l’attività simbolica 177 . <strong>La</strong> Veranschaulichung <strong>di</strong>venta presentazione<br />

<strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> vivente (o <strong>di</strong> morto) in atto, animazione dell’inanimato,<br />

analogia tra interno ed esterno che ci costringe a trasformare il movimento<br />

esterno in un supposto movimento interno allo spirito e a<br />

trasferirlo poi alle cose, dando vita alla materia inerte. Sarebbe allora<br />

implicita nella teoria aristotelica la possibilità <strong>di</strong> intendere la metafora<br />

come un processo essenziale e necessario dello spirito umano che<br />

trasforma la realtà secondo le proprie leggi, facendo principio del cosmo<br />

l’unità <strong>di</strong> psichico e fisico che sente in sé stesso e che trasferisce<br />

dall’interno all’esterno, dall’animato al corporeo, dal microcosmo al<br />

macrocosmo 178 . Così l’assunto <strong>di</strong> fondo dell’estetica <strong>di</strong> Vischer che il<br />

vedere – qui, il vedere con gli occhi dell’artista – non possa essere separato<br />

dall’animare, che tutti i mezzi <strong>della</strong> visualizzazione portino alla<br />

personificazione, <strong>di</strong>viene un criterio generale per affermare il carattere<br />

antropomorfico del linguaggio.<br />

Alla base <strong>di</strong> questa concezione del mondo sta l’idea che il linguaggio<br />

sia interamente simbolico: «la <strong>parola</strong> – scrive Biese – è immagine sensibile<br />

<strong>della</strong> vita interiore, copia <strong>di</strong> ciò che viene sentito, immagine sonora<br />

(<strong>La</strong>utbild) dell’immagine <strong>della</strong> rappresentazione» 179 . Subito dopo<br />

cita Gerber: «tutte le parole sono immagini sonore (<strong>La</strong>utbilder) e sono<br />

rispetto al loro significato in sé e dall’inizio dei tropi» 180 . Avviene in<br />

questo modo un doppio allontanamento dalla cosa: la sensazione non<br />

accoglie la cosa, anche se la determinatezza dello stimolo è in contatto<br />

con essa, ne è soltanto l’immagine; il suono pronunciato, a sua volta,<br />

è immagine sonora <strong>della</strong> rappresentazione, e un’immagine non è un<br />

raddoppiamento dell’originale, ne riproduce solo i tratti essenziali.<br />

Mauthner parla a sua volta <strong>della</strong> <strong>parola</strong> come immagine <strong>di</strong> immagine,<br />

come metafora che può condurre solo ad altre metafore. Rimaniamo<br />

37


imprigionati all’interno dell’immagine; ciò che noi sappiamo del mondo<br />

esterno – scrive Mauthner altrove – è sempre un simbolo, una metafora<br />

che non può raggiungere il tertium comparationis, come in un ballo in<br />

maschera in una città sconosciuta, riconosciamo <strong>di</strong> avere davanti delle<br />

maschere, ma non chi le indossi (aggiunge: e dobbiamo far attenzione<br />

qui anche al significato <strong>di</strong> “riconoscere”) 181 . Nel prendere le <strong>di</strong>stanze<br />

dagli altri autori che elaborano un’interpretazione molto vicina alla sua,<br />

Mauthner accentua così il carattere scettico <strong>della</strong> sua posizione. Egli non<br />

con<strong>di</strong>vide i presupposti psicologici <strong>di</strong> Biese che, a suo <strong>di</strong>re, rimangono<br />

legati alla teoria delle facoltà dell’anima, né i suoi esiti ontologici. Non<br />

cita però Gerber: forse non coglie nemmeno questo riferimento <strong>di</strong> Biese,<br />

forse non accetta la classificazione dei tropi <strong>di</strong> Gerber 182 , certo non può<br />

aderire alla sua concezione schopenhaueriana ed estetica del linguaggio<br />

come arte 183 . Cita però curiosamente un’affermazione <strong>di</strong> Kurt Bruchmann<br />

che, dopo il riferimento alla metafora per analogia in Aristotele,<br />

conclude: «allora quasi tutto il linguaggio sarebbe analogia o metafora»;<br />

Bruchmann aggiunge però: «quest’ultima tesi la sostiene G. Gerber» 184 .<br />

Mauthner sorvola su quest’ultimo riferimento e, pur apprezzando la<br />

spiegazione psicologica <strong>di</strong> Bruchmann, protesta contro il “quasi”: la<br />

reticenza <strong>di</strong> Bruchmann a considerare il linguaggio come essenzialmente<br />

metaforico deriverebbe dal residuo metafisico e teleologico contenuto<br />

nel principio <strong>di</strong> minima misura <strong>della</strong> forza del suo maestro Avenarius<br />

che farebbe ancora uso dei concetti <strong>di</strong> forza e <strong>di</strong> intenzione.<br />

<strong>La</strong> posizione <strong>di</strong> Mauthner appare più chiara se si considera l’atteggiamento<br />

che egli assume nei confronti <strong>di</strong> Friedrich Nietzsche, lettore<br />

<strong>di</strong> Gerber, del quale ripete, in Wahrheit und Lüge, con parole identiche<br />

e con gli stessi esempi, la teoria <strong>della</strong> <strong>parola</strong> come metafora 185 .<br />

Mauthner sembra non conoscere questo saggio apparso nel 1896; nei<br />

Beiträge le sue citazioni sono tratte quasi tutte dal volume xii delle<br />

opere curate da Koegel. Egli però riconosce più volte l’importanza <strong>di</strong><br />

Nietzsche nella sua formazione in relazione alla concezione evolutiva<br />

degli organi <strong>di</strong> senso, all’idea <strong>di</strong> una selezione arbitraria dei dati da<br />

parte dei sensi, al concetto <strong>di</strong> caso nello sviluppo <strong>della</strong> storia e cita un<br />

passo <strong>di</strong> Menschliches, Allzumenschliches, l’aforisma 11, “il linguaggio<br />

come presunta scienza”, che – egli afferma – esprime «quasi» un suo<br />

pensiero <strong>di</strong> fondo 186 : l’idea <strong>di</strong> porre con il linguaggio un mondo accanto<br />

al mondo, l’illusione <strong>di</strong> avere nel linguaggio la conoscenza del<br />

mondo, la fede nella verità trovata, la credenza nell’assolutezza <strong>della</strong><br />

logica e nella precisione <strong>della</strong> matematica. Solo oggi – scriveva Nietzsche<br />

– comincia a balenare il dubbio che con la fede nel linguaggio<br />

si sia propagato un mostruoso errore, «fortunatamente è troppo tar<strong>di</strong><br />

perché ciò possa far tornare in<strong>di</strong>etro lo sviluppo <strong>della</strong> ragione, che<br />

poggia su quella fede» 187 . Mauthner commenta con un gioco <strong>di</strong> parole:<br />

Nietzsche riveste le parole del linguaggio con i segni <strong>della</strong> regalità, ma<br />

pone nuda sul trono la cosiddetta ragione, cioè il linguaggio stesso 188 ;<br />

38


prosegue poi rimproverando a Nietzsche, troppo pensatore e troppo<br />

poeta, <strong>di</strong> aver limitato la critica del linguaggio all’ambito morale, <strong>di</strong> non<br />

averla estesa al linguaggio come strumento <strong>di</strong> conoscenza e, infine, <strong>di</strong><br />

essersi limitato a lamentarne l’inefficacia espressiva, vale a <strong>di</strong>re l’unica<br />

cosa che il linguaggio, a suo <strong>di</strong>re, sa fare. L’accusa potrebbe apparire<br />

ingiustificata anche soltanto alla lettura dei testi citati da Mauthner,<br />

dove l’uso «strategico» <strong>della</strong> metafora rivela l’intenzione decostruttiva<br />

<strong>della</strong> scrittura nella moltiplicazione dei punti <strong>di</strong> vista, ad<strong>di</strong>rittura paradossale<br />

se si ripercorre, sotto la guida <strong>della</strong> lettura <strong>di</strong> Sara Kofman, il<br />

crescendo delle metafore <strong>di</strong> Wahrheit und Lüge 189 . Mauthner si rende<br />

conto che la sua tesi fondamentale deve molto a Nietzsche, ma nell’affermare<br />

la necessità <strong>di</strong> tenere rigorosamente <strong>di</strong>stinti il linguaggio come<br />

strumento <strong>di</strong> conoscenza dal linguaggio come strumento artistico 190 ,<br />

il lavoro filosofico dalla poesia, formula un appunto critico importante<br />

(un timore che egli nutre forse anche per la propria opera) ricordando<br />

come Nietzsche rimanga ingabbiato nell’incantamento del linguaggio.<br />

Mauthner non si è accorto che in Aristotele avrebbe potuto trovare<br />

anche qualcosa d’altro. Nei capitoli x e xi <strong>della</strong> Retorica, alle prese<br />

con la classificazione degli ajstei'a, Aristotele aveva in<strong>di</strong>viduato infatti,<br />

accanto alla metafora concettuale per analogia e alla metafora eidetica,<br />

un terzo gruppo <strong>di</strong> metafore che Morpurgo-Tagliabue chiama “metafore<br />

verbali”: «un mero scambio <strong>di</strong> termini, un gioco <strong>di</strong> parole, che crea<br />

sensi e non sensi e provoca sorpresa» 191 . <strong>La</strong> proprietà <strong>di</strong> questo tipo<br />

<strong>di</strong> metafore è <strong>di</strong> essere elocuzioni a effetto (ejudokimou'nta) e la capacità<br />

<strong>di</strong> sorprendere, implicita in ogni tipo <strong>di</strong> metafora, prende forma<br />

dall’«inganno spiritoso» 192 , dall’ajpavth, che non è precisamente una<br />

falsità, e implica – come già aveva notato Untersteiner 193 – un piacere,<br />

un compiacimento da parte <strong>di</strong> chi si lascia ingannare. <strong>La</strong> seduzione<br />

deriva dall’equivoco, dal paradosso, dal doppio senso, dall’aforisma,<br />

in breve: dal gioco del linguaggio con sé stesso. Morpurgo-Tagliabue<br />

ne in<strong>di</strong>ca il principio nell’ambiguità verbale, origine <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione<br />

estetica e poetica che, attraverso gli asiani, i provenzali, i barocchi,<br />

giunge alle poetiche o<strong>di</strong>erne e arriva fino a Finnegans Wake 194 .<br />

Mauthner, senza riferirsi alla fonte greca, fa <strong>della</strong> metafora verbale il<br />

perno <strong>della</strong> sua analisi <strong>della</strong> <strong>parola</strong> 195 , affermando che alla base <strong>di</strong> ogni<br />

cambiamento <strong>di</strong> significato sta il Witz, il motto <strong>di</strong> spirito, l’arguzia 196 .<br />

L’in<strong>di</strong>cazione <strong>della</strong> sua pretesa conoscitiva viene giustificata etimologicamente:<br />

Witz – scrive – deriva da wissen e nel me<strong>di</strong>o alto tedesco ha<br />

l’esclusivo significato <strong>di</strong> Verstand e alcune parole composte ne conservano<br />

ancora il significato: Muttertwitz (senso comune), Aberwitz (follia,<br />

mancanza <strong>di</strong> buon senso), Wahnwitz (follia, assur<strong>di</strong>tà), Vorwitz (saccenteria).<br />

Lutero lo intende così e questa accezione si trova ancora in<br />

Lessing e Goethe; solo nel corso del Settecento la <strong>parola</strong> ha assunto il<br />

significato del francese esprit e designa un’attitu<strong>di</strong>ne umoristica oppure<br />

le sue singole espressioni e nella lingua studentesca si è degradata fino<br />

39


a significare “barzelletta” 197 . Mauthner ne spiega il significato come<br />

capacità <strong>di</strong> cogliere nessi ine<strong>di</strong>ti: «ogni metafora è arguta (witzig). <strong>La</strong><br />

lingua attualmente parlata da un popolo è la somma <strong>di</strong> milioni <strong>di</strong> Witze,<br />

è la raccolta delle pointe <strong>di</strong> milioni <strong>di</strong> aneddoti, la storia dei quali è<br />

andata perduta» 198 . Più avanti usa il termine Wippchen, scherzo, sberleffo,<br />

che accentua la mancanza <strong>di</strong> senso. Se le parole tengono ferme<br />

le somiglianze vicine, il mutamento semantico consiste nell’estensione<br />

del concetto, metaforica o witzig, alle somiglianze più lontane. E queste<br />

somiglianze sono più evidenti a chi ne è estraneo piuttosto che a un<br />

conoscitore: per gli europei – commenta – i Cinesi sono tutti uguali,<br />

per il citta<strong>di</strong>no tutte le mucche, per lo straniero tutti i membri <strong>di</strong> una<br />

famiglia 199 .<br />

Con questo l’autore non vuole certo darci una legge assoluta e<br />

precisa, né sostenere che in tutti i mutamenti semantici sia presente<br />

un Witz oppure una componente iperbolica ed esagerata, legata alla<br />

trasposizione del concetto e condensata nell’esempio curioso: “wenn<br />

Blaubeeren grün sind, sind sie rot” 200 . Egli anzi sostiene che il linguaggio<br />

prende spesso vie secondarie o scorciatoie, che ci fanno continuamente<br />

oscillare tra la presenza e l’oblio del significato metaforico:<br />

«<strong>di</strong>etro <strong>di</strong> noi rovine, davanti a noi costruzioni nuove, con noi la casa in<br />

cui <strong>di</strong>moriamo; <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> noi una lingua morta, davanti a noi il sentore<br />

<strong>di</strong> nuovi concetti, con noi un ondeggiare e un intrecciarsi (ein Wogen<br />

und Weben) <strong>di</strong> metafore, che stanno per <strong>di</strong>ventare parole senza senso<br />

e quin<strong>di</strong> utilizzabili» 201 .<br />

Nel delineare il processo <strong>di</strong> progressivo oblio del valore metaforico<br />

delle parole Mauthner fa spesso riferimento ai paragrafi sul Witz <strong>della</strong><br />

Vorschule der Aesthetik <strong>di</strong> Jean Paul Richter e cita più volte l’affermazione<br />

che «ciascuna lingua, sotto l’aspetto delle relazioni intellettuali, è<br />

un vocabolario <strong>di</strong> metafore sbia<strong>di</strong>te» 202 . Ma nel nono programma <strong>della</strong><br />

Vorschule Mauthner ha potuto trovare ancora molto altro: in primo<br />

luogo un fondo <strong>di</strong> idee e <strong>di</strong> immagini, un’affinità <strong>di</strong> stile nel pensiero<br />

asistematico e nella scrittura che procede senza un preciso or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

inventario, con giochi <strong>di</strong> prestigio, ritorni rapso<strong>di</strong>ci e riferimenti a<br />

volte oscuri, fitta <strong>di</strong> dettagli minimi e <strong>di</strong> giochi linguistici. <strong>La</strong><strong>di</strong>slao<br />

Mittner racconta del suo scrivere a getto continuo, del riempire migliaia<br />

<strong>di</strong> schede su tutto quanto riuscisse a leggere da auto<strong>di</strong>datta, nel<br />

tentativo <strong>di</strong> prendere possesso <strong>di</strong> ogni sfumatura del reale, ma la sua<br />

scrittura ci fornisce, al posto <strong>di</strong> un catalogo del mondo, uno schedario<br />

impossibile da consultare. In questo specchio frantumato dell’estetica<br />

romantica, che affida alle metafore dell’umorismo e del Witz il compito<br />

<strong>di</strong> un’improbabile sintesi, il filosofo <strong>della</strong> paro<strong>di</strong>a ha reperito gli spunti<br />

principali <strong>della</strong> sua concezione del linguaggio.<br />

Richter parte dalla premessa che definisce l’arguzia nel senso più<br />

ampio come «l’arte in sé del paragonare (Vergleichen)» 203 : il primo e<br />

più facile paragone tra due rappresentazioni è già arguzia, parto mi-<br />

40


acoloso (Wunderbegurt) del nostro io creatore, invenzione senza me<strong>di</strong>azioni,<br />

genialità frammentaria, come aveva scritto Schlegel; scopre<br />

rapporti <strong>di</strong> somiglianza tra grandezze incommensurabili, somiglianze<br />

tra il mondo dei corpi e il mondo degli spiriti, l’equazione tra sé e<br />

il mondo esterno, pertanto tra due intuizioni. In questo contesto già<br />

Richter aveva in<strong>di</strong>cato la parentela tra Witz e wissen, il significato <strong>di</strong><br />

Witz come genio e aveva elencato i sinonimi nelle <strong>di</strong>verse lingue: Geist,<br />

esprit, spirit, ingeniosus, legando in maniera molto stretta facoltà conoscitiva<br />

ed espressione linguistica 204 .<br />

Invero Jean Paul inizia l’esposizione del Witz citando l’antica definizione<br />

aristotelica secondo la quale l’arguzia sarebbe il potere <strong>di</strong><br />

trovare somiglianze lontane e la critica come generica e contrad<strong>di</strong>toria<br />

in quanto suppone una somiglianza <strong>di</strong>ssimile. L’argomento non sembra<br />

peraltro convincente e lascia intravedere una sorta <strong>di</strong> puntiglio lessicale,<br />

ma egli procede subito oltre; la natura decostruttiva del suo stile<br />

argomentativo gli impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> riposare in una determinazione precisa,<br />

gli fa pensare subito alla possibilità <strong>di</strong> un motto <strong>di</strong> spirito nel quale<br />

la somiglianza <strong>di</strong>venta eguaglianza e l’eguaglianza <strong>di</strong>venta eguale a sé<br />

stessa nel circolo arguto (esempio: limare la lima del critico). Torna poi<br />

<strong>di</strong> nuovo al concetto, riconosce che l’arguzia sa scovare somiglianze<br />

che si celano <strong>di</strong>etro alle <strong>di</strong>ssimiglianze e risolve la definizione con la famosa<br />

metafora: l’arguzia in senso stretto è il «prete travestito che sposa<br />

tutte le coppie» 205 . Non coppie qualsiasi perché la componente estetica<br />

non si presenta in ogni accostamento casuale, essa nasce «grazie<br />

alla rapi<strong>di</strong>tà dei giochi <strong>di</strong> prestigio e <strong>di</strong> parole esibita dal linguaggio,<br />

il quale è così abile da riuscire a spacciare somiglianze d’un mezzo,<br />

un terzo, un quarto, per vere e proprie eguaglianze grazie a un solo<br />

segno e pre<strong>di</strong>cato comune» 206 . Questa posizione <strong>di</strong> eguaglianza prende<br />

il genere per la specie, il tutto per la parte, la causa per l’effetto e<br />

viceversa, è – scrive – «una truffa (Volteschlagen) del linguaggio» 207 ,<br />

l’inganno del tropo.<br />

Fin qui eravamo però nell’ambito <strong>della</strong> trattazione del Witz non<br />

figurato (unbildlich), che accosta quin<strong>di</strong> senza somiglianza <strong>di</strong> immagine<br />

(un esempio dello stesso autore è: “le donne e gli elefanti hanno paura<br />

dei topi”), ma in questo capitolo Richter inserisce anche la trattazione<br />

<strong>della</strong> metafora, che egli intende come Witz figurato (bildlich), dove la<br />

fantasia ha un ruolo preponderante rispetto all’intelletto, e alla truffa<br />

subentra la magia. È stato notato che il passaggio dal motto <strong>di</strong> spirito<br />

alla metafora o ad<strong>di</strong>rittura la loro coincidenza non sono spiegati in<br />

modo persuasivo, ma è proprio questo scarto argomentativo che serve<br />

a Mauthner per connettere metafora e Witz, per riproporre a un nuovo<br />

livello l’enigma del linguaggio sospeso tra <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> e magia. Secondo<br />

Jean Paul le metafore si avvalgono dello stesso potere misterioso<br />

che fonde l’anima e il corpo e che permette <strong>di</strong> riconoscere nei tratti <strong>di</strong><br />

un volto l’espressione <strong>di</strong> un sentimento spirituale; egli le chiama «in-<br />

41


carnazioni <strong>della</strong> lingua (Sprachmenschwerdungen)» che in tutti i popoli<br />

si corrispondono: «e non vi è nessuno tra essi che chiami l’errore luce<br />

e la verità tenebre» 208 . Certo, aggiunge, non vi sono segni assoluti,<br />

perché ogni segno è a sua volta una cosa e ogni cosa ha un significato<br />

e una valenza denotativa, ma l’argomento si conclude in un salto logico<br />

con l’immagine dell’isola degli spiriti circondata da un mare straniero<br />

che allude all’in<strong>di</strong>cibile.<br />

Accostata a Dio, la metafora viene definita da un crescendo <strong>di</strong> immagini:<br />

«cintura <strong>di</strong> Venere», cordone ombelicale che lega lo spirito alla<br />

natura, «piccolo fiore poetico», espressione questa che dà origine a una<br />

<strong>di</strong>vagazione sul profumo dei fiori, sull’olfatto e il gusto, e si conclude<br />

con «un’operazione <strong>di</strong> cambio»: «com’è bello scoprire dunque che le<br />

metafore, queste transustanziazioni dello spirito, sono eguali ai fiori, i<br />

quali regalano al corpo una grazia così pittorica, ma anche allo spirito,<br />

quasi come colori spirituali, come spiriti in fiore» 209 . <strong>La</strong> metafora è<br />

un doppio tropo 210 che può animare il corpo o incarnare lo spirito, è<br />

allora la <strong>parola</strong> primitiva che univa l’io e il mondo, precedente l’espressione<br />

propria.<br />

<strong>La</strong> collocazione centrale del Witz nel programma poetologico <strong>di</strong><br />

Jean Paul e la considerazione <strong>della</strong> metafora sotto il titolo <strong>di</strong> bildliche<br />

Witz capovolge il rapporto stabilito dalla tra<strong>di</strong>zione tra i due concetti<br />

(Kant nell’Anthropologie lo aveva considerato semplice con<strong>di</strong>mento e<br />

lo aveva contrapposto alla serietà del giu<strong>di</strong>zio 211 ), conferisce al Witz la<br />

capacità estetica, ma anche cognitiva – che collega acume (Scharfsinn)<br />

e profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> pensiero (Tiefsinn) – <strong>di</strong> cogliere nella trama del sensibile,<br />

negli infiniti accostamenti possibili, l’immagine pertinente, il colore<br />

giusto: «<strong>di</strong> solito – scrive – è attraverso la metafora che si trova la via<br />

del paragone» 212 . <strong>La</strong> magia <strong>della</strong> metafora rimanda all’unità originaria<br />

<strong>di</strong> materia e pensiero che perpetua nel linguaggio l’eco delle cose; la<br />

sua potenza non deriva da un mondo <strong>di</strong> idee sovrapposto all’io, «quasi<br />

un secondo mondo al <strong>di</strong> là del primo», un mondo dato «una seconda<br />

volta» (un’espressione che abbiamo trovato anche in Mauthner).<br />

<strong>La</strong> «monade <strong>della</strong> metafora», come ha scritto Eugenio Spe<strong>di</strong>cato che<br />

sottolinea questo riferimento leibniziano 213 , esclude materialismo e<br />

idealismo, esterno ed interno; le sue capacità combinatorie considerano<br />

reale ogni pensiero e fantasia, così come – afferma Jean Paul – un<br />

arcobaleno.<br />

Un’ulteriore conseguenza <strong>della</strong> trattazione <strong>della</strong> metafora-Witz in<br />

questa parte del Proscholium, è l’accostamento al comico romantico,<br />

all’umorismo, definito come sublime alla rovescia, intuizione geniale<br />

che avvia nella teoria estetica la riflessione sui mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>sarmonici del<br />

bello, incapace ormai <strong>di</strong> trascendersi nel sublime, poiché il sublime<br />

stesso non ne rappresenta che un momento, che imme<strong>di</strong>atamente si<br />

rovescia nel suo contrario, senza possibilità né <strong>di</strong> anelito verso l’infinito,<br />

né <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione 214 . In questo modo però la riflessione estetica<br />

42


<strong>di</strong> Jean Paul assume un significato metafisico e teologico, come appare<br />

dall’affermazione secondo cui, per ogni angelo che ride dell’uomo,<br />

c’è un arcangelo che ride <strong>di</strong> lui, e sopra tutti vi è un Dio che ride <strong>di</strong><br />

tutto. <strong>La</strong> poesia deforma il mondo sensibile nello specchio concavo<br />

che essa rivolge verso l’idea, lo rende angoloso, allungato e sfilacciato,<br />

<strong>di</strong>pingendolo con i colori <strong>della</strong> fantasia e dell’arguzia, ma anche la<br />

filosofia mescola ragione e follia e il suo emblema è Diogene, che gli<br />

antichi chiamavano un Socrate forsennato 215 . L’accostamento <strong>di</strong> ragione<br />

e passione serve a Richter per scoprire l’essenza dell’umorismo<br />

nella sua maschera tragica, che – scrive – egli porta «se non sul volto,<br />

nella mano» 216 .<br />

Mauthner, che considera Jean Paul più fine come critico che come<br />

scrittore <strong>di</strong> romanzi, riprende la teoria del Witz e dell’umorismo nelle<br />

voci del Wörterbuch che trattano questo tema. In particolare nella voce<br />

“Humor”, dopo aver ricostruito le «doglie del parto» <strong>della</strong> <strong>parola</strong> tedesca,<br />

la storia <strong>della</strong> traduzione dell’inglese Humour con <strong>La</strong>une da parte<br />

<strong>di</strong> Lessing e la successiva correzione, entra nel merito <strong>della</strong> <strong>di</strong>stinzione<br />

<strong>di</strong> Richter tra umorismo e ironia. Contro la concezione romantica che<br />

confondeva i due termini e finiva col ridurre l’umorismo alla semplice<br />

figura retorica dell’ironia, che finge <strong>di</strong> affermare quello che nega,<br />

Mauthner afferma, sulla scia <strong>di</strong> Jean Paul, la centralità <strong>di</strong> questo tema<br />

nella filosofia e il suo legame con il tragico. Non risparmia poi alcune<br />

critiche all’autore <strong>della</strong> Clavis fichtiana per esser rimasto troppo legato<br />

ai giochi romantici dell’ironia; lo stesso Goethe, che con la figura <strong>di</strong><br />

Mefistofele si è molto avvicinato all’umorismo, non ha compreso che<br />

«la proprietà dell’umorismo, il riso dell'umorismo, lo può possedere<br />

soltanto un uomo; e Mefistofele non è un uomo» 217 .<br />

I temi <strong>di</strong> Jean Paul vengono trattati da Mauthner anche attraverso<br />

la lettura più sistematica che ne aveva fatto «l’estetico tedesco per eccellenza»<br />

218 , Friedrich Theodor Vischer. <strong>La</strong> sua indagine sul bello 219<br />

si presenta da subito come teoria del sublime e del comico, mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>sarmonici<br />

del bello che ne evidenziano la frattura e la sproporzione.<br />

L’impossibilità <strong>di</strong> trovare una qualsiasi figura genuinamente sublime<br />

che non si <strong>di</strong>ssolva nel nulla, intaccata dal comico nelle sue <strong>di</strong>verse<br />

forme del comico ingenuo, del comico dell’intelletto, del Witz, e del<br />

comico <strong>della</strong> ragione, dell’umorismo, viene introdotta dalle metafore<br />

dello sgambetto, del naufragio, <strong>della</strong> bolla <strong>di</strong> sapone che scoppia. Il<br />

procedere hegeliano per tria<strong>di</strong> è un or<strong>di</strong>ne apparente che nasconde<br />

una raffinata sensibilità estetica e una «<strong>di</strong>sperazione speculativa» 220 .<br />

Invero, per quanto riguarda il tema <strong>della</strong> metafora come Witz, Vischer<br />

rimette in or<strong>di</strong>ne la partizione dell’estetica, sottolineando il carattere<br />

<strong>di</strong> inadeguatezza dell’immagine nel Witz e spostando la <strong>di</strong>samina <strong>della</strong><br />

metafora nel capitolo sulla poesia. Quando però delinea i momenti del<br />

comico e afferma che l’umorismo giunge al cuore del mondo, cita le<br />

metafore <strong>di</strong> Richter che compen<strong>di</strong>ano la descrizione del sublime rove-<br />

43


sciato nelle immagini <strong>di</strong> Merope, l’uccello che sale in cielo dalla parte<br />

<strong>della</strong> coda, e del saltimbanco che danza sulla testa e beve il nettare dal<br />

basso verso l’alto. L’umorismo <strong>di</strong>ssolve allora nella derisione cosmica<br />

(un termine <strong>di</strong> Jean Paul) la stoltezza e la follia del mondo impersonata<br />

dalla figura <strong>di</strong> Don Chisciotte 221 .<br />

Mauthner, che apprezza più Vischer per il suo romanzo umoristico<br />

Auch Einer che per le sue partizioni sistematiche, traduce nel suo linguaggio<br />

i tre livelli del comico: il primo gra<strong>di</strong>no, quello dell’umorismo<br />

ingenuo, non è – secondo lui – nemmeno umoristico; il secondo è quello<br />

che possiamo gustare in Shakespeare, Swift, un po’ meno in Sterne,<br />

e anche in Jean Paul e Vischer; il terzo «non è altro che la concezione<br />

del mondo del tutto libera <strong>della</strong> mente veramente filosofica, il sacro<br />

riso del filosofo, la superiorità rispetto a tutto l’affannarsi e il pensare<br />

dell’uomo, la rassegnazione <strong>di</strong> un grande cuore» 222 .<br />

L’umorismo resiste alla definizione: ci sono figure umoristiche, non<br />

l’umorismo 223 ; lo stesso Vischer – scrive Mauthner – che afferma come<br />

necessario il concetto <strong>di</strong> umorismo, riconosce che la sua realizzazione<br />

rimane un compito, che esso è soltanto «un postulato <strong>della</strong> teoria» 224 .<br />

Rimane in ogni caso un termine <strong>della</strong> modernità: forse lo possedeva<br />

Socrate, ma i Greci non conoscevano l’umorismo e uccisero il loro<br />

unico umorista 225 .<br />

Da questo punto <strong>di</strong> vista non stupisce che Mauthner non potesse<br />

accettare la teoria del riso <strong>di</strong> Bergson, al quale de<strong>di</strong>ca una specifica<br />

voce del Wörterbuch. Si tratta <strong>di</strong> un articolo nazionalistico e sciovinista,<br />

abbozzato nell’aprile e scritto nell’agosto del 1914, all’inizio <strong>della</strong> grande<br />

guerra, nel quale Mauthner chiama il filosofo francese – che aveva<br />

definito barbari i tedeschi – «sartino volenteroso <strong>della</strong> moda filosofica<br />

parigina» 226 , giocoliere dei concetti, esempio <strong>della</strong> capacità francese<br />

(<strong>di</strong> alcuni francesi, invero: salva Poincaré, Voltaire e Anatole France)<br />

<strong>di</strong> intrattenere senza <strong>di</strong>re nulla. Ma è il saggio sul riso che più lo in<strong>di</strong>spone,<br />

forse per la spiegazione del riso come gesto sociale che reprime<br />

le eccentricità, certamente per la sua riduzione al piano dell’intelletto,<br />

a meccanizzazione <strong>della</strong> vita, a resistenza <strong>della</strong> materia nei confronti<br />

dello slancio vitale, tutti concetti metafisici, secondo il nostro, che non<br />

gli fanno cogliere il tragico nel comico e gli fanno attribuire il comico<br />

nel don Chisciotte alla sbadataggine 227 .<br />

E il riso del filosofo supera poi, secondo Mauthner, anche l’umorismo<br />

tragico del cavaliere dalla trista figura: il filosofo scettico ride <strong>di</strong><br />

tutto ciò che vi è <strong>di</strong> sacro nella vita <strong>di</strong> tutti giorni, ma sa <strong>di</strong> appartenere<br />

a questa quoti<strong>di</strong>anità priva <strong>di</strong> eroi; si allontana dal mondo, ma non<br />

<strong>di</strong>venta un Übermensch 228 , si accontenta <strong>di</strong> in<strong>di</strong>care il carattere witzig<br />

nel nostro linguaggio quoti<strong>di</strong>ano. Lessing aveva usato per definire il<br />

Witz la metafora <strong>della</strong> stoffa cangiante: «una stoffa <strong>di</strong> cui non si può<br />

<strong>di</strong>re se sia azzurra o rossa, verde o gialla; che è tutte e due, che da<br />

questo lato appare così, dall’altro appare in modo <strong>di</strong>verso; un gioco<br />

44


<strong>della</strong> moda, un <strong>di</strong>vertimento per bambini». Esattamente la stessa metafora<br />

che Fontane ha usato per descrivere Mauthner 229 .<br />

Questo lavoro è stato svolto nell’ambito <strong>della</strong> Scuola superiore <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

filosofia dell’<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Roma “Tor Vergata”, dell’<strong>Università</strong> dell’Aquila e<br />

dell’<strong>Università</strong> <strong>della</strong> Tuscia-Viterbo.<br />

Ringrazio il prof. Luigi Russo per aver accolto questo stu<strong>di</strong>o nella collana<br />

da lui <strong>di</strong>retta.<br />

Ringrazio inoltre la prof. Gianna Gigliotti che ha seguito con rigore e delicatezza<br />

lo svolgersi <strong>della</strong> ricerca. Un grazie anche al prof. Luigi Perissinotto<br />

per avermi suggerito il tema, alla prof. Lia Formigari per alcune importanti<br />

in<strong>di</strong>cazioni teoriche sui temi dello psicologismo e <strong>della</strong> linguistica, al prof. Elio<br />

Franzini per i consigli sul taglio <strong>della</strong> ricerca, al prof. Luigi Ambrosiani per la<br />

revisione <strong>della</strong> traduzione.<br />

Ringrazio infine il prof. Alessandro Cavagna per i suggerimenti sullo stile<br />

dati con autorevole leggerezza. Un grazie infine a mia figlia Maddalena.<br />

De<strong>di</strong>co questo stu<strong>di</strong>o al mio amico Ugo Ischia perché, credo, gli sarebbe<br />

piaciuto, e ne avrebbe riso.<br />

1 Lettera a Otto Brahm, 3 <strong>di</strong>cembre 1893, in Fontane 1910, pp. 312-13.<br />

2 Pochi sono gli stu<strong>di</strong> de<strong>di</strong>cati a questo autore in Italia: Albertazzi 1986 e Mastrod<strong>di</strong><br />

2002. Alcuni passi dei Beiträge sono stati tradotti in italiano da Michela Mastrod<strong>di</strong> nel sito<br />

<strong>di</strong> “Dialegesthai”. Recentemente sono stati tradotti da Luciano Franceschetti anche i primi<br />

due volumi dell’Ateismo e la sua storia in Occidente per il sito dell’Unione degli Atei e degli<br />

Agnostici Razionalisti.<br />

3 Un’analisi dettagliata dell’atten<strong>di</strong>bilità <strong>della</strong> ricostruzione autobiografica degli anni<br />

praghesi nelle Erinnerungen – iniziate nel 1913, ma pubblicate dopo la guerra, nel 1918 – si<br />

trova in Kühn 1975 che percorre analiticamente tutte le fasi <strong>della</strong> vita e del lavoro letterario<br />

e filosofico <strong>di</strong> Mauthner. Per il periodo <strong>di</strong> Praga cfr. anche Ravy 2004.<br />

4 Mauthner 1918, pp. 32-33. Mauschel significa ebreo, giudeo in senso spregiativo.<br />

5 Mauthner 1918, p. 49.<br />

6 Ritchie Robertson attribuisce a Mauthner l’origine del “mito” del cattivo tedesco <strong>di</strong><br />

Praga; lo spiega come purismo linguistico oscurantista che si collega all’esaltazione dei <strong>di</strong>aletti<br />

tedeschi del mondo conta<strong>di</strong>no e alla polemica contro il linguaggio del giornalismo, espressione<br />

<strong>della</strong> modernità giudaica; cfr. Robertson 2004.<br />

7 Per un approfon<strong>di</strong>mento del contrasto tra l’origine ebraica e la scelta nazionalistica cfr.<br />

Goldwasser 2004 e Robertson 2004.<br />

8 Kleinseite è il nome tedesco <strong>di</strong> Mala Strana.<br />

9 Mauthner 1918, p. 72.<br />

10 Ivi, p. 73.<br />

11 L’uso del termine “ceco” anziché “boemo” ha una connotazione storico-politica: “boemo”<br />

comprende il riferimento alle due lingue, “ceco” ha una connotazione esclusivamente etnicolinguistica;<br />

cfr. Ravy 2004, n. 20, p. 27.<br />

12 Nel 1857 la popolazione <strong>della</strong> capitale boema era: 33,37% tedeschi, 55,92% boemi; nel<br />

1869, 17,91% tedeschi, 81,50% boemi, nel 1900 la percentuale dei tedeschi scende a 7,46;<br />

cfr. Ravy 2004, p. 38, n. 45. Sugli ebrei a Praga nella seconda metà dell’Ottocento cfr. anche<br />

Le Rider 1994: all’inizio dell’Ottocento Praga sembra una città tedesca, parlano ceco solo<br />

i domestici e gli artigiani. Un secolo più tar<strong>di</strong> la parte tedesca è in netta <strong>di</strong>minuzione e nel<br />

1900 il 40% <strong>della</strong> popolazione tedesca, ridotta al 7,5%, è costituita in gran parte da ebrei.<br />

Un numero crescente <strong>di</strong> ebrei si <strong>di</strong>chiara <strong>di</strong> lingua ceca, anche se continua a mandare i figli<br />

alla scuola tedesca. Anche la vita culturale vede ora una forte presenza ceca.<br />

45


13 Così si esprime Mauthner in un articolo <strong>di</strong> giornale del 1878, citato in Thunecke<br />

2004, p. 83.<br />

14 In un manoscritto datato 9 novembre 1922 (Zu Lebenserinnerungen ii) Mauthner ricorda<br />

il redattore capo e il suo e<strong>di</strong>tore con giu<strong>di</strong>zi taglienti sulla loro preparazione culturale;<br />

cfr. Betz - Thunecke 1984.<br />

15 Il primo volume, con 17 paro<strong>di</strong>e <strong>di</strong> scrittori e autori noti, raggiunge la <strong>di</strong>ciottesima<br />

e<strong>di</strong>zione già nel 1879, il secondo, scritto sull’onda del successo, arriva alla tre<strong>di</strong>cesima e<strong>di</strong>zione<br />

dopo tre anni, nel 1902 esce il volume che contiene tutte le 22 satire. Nel 1923, anno <strong>della</strong><br />

morte dell’autore, le e<strong>di</strong>zioni sono circa cinquanta, cfr. Schneider 2004, pp. 105-06.<br />

16 Bab, citato in Kühn 1975, n. 213, p. 175.<br />

17 Il conflitto tra il sentimento <strong>di</strong> identità ebraica e identità culturale tedesca è analizzato in<br />

Weiler 1963 e Goldwasser 2004. Mauthner non nega la sua identità ebraica, la riconosce anzi<br />

come «ein Duktus im Gehirn», un ductus nel suo cervello (lettera a <strong>La</strong>ndauer del 10 ottobre<br />

1913), non tanto ere<strong>di</strong>tà biologica, ma caratteristica dello stile e richiamo alla tra<strong>di</strong>zione intellettuale<br />

ebraica scettica ed eretica, costituisce insomma «un pezzo <strong>della</strong> sua critica» (Goldwasser<br />

2004, p. 61). In un articolo, apparso postumo sul “Menorah Journal” nel febbraio del 1924,<br />

Mauthner si esprime però cautamente sulla connessione tra scetticismo e tra<strong>di</strong>zione ebraica;<br />

richiama Spinoza, critico invero, ma non scettico, e Maimon, troppo minuzioso però e microscopico<br />

nell’argomentare; riconosce che forse vi è qualcosa <strong>di</strong> comune tra l’ebreo e la scepsi:<br />

forse proprio questa passione per l’argomentare atomistico che si arresta <strong>di</strong> fronte al sistema<br />

ma – conclude – tutto questo è comune anche a Nietzsche, più scettico <strong>di</strong> qualsiasi ebreo, e<br />

allo «scaldo» Ibsen che pre<strong>di</strong>ca la menzogna (il testo si trova in Betz-Thunecke 1989).<br />

18 Collabora anche con “Allgemeine Zeitung”, “Kölnische Zeitung”, “Schorer’s Famili-<br />

Familienblatt”<br />

e “Die Nation”, <strong>di</strong>rige dall’ottobre del 1889 la rivista “Deutschland” che confluirà<br />

(finisce per essere scritta quasi interamente da lui) alla fine dell’anno successivo nel “Magazin<br />

für Literatur”; cfr. Betz-Thunecke 1984-1985.<br />

19 Cfr. Deft 1994 e Arens 2001. Per ricostruire il periodo berlinese sono particolarmente<br />

interessanti le lettere <strong>di</strong> Fontane: posse<strong>di</strong>amo solo le lettere <strong>di</strong> Fontane a Mauthner, quasi<br />

nessuna <strong>di</strong> Mauthner a Fontane; datano dal 20 <strong>di</strong>cembre 1888 al 6 <strong>di</strong>cembre 1898 e riguardano<br />

le reciproche recensioni e la collaborazione alla rivista “Deutschland”. Gli argomenti<br />

del confronto sono i temi principali <strong>della</strong> cultura e <strong>della</strong> politica, le pubblicazioni, il teatro,<br />

le <strong>di</strong>missioni <strong>di</strong> Bismarck, le critiche <strong>di</strong> Harden a Guglielmo ii, la riflessione insomma sul<br />

linguaggio <strong>della</strong> letteratura e <strong>della</strong> critica (un esempio interessante sono le considerazioni<br />

<strong>di</strong> Fontane sui <strong>di</strong>scorsi del Kaiser come manipolazioni del linguaggio e <strong>della</strong> logica; cfr.<br />

Betz-Thunecke 1985, n. 293, p. 23). Emerge un giu<strong>di</strong>zio accorto <strong>di</strong> Fontane sulla scrittura<br />

letteraria dell’amico, del quale apprezza lo stile scoppiettante e la forza satirica (in particolare<br />

in Xanthippe), ma ne rileva il pericolo <strong>di</strong> innescare una bomba che poi viene scagliata nella<br />

<strong>di</strong>rezione sbagliata (lettera n. 9). Positive sono anche le recensioni da parte <strong>di</strong> Mauthner che<br />

pubblica l’anteprima <strong>di</strong> Stine <strong>di</strong> Fontane sulla rivista, ma le osservazioni critiche, spesso su<br />

elementi secondari (ad esempio l’uso dei nomi veri delle <strong>di</strong>tte berlinesi), sembrano celare un<br />

certo rancore che si esprimerà più esplicito nei ricor<strong>di</strong> più tar<strong>di</strong>. Le ultime lettere accennano<br />

ai mali del vecchio letterato e alla malattia agli occhi <strong>di</strong> Mauthner che ormai ha deciso <strong>di</strong><br />

abbandonare l’impegno letterario e de<strong>di</strong>carsi alla filosofia: «Ja <strong>di</strong>e Philosophie!», commenta<br />

Fontane, e spera non si tratti <strong>di</strong> etica (che gli ebrei – come egli scrive altrove – sanno ben<br />

trattare solo per secon<strong>di</strong> fini, lettera n. 60 e note); cfr. Betz - Thunecke 1984-1985.<br />

20 Hanna Deft suggerisce che il ricorso all’epistolario (anche nei perio<strong>di</strong> in cui i due non<br />

erano lontani e le lettere erano premessa dei colloqui <strong>di</strong>retti) fosse anche la con<strong>di</strong>zione – per<br />

la me<strong>di</strong>azione <strong>della</strong> scrittura che evitava il confronto verbale e <strong>di</strong>retto – <strong>di</strong> questa lunga<br />

amicizia tra personalità così <strong>di</strong>verse: lo scettico melanconico e il visionario passionale, il<br />

sostenitore <strong>di</strong> Bismarck e l’anarchico, il fautore dell’assimilazione ebraica e il sionista <strong>della</strong><br />

cultura, lo storico dell’ateismo e il rivoluzionario; cfr. Deft 1994, p. xiv.<br />

21 Cfr. Kühn 1975, pp. 323-24.<br />

22 B i, p. xv. Le abbreviazioni usate in<strong>di</strong>cano: B – Beiträge zu einer Kritik der Sprache,<br />

Mauthner 1999; W – Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik der Sprache,<br />

Mauthner 1997; 3BW – Die drei Bilder der Welt: Ein Sprachkritischer Versuch, Mauthner 1925;<br />

tra parentesi è in<strong>di</strong>cato il numero <strong>della</strong> pagina <strong>della</strong> traduzione italiana.<br />

23 Platone, Teeteto, 183b.<br />

24 Kühn 1975, p. 230.<br />

25 Maria Hedwig Luitgar<strong>di</strong>s Straub (Emmen<strong>di</strong>ngen nel Baden-Würtenberg 1872 - Meersburg<br />

1945); pseudonimo: Harriet Straub, scrittrice e giornalista.<br />

46


26 Richard Avenarius (Parigi 1843 - Zurigo 1896) è, con Mach, un esponente dell’empiriocriticismo;<br />

è un filosofo relativista e ra<strong>di</strong>cale, che elabora una concezione funzionalistica<br />

<strong>di</strong> un sapere senza fondamenti. A Hedwig Straub e a Mauthner doveva senz’altro piacere la<br />

proposta <strong>di</strong> Avenarius <strong>di</strong> attenersi al punto <strong>di</strong> vista del filosofo greco che si reca al mercato<br />

non per vendere o per comperare, ma per contemplarne l’an<strong>di</strong>rivieni. Ma non solo questo:<br />

Avenarius prendeva le mosse dall’assunzione del concetto <strong>di</strong> esperienza in senso molto largo,<br />

come l’insieme <strong>di</strong> asserzioni (Aussagen) degli in<strong>di</strong>vidui sul loro ambiente, per poi procedere a<br />

una critica analitica; cfr. Avenarius 2004, pp. 3-5 (pp. 7-8). L’intendere l’esperienza in senso lato<br />

come “esperienza asserita” poneva sullo stesso piano la credenza superstiziosa, l’osservazione<br />

scientifica e la teoria filosofica, rivelando la relatività <strong>di</strong> molti concetti. Il proce<strong>di</strong>mento <strong>di</strong><br />

purificazione dell’esperienza doveva allora ricomporre una visione del mondo antecedente<br />

alle partizioni speculative che separano psichico e fisico. Mauthner nei Beiträge lo aveva citato<br />

più volte accanto a Mach e aveva notato il carattere passionale che sottendeva all’esposizione<br />

troppo astratta <strong>della</strong> sua teoria del conoscere; cfr. B I, p. 338.<br />

27 W i, p. xvi.<br />

28 Ivi, p. cxxx.<br />

29 Ivi, p. 386.<br />

30 Un esempio la voce, piena <strong>di</strong> offese scioviniste, de<strong>di</strong>cata a Bergson, W i, p. 162 ss.<br />

31 Mauthner 1989, p. v (p. i).<br />

32 Cfr. Spörl 1997, p. 50 e Kühn 1975, p. 251 e p. 91 ss.<br />

33 L’eco del Faust <strong>di</strong> Goethe che protesta contro la sterilità <strong>della</strong> <strong>parola</strong> lascia intendere<br />

il primato conferito all’azione: «im Anfang war <strong>di</strong>e Tat», aveva concluso il mago, stanco delle<br />

astrattezze <strong>della</strong> cultura, ma in Mauthner si conclude ancora più ra<strong>di</strong>calmente: «in principio<br />

era la <strong>parola</strong>, e Dio era una <strong>parola</strong> (Im Anfang war das Wort, und Gott war ein Wort)» (W<br />

ii, p. 19); per una bella analisi delle numerose ricorrenze <strong>di</strong> questa citazione in Mauthner e<br />

per un confronto con la concezione del linguaggio <strong>di</strong> Goethe cfr. Lüktenhaus 2004.<br />

34 B i, p. 1 (p. 78).<br />

35 Ivi, pp. 1-2 (pp. 78-79) .<br />

36 Nella lettera a Elisabetta del Palatinato, in apertura dei Principia, Descartes accosta<br />

al proposito <strong>di</strong> un filosofare con <strong>di</strong>scorsi semplici e chiari, <strong>di</strong> <strong>di</strong>re solo ciò che è certo per<br />

esperienza o per ragione, una nota <strong>di</strong> leggerezza, dato che il libro non dovrà essere letto e<br />

compreso da un qualche vecchio gimnosofista, ma da una giovane e bella principessa (Weiler<br />

pensa si tratti <strong>di</strong> una de<strong>di</strong>ca a Clara Levysohn); Locke: «tanto è <strong>di</strong>fficile illustrare il vario<br />

significato e le molteplici imperfezioni delle parole, quando non abbiamo che parole per<br />

farlo»; Vico: «homo non intelligendo fit omnia»; Hamann a Jacobi: «capisci allora il mio<br />

principio del linguaggio <strong>della</strong> ragione, che cerco cioè <strong>di</strong> trasformare, con Lutero, tutta la<br />

filosofia in una grammatica?»; nella successiva lunga citazione <strong>di</strong> Jacobi la storia <strong>della</strong> filosofia<br />

viene descritta come un dramma nel quale ragione e linguaggio giocano il ruolo dei due<br />

Menecmi <strong>di</strong> Plauto e, uscita dalla catastrofe con Kant, non è ancora critica del linguaggio;<br />

Kleist: «l’idea viene nel parlare».<br />

37 Katherine Arens, con queste stesse motivazioni, definisce lo stile <strong>di</strong> Mauthner “impressionistico”,<br />

pittura delle sensazioni soggettive che mutano a ogni nuovo punto <strong>di</strong> vista e<br />

<strong>di</strong>struggono la consistenza <strong>della</strong> cosa in sé. In questo senso la definizione <strong>di</strong> ‘espressionismo’<br />

non mi sembra contrapposta; cfr. Arens 1984, cap. i.<br />

38 Per fare soltanto un esempio, Mauthner definisce la sua concezione con le parole seguenti:<br />

un misticismo saldo e vicino alla terra insieme a una scepsi <strong>di</strong>staccata e serenamente<br />

celeste (B I, p. XV).<br />

39 I primi contatti tra Mauthner e Hugo von Hofmannsthal (Vienna 1874 - Rodaun 1929)<br />

risalgono al 1892, ma lo scambio epistolare inizia dopo l’ottobre del 1902, dopo la pubblicazione<br />

<strong>della</strong> Lettera, e si conclude nel 1912 per una serie <strong>di</strong> incomprensioni.<br />

40 Hugo von Hofmannsthal 1980; cfr. il capitolo “<strong>La</strong> ruggine dei segni. Hofmannsthal e<br />

la Lettera <strong>di</strong> Lord Chandos” in Magris 1984.<br />

41 Il poeta aveva risposto: «i miei pensieri hanno preso una strada simile, talvolta entusiasmati,<br />

altre volte angosciati dalla metaforicità del linguaggio», lettera a Mauthner del 3<br />

novembre 1902 (Stern 1978).<br />

42 Al <strong>di</strong> là dell’inutile questione <strong>della</strong> priorità, altri passi del Nachlass, riportati da Stern,<br />

mostrano espliciti riferimenti <strong>di</strong> Hofmannsthal alla critica del linguaggio <strong>di</strong> Mauthner; un<br />

esempio soltanto: «il libro <strong>di</strong> Mauthner è ora qui come un grido… moriamo e non arriviamo<br />

ad alcun risultato» (non datato).<br />

43 Christian Morgenstern (Monaco <strong>di</strong> Baviera 1871 - Merano 1914) ottenne la fama con<br />

47


i Galgenlieder (Canti patibolari), pubblicati nel 1905. Al cinquantasettesimo compleanno <strong>di</strong><br />

Mauthner, il 22 novembre del 1907, gli de<strong>di</strong>ca questo breve scherzo: «Aus dem Anzeigenteil<br />

einer Tageszeitung des Jahres 2407 | Vorankün<strong>di</strong>gung | 22. November Fritzmauthnertag 22.<br />

November | Spectaculum grande | Großes Wörterschießen! Preise bis zu 1000 M! | Mittelpunkt<br />

der Veranstaltung | Zehnmaliges Erschießen des Wortes | “Weltgeschichte” | Durch<br />

je zehn Scarfschützen | Zehn deutscher Stämme. | Erinnerungszeichen! | Kaltes Buffet! |<br />

Schießplatz Neu-Kaputt. Vis à vis dem Luftschiffhafen | Das Festkomité | Der Vereinigung<br />

zur ordnungsmässigen Erschießung | verurteilter Wörter». (Dagli annunci <strong>di</strong> un quoti<strong>di</strong>ano<br />

dell’anno 2407 | preavviso | 22 novembre giornata <strong>di</strong> Fritz Mauthner 22 novembre | Spectaculum<br />

grande | grande esercitazione <strong>di</strong> tiro alle parole! | prezzi fino a 1000 marchi | centro <strong>della</strong><br />

manifestazione: | fucilazione per <strong>di</strong>eci volte <strong>della</strong> <strong>parola</strong> | Weltgeschichte (storia del mondo)<br />

| da parte <strong>di</strong> ben <strong>di</strong>eci tiratori scelti | <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci stirpi germaniche. | Cotillons! | Buffet freddo!<br />

| Piazza del tiro Nuovo kaputt. Vis à vis all’aeroporto. | Il comitato per i festeggiamenti |<br />

dell’unione per la fucilazione regolare delle parole condannate); Wiener 1972, p. cxxiii.<br />

44 Sono le pp. 617-18, B iii, cf. Ben-Zvi 1980, Ben-Zvi 1984, pp. 65-88. Lernout riferisce<br />

del <strong>di</strong>verso approccio <strong>di</strong> Joyce e <strong>di</strong> Beckett al testo <strong>di</strong> Mauthner: Joyce legge il primo volume<br />

dei Beiträge, o almeno le prime cento pagine, allo scopo <strong>di</strong> ricavarne espressioni e intuizioni<br />

da riutilizzare; Beckett è più interessato all’impianto teorico complessivo <strong>della</strong> critica del linguaggio<br />

e alla sua coerenza; cfr. Lernout 1994, p. 26. Rimane però importante la consonanza<br />

<strong>di</strong> alcuni motivi in Joyce e in Beckett e sono i temi che Umberto Eco in<strong>di</strong>vidua nella sua<br />

interpretazione <strong>di</strong> Finnegans Wake: la forzatura dei limiti del linguaggio nelle metamorfosi<br />

continue che <strong>di</strong>ssolvono la fissità delle parole, il richiamo agli archetipi e al ritmo ciclico<br />

<strong>della</strong> storia <strong>di</strong> Vico, il gioco del calembour che si sostituisce all’or<strong>di</strong>ne categoriale; cfr. Eco<br />

1966, cap. iii. Beckett riassume questi temi nel saggio Dante… Bruno. Vico... Joyce cogliendo<br />

l’elemento centrale <strong>della</strong> poetica del Work in progress: «la scrittura <strong>di</strong> Joyce non è su qualcosa:<br />

è quel qualcosa», «quando il senso è sonno, le parole vanno a dormire, […] quando il<br />

senso sta danzando le parole danzano» (Beckett 1929). Per il richiamo <strong>di</strong> Beckett ai temi dei<br />

Beiträge cfr. anche Skerl 1974.<br />

45 Oswald Wiener (Vienna 1935), cibernetico, matematico, filosofo e letterato, scrive:<br />

«guardai verso l’alto e vi<strong>di</strong> una nuvola innaturale fatta <strong>di</strong> parole nella quale stava scritto a<br />

lettere <strong>di</strong> fiamma: fmauthner beiträge 3auflage p176ff bis seite 232 erster band! Ho<br />

sentito subito da dove provenisse il vento….» (le pagine citate in<strong>di</strong>cano il capitolo “Denken<br />

un Sprechen”; Wiener 1985).<br />

46 In Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (Finzioni) Borges, spiato da uno specchio, racconta <strong>di</strong> una<br />

teoria degli specchi intesi come oggetti abominevoli, al pari <strong>della</strong> copula, perché moltiplicano<br />

il numero degli uomini. <strong>La</strong> ricerca <strong>della</strong> fonte <strong>della</strong> bizzarra tesi riconduce a una fantastica<br />

dottrina gnostica riportata da una sola copia <strong>di</strong> un’enciclope<strong>di</strong>a nell’articolo de<strong>di</strong>cato all’immaginario<br />

paese asiatico <strong>di</strong> Uqbar e confermata dal ritrovamento fortuito dell’un<strong>di</strong>cesimo<br />

volume <strong>della</strong> storia <strong>di</strong> quella civiltà. <strong>La</strong> cultura <strong>di</strong> questo pianeta si rivela berkeleyana: l’essere<br />

del mondo viene identificato con il percipi, esso non è un insieme <strong>di</strong> oggetti nello spazio,<br />

ma una serie eterogenea <strong>di</strong> atti in<strong>di</strong>pendenti collocati nel tempo. Gli i<strong>di</strong>omi <strong>della</strong> regione<br />

australe rimandano a una congetturale Ursprache, nella quale non esistono sostantivi, ma<br />

solo forme verbali (non c’è luna, ma lunare, luneggiare); in quella dell’emisfero boreale vi<br />

sono solo aggettivi e il sostantivo si forma per accumulazione <strong>di</strong> aggettivi (luna <strong>di</strong>venta, ad<br />

esempio, aereo-chiaro sopra scuro-rotondo). In questo caso si tratta <strong>di</strong> un oggetto reale, ma<br />

la letteratura è piena <strong>di</strong> oggetti ideali alla Meinong e vi sono poemi costituiti <strong>di</strong> una sola<br />

<strong>parola</strong>, corrispondente a un solo oggetto, l’oggetto poetico creato dall’autore. <strong>La</strong> scienza<br />

fondamentale è naturalmente la psicologia che stu<strong>di</strong>a il meccanismo delle rappresentazioni<br />

che <strong>di</strong>ssolve il perdurare delle sostanze nel tempo e la connessione causale degli eventi: «la<br />

percezione <strong>di</strong> una fumata all’orizzonte, e poi del campo incen<strong>di</strong>ato, e poi <strong>della</strong> sigaretta mal<br />

spenta che provocò l’incen<strong>di</strong>o, è considerato come un esempio <strong>di</strong> associazione <strong>di</strong> idee». <strong>La</strong><br />

conseguenza è l’invalidazione delle scienze e il moltiplicarsi <strong>di</strong> sistemi che non cercano la<br />

verità, ma la sorpresa, dato che la filosofia può essere solo gioco <strong>di</strong>alettico, filosofia <strong>della</strong> finzione,<br />

Philosophie des Als Ob. <strong>La</strong> relatività dei sistemi si basa sull’impossibilità <strong>di</strong> identificare<br />

con un nome il sussistere <strong>di</strong> una cosa: ogni sostantivo ha solo carattere metaforico e la storia<br />

delle nove monete perdute e ritrovate <strong>di</strong>venta simile al caso <strong>di</strong> nove uomini che in nove notti<br />

successive dovrebbero provare il medesimo dolore. Il processo <strong>di</strong> generalizzazione rivela più<br />

somiglianze che identità e moltiplica gli oggetti reali fino alla scoperta <strong>di</strong> oggetti secondari,<br />

gli «hrönir», duplicazioni all’infinito delle cose primitive. Un solo esempio, ma si potrebbero<br />

analizzare anche altri racconti; cfr. Dapía 1993.<br />

48


47 Lettera <strong>di</strong> Mach a Mauthner del 24 <strong>di</strong>cembre 1901, in Haller-Stadler 1988, p. 235.<br />

48 Weiler 1986, p. xvi.<br />

49 Nella letteratura critica il riferimento <strong>di</strong> Wittgenstein a Mauther è stato già ampiamente<br />

analizzato (cfr. in particolare Weiler 1970 e Leinfellner 1969). Accomuna i due autori (mi<br />

riferisco soprattutto al secondo Wittgenstein) la concezione immanente del linguaggio secondo<br />

la quale esso non è governato da strutture formali esterne e precostituite: grammatica e logica<br />

si nascondono nel linguaggio; non vi è in esso un’essenza che ne costituisca propriamente<br />

il mistero; non vi è un’immagine mentale specchio <strong>di</strong> un oggetto, il mondo non è dato due<br />

volte; nemmeno si tratta <strong>di</strong> dubitare seriamente dell’esistenza degli oggetti del mondo; non<br />

vi è un esterno e un interno; rimanere dentro il linguaggio non significa impossibilità <strong>di</strong><br />

parlare delle sensazioni e dei sentimenti, significa invece saper <strong>di</strong>stinguere dentro il linguaggio,<br />

far vedere dove non funziona; il linguaggio è semplicemente il suo uso, è una forma <strong>di</strong><br />

vita; la sua indagine impone un approccio asistematico, il vagare <strong>di</strong> un viandante, l’album <strong>di</strong><br />

schizzi; bisogna sempre tenersi liberi dalla filosofia, saper smettere <strong>di</strong> fare filosofia e, infine,<br />

riconoscere l’in<strong>di</strong>cibile, il mistico. Spesso simili sono anche le metafore e qualche volta si<br />

avverte in Wittgenstein l’eco <strong>di</strong> qualche espressione, del tono <strong>di</strong> Mauthner.<br />

50 Bredeck 1992, p. 126.<br />

51 «O voi che siete in piccioletta barca, | desiderosi d’ascoltar, seguiti | <strong>di</strong>etro al mio legno<br />

che cantando varca, | tornate a riveder li vostri liti: | non vi mettete in pelago, ché forse, |<br />

perdendo me, rimarreste smarriti. | L’acqua ch’io prendo già mai non si scorse.»<br />

52 B i, p. 5 (p. 81).<br />

53 Ivi, p. 181 (p. 99).<br />

54 Ivi, p. 11 (p. 85).<br />

55 Ivi, p. 26 (p. 91).<br />

56 Ivi, p. 27 (p. 93).<br />

57 Ivi, p. 28.<br />

58 Ivi, pp. 86-87.<br />

59 Ivi, pp. 53-54: si riferisce a un racconto <strong>di</strong> Wilhelm von Merckels.<br />

60 Ivi, p. 176 (p. 96).<br />

61 Ibidem.<br />

62 Ivi, p. 66.<br />

63 Ivi, p. 115 (p. 104).<br />

64 Ivi, p. 119.<br />

65 A iv, p. 447; cfr. Bredeck 1992, p. 117.<br />

66 B i, p. 28.<br />

67 B ii, p. 451 (p. 105).<br />

68 Weiler 1970, p. 1.<br />

69 Locke 2007, L II, cap. xi, § 2; L iii, cap. x, § 34.<br />

70 Locke 2007, L iii, cap. xi, § 22.<br />

71 Ivi, L iii, cap. vi, § 19.<br />

72 Ivi, L iii, cap. i, § 5.<br />

73 Aveva a <strong>di</strong>sposizione la traduzione <strong>della</strong> Scienza Nuova <strong>di</strong> Wilhelm Ernst Weber del<br />

1822.<br />

74 Inst. viii, VI, 9.<br />

75 Vico 2004, pp. 155-56<br />

76 Nel <strong>di</strong>ario del 5 marzo 1787 del Viaggio in Italia Goethe annota <strong>di</strong> aver ricevuto da<br />

Filangieri la Scienza nuova come se fosse una reliquia: ne dà una rapida scorsa e velocemente<br />

ne deduce che Vico potesse essere una sorta <strong>di</strong> patriarca per gli italiani alla maniera <strong>di</strong> Hamann<br />

per i tedeschi; cfr. Goethe 1993, pp. 207-08 (pp. 212-13).<br />

77 B ii, p. 480: sicuramente Hamann ha letto Vico, forse anche Herder lo ha letto – sostiene<br />

Mauthner. In effetti, nelle lettere a Herder, Hamann scrive <strong>di</strong> aver iniziato a fatica la<br />

lettura <strong>della</strong> Scienza Nuova e accenna alla <strong>di</strong>pintura, cfr. Marienberg 2006, p. 7s.<br />

78 Mauthner rimprovera a Herder <strong>di</strong> aver successivamente abbandonato questa tesi, esposta<br />

nella Abhandlung über den Ursprung der Sprache del 1772, e afferma che quanto Herder<br />

scrive <strong>di</strong> importante nella Metakritik contro Kant deriva in realtà da Hamann; cfr. B ii, pp.<br />

45-47. <strong>La</strong> Metacritica <strong>di</strong> Herder rappresentava però, in un certo senso, un rovesciamento<br />

<strong>della</strong> tesi <strong>di</strong> Hamann: come spiega Ilaria Tani, la ra<strong>di</strong>ce ultima dell’unificazione tra sensibilità<br />

e intelletto rimandava in Hamann al linguaggio come emanazione <strong>della</strong> <strong>parola</strong> creatrice<br />

<strong>di</strong> Dio, mentre il carattere impuro e storicamente con<strong>di</strong>zionato <strong>della</strong> ragione <strong>di</strong> Herder si<br />

fondava sull’autonoma capacità degli organi <strong>di</strong> senso <strong>di</strong> procedere a un’unificazione sintetica<br />

49


(senza ricorso all’apriori) che lasciava nella <strong>parola</strong> un residuo iconico, garanzia del legame<br />

con l’esperienza; cfr. Tani 1993.<br />

79 Mittner 1964, i, p. 302.<br />

80 Hamann 1952, p. 197 (p. 113).<br />

81 Ivi, p. 199 (p. 115).<br />

82 Ivi, p. 208 (p. 126).<br />

83 Ivi, p. 283; B I, p. 334.<br />

84 Ivi, p. 286.<br />

85 Lüktenhaus 1999, p. x; Gerber 1961, Vorwort alla seconda e<strong>di</strong>zione del 1884.<br />

86 B i, p. 32.<br />

87 Formigari 1988, p. 63.<br />

88 Anna Morpurgo Davies accenna a questo filo che collega Hermann Paul a Steinthal e<br />

Humboldt; cfr. Morpurgo Davies 1996, p. 336.<br />

89 Formigari 2001, p. 238.<br />

90 Humboldt 1960, § 8.<br />

91 B ii, p. 56.<br />

92 Cfr. Di Cesare 2000, pp. li ss.<br />

93 Di Cesare spiega la metafora del prisma come capacità <strong>di</strong> dare valore alla <strong>di</strong>versità<br />

senza perdere il riferimento unitario: «per Locke – osserva – il linguaggio è un mezzo ottico<br />

che falsifica gli oggetti, per Leibniz è lo specchio meraviglioso dello spirito umano, per<br />

Humboldt è un prisma capace <strong>di</strong> rifrangere il mondo con angolazioni sempre nuove»; segue<br />

la citazione dall’Essai sur les langues du nouveau Continent del 1812: «le lingue assomigliano<br />

nel loro insieme a un prisma <strong>di</strong> cui ogni faccia mostra l’universo sotto un colore <strong>di</strong>versamente<br />

sfumato» (Di Cesare 2000, p. xlviii).<br />

94 B ii, p. 59.<br />

95 Sulla collocazione storica <strong>di</strong> von Humboldt tra Settecento e Ottocento, tra illuminismo<br />

e idealismo tedesco, sull’ere<strong>di</strong>tà che riceve dal passato e sulla sua influenza nell’Ottocento e<br />

nel Novecento e sulle <strong>di</strong>verse e opposte risposte, cfr. Morpurgo Davies 1996, pp. 147-48.<br />

96 Cfr. B ii, p. 59.<br />

97 Ivi, p. 67.<br />

98 Bréal 1897, cap. xviii.<br />

99 Ibidem.<br />

100 Mauthner osserva che in un passaggio Paul sembra pensare alla possibilità <strong>di</strong> comunicare<br />

il contenuto delle rappresentazioni me<strong>di</strong>ante la trasformazione <strong>di</strong> associazioni rappresentative<br />

in<strong>di</strong>rette in <strong>di</strong>rette: con queste parole, scrive Mauthner, non riesco a pensare a nulla;<br />

cfr. B ii, p. 73. Nonostante questa critica, peraltro forzata, Paul rimane il punto <strong>di</strong> riferimento<br />

<strong>di</strong> Mauthner, mentre gli altri esponenti del movimento dei neogrammatici vengono liquidati<br />

velocemente con l’accusa <strong>di</strong> voler stabilire delle precise leggi fonetiche per puro fanatismo<br />

scientista e gusto per lo specialismo.<br />

101 Cfr. B ii, p. 73.<br />

102 «Intenderemo dunque con significato usuale l’intero contenuto rappresentativo che<br />

per i membri <strong>di</strong> una comunità linguistica si lega a una <strong>parola</strong>, con significato occasionale quel<br />

contenuto rappresentativo che il parlante lega alla <strong>parola</strong> nel pronunciarla e che si aspetta<br />

che anche l’ascoltatore vi leghi»; Paul 1960, p. 75 (p. 61).<br />

103 Esempio: Schirm (= che ripara) <strong>di</strong>venta “parapioggia”, “parasole”; Paul 1960, pp.<br />

87-88 (p. 74).<br />

104 Esempio: fertig (= pronto per il viaggio) <strong>di</strong>venta “pronto”, “finito”; Paul 1960, p.<br />

91 (p. 79).<br />

105 Paul analizza le metafore basate sulla somiglianza dell’aspetto esteriore (esempio: Kopf,<br />

detto dell’insalata), sull’identità <strong>della</strong> funzione (Haupt = capo, capo <strong>di</strong> una famiglia, <strong>di</strong> una<br />

stirpe, <strong>di</strong> una congiura; anche nei composti: Hauptsache..), sul trasferimento delle espressioni<br />

spaziali alla <strong>di</strong>mensione temporale (lang), a quella psichica (non-spaziale; ein Gedanke geht<br />

mir im Kopfe herum), da un senso all’altro (süss, anche per l’olfatto e per l’u<strong>di</strong>to) e sull’abitu<strong>di</strong>ne<br />

a intendere i processi delle realtà inanimate in analogia con i processi <strong>della</strong> propria<br />

attività (schreiende Farben); Paul 1960, p. 95 ss. (p. 84 ss.).<br />

106 B ii, p. 260: «Hermann Paul, der mir Idee und Beispiele bietet». Per altri versi il<br />

linguista non considera la metafora come titolo generale per tutti i tropi <strong>della</strong> retorica antica<br />

e rimane lontano dall’esito scettico del nostro autore.<br />

107 Per la particolare collocazione <strong>della</strong> psicologia in Hermann Paul cfr. Morpurgo Davies<br />

1996. L’autrice spiega la posizione <strong>di</strong> Delbrück, in<strong>di</strong>fferente nell’adottare la teoria psicologica<br />

50


<strong>di</strong> Steinthal e <strong>di</strong> Wundt, e quella <strong>di</strong> Paul, per il quale l’adozione <strong>di</strong> un modello psicologico<br />

fu motivo <strong>di</strong> ripensamenti profon<strong>di</strong>. Paul si riferisce, attraverso Steinthal, all’associazionismo<br />

<strong>di</strong> Herbart, ma l’impossibilità <strong>di</strong> comunicare il contenuto delle rappresentazioni in quanto<br />

tale richiede, a suo parere, un atto <strong>di</strong> ricreazione nell’ascoltatore. Se quin<strong>di</strong> la psicologia è<br />

scienza che analizza il meccanismo delle rappresentazioni, la linguistica dovrà tener conto<br />

dell’elemento storico, culturale e sociale (non semplicemente <strong>di</strong>acronico). «L’assunto implicito<br />

– conclude Anna Morpurgo Davies – è, ancora una volta, che la scienza del linguaggio non è<br />

semplicemente una parte <strong>della</strong> psicologia» (p. 340). Cfr. anche Graffi 1991, pp. 56 ss.<br />

108 B ii, p. 8.<br />

109 W iii, p. 169.<br />

110 B i, p. 113 (p. 103).<br />

111 B iii, pp. 263 ss.<br />

112 Cfr. B i, p. 343: la metafora del setaccio prevede anche la possibilità <strong>di</strong> invertire l’oro<br />

con la sabbia: <strong>di</strong>pende dal valore che attribuiamo all’oro.<br />

113 Ivi, p. 327 (pp. 100-01).<br />

114 Cfr. ivi, pp. 262 ss.<br />

115 Cfr. ivi, p. 238.<br />

116 Cfr. ivi, pp. 250-51.<br />

117 Cfr. ivi, p. 277.<br />

118 B i, p. 666.<br />

119 Cfr. ivi, p. 668.<br />

120 In un articolo nel “Zukunft” del 2 aprile 1904 Mauthner aveva in<strong>di</strong>cato Otto Ludwig,<br />

Nietzsche e Bismarck come le tre figure più importanti per l’origine delle sue riflessioni<br />

critiche sul linguaggio, ma nelle Erinnerungen afferma <strong>di</strong> voler aggiungere il nome <strong>di</strong> Mach,<br />

il cui influsso, anche se <strong>di</strong>menticato, deve essere stato importante. È – a suo <strong>di</strong>re – lo stesso<br />

Mach (attorno al 1895) a ricordare il giovane Mauthner che, dopo una conferenza sulla fisica<br />

a Praga nel 1872, gli chiede <strong>di</strong> potergli presentare alcune riflessioni scritte e che gli fa leggere<br />

Die Geschichte und <strong>di</strong>e Würzel des Satzes der Erhaltung der Arbeit (Mauthner 1918, p. 210).<br />

<strong>La</strong> memoria (Mach 1872) è riprodotta in Mach 1969; si tratta <strong>di</strong> un <strong>di</strong>scorso tenuto il 15<br />

novembre 1871 alla Società reale boema e pubblicato nel 1872. In quel periodo (dal 1867 al<br />

1895) Mach insegnava fisica sperimentale nella capitale boema.<br />

121 Mach 1872, p. 3 (p. 49). Lo scienziato formula qui una critica esplicita alla concezione<br />

meccanicistica, riproposta da Helmholtz nel 1847 nell’autorevole memoria Über <strong>di</strong>e Erhaltung<br />

der Kraft. Alla concezione dello scienziato prussiano, che riconduceva le leggi empiriche,<br />

scoperte per i fenomeni elettrici, magnetici e termici, al principio <strong>di</strong> conservazione <strong>della</strong> forza<br />

e alle formule <strong>di</strong> <strong>La</strong>grange, rinnovando il principîo seicentesco <strong>della</strong> riduzione <strong>della</strong> fisica alla<br />

meccanica, Mach opponeva una <strong>di</strong>stinzione analitica tra la formulazione matematica e l’idea<br />

dell’impossibilità del perpetuum mobile (impossibilità <strong>di</strong> creare lavoro dal nulla). Il principio,<br />

nella seconda formulazione, non sarebbe allora così nuovo, come vorrebbe Helmholtz, ma<br />

starebbe alla base <strong>di</strong> qualsiasi ricerca scientifica e, in particolare, dello straor<strong>di</strong>nario sviluppo<br />

<strong>della</strong> meccanica nel Seicento. L’estensione del principio meccanico <strong>della</strong> conservazione <strong>della</strong><br />

forza a principio generale <strong>della</strong> scienza e la sua identificazione con l’esclusione del perpetuum<br />

mobile avrebbero allora solo il valore <strong>di</strong> un’estensione analogica. Mach, consapevole <strong>della</strong><br />

provvisorietà dei concetti scientifici, ridefinisce spazio, tempo e causa in termini funzionali e<br />

relativi l’uno all’altro. Cfr. Gargani 1982, p. xv ss.<br />

122 Cfr. Mach 1872, p. 2 (p. 48).<br />

123 Ivi, p. 26 (p. 76).<br />

124 Ivi, p. 36 (p. 87).<br />

125 Ivi, p. 33 (p. 83).<br />

126 Mach 1991a, pp. 1-2 (pp. 37-38).<br />

127 Cfr. D’Elia 1977, p. 13.<br />

128 Cfr. Mach 1991a, p. 13 (p. 47).<br />

129 Lichtenberg 1907, p. 232, Mach 1991a, p. 23 (p. 56).<br />

130 Notizbuch 23, 26 gennaio 1881, in Haller-Stadler 1988, p. 178: «Die ganze Welt ist nur<br />

ein Ding. Welt und Ich sind nur mehr oder weniger willkürliche Zusammenfassungen».<br />

131 Mach 1917, p. 90 (p. 90, ma ho mo<strong>di</strong>ficato lievemente la traduzione).<br />

132 L’epistolario pubblicato contiene una missiva <strong>di</strong> Mach del 1889 che declina l’invito<br />

a collaborare alla rivista “Deutschland” e uno scambio <strong>di</strong> lettere e <strong>di</strong> libri nel 1895: Mach<br />

spe<strong>di</strong>sce il testo <strong>della</strong> conferenza Die Geschichte und <strong>di</strong>e Wurzel des Satzes von der Erhaltung<br />

der Arbeit e Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dargestellt, Mauthner ri-<br />

51


cambia con Lügenohr, Fabeln und Ge<strong>di</strong>chte in Prosa. Uno scambio più intenso <strong>di</strong> lettere e<br />

<strong>di</strong> testi data dal <strong>di</strong>cembre del 1901 e prosegue fino alla malattia <strong>di</strong> Mach, testimoniando <strong>di</strong><br />

almeno due incontri. Lo scienziato moravo apprezza non solo la critica del linguaggio <strong>di</strong><br />

Mauthner, ma anche la sua vena satirica: a proposito dei Totengespräche <strong>di</strong>ce ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong><br />

essersi <strong>di</strong>vertito più che con Luciano, Voltaire e Heine, cfr. la lettera <strong>di</strong> Mach del 16 marzo<br />

1906, in Haller-Stadler 1988, p. 240.<br />

133 È un concetto che Mach riprende da Hering, cfr. B i, p. 453.<br />

134 Mach 1917, p. 132 (p. 130) e B i, p. 15. Lo ripete anche Wittgenstein nelle Philosophische<br />

Untersuchungen nell’osservazione 25. Aldo Gargani ha ricondotto l’idea del linguaggio<br />

come forma <strong>di</strong> vita <strong>di</strong> Wittgenstein a questa concezione del carattere naturale del linguaggio<br />

<strong>di</strong> Mach, sottolineandone il carattere antirazionalistico. In questo contesto riporta anche la tesi<br />

<strong>di</strong> Mauthner sull’apriorità relativa dei nostri concetti e sulla mancanza <strong>di</strong> un loro fondamento<br />

teorico in quanto fenomeni <strong>della</strong> vita; egli accenna anche alla funzione del caso nella selezione<br />

dei dati empirici da parte dei Zufallssinne; cfr. Gargani 1992, p. 107 ss.<br />

135 Mach avrebbe applicato alle idee <strong>della</strong> scienza i concetti evoluzionistici <strong>di</strong> adattamento<br />

e <strong>di</strong> analogia che i linguisti – i neogrammatici, in particolare, secondo la Arens – avevano<br />

elaborato per spiegare l’evoluzione <strong>della</strong> lingua come rapporto tra norma e innovazione; cfr.<br />

Arens 1984, cap. iii<br />

136 Mach 1917, p. 7 (p. xxxvi).<br />

137 B i, p. 299.<br />

138 Mach 1896a, p. 419.<br />

139 B iii, p. 263.<br />

140 Mach, 1896a, pp. 411-12. <strong>La</strong>zarus Geiger (Frankfurt a. M. 1829-1870) in Ursprung<br />

und Entwickelung der menschlichen Sprache und Vernunft (il primo volume era stato pubblicato<br />

nel 1868; il secondo è frammentario e postumo) definisce la sua ricerca come «critica<br />

empirica <strong>della</strong> ragione umana» (p. 101). Il carattere empirico consiste nella ricerca etimologica<br />

sulle parole che, come fossili, ci rivelano la relatività del sistema dei concetti del mondo primitivo<br />

(esempio la mancanza del blu nel mondo greco), nella ra<strong>di</strong>cale convinzione dell’identità<br />

<strong>di</strong> linguaggio e pensiero; cfr. Geiger 1868. Mauthner, che spesso sorvola sulla <strong>di</strong>fferenza tra<br />

linguaggio e pensiero, precisa qui che questa identità non è assoluta; essa somiglia piuttosto<br />

ai <strong>di</strong>fferenti punti <strong>di</strong> vista che producono le due immagini dello stereoscopio; Geiger avrebbe<br />

anche un’eccessiva venerazione per la ragione che, nella sua teoria, emerge dal linguaggio<br />

come una potenza <strong>di</strong> più alto grado; cfr. B ii, 661.<br />

141 Ludwig Noiré (Mainz 1829-1889) in Logos. Ursprung und Wesen der Begriffe (1885) ha<br />

elaborato una concezione del linguaggio a partire da una lettura trascendentalista <strong>della</strong> volontà<br />

<strong>di</strong> Schopenhauer (cfr. Cloeren 1988, cap. xv). Ne risulta il carattere intenzionale dell’atto<br />

linguistico e la centralità <strong>della</strong> metafora: «tutto il linguaggio è metafora» (p. 274), esso nasce<br />

dalla metafora originaria che trasferisce il gesto in suono, in<strong>di</strong>viduando l’agire umano comune<br />

come presupposto del linguaggio. In questo testo Mach ha trovato conferma <strong>della</strong> sua idea<br />

<strong>di</strong> relatività <strong>di</strong> tutti i concetti e del carattere metaforico <strong>di</strong> molti concetti <strong>della</strong> scienza (cfr.<br />

Noiré, p. 287), oltre a rinvenire alcune osservazioni particolari come l’idea dell’origine dei<br />

nomi dei colori dalla pratica del tatuaggio (ivi, p. 260). Mauthner lo accusa invece <strong>di</strong> essere<br />

wortgläubig, <strong>di</strong> credere alle parole, come <strong>di</strong>re: sulla <strong>parola</strong>.<br />

142 Cfr. lettera a Mach del 14 febbraio 1902, in Haller - Stadler 1988, p. 237.<br />

143 Mach 1917, p. 220 ss. (p. 216 ss.).<br />

144 W i, p. 380.<br />

145 Ivi, p. 382.<br />

146 Ivi, pp. 391-92, Stumpf 1907, p. 88 (p. 205); per altri versi Stumpf ha una concezione<br />

molto <strong>di</strong>versa del concetto e dell’astrazione, contro Mach.<br />

147 Ivi, p. 266.<br />

148 Cfr. le voci Ähnlichkeit, Affinität e Analogie in W i.<br />

149 Cfr. W i, p. 45.<br />

150 Cfr. ivi, pp. 47-48.<br />

151 Cfr. ivi, p. 296 (p. 122).<br />

152 Cfr. ivi, p. 299 (p. 123). <strong>La</strong> voce cogito sviluppa <strong>di</strong> nuovo questa tesi nella critica all’ego<br />

cartesiano con il richiamo a Lichtenberg.<br />

153 Cfr. B i, p. 220.<br />

154 W i, p. 18.<br />

155 Cfr. W iii, p. 361.<br />

156 3BW, p. 136.<br />

52


157 Mauthner conosce personalmente Hans Vaihinger nel 1905, quando, appena dopo il<br />

trasferimento a Freiburg, entra a far parte <strong>della</strong> Kantgesellschaft e viene appunto in contatto<br />

con il suo fondatore, con il quale intrattiene una corrispondenza che si infittisce attorno al<br />

1911, anno <strong>della</strong> pubblicazione <strong>della</strong> Philosophie des Als ob. Kühn suggerisce che forse proprio<br />

l’uscita del Wörterbuch abbia incoraggiato Vaihinger alla pubblicazione del suo scritto<br />

giovanile. In ogni caso il nostro autore recensisce nel 1913 il testo dello stu<strong>di</strong>oso <strong>di</strong> Kant,<br />

inserisce nella seconda e<strong>di</strong>zione del <strong>di</strong>zionario la voce “als ob” e richiama più volte la <strong>di</strong>samina<br />

dell’amico sui concetti-finzione nelle scienze, nell’etica e nella religione. A <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong><br />

Mauthner però, Vaihinger prende le mosse da una conoscenza profonda dei testi kantiani; egli<br />

è infatti più conosciuto per i due volumi del Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft,<br />

pubblicati nel 1881 e nel 1892, e per essere stato e<strong>di</strong>tore dal 1896 <strong>della</strong> rivista “Kant-Stu<strong>di</strong>en”.<br />

Il commentario si ferma all’Estetica trascendentale (<strong>della</strong> quale <strong>di</strong>sseziona ogni passo senza<br />

sorvolare su nessuna delle <strong>di</strong>fficoltà interpretative), forse perché il passaggio alla Logica e, in<br />

particolare alla Dialettica, alla logica dell’illusione (des Scheins), l’incontro con l’espressione<br />

kantiana del “come se”, aveva ricondotto il filologo ai temi stu<strong>di</strong>ati negli anni <strong>della</strong> tesi con<br />

<strong>La</strong>as, a quesiti più urgenti dal punto <strong>di</strong> vista teoretico, alla concezione cioè delle idee <strong>della</strong><br />

ragione come semplici «finzioni euristiche».<br />

158 Vaihinger 1986, p. 40.<br />

159 In questo capitolo Vaihinger fa rientrare anche le categorie, estendendo l’affermazione<br />

kantiana dell’assoluta inconcepibilità e conoscibilità del mondo dalla <strong>di</strong>alettica all’analitica,<br />

dalla pretesa <strong>di</strong> totalità all’applicazione <strong>della</strong> singola categoria. L’intero sistema kantiano degli<br />

apriori viene così interpretato come un insieme <strong>di</strong> finzioni, che vanno dallo spazio, concetto<br />

non solo soggettivo, ma pieno <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zioni, alla sostanza e alla causa, fino alla cosa in<br />

sé. <strong>La</strong> <strong>di</strong>visione tra cose in sé, cioè oggetti, e altre cose in sé, cioè soggetti, è una finzione<br />

originaria: dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> Vaihinger, non vi è alcun assoluto, alcuna cosa in sé, alcun<br />

soggetto, alcun oggetto. L’errore <strong>di</strong> Kant consiste nel non essersi attenuto alla convinzione,<br />

espressa più chiaramente nella prima e<strong>di</strong>zione <strong>della</strong> Critica, che la cosa in sé fosse una «mera<br />

idea», un concetto limite, esattamente nel senso in cui si parla <strong>di</strong> limiti nella matematica, un<br />

concetto immaginario, un simbolo necessario per il calcolo, come già Maimon aveva notato.<br />

Finzione e non ipotesi, vero e proprio concetto contrad<strong>di</strong>ttorio, supposto nella piena coscienza<br />

<strong>della</strong> sua impossibilità, la cosa in sé è un concetto necessario alla filosofia, come l’immaginario<br />

alla matematica; dobbiamo considerare l’essere reale come se vi fossero delle cose in sé che<br />

hanno effetto su <strong>di</strong> noi e che si perturbano reciprocamente.<br />

160 Vaihinger 1986, p. 52 (pp. 48-49).<br />

161 Ivi, p. 176 (p. 106).<br />

162 Ivi, p. 179 (p. 110).<br />

163 Ivi, p. 291 (p. 149). L’analisi linguistica <strong>della</strong> finzione rivela poi la <strong>di</strong>fferenza del “come<br />

se” dalla semplice comparazione: il “come” è mo<strong>di</strong>ficato dal “se”, dal “quando” (ob nell’alto<br />

me<strong>di</strong>oevo equivale a wenn); non si tratta nemmeno <strong>di</strong> un’analogia reale: nel “quando” vi è<br />

la supposizione <strong>di</strong> una con<strong>di</strong>zione e, più precisamente, <strong>di</strong> una con<strong>di</strong>zione considerata impossibile.<br />

Gli esempi sono i seguenti: quando vi fossero gli infinitesimali, allora la linea curva<br />

sarebbe composta da essi; quando vi fossero gli atomi, allora la materia sarebbe formata da<br />

loro; quando l’egoismo fosse l’unica motivazione <strong>della</strong> condotta umana, allora se ne potrebbero<br />

dedurre i rapporti sociali. Nella proposizione con<strong>di</strong>zionale è qui espresso un irreale o<br />

impossibile; ciò non<strong>di</strong>meno si possono dedurre delle conseguenze e la supposizione viene<br />

mantenuta come formalmente valida. Ma ancora <strong>di</strong> più, tra il “come” e il “se”, tra il “come”<br />

e il “quando”, vi è un’ulteriore proposizione sottintesa, come si può vedere dall’esempio: la<br />

materia data a noi empiricamente deve essere considerata come sarebbe da trattare qualora<br />

constasse <strong>di</strong> infinitesimi. In tal modo è espressa chiaramente la necessità (o la possibilità o la<br />

realtà) <strong>di</strong> una sussunzione sotto una supposizione impossibile o irreale. Insomma la formula<br />

grammaticale <strong>della</strong> finzione è la stessa per l’errore e può essere la stessa per l’ipotesi; essa<br />

rivela una fondamentale equivocità del linguaggio.<br />

164 Per Vaihinger il mondo non è il fine del pensiero, il fine è la condotta etica che si<br />

ispira all’imperativo categorico, inteso a sua volta alla luce <strong>della</strong> finzione: ci si deve comportare,<br />

come se la legge morale fosse data all’uomo da un legislatore <strong>di</strong>vino e non perché vi è<br />

un <strong>di</strong>o che legifera, cfr. Vaihinger 1986, parte terza, A, cap. v.<br />

165 B i, p. 35 ss.<br />

166 B ii, p. 457 (p. 108).<br />

167 Cfr. Kühn 1975, pp. 232-33. Mauthner ha una pessima opinione <strong>di</strong> Aristotele: gli de<strong>di</strong>ca<br />

un libriccino, pubblicato nel 1904 nella collana “Die Literatur”, e<strong>di</strong>ta da Georg Brandes.<br />

53


<strong>La</strong> presentazione tipografica <strong>di</strong> gusto liberty, le illustrazioni <strong>di</strong> animali immaginari, a in<strong>di</strong>care<br />

il carattere fantastico <strong>della</strong> classificazione aristotelica <strong>della</strong> natura e due riproduzioni <strong>di</strong> Aristoteles<br />

und Phyllis <strong>di</strong> Hans Baldung Grien, nelle quali Fillide, l’amica <strong>di</strong> Alessandro, munita<br />

<strong>di</strong> frusta sta a cavalcioni sulla schiena del filosofo innamorato, rispecchiano lo stile leggero<br />

e polemico dell’esposizione. In questo testo Mauthner non salva quasi nulla del pensiero<br />

aristotelico, lo considera una testa me<strong>di</strong>ocre, schiavo <strong>di</strong> un linguaggio che insieme dovrebbe<br />

assicurare la verità <strong>della</strong> logica e la menzogna del <strong>di</strong>sputare sofistico, che procede come un<br />

gioco <strong>di</strong> parole (wortspielerisch), fondato su sottigliezze orientali, talmu<strong>di</strong>che (p. 53), amante<br />

<strong>della</strong> classificazione libresca, bibliofilo, senza occhio per la natura che osserva «come un pescatore,<br />

un cacciatore, un indovino» (p. 16). Da notare: si tratta dell’unico libro <strong>di</strong> Mauthner<br />

tradotto in inglese.<br />

168 Lo nota, tra gli altri, Ricoeur 1975, cap. i.<br />

169 In questo senso la <strong>di</strong>samina del linguaggio, esposta nella Poetica e nella Retorica, si<br />

<strong>di</strong>stingue dalle osservazioni contenute nel De interpretazione, che si incentrano sul carattere<br />

apofantico, assertivo del logos (a <strong>di</strong>fferenza dell’approccio apo<strong>di</strong>ttico, che si basa sul presupposto<br />

dell’essere reale, l’apofantico si applicava all’analisi del vero e del falso senza far<br />

riferimento all’essere reale), per l’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> un nuovo piano dell’analisi che Morpurgo-<br />

Tagliabue ha definito come propriamente semantico. Esso in<strong>di</strong>vidua un nuovo punto <strong>di</strong> vista<br />

che consiste «nell’esibire ogni contenuto <strong>di</strong> coscienza, prescindendo dalle modalità <strong>della</strong> loro<br />

presentazione» (Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 102). Non vi sarebbe allora contrapposizione<br />

tra <strong>di</strong>scorso apofantico e <strong>di</strong>scorso semantico, ma in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> due <strong>di</strong>versi piani del<br />

logos: il <strong>di</strong>scorso semantico riguarda sia l’apofantico delle asserzioni, sia il non-apofantico.<br />

Detto altrimenti anche la preghiera, ad esempio, può essere considerata dal punto <strong>di</strong> vista<br />

semantico; cfr. Morpurgo-Tagliabue 1967, cap. iii, § 9.<br />

170 Galvano Della Volpe esamina attentamente anche il primo tipo <strong>di</strong> metafora (la sostituzione<br />

<strong>di</strong> un termine specifico con uno generico) come possibile metafora viva, derivata da<br />

un confronto logico-intuitivo. L’esempio è il “ristare” <strong>della</strong> nave al posto <strong>di</strong> “ormeggiare”,<br />

paragonato al “ristare del carro” sulle ruote e al “ristare dell’uomo” sulle gambe; il che metterebbe<br />

a confronto altre specie del genere “ristare” e fornirebbe una sorta <strong>di</strong> definizione<br />

«concretissima». L’autore in<strong>di</strong>vidua anche nell’esempio aristotelico del secondo tipo (che<br />

sostituisce la specie al genere) la presenza dell’immagine: al posto <strong>di</strong> “molte” Omero scrive<br />

“mille e mille” e rimanda al gesto del contare. Questa attenzione deriva dalla concezione<br />

più generale <strong>di</strong> Della Volpe che in<strong>di</strong>vidua nella metafora un elemento conoscitivo, mentra<br />

gli autori che la considerano soltanto dal punto <strong>di</strong> vista icastico e intuitivo tendono a non<br />

prendere in considerazione i primi due tipi <strong>della</strong> classificazione aristotelica che, a parer loro,<br />

producono soltanto metafore spente. Cfr. Della Volpe 1954, p. 132 ss.<br />

171 Aristotele, Poetica, 1457b. <strong>La</strong> traduzione è <strong>di</strong> Morpurgo-Tagliabue.<br />

172 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 244.<br />

173 Nella letteratura critica il proce<strong>di</strong>mento dell’entimema è stato definito come «sillogismo<br />

imperfetto», sillogismo imperfetto nell’espressione, «incidente <strong>di</strong> linguaggio», «scarto»,<br />

ragionamento tronco che lascia al pubblico il gusto del completamento, facendo leva<br />

sull’emozione con il ricorso all’armamentario dei luoghi comuni <strong>della</strong> topica retorica e dei<br />

luoghi specifici <strong>della</strong> <strong>di</strong>sciplina in questione. Invero Aristotele all’inizio <strong>della</strong> Retorica aveva<br />

ricondotto il proce<strong>di</strong>mento dell’entimema alla stessa facoltà che presiede all’elaborazione dei<br />

sillogismi logici con la consapevolezza che nel primo caso le premesse non possono essere<br />

necessarie, data la materia deliberativa, epi<strong>di</strong>ttica e giu<strong>di</strong>ziaria dell’argomentare: «è funzione<br />

<strong>della</strong> stessa facoltà scorgere il vero e ciò che è simile al vero, e nel contempo gli uomini<br />

hanno una sufficiente <strong>di</strong>sposizione naturale per il vero e nella maggior parte dei casi colgono<br />

la verità. Pertanto, un’abile <strong>di</strong>sposizione a mirare al probabile è propria <strong>di</strong> una persona che<br />

è altrettanto abile nel mirare alla verità», Aristotele, Retorica, 1354b.<br />

174 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 244.<br />

175 Ivi, p. 249.<br />

176 Ivi, p. 252.<br />

177 Biese 1893, p. 3.<br />

178 Cfr. Biese 1893, p. 6.<br />

179 Biese 1893, p. 22.<br />

180 Gerber 1961, p. 309.<br />

181 B i, p. 339.<br />

182 <strong>La</strong> sineddocche si colloca sul piano dei concetti sensibili, la metafora tra il sensibile<br />

e non sensibile, la metonimia nell’ambito del sovrasensibile, cfr. Gerber 1961, p. 355.<br />

54


183 Lo sappiamo bene dal suo paragone con la città: il linguaggio – egli scrive – non è<br />

un’opera d’arte, non solo perché non è opera <strong>di</strong> un singolo, ma perché è cresciuto in modo<br />

convulso, «il linguaggio è cresciuto come una grande città. Camera su camera, finestra su<br />

finestra, abitazione su abitazione, casa su casa, strada su strada, quartiere su quartiere, e tutto<br />

è inscatolato in qualcos’altro, legato all’altro, spalmato sull’altro, attraverso tubi e fossi»; segue<br />

subito dopo la metafora <strong>della</strong> <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> sui tubi del gas, B i, p. 27 (p. 92).<br />

184 Bruchmann 1888, p. 187.<br />

185 Cfr. Meijers-Stingelin 1988, un articolo che riporta tutti i passi ricopiati o ripresi quasi<br />

alla lettera da Nietzsche.<br />

186 B i, p. 367.<br />

187 Nietzsche 2004a, p. 453 (p. 21).<br />

188 B i, p. 368.<br />

189 Nietzsche 2004b. <strong>La</strong> Kofman invero ritiene che l’uso <strong>della</strong> metafora e la riflessione<br />

sulla metafora nei primi scritti <strong>di</strong> Nietzsche siano ancora legati a una concezione metafisica<br />

che rimanda a un’essenza del linguaggio, a un possibile linguaggio proprio, mentre negli<br />

scritti successivi a Wahrheit und Lüge il termine “metafora” verrà sostituito con quello <strong>di</strong><br />

interpretazione. Questa tesi non impe<strong>di</strong>sce alla Kofman <strong>di</strong> leggere in modo magistrale le metafore<br />

architettoniche dell’alveare, <strong>della</strong> torre, <strong>della</strong> piramide, del colombario romano e <strong>della</strong><br />

tela <strong>di</strong> ragno, rivelandone la molteplicità <strong>di</strong> sensi; cfr. Kofman 1972. Per quanto riguarda la<br />

riflessione <strong>di</strong> Nietzsche sulla metafora, abbiamo oggi a <strong>di</strong>sposizione anche le note <strong>di</strong> Nietzsche<br />

sul linguaggio e sulla retorica degli anni 1872-1874, vale a <strong>di</strong>re i corsi sulla grammatica latina,<br />

sull’eloquenza greca e sulla retorica antica, vero e proprio laboratorio <strong>di</strong> riflessione sullo<br />

stile. Nelle Vorlesungen über lateinische Grammatik (1869-1870) si occupa anche dell’origine<br />

del linguaggio ripercorrendo le principali teorie filosofiche e sottolineando l’importanza <strong>di</strong><br />

Kant, il quale riconosce che le più profonde conoscenze filosofiche giacciono già pronte nel<br />

linguaggio («ein großer Teil, viell. der größte Teil von dem Geschäfte der Vernunft besteht<br />

in Zergliederungen der Begriffe <strong>di</strong>e er schon in sich vorfindet»; Nietzsche 1993, p. 185). A<br />

Kant si richiama anche nel sostenere che il linguaggio è prodotto dell’istinto: non nel senso<br />

<strong>di</strong> un meccanismo esteriore, ma del nocciolo interno dell’essere, conforme a leggi, ma senza<br />

coscienza. Nella Geschichte der griechische Beredsamkeit (1872-1873) il filo <strong>della</strong> ricostruzione<br />

storica è, invece, nella contrapposizione tra il fascino dei <strong>di</strong>scorsi istrionici e drammatici degli<br />

oratori come Gorgia e Crizia e la correttezza spenta dei <strong>di</strong>scorsi scritti condotti con acribia;<br />

cfr. Nietzsche 1995, pp. 367ss. Dei <strong>di</strong>scorsi scritti si occupa nella Darstellung der antike<br />

Rhetorik (1874) e, in un passo sul rapporto del retorico con il linguaggio, scrive: retorico è<br />

un attore, un libro, uno stile con cosciente uso dei mezzi tecnici. Non naturale quin<strong>di</strong>: ma<br />

– si chiede – cosa significa naturale? Noi lavoriamo sullo scritto, ma è chiaro che la retorica<br />

sviluppa mezzi che sono insiti nel linguaggio. Non esiste un “naturale” non retorico del<br />

linguaggio. L’uomo che forma il linguaggio non afferra le cose, ma stimoli, non riproduce<br />

sensazioni, ma riproduzioni (Abbildungen) <strong>di</strong> sensazioni, immagini. Come si può rappresentare<br />

un atto spirituale con un’immagine sonora (Tonbild)? Non sono le cose a entrare nella<br />

coscienza, ma il modo in cui noi ci rapportiamo ad esse, il piqanovn. <strong>La</strong> sensazione coglie<br />

un aspetto. <strong>La</strong> lingua è retorica, vuole la dovxa, non l’ejpisthvmh. Tutte le parole – conclude<br />

– sono tropi: sinneddoche, metafora e metonimia. Gli esempi sono quelli <strong>di</strong> Gerber, citato<br />

esplicitamente. Non c’è un proprio del linguaggio, ciò che decide è l’uso. Cita anche Jean<br />

Paul sul linguaggio come raccolta <strong>di</strong> metafore scolorite; cfr. Nietzsche 1995, p. 425 ss. A<br />

questo periodo risale anche la traduzione <strong>della</strong> Retorica <strong>di</strong> Aristotele. Nietzsche traduce quasi<br />

interamente il primo libro (capp. 1-13 su 15), poi passa al terzo (capp. 1-4, fino al capitolo<br />

sulla metafora). In particolare colpisce in quest’ultima l’aderenza al testo e la scelta delle<br />

parole più semplici e appropriate etimologicamente. Per fare solo un esempio, l’incipit: «Die<br />

Kunst zu reden läuft der Kunst zu unterreden zur Seite» (l’arte del parlare corre parallela<br />

all’arte <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogare; Nietzsche 1995, p. 533).<br />

190 B i, p. 367.<br />

191 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 287.<br />

192 Ivi, p. 288.<br />

193 Untersteiner 1996, p. 172 s.<br />

194 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 318.<br />

195 Il Witz è il filo conduttore del suo percorso intellettuale dalla paro<strong>di</strong>a alla filosofia.<br />

Kühn e Spörl hanno richiamato l’attenzione anche su una serie <strong>di</strong> articoli apparsi anonimi<br />

tra il 1893 e il 1897 nella rivista berlinese “Das Magazin für Literatur” sotto il titolo Aus der<br />

Mappe eines lachenden Philosophen senza attribuirli con sicurezza al nostro, ma in<strong>di</strong>candone<br />

55


molte affinità teoriche. Forse – scrive Spörl – si tratta <strong>di</strong> una prova generale prima <strong>della</strong><br />

pubblicazione dei Beiträge: il “filosofo che ride” vede nel dubbio l’inizio <strong>di</strong> tutta la filosofia,<br />

in particolare nel dubbio sul linguaggio; cfr. Spörl 1997, p. 50 ss., e Kühn 1975, p. 91 ss.<br />

196 In un saggio sulla teoria del Witz in Jean Paul Richter, Fabrizio Cambi scrive a questo<br />

proposito: «è opportuno rilevare preliminarmente la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> tradurre con una chiave<br />

univoca il termine Witz sia perché ra<strong>di</strong>cato in un esteso arco temporale con un vastissimo<br />

ed eterogeneo ventaglio <strong>di</strong> posizioni e <strong>di</strong> proposte interpretative, sia perché si rivela <strong>di</strong> problematica<br />

definizione nel pur circoscritto impianto teorico jeanpauliano. Nella Vorschule col<br />

termine Witz Jean Paul intende una tecnica e un gioco linguistici che sul piano lessicale e<br />

retorico si traducono nel motto <strong>di</strong> spirito, nella battuta satirica, nell’enunciato epigrammatico,<br />

espressione <strong>della</strong> facoltà razionale e al tempo stesso creativa dell’arguzia (Witz=Geist);<br />

Cambi 1993, p. 6.<br />

197 W i, p. 574.<br />

198 B ii, p. 487.<br />

199 Ivi, p. 488.<br />

200 Ivi, p. 492.<br />

201 Ivi, p. 495.<br />

202 «Daher ist <strong>di</strong>e Sprache in Rücksicht geistiger Beziehungen ein Wörtebuch erblasster<br />

Metapher»; Richter 1963, p. 184 (p. 183). Cambi traduce in modo più letterale: «per questo<br />

ogni linguaggio riguardo a relazioni spirituali è un <strong>di</strong>zionario <strong>di</strong> metafore impalli<strong>di</strong>te»; Cambi<br />

1993, n. 30, p. 23.<br />

203 Richter 1963, p. 171 (p. 170).<br />

204 Fabrizio Cambi nota che Jean Paul propone qui in rapida sequenza l’etimologia del<br />

termine Witz, sorvolando sulla ra<strong>di</strong>ce indogermanica vid, sul sanscrito veda, da cui in greco<br />

(v)idea e in latino videre; si limita a far risalire l’etimo all’antico alto tedesco wizzi con cui<br />

già si in<strong>di</strong>cava un Wissen (ingenium). In questo modo passa sotto silenzio il mutamento <strong>di</strong><br />

significato in “idea spiritosa”, determinatosi in area inglese, e accentua il legame tra il Witz<br />

come facoltà razionale e geniale e la sua espressione letteraria e comunicativa. <strong>La</strong> componente<br />

pragmatica recupera, secondo Cambi, anche l’inglese wit e la tra<strong>di</strong>zione erasmiana;<br />

cfr. Cambi 1993, p. 9 ss.<br />

205 Richter 1963, p. 173 (p. 172).<br />

206 Ivi, p. 174 (p. 173).<br />

207 Ivi, p. 179 (p.178). Volteschlagen letteralmente in<strong>di</strong>ca, tra l’altro, la mossa con una<br />

carta truccata.<br />

208 Ivi, p. 182 (p. 181).<br />

209 Ivi, p. 184 (p. 182).<br />

210 Cambi 1993, p. 23.<br />

211 Kant 1917, pp. 221-23 (pp. 109-111: nella traduzione italiana Witz viene reso con<br />

“ingegno”, “spirito”). Mentre in Kant il Witz è capacità dell’intelletto, in Schlegel e Jean Paul<br />

<strong>di</strong>scende dalla facoltà dell’immaginazione e <strong>di</strong>venta prerogativa del genio, cfr. Cambi 1993.<br />

212 Richter 1963, p. 186 (p. 184).<br />

213 Spe<strong>di</strong>cato 1994, p. 90.<br />

214 Gianni Carchia, nei capitoli sull’umorismo <strong>di</strong> Retorica del sublime, ha delineato questo<br />

processo <strong>di</strong> secolarizzazione del sublime in Hegel, Jean Paul, Vischer e Pirandello, cfr.<br />

Carchia 1990.<br />

215 Richter 1963, p. 140 (p. 145).<br />

216 Ivi, p. 129 (p. 136).<br />

217 W ii, p. 115 (p. 139).<br />

218 Definizione ironica <strong>di</strong> Benedetto Croce, Croce 1965, p. 374.<br />

219 Interessanti sono anche le osservazioni <strong>di</strong> Vischer sul linguaggio: per questo autore la<br />

<strong>parola</strong> è generalizzazione, non presenta l’in<strong>di</strong>viduale, <strong>di</strong>menticando l’originario carattere <strong>di</strong><br />

immagine. Il linguaggio usa le parole come concetti, ma l’astrazione delle parole non è qualcosa<br />

<strong>di</strong> assoluto; la Einbildungskraft la accompagna e l’immagine del genere oscilla intorno<br />

al concetto (umschwebt), Vischer 1996, p. 8.<br />

220 Cfr. Tavani 2000, p. 13.<br />

221 Vischer 1967, p. 209 (p. 150).<br />

222 W ii, p. 110 (p. 136).<br />

223 Lo <strong>di</strong>rà anche Croce, riprendendo Baldensperger, un seguace <strong>di</strong> Bergson. Ma l’impossibilità<br />

<strong>della</strong> definizione ha in Croce un senso <strong>di</strong>verso e si ricollega al suo tentativo <strong>di</strong> ricondurre<br />

tutti i concetti dell’estetica a quello <strong>di</strong> “espressione”. Cfr. Pirandello 1986, p. 131 ss.<br />

56


224 W ii, p. 111 (p. 137).<br />

225 Ibidem.<br />

226 W i, p. 162.<br />

227 Ivi, p. 170.<br />

228 W ii, p. 113 (p. 138).<br />

229 Lessing 1985, p. 330.<br />

57


Bibliografia<br />

Testi <strong>di</strong> Mauthner<br />

Gli scritti <strong>di</strong> Mauthner sono in gran parte <strong>di</strong>sponibili in rete. In austrian<br />

literature online, oltre a testi letterari, si trova l’e<strong>di</strong>zione dei Beiträge del 1901-<br />

1902, in textlog.de (Historische Texte & Wörterbücher) la seconda e<strong>di</strong>zione<br />

degli anni 1906-1913, in zeno.org il Wörterbuch del 1923. Altri testi letterari<br />

sono reperibili in Projekt Gutenberg-DE.<br />

(1879) Nach berühmten Mustern: Paro<strong>di</strong>stische Stu<strong>di</strong>en, Spemann,<br />

Stuttgart (numerose ristampe).<br />

(1880) Nach berühmten Mustern: Paro<strong>di</strong>stische Stu<strong>di</strong>en; Neue Folge,<br />

Frobeen, Bern - Leipzig.<br />

(1880) Von armen Franischko: kleine Abenteur eines Kesselflickers,<br />

Frobeen, Bern - Leipzig.<br />

(1882) Der neue Ahasver: Roman aus Jung-Berlin, Minden, Dresden<br />

- Leipzig.<br />

(1884) Xanthippe, Minden, Dresden - Leipzig.<br />

(1886-1890) Berlin W., Bd. 1-3, Minden, Dresden - Leipzig.<br />

(1887) Der letzte Deutsche von Blatna: Erzählung aus Böhmen, Minden,<br />

Dresden - Leipzig.<br />

(1887) Von Keller zu Zola: Kritische Aufsätze, Heine, Berlin.<br />

(1888) Schmock oder <strong>di</strong>e litterarische Karriere der Gegenwart: Satire,<br />

Lehmann, Berlin.<br />

(1892) Lügenohr: Fabel und Ge<strong>di</strong>chte in Prosa, Cotta, Stuttgart.<br />

(1892) Hypatia: Roman aus dem Altertum, Cotta, Stuttgart.<br />

(1901-1902) Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Cotta,<br />

Stuttgart - Berlin.<br />

(1904) Aristoteles: ein unhistorischer Essay, Bard und Marquardt,<br />

Berlin.<br />

(1906) Spinoza, Schuster, Berlin.<br />

(1906) Totengespräche, Schnabel, Belirn.<br />

(1906) Die Sprache, Rütten und Löning, Frankfurt am Main.<br />

(1906-1913) Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Cotta,<br />

Stuttgart - Berlin (2. Aufl.).<br />

(1910) Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik<br />

der Sprache, Bd. 1-3, G. Müller, München - Leipzig.<br />

(1912) Jacobis Spinoza-Büchlein: Nebst Replik und Duplik (Hg.), G.<br />

Müller, München.<br />

(1912-1913) Agrippa v. Nettesheim, Die Eitelkeit und Unsicherheit<br />

der Wissenschaften und <strong>di</strong>e Vertei<strong>di</strong>gungsschrift (Hg.), Bd. 1-2, A. <strong>La</strong>ngen<br />

und G. Müller, München - Wien.<br />

(1913) Der letzte Tod des Gautama Buddha, G. Müller, München<br />

- Leipzig.<br />

59


(1914) Gespräche im Himmel und andere Ketzereien, G. Müller,<br />

München - Leipzig.<br />

(1914) O. F. Gruppe, Philosophische Werke I: Antäus (Hg.), G. Müller,<br />

München.<br />

(1918) Erinnerungen I: Prager Jugenjahre, G. Müller, München.<br />

(1920) Muttersprache und Vaterland, Dürr und Weber, Leipzig.<br />

(1920-1923) Der Atheismus und seine Geschichte im Abendlande,<br />

Bd. 1-4, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart - Berlin.<br />

(1921) Spinoza: ein Umriss seines Lebens und Wirkens, Reissner,<br />

Desden [neubearb. von Mauthner 1906].<br />

(1922) Selbstdarstellung, in Raymund Schmidt (Hg.), Die Deutsche<br />

Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, III, 121-144.<br />

(1923) Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Meiner, Leipzig<br />

(3. Aufl.).<br />

(1923-1924) Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer<br />

Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Meiner, Leipzig (2. Aufl.).<br />

(1925) Gottlose Mystik, hg. von Hedwig Mauthner, Reissner, Dresden.<br />

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74


<strong>La</strong> <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

Testi <strong>di</strong> critica del linguaggio<br />

<strong>di</strong> Fritz Mauthner<br />

<strong>La</strong> traduzione che segue è una scelta antologica <strong>di</strong> testi <strong>di</strong> Mauthner che<br />

affrontano i temi <strong>della</strong> critica del linguaggio, <strong>della</strong> teoria <strong>della</strong> <strong>parola</strong> come metafora<br />

e delle “tre immagini del mondo”. I passi sono tratti dai Beiträge zu einer<br />

Kritik der Sprache del 1906-1913 (B), dal Wörterbuch der Philosophie: Neue<br />

Beiträge zu einer Kritik der Sprache del 1923-1924 (W) e da Die drei Bilder der<br />

Welt: Ein Sprachkritischer Versuch (3BW), e<strong>di</strong>to da Monty Jacobs nel 1925.<br />

<strong>La</strong> <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>della</strong> <strong>parola</strong>, Der Fluch der Sprache, è il titolo <strong>di</strong> un paragrafo<br />

dei Beiträge (B i, p. 86).<br />

All’inizio <strong>di</strong> ogni sezione è stato in<strong>di</strong>cato il volume dell’opera, mentre nel<br />

testo i numeri tra parentesi tonde in<strong>di</strong>cano la pagina dell’e<strong>di</strong>zione tedesca. È<br />

stato uniformato l’uso del corsivo per i termini stranieri e per alcune parole che<br />

sono oggetto <strong>di</strong> analisi; sono state lasciate nel testo le citazioni fatte dall’autore,<br />

completandole in nota dove è stato possibile, segnalando il testo al quale<br />

Mauthner ha fatto riferimento o, in assenza <strong>di</strong> in<strong>di</strong>cazioni, facendo riferimento<br />

a testi reperibili oppure a e<strong>di</strong>zioni critiche. Il termine Sprache è stato tradotto<br />

con lingua o con linguaggio secondo il contesto. [NdC]


Critica del linguaggio<br />

(dai Beiträge zu einer Kritik der Sprache)<br />

Prefazione [alla seconda e<strong>di</strong>zione]<br />

(B i, x) Certo non sono un esperto nelle molte scienze alle quali<br />

devo ricorrere per fondare ed esemplificare i miei pensieri. Non<br />

sono un esperto in tutti questi ambiti: logica, matematica, meccanica,<br />

acustica, ottica, astronomia, biologia delle piante, fisiologia animale,<br />

storia, psicologia, grammatica, in<strong>di</strong>anistica, romanistica, germanistica,<br />

slavistica, ecc. ecc. Molti anni fa ho fatto un calcolo approssimativo.<br />

Per il mio lavoro avrei avuto bisogno <strong>di</strong> conoscenze tratte da 50-60<br />

<strong>di</strong>scipline, nelle quali è attualmente spezzettata la conoscenza del mondo.<br />

Per ciascuna <strong>di</strong> queste <strong>di</strong>scipline una mente capace ha bisogno <strong>di</strong><br />

almeno 5 anni anche solo per impadronirsi delle linee <strong>di</strong> fondo del<br />

sapere specialistico. Avrei dovuto allora lavorare senza sosta per circa<br />

300 anni, prima <strong>di</strong> poter iniziare a mettere per iscritto le mie proprie<br />

idee, poiché i miei pensieri hanno la scomo<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> non trattare la conoscenza<br />

del mondo attraverso il microscopio delle singole <strong>di</strong>scipline.<br />

Non sono pigro. Ci avrei messo volentieri i 300 anni, visto che non si<br />

usa tener conto <strong>della</strong> misura <strong>della</strong> vita umana in un compito <strong>di</strong> tale<br />

grandezza. Però mi son detto: è il destino delle <strong>di</strong>scipline scientifiche<br />

– eccetto poche – che persino i loro principî e verità non arrivino ai<br />

300 anni, che quin<strong>di</strong> dopo un lavoro <strong>di</strong> 300 anni sarei stato esperto<br />

solo nella <strong>di</strong>sciplina stu<strong>di</strong>ata da ultimo, un <strong>di</strong>lettante nelle <strong>di</strong>scipline<br />

nelle quali lo stu<strong>di</strong>o era rimasto in<strong>di</strong>etro <strong>di</strong> 10 o 20 anni, un ignorante<br />

in tutte le altre. Così dovetti decidermi a rinunciare alla specializzazione<br />

in tutte le scienze che potevano aiutare il mio lavoro; mi dovetti<br />

accontentare in tre volte nove 1 pesanti anni <strong>di</strong> impadronirmi solo <strong>di</strong><br />

quante nozioni, in tutte queste <strong>di</strong>scipline ausiliarie, mi sembrassero<br />

necessarie all’adempimento del mio compito.<br />

(xi) Il mio compito. Ne avevo uno. Io non sono uno specialista. Un<br />

compito grande e nuovo, che si è posto da sé: la critica del linguaggio.<br />

E nella mia risposta 2 salgo <strong>di</strong> nuovo un po’ più in alto e voglio essere<br />

del tutto serio. Se volevo sviluppare ed esporre la mia idea che la conoscenza<br />

del mondo attraverso il linguaggio fosse impossibile, che non<br />

vi fosse una scienza del mondo, che il linguaggio fosse uno strumento<br />

inservibile per la conoscenza, – se volevo sviluppare ed esporre questi<br />

77


pensieri in modo creativo e convincente, chiaro e vivo, libero dalla<br />

logica e dai giochi <strong>di</strong> parole, allora dovevo, come critico del linguaggio,<br />

conoscere proprio questo linguaggio nei suoi alti e bassi, essere<br />

in grado <strong>di</strong> stare a sentire quello che <strong>di</strong>ce il popolo 3 e poter seguire<br />

i ricercatori nelle loro lotte sui concetti scientifici. In tutti i campi del<br />

lavoro scientifico dovetti imparare a capire i principî del lavoro, del<br />

metodo, la logica specifica o il linguaggio. E forse nessuno dei piccoli<br />

carrettieri <strong>di</strong> un qualsiasi ambito <strong>di</strong> lavoro specifico, nella sua sensazione<br />

<strong>di</strong> essere simile a Dio, ha provato così forte come me la sensazione<br />

che i principî e il linguaggio specifico <strong>di</strong> ogni <strong>di</strong>sciplina non si possano<br />

comprendere del tutto senza <strong>di</strong>ssodare l’intero campo <strong>di</strong> lavoro, che è<br />

un campo <strong>di</strong> detriti. Senza più ridere, nella rassegnazione più amara, mi<br />

dovevo <strong>di</strong>re ogni giorno che non stavo fermo volentieri ai principî, che<br />

volentieri sarei stato costretto ad andare oltre, a fare qualcosa <strong>di</strong> più<br />

<strong>di</strong> una semplice passeggiata tra le scienze. Ma non potevo indugiare,<br />

se volevo compiere il mio lavoro. Non potevo indugiare da specialista<br />

in nessuna <strong>di</strong>sciplina. Non devo render conto se questo mi sia riuscito<br />

semplice o <strong>di</strong>fficile.<br />

Introduzione<br />

(1) “In principio era la <strong>parola</strong>”. Con la <strong>parola</strong> gli uomini sono al<br />

principio <strong>della</strong> conoscenza del mondo e rimangono fermi se restano<br />

presso la <strong>parola</strong>. Chi vuole procedere oltre, anche <strong>di</strong> un solo minuscolo<br />

passo, per il quale può portare avanti il lavoro intellettuale <strong>di</strong> tutta<br />

una vita, deve liberarsi dalla <strong>parola</strong> e dalla superstizione <strong>della</strong> <strong>parola</strong>,<br />

deve tentare <strong>di</strong> riscattare il suo mondo dalla tirannia del linguaggio.<br />

Qui nessuna prospettiva è d’aiuto, nessun ateismo critico-linguistico.<br />

Nell’aria non c’è nessun appiglio. Si deve salire per gra<strong>di</strong>ni e ogni gra<strong>di</strong>no<br />

è un nuovo inganno, perché esso non si libra liberamente. Anche<br />

se ogni gra<strong>di</strong>no fosse così basso e chi salisse vi si arrestasse solo <strong>di</strong><br />

sfuggita, lo toccasse solo con le punte dei pie<strong>di</strong>: nell’attimo del contatto<br />

anch’egli non si librerebbe liberamente, resterebbe incatenato al linguaggio<br />

<strong>di</strong> questo attimo, <strong>di</strong> questo gra<strong>di</strong>no. Anche se si fosse costruito<br />

da sé gra<strong>di</strong>no e linguaggio per quest’attimo.<br />

Nel corso del lavoro durato anni è stato ogni volta vittima <strong>di</strong> un<br />

autoinganno chi si è voluto far carico <strong>della</strong> liberazione dal linguaggio,<br />

sperando <strong>di</strong> portare a termine un’opera regolare e graduale. Non è un<br />

uomo libero colui che ancora si definisce ateo, oppositore <strong>di</strong> colui che<br />

egli nega. Non può compiere l’opera <strong>della</strong> liberazione dal linguaggio chi<br />

inizia a scrivere un libro con fame, con amore e con vanità <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

nella lingua <strong>di</strong> ieri, <strong>di</strong> oggi o <strong>di</strong> domani, nella lingua irrigi<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> un determinato<br />

fisso gra<strong>di</strong>no. Se voglio salire nella critica del linguaggio, che<br />

è l’occupazione più importante dell’umanità pensante, devo annientare<br />

78


il linguaggio passo dopo passo <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> me e (2) davanti a me e dentro<br />

<strong>di</strong> me, devo <strong>di</strong>struggere ogni piolo <strong>della</strong> scala mentre salgo. Chi vuole<br />

seguire, ricostruisca i pioli per poi <strong>di</strong>struggerli <strong>di</strong> nuovo.<br />

<strong>La</strong> rinuncia all’autoiganno sta nella prospettiva <strong>di</strong> scrivere un libro<br />

contro il linguaggio in un linguaggo irrigi<strong>di</strong>to. Perché il linguaggio è<br />

vivo e non rimane immutato dall’inizio <strong>di</strong> una frase fino alla sua fine.<br />

“In principio era la <strong>parola</strong>”; qui, nel pronunciare la quinta <strong>parola</strong>, la<br />

prima <strong>parola</strong> “in principio” muta già il suo senso.<br />

Così deve maturare la decisione o <strong>di</strong> pubblicare questo frammento<br />

come frammento o <strong>di</strong> consegnare il tutto al redentore più ra<strong>di</strong>cale, il<br />

fuoco. Il fuoco avrebbe portato la quiete. L’uomo tuttavia, finché vive,<br />

è come il linguaggio vivente e, perché parla, crede <strong>di</strong> avere qualcosa<br />

da <strong>di</strong>re.<br />

Quello che uccide le cimici, uccide anche il pope. […]<br />

L’essenza del linguaggio<br />

(3) Nell’accingermi a dare una critica del linguaggio umano – proprio<br />

perché l’oggetto <strong>della</strong> mia ricerca è designato con lo strumento<br />

<strong>della</strong> ricerca stessa, cioè con la <strong>parola</strong> “linguaggio” – devo vagliare i<br />

concetti con maggior precisione <strong>di</strong> quanto accada altrove. Sul concetto<br />

<strong>di</strong> “critica” non devo certo fermarmi a lungo. Critica significa fin dai<br />

tempi antichi l’attività dell’intelletto umano <strong>di</strong> <strong>di</strong>videre o <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere;<br />

l’osservazione attenta <strong>di</strong> due fatti simili deve <strong>di</strong> necessità condurre a<br />

prestare attenzione alle loro caratteristiche <strong>di</strong>stintive, se la <strong>di</strong>fferenza è<br />

abbastanza grande per i nostri organi; poiché non ci sono fatti identici.<br />

Chi promette allora la critica <strong>di</strong> un fenomeno, non promette niente <strong>di</strong><br />

più e niente <strong>di</strong> meno <strong>di</strong> un’osservazione scrupolosa o <strong>di</strong> un’indagine<br />

<strong>di</strong> questo fenomeno. Questo lo può fare ciascuno in buona coscienza,<br />

e il risultato <strong>della</strong> sua ricerca non <strong>di</strong>pende poi dalla sua volontà, ma<br />

dalla realtà osservata e dalla acutezza dei suoi organi <strong>di</strong> senso.<br />

“Il” linguaggio – Ma che cos’è il linguaggio che mi sono proposto<br />

<strong>di</strong> esaminare attentamente e che ho promesso ai lettori? Non voglio<br />

prestare attenzione, come il compilatore <strong>di</strong> un vocabolario, alle singole<br />

parole <strong>di</strong> una determinata lingua; non voglio, come un grammatico,<br />

raggruppare le <strong>di</strong>fferenti forme <strong>di</strong> una singola lingua; non voglio nemmeno<br />

scrivere la storia <strong>di</strong> una singola lingua e tantomeno la storia <strong>di</strong><br />

una famiglia linguistica, come si è posta come compito inattuabile la<br />

linguistica comparata prima per la nostra “famiglia linguistica” e poi<br />

per tutte le lingue <strong>della</strong> terra. Io voglio indagare chiaramente ciò che<br />

è comune alle lingue degli uomini, ciò che si potrebbe graziosamente<br />

chiamare in modo astratto l’essenza del linguaggio. (4) È subito evidente<br />

che “linguaggio” in questo senso significa qualcosa <strong>di</strong> totalmente<br />

79


<strong>di</strong>verso da “una lingua” o “le lingue”, per cui si potrebbe pur sempre<br />

all’occorrenza pensare a qualcosa <strong>di</strong> reale, anche se questo reale, poiché<br />

è un suono fugace, possa a stento essere annoverato tra le cose<br />

materiali. Ma quale reale sarebbe infine qualcosa <strong>di</strong> più che una forma<br />

fugace? Su questo punto non mi lascio andare a nessuna sofisticheria.<br />

Se si sono definiti i monumenti architettonici e i resti pietrificati del<br />

mondo originario come un linguaggio con il quale la preistoria <strong>della</strong><br />

cultura o <strong>della</strong> natura parla a noi, in questo caso si tratta solo <strong>di</strong><br />

un’espressione metaforica. Se richiamiamo alla memoria i geroglifici e<br />

i caratteri cuneiformi, con i quali un qualche antico popolo cerca <strong>di</strong><br />

parlare con noi solo attraverso segni scritti, quin<strong>di</strong> soltanto me<strong>di</strong>ante<br />

segni visibili, allora alla base <strong>di</strong> ognuna <strong>di</strong> queste lingue, nel caso in cui<br />

esse venissero effettivamente decifrate, vi sarebbe una lingua parlata.<br />

Anche il linguaggio visibile delle <strong>di</strong>ta dei nostri sordomuti è ben solo<br />

una fissazione, resa visibile e adattata alle relazioni, <strong>di</strong> un linguaggio<br />

del popolo e rimanda a una lingua parlata al modo stesso <strong>della</strong> nostra<br />

abituale scrittura. Altra è l’idea - cosa che non esclude certo l’affinità<br />

dei fatti - che noi, uomini che viviamo tra i libri, possiamo andare<br />

tanto avanti nell’esercizio incessante <strong>della</strong> lettura fino a escludere la<br />

lingua parlata dalla nostra coscienza; anche nella lettura degli uomini<br />

che vivono tra i libri lavora tuttavia in modo inconscio il cosiddetto<br />

centro del linguaggio sonoro.<br />

Le singole lingue sono dunque raggruppamenti eccezionalmente<br />

complicati <strong>di</strong> suoni me<strong>di</strong>ante i quali i gruppi umani si comprendono.<br />

Ma cos’è “il linguaggio” con cui ho a che fare? Qual è l’essenza del<br />

linguaggio? In che rapporto è “il linguaggio” con le lingue?<br />

<strong>La</strong> risposta più semplice sarebbe: “il linguaggio” non esiste; la <strong>parola</strong><br />

è un’astrazione così pallida che <strong>di</strong>fficilmente gli corrisponde ormai<br />

qualcosa <strong>di</strong> reale. E se il linguaggio umano fosse affidabile come “strumento”<br />

del conoscere, se lo fosse in particolare anche la mia madrelingua,<br />

(5) dovrei rinunciare fin dall’inizio al tentativo <strong>di</strong> questa critica,<br />

perché allora l’oggetto <strong>della</strong> ricerca sarebbe un astratto, un concetto<br />

irreale e inafferrabile. Con ciò mi trovo davanti al primo spiacevole<br />

<strong>di</strong>lemma. Solo se il linguaggio umano e in particolare la mia madrelingua<br />

non sono né affidabili né logici, solo allora potrò scoprire <strong>di</strong>etro<br />

l’estremo astratto “il linguaggio” ancora qualcosa <strong>di</strong> reale; allora però,<br />

per l’inaffidabilità dello strumento, non potrò eseguire la ricerca così<br />

a fondo come vorrei. In ogni caso, poiché <strong>di</strong> fatto non scrivo queste<br />

frasi introduttive all’inizio delle mie osservazioni, ma in seguito a fatiche<br />

durate anni, so già che questo spiacevole <strong>di</strong>lemma mi perseguiterà<br />

passo dopo passo.<br />

Quale senso abbia l’astratto “il linguaggio” <strong>di</strong>verrà un po’ più chiaro<br />

quando avremo esperito quanto astratto e irreale sia proprio ciò che per<br />

il momento in buona coscienza abbiamo assunto come un qualcosa <strong>di</strong><br />

reale: le singole lingue. Cosa sono poi queste singole lingue che costi-<br />

80


tuiscono l’oggetto <strong>della</strong> scienza del linguaggio, quella giovane scienza<br />

che quest’anno 4 ha compiuto 80 anni? Se si pensa che questa scienza<br />

si è prefissata <strong>di</strong> selezionare le <strong>di</strong>verse lingue degli uomini secondo le<br />

stirpi, i popoli e poi <strong>di</strong> nuovo secondo i <strong>di</strong>aletti e via <strong>di</strong>cendo, bisogna<br />

riconoscere che la scienza del linguaggio possa prendere le mosse solo<br />

provvisoriamente e con riserva dalle singole lingue. Il suo oggetto è<br />

piuttosto la massa enorme <strong>di</strong> tutti i suoni umani che mai siano stati detti<br />

o scritti dagli uomini per comprendersi in un qualche luogo <strong>della</strong> terra.<br />

<strong>La</strong> scienza del linguaggio si è prefissata <strong>di</strong> or<strong>di</strong>nare questo fondo enorme<br />

secondo parole e mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> formazione e, successivamente o precedentemente,<br />

secondo una più vicina o lontana “parentela”. <strong>La</strong> delimitazione<br />

usuale secondo le lingue dei popoli e i <strong>di</strong>aletti serve, come detto, solo<br />

a un orientamento provvisorio. Un giorno si potrebbe scoprire che la<br />

lingua degli antichi in<strong>di</strong>ani sia un “parente” stretto <strong>della</strong> nostra; (6) si<br />

potrebbe scoprire che il <strong>di</strong>aletto basso tedesco è più lontano dall’alto<br />

tedesco <strong>di</strong> quanto creda l’abitante del Mecklenburg che parla il suo<br />

<strong>di</strong>aletto basso tedesco. Nell’ambito delle lingue dell’Est asiatico queste<br />

sorprese sono evento quoti<strong>di</strong>ano.<br />

Lingue in<strong>di</strong>viduali – Da questa situazione <strong>della</strong> scienza del linguaggio<br />

appare chiaro che le sue singole lingue non sono unità così chiaramente<br />

definibili come ben si potrebbe credere. In realtà anche il concetto <strong>di</strong><br />

lingua singola è soltanto un’astrazione per la gran quantità <strong>di</strong> somiglianze,<br />

anzi <strong>di</strong> somiglianze molto gran<strong>di</strong> presenti nelle lingue in<strong>di</strong>viduali<br />

<strong>di</strong> un gruppo umano, il cosiddetto popolo. «Natura sane nationes non<br />

creat sed in<strong>di</strong>vidua» (Spinoza, Tract. Theol.-pol., xvii 5 ). Questo vale<br />

per il <strong>di</strong>ritto, la legge e i costumi come per la lingua. Dobbiamo subito<br />

prendere atto <strong>di</strong> ciò che in seguito risulterà più trasparente, e cioè che<br />

la lingua in<strong>di</strong>viduale <strong>di</strong> un uomo non è mai perfettamente uguale a<br />

quella <strong>di</strong> un altro e che uno stesso uomo non parla la medesima lingua<br />

nelle <strong>di</strong>verse età <strong>della</strong> vita, anche se si fa astrazione dalle particolarità<br />

<strong>della</strong> sua lingua infantile. Non si possono non vedere, se si fa un po’<br />

<strong>di</strong> attenzione, le <strong>di</strong>seguaglianze delle lingue in<strong>di</strong>viduali. Ogni scrittore<br />

che abbia carattere si riconosce per la sua in<strong>di</strong>viduale e caratteristica<br />

lingua. Anche a una <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> cento passi. Come il quadro <strong>di</strong> un<br />

pittore che abbia carattere. Chi non abbia un suo proprio stile, non<br />

è uno scrittore nato. Solo Dio (nella Bibbia) non ha un proprio stile.<br />

Spinoza ci ha detto ridendo (Spinoza, Tract. Theol.-pol., ii 6 ): «Deum<br />

nullum habere stylum peculiarem <strong>di</strong>cen<strong>di</strong>, sed tantum pro eru<strong>di</strong>tione et<br />

capacitate Prophetae eatenus esse elegantem, compen<strong>di</strong>osum, severum,<br />

rudem, prolixum et obscurum». Come un giornalista che vuole piacere<br />

al suo pubblico. Solo in un grande scrittore è particolarmente evidente<br />

il fenomeno <strong>della</strong> lingua in<strong>di</strong>viduale. Ma anche la <strong>di</strong>fferenza <strong>della</strong> lingua<br />

<strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo nei <strong>di</strong>versi perio<strong>di</strong> <strong>della</strong> sua vita è maggiore <strong>di</strong> quanto<br />

si vorrebbe credere. Si può presumere in generale che il singolo uomo<br />

81


segua grosso modo l’evoluzione <strong>della</strong> lingua del tempo che ha vissuto,<br />

anche se (7) molte abitu<strong>di</strong>ni <strong>della</strong> sua giovinezza gli rimarranno così<br />

impresse come nella lontananza le abitu<strong>di</strong>ni del suo <strong>di</strong>aletto <strong>di</strong> casa. Si<br />

provi a immaginare un tedesco nato nello stesso anno <strong>di</strong> Walter von<br />

der Vogelweide e che oggi, a poco più <strong>di</strong> 700 anni <strong>di</strong> età, viva ancora<br />

in piena freschezza <strong>di</strong> spirito e corpo. Alcune feconde utili ipotesi scientifiche<br />

dei nostri linguisti presuppongono ancor più fantasia. Noi oggi<br />

capiamo le poesie <strong>di</strong> Walther solo con l’aiuto <strong>di</strong> un lessico <strong>di</strong> tedesco<br />

alto-me<strong>di</strong>evale, e lo stesso Walther potrebbe capire i nostri romanzi e<br />

articoli <strong>di</strong> giornale solo dopo stu<strong>di</strong> faticosi (perché dovrebbe per <strong>di</strong> più<br />

imparare molti fatti); allo stesso modo sostengo: il mio uomo <strong>di</strong> settecento<br />

anni parlerebbe grosso modo la lingua dei nostri giorni, sarebbe<br />

<strong>di</strong>vertito dalle abitu<strong>di</strong>ni del <strong>di</strong>ciottesimo secolo nella lettura ad esempio<br />

<strong>di</strong> Lessing, ma avrebbe le nostre stesse <strong>di</strong>fficoltà a leggere senza ausilio<br />

scientifico il suo compagno <strong>di</strong> gioventù Walther. Se si incontrasse con<br />

Walther, non si comprenderebbero l’un l’altro.<br />

Il letto del fiume del linguaggio – Possiamo quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>re che le lingue<br />

in<strong>di</strong>viduali, <strong>di</strong> cui suole occuparsi la scienza del linguaggio come fossero<br />

cose reali, assomigliano a correnti, nelle quali in ogni singolo punto<br />

la goccia d’acqua viene nel tempo continuamente sciolta da altre gocce<br />

d’acqua e stando nello spazio in mezzo ad altre gocce d’acqua vi scorre<br />

dentro. L’antico detto greco “non ci si può bagnare due volte nello<br />

stesso fiume” vale anche per il linguaggio. Le sue parole e le sue forme<br />

sono incessantemente mutate. Se il nostro Helm 7 deriva veramente<br />

dall’antico in<strong>di</strong>ano çarman (gotico hilms), il cambiamento si è prodotto<br />

del tutto gradualmente in un impercettibile sfumatura del suono; ma<br />

quanto più insignificanti siano i cambiamenti <strong>di</strong> suono da stirpe a stirpe,<br />

quanto più ogni stirpe crede e spera <strong>di</strong> consegnare pura la <strong>parola</strong><br />

ere<strong>di</strong>tata, tanto più incessante deve essere il flusso <strong>di</strong> questi cambiamenti<br />

perché da çarman venga Helm. Qui cento anni significano così<br />

poco che Helm, ad esempio, era ancora del tutto adeguato, (8) quando<br />

gli organizzatori delle forze armate prussiane reintrodussero la <strong>parola</strong><br />

(insieme alla cosa) all’inizio del xix secolo, dopo che per circa duecento<br />

anni era rimasta reclusa in un ambito puramente storico-poetico.<br />

Anche i mulini del linguaggio macinano lentamente, ma con sicurezza.<br />

Allora ogni goccia che segue – per rimanere all’immagine <strong>della</strong> corrente<br />

– è così simile a quella che la precede che nessun microscopio riesce<br />

a in<strong>di</strong>viduarla; eppure non è escluso che l’acqua <strong>di</strong> una corrente nel<br />

corso dei secoli non mo<strong>di</strong>fichi le parti <strong>di</strong>ssolte in essa, perché si sono<br />

esauriti dei depositi <strong>di</strong> minerali lungo il suo corso o perché è inondata<br />

più velocemente una qualche montagna per via del <strong>di</strong>boscamento o<br />

perché vi sono stati cambiamenti nel terreno, ecc. Quello che per la<br />

corrente è una possibilità o una probabilità poco notata, è realtà certa<br />

per la lingua. Le lingue cambiano incessantemente il significato delle<br />

82


loro parole e nell’immensa circolazione dell’ultimo secolo, nel grande<br />

spreco <strong>di</strong> nuovi concetti, la lingua riesce a mala pena a venire incontro<br />

ai bisogni del cambiamento <strong>di</strong> significato. Per esempio, il cambiamento<br />

<strong>di</strong> significato delle parole nell’ambito dell’ampio gruppo dei concetti<br />

che riguardano le ferrovie non si è compiuto completamente. Si pensi a<br />

Platz in Platzkarte 8 . Oppure al concetto <strong>di</strong> Stunde dei berlinesi (“Nach<br />

Hamburg sind es vier Stunden” 9 ) e degli abitanti <strong>di</strong> montagna (“Gute<br />

vier Stund’ bis hinauf” 10 ). Per altri versi ha luogo incessantemente<br />

il mutamento del suono, che può essere ricondotto principalmente<br />

all’unica necessità <strong>della</strong> funzionalità fisiologica. Eppure, se è generalmente<br />

riconosciuto che il mutamento del suono viene attuato in gran<br />

parte per risparmiar lavoro agli organi fonatori, anche il mutamento<br />

delle forme <strong>di</strong> costruzione, che finisce con l’allargare ed estendere<br />

innovativamente le analogie (per esempio in tedesco la sostituzione<br />

<strong>della</strong> coniugazione forte con quella debole, come backte 11 invece <strong>di</strong><br />

buk, in maniera analoga nel linguaggio infantile: trinkte 12 invece <strong>di</strong><br />

trank), è una como<strong>di</strong>tà per le vie nervose. Esempi sono quasi inutili.<br />

In tedesco la strana <strong>parola</strong> tardo latina paraveredus (9) è <strong>di</strong>ventata<br />

alla fine Pferd 13 , che inoltre viene spesso pronunciata Ferd, così che<br />

nella futura ortografia la p forse verrà abbandonata. <strong>La</strong> <strong>parola</strong> greca<br />

ejlehmosuvnh (tedesco Almosen) è <strong>di</strong>ventata l’inglese alms, che viene<br />

pronunciato ams. Qualche volta possiamo osservare al lavoro questo<br />

segreto operare per una pronuncia più comoda. Così ancor oggi ogni<br />

maestro e studente <strong>di</strong> paese scrive sehen e gehen 14 . Attori, pre<strong>di</strong>catori<br />

e loro pari si sforzano <strong>di</strong> pronunciare chiaramente la e muta. Ma nella<br />

lingua parlata questa e muta, che nel gotico è una a (saihwan), non<br />

viene più pronunciata e i maestri <strong>di</strong> lingua sono in imbarazzo su quale<br />

sia la regola da formulare. Ancora pochi anni fa un linguista scriveva<br />

che omettere questa e nella sillaba finale en (gesehn) fosse volgare. Da<br />

allora ho visto spesso questa omissione.<br />

Ora il cambiamento delle parole nel tempo è già più variegato e<br />

più fine <strong>di</strong> quanto finora siano state contrassegnate le <strong>di</strong>fferenze delle<br />

gocce d’acqua che si susseguono l’una dopo l’altra, così anche la <strong>di</strong>fferenza<br />

delle gocce d’acqua, che scorrono a fianco l’una dell’altra nel<br />

letto del fiume, non è poi così grande come quella delle lingue in<strong>di</strong>viduali<br />

tra connazionali. Se si è confrontata la singola lingua con il fiume<br />

che eternamente muta, bisogna pur <strong>di</strong>re che la corrente <strong>della</strong> lingua<br />

è più lenta, eppure nella lingua – e qui sta il punto – l’inafferrabilità<br />

e la fuggevolezza del singolo momento mi sembra ancora più grande.<br />

Faremmo un passo avanti se potessimo paragonarla a una corrente<br />

d’aria regolare e a un letto <strong>di</strong> questa corrente d’aria. Se allora non si<br />

vuole riconoscere nella singola lingua un astratto irreale non rimarrà<br />

altro che confrontare la singola lingua con il letto stesso del fiume,<br />

con la forma che rimane eguale a sé stessa, poiché il letto del fiume si<br />

mo<strong>di</strong>fica in modo sufficientemente lento.<br />

83


Ora, se non mi sono posto il compito <strong>di</strong> seguire la forma e la storia<br />

delle singole lingue, ma quello <strong>di</strong> osservare ciò che in esse è comune,<br />

devo scoprire le loro affinità. Se non vi è altra somiglianza tra le singole<br />

lingue che quella che sta nella definizione che esse servono alla<br />

comprensione tra gli uomini, in questo caso la mia ricerca arriverà presto<br />

alle fine oppure non darà alcun risultato positivo. (10) Servirebbe<br />

però a <strong>di</strong>struggere alcune superstizioni che grammatica e logica hanno<br />

intrecciato al linguaggio. Ma io spero <strong>di</strong> poter fare ancora un piccolo<br />

passo più in là. Se si confrontano tra loro le singole lingue allo stesso<br />

modo in cui la descrizione <strong>della</strong> terra confronta tra loro i singoli letti<br />

dei fiumi, in base alla loro posizione, alle loro linee e simili, mi pare<br />

possa soltanto venirne fuori una scienza inutile. Però sarebbe anche<br />

possibile, con attenzione molto precisa e completa conoscenza <strong>di</strong> tutte<br />

le circostanze concomitanti, descrivere fin nei dettagli ogni singolo letto<br />

<strong>di</strong> fiume come effetto <strong>della</strong> propria massa d’acqua. Le note proprietà<br />

fisiche e chimiche dell’acqua sono le sole cause del letto attuale che<br />

poi certo insegnano <strong>di</strong> nuovo la strada alle nuove masse d’acqua. Questi<br />

insegnamenti sono a buon mercato come le more. Ogni pecoraio lo<br />

capisce e lo sa anche senza essere interrogato. Tuttavia c’era un tempo<br />

nel quale l’umanità spinta da un intenso bisogno <strong>di</strong> mitologia si immaginò<br />

un qualche <strong>di</strong>o, un’immagine maschile o femminile, seduto alla<br />

sorgente del fiume, il quale <strong>di</strong>o con nascoste intenzioni faceva fluire<br />

molta o poca acqua, acqua calda o fredda, acqua buona o cattiva nel<br />

letto del fiume o dalla sorgente. Uno strascico <strong>di</strong> questa mitologia lo<br />

troviamo ancor oggi in espressioni come il padre Reno oppure anche<br />

nelle ri<strong>di</strong>cole figure femminili che, con improbabili brocche greche<br />

nelle mani, rappresentano fiumi tedeschi su ri<strong>di</strong>coli monumenti. Lo<br />

abbiamo fatto in buona fede, <strong>di</strong>ce la gente a mo’ <strong>di</strong> scusa.<br />

Mitologia nel linguaggio – Nelle scienze dello spirito tuttavia, specialmente<br />

nelle intuizioni del linguaggio umano, questo bisogno <strong>di</strong> mitologia<br />

è ancora fortemente presente. E mi sembra proprio una forma <strong>di</strong><br />

mitologia quello che pensano del linguaggio non solo i preti e il volgo,<br />

(11) quello che i linguisti copiano l’uno dall’altro, cioè che il linguaggio<br />

sia uno strumento del nostro pensiero (uno strumento mirabile per<br />

giunta). Secondo questa idea, ancor oggi unanimamente con<strong>di</strong>visa, nel<br />

letto del fiume del linguaggio siede una <strong>di</strong>vinità – una figura maschile<br />

o femminile – il cosiddetto pensiero, che regna sul linguaggio umano<br />

con i suggerimenti <strong>di</strong> una <strong>di</strong>vinità affine, la logica, e con l’aiuto <strong>di</strong> una<br />

terza <strong>di</strong>vinità, la grammatica. Il risultato <strong>della</strong> mia ricerca <strong>di</strong> cui andrei<br />

più orgoglioso sarebbe riuscire a convincere gli uomini dell’irrealtà e<br />

<strong>della</strong> pochezza <strong>di</strong> questa trinità; servire <strong>di</strong>vinità irreali richiede sempre<br />

sacrifici, quin<strong>di</strong> è sempre nocivo.<br />

Ritengo che “il linguaggio”, il linguaggio in generale o l’essenza<br />

del linguaggio, a una considerazione più attenta, non ne vorrà più<br />

84


sapere <strong>della</strong> sovranità del pensiero, <strong>della</strong> logica e <strong>della</strong> grammatica.<br />

“Il linguaggio” si rivelerà in gran parte un vuoto astratto; dove invece<br />

noteremo effettive somiglianze tra le singole lingue, che sono anch’esse<br />

astrazioni, dove il linguaggio <strong>di</strong>verrà per noi una designazione per un<br />

atto effettivo dell’agire umano, non avremo alcuna necessità <strong>di</strong> risalire<br />

al pensiero, alla logica, alla grammatica quale origine. Piuttosto scopriremo<br />

che pensiero, logica e grammatica sono aspetti del linguaggio<br />

che in un certo senso si nascondono nel linguaggio e vengono scovati<br />

da oziosi fanatici dell’or<strong>di</strong>ne. Così in natura non c’è altro blu <strong>di</strong><br />

quello dei fenomeni blu. Sarebbe così anche se la lingua non si fosse<br />

data la pena <strong>di</strong> astrarre l’aggettivo blu. Allo stesso modo l’elettricità<br />

c’era prima che la si scoprisse, rendeva cioè i suoi effetti percepibili<br />

ai nostri sensi. Come ci sono nella natura tutti gli elementi che ancora<br />

non conosciamo.<br />

<strong>La</strong> formazione del linguaggio – (12) Alla fine però anche questa critica<br />

vorrà soltanto quello che ogni scienza del linguaggio ha voluto da<br />

sempre: spiegare il fenomeno del linguaggio.<br />

Spiegare il linguaggio! Anche i Greci cercavano ingenuamente qualcosa<br />

<strong>di</strong> simile quando <strong>di</strong>scutevano se il linguaggio fosse sorto per natura<br />

o me<strong>di</strong>ante un legislatore. L’origine da un legislatore deve essere<br />

stata la risposta più antica, quella teologica. Questa risposta poi venne<br />

data dai meno dogmatici Greci in modo un po’ più razionale rispetto ai<br />

cristiani del me<strong>di</strong>oevo; i Greci pensavano pressappoco a un legislatore<br />

umano, a un eroe, a un inventore, come in genere onoravano tra gli<br />

dei gli inventori delle principali attività culturali. Sono da preferire ai<br />

cristiani anche per aver pensato nel linguaggio a qualcosa <strong>di</strong> più concreto,<br />

cioè alla propria lingua nazionale, al greco. I cristiani – per comprendere<br />

sotto questo nome i popoli del nuovo sviluppo dell’Occidente<br />

– raggiunsero molto presto la coscienza che ci fossero molte lingue e <strong>di</strong><br />

pari <strong>di</strong>gnità e concepirono dapprima “il linguaggio” come un astratto,<br />

in modo che contenesse pressappoco il senso <strong>di</strong> “facoltà <strong>di</strong> parlare”,<br />

visto che si parlava <strong>di</strong> Dio che ha dato agli uomini il linguaggio. Questa<br />

idea, che per noi è quasi mostruosa, si trova ancora del tutto intatta e<br />

pretesca nel resoconto, per altri versi eccellente, dei risultati ottenuti<br />

fino a oggi dalla linguistica, nelle lezioni <strong>di</strong> Whitney. Qui si <strong>di</strong>ce (Die<br />

Sprachwissenschaft, rivisto da Jolly, 1874, p. 555 15 ): «l’origine <strong>di</strong>vina del<br />

linguaggio è da mantenere nel senso in cui la natura degli uomini è in<br />

generale dono <strong>di</strong> Dio insieme con tutti i doni innati e acquisiti». Questi<br />

complimenti per il buon Dio possono essere ipocrisie consapevoli (con<br />

questo non vorrei prestar fede volentieri a passi simili dell’Einleitung in<br />

<strong>di</strong>e vergleichende Religionswissenschaft <strong>di</strong> Max Müller 16 ); ma possono<br />

anche essere cortesie inconsce, adattamento alla comunità popolare; e<br />

allora appartengono anch’esse all’ambito del mutamento semantico.<br />

(13) Dobbiamo guardarci naturalmente dal credere che tutte queste<br />

85


proposizioni, domande e risposte abbiano avuto lo stesso significato in<br />

tutti i tempi. All’evoluzione <strong>della</strong> lingua appartiene, come con<strong>di</strong>zione<br />

secondaria concomitante, che le parole subiscano un cambiamento <strong>di</strong><br />

significato anche là dove noi non lo sappiamo. E dove lo sappiamo<br />

non siamo sempre coscienti del cambiamento.<br />

Così i Greci hanno certo collegato al pensiero che un legislatore<br />

avesse creato il linguaggio, l’idea infantile che questo legislatore abbia<br />

creato l’unica lingua corretta, ovviamente quella greca. Non solo un<br />

cavallo si chiamava i{ppo", era anche un i{ppo". In questo i cristiani li<br />

superarono <strong>di</strong> nuovo poiché nella loro dottrina dell’origine <strong>di</strong>vina del<br />

linguaggio era certo insita l’idea <strong>di</strong> una certa arbitarietà. <strong>La</strong> volontà <strong>di</strong><br />

Dio è eo ipso caso. Fu volere <strong>di</strong> Dio che ci fossero più lingue; eppure<br />

vi furono più lingue <strong>di</strong> pari <strong>di</strong>gnità. L’arroganza nazionalistica dovette<br />

essere originariamente estranea al cristianesimo internazionalista. Alla<br />

trovata stravagante <strong>di</strong> dedurre etimologicamente le lingue dall’ebraico si<br />

pervenne solo più tar<strong>di</strong>, per via filologica. Non si trattava <strong>di</strong> un dogma<br />

teologico.<br />

fuvsei – Nel momento in cui si oppose alla tesi che il linguaggio fosse<br />

sorto qevsei (me<strong>di</strong>ante un legislatore) la nuova teoria che esso fosse sorto<br />

fuvsei, a concetti ingenui erano mescolati pensieri corretti. Sarebbe<br />

quin<strong>di</strong> del tutto falso credere i seguaci <strong>di</strong> Eraclito capaci <strong>di</strong> elaborare<br />

l’idea attuale <strong>di</strong> uno sviluppo naturale del linguaggio. Riusciamo<br />

a mala pena a immedesimarci nel cervello <strong>di</strong> coloro che negavano la<br />

creazione artificiale del linguaggio senza sospettare l’elemento incoscio<br />

del processo e che per <strong>di</strong> più facevano sorgere dalla natura una lingua<br />

“giusta”. Coloro che insegnavano la nascita fuvsei, si interrogavano pur<br />

sempre sull’origine <strong>della</strong> lingua greca. Anche i nostri linguisti insegnano<br />

lo sviluppo per via naturale; ma essi conoscono dai tempi <strong>di</strong> Leibniz<br />

l’inconscio dell’attività umana che (14) produce tale effetto e accettano<br />

le singole lingue come dati <strong>di</strong> fatto. <strong>La</strong> loro domanda non riguarda più<br />

l’origine dell’unica lingua giusta, e nemmeno l’origine del linguaggio in<br />

generale. <strong>La</strong> loro domanda è del tutto circoscritta e suona pressappoco<br />

così: attraverso quale evoluzione storica si è giunti a che noi (ad esempio<br />

gli abitanti <strong>di</strong> una zona dell’Altmarkt) parliamo come parliamo, a<br />

che invece gli attuali bantù parlino come parlano.<br />

Alla domanda si riesce a rispondere solo in parte; risalendo ora<br />

a due o tre, ora a cinquanta fino a cento generazioni. Vi sono lingue<br />

giovani e vecchie, come vi sono famiglie che sanno ancora al massimo<br />

come si chiamasse il nonno e cosa facesse, e altre, più orgogliose, che<br />

possiedono ancora notizie dei loro avi. Dietro questi testimoniati sviluppi<br />

sta sempre però la paleontologia del linguaggio. E la domanda <strong>della</strong><br />

linguistica moderna è così limitata perché si accontenta <strong>di</strong> notizie così<br />

scarse e accetta senza curarsene le vaghe ipotesi che hanno il compito<br />

<strong>di</strong> chiarire la preistoria.<br />

86


Gli antichi non potevano quin<strong>di</strong> intendere come noi l’astratto “il<br />

linguaggio” perché non riuscivano a pensare al <strong>di</strong> là <strong>della</strong> loro lingua<br />

nazionale (oltre la quale i Romani coltivavano anche il greco), ma non<br />

potevano nemmeno comprendere il concreto nel linguaggio come i nostri<br />

ricercatori che si sono spinti effettivamente fino alla massima concretezza,<br />

quasi fino alle onde acustiche. In quanto movimento dell’aria,<br />

il suono <strong>della</strong> lingua non viene certo determinato matematicamente,<br />

ma sicuramente compreso sul piano fisico.<br />

Ma l’idolatria è innata all’uomo. Egli cerca continuamente <strong>di</strong> saltare<br />

al <strong>di</strong> là delle generazioni che conosce, che possono andare da tre a<br />

cento, <strong>di</strong> risalire fino a quelle innumerevoli che non conosce, egli si<br />

interroga sempre <strong>di</strong> nuovo sull’origine “del”linguaggio. Ma poiché, se<br />

è un avveduto linguista, non potrebbe certo interrogarsi sull’origine <strong>di</strong><br />

una stirpe attualmente parlante, poiché la domanda (15) sull’origine<br />

ad esempio delle ra<strong>di</strong>ci sanscrite con cui le nostre lingue indoeuropee<br />

devono aver cominciato, suona davvero come uno scherzo infantile,<br />

ogni ricerca sull’origine <strong>della</strong> lingua non è allora più un’occupazione<br />

che abbia a che fare con un qualcosa <strong>di</strong> concreto, ma – ciò che non è<br />

ancora entrato in testa – è un ritorno all’astratto: “la” lingua. In questo<br />

senso “la lingua” è pressappoco lo stesso <strong>di</strong> ciò che la precedente<br />

psicologia ha chiamato “la facoltà linguistica”. Quin<strong>di</strong> la domanda<br />

sull’origine <strong>della</strong> lingua, il che significa sulle prime attività <strong>della</strong> facoltà<br />

linguistica, sarebbe la stessa <strong>della</strong> domanda sull’origine <strong>della</strong> facoltà<br />

linguistica. Il che pare un assurdo.<br />

<strong>La</strong> facoltà del linguaggio – Sembra soltanto. Dobbiamo considerare anche<br />

il linguaggio tra le altre attività umane allo stesso modo del camminare,<br />

del respirare. Per il biologo è un’idea sensata non che l’uomo<br />

cammini, perché ha gambe, ma che abbia gambe perché cammina; non<br />

che l’uomo respiri, perché ha i polmoni, ma che abbia un polmone<br />

perché respira.<br />

Più correttamente: lo sviluppo <strong>di</strong> uno strumento e la crescita dell’attività<br />

procedono parallelamente. Se consideriamo ora lo strumento reale<br />

del linguaggio (con strumento linguistico intendo oltre all’apparato<br />

acustico, anche tutti i muscoli e i nervi che ne sono al servizio o al<br />

comando) come espressione fattuale <strong>di</strong> una facoltà linguistica immaginaria,<br />

è certo possibile che lo sviluppo del linguaggio umano sia andato<br />

<strong>di</strong> pari passo con lo sviluppo degli organi linguistici dell’uomo.<br />

Se ci atteniamo rigorosamente a questa idea, ve<strong>di</strong>amo chiaramente<br />

che – per quanti infiniti luoghi del tempo possiamo percorrere all’in<strong>di</strong>etro<br />

alla ricerca dell’origine del linguaggio – non raggiungiamo mai<br />

un punto in cui dovremmo abbandonare l’idea del suono linguistico<br />

concreto, in cui dovremmo interrogarci sull’origine dell’astratto, del<br />

linguaggio.<br />

Mi sembra che il valore <strong>di</strong> questo punto <strong>di</strong> vista risieda nella pos-<br />

87


sibilità <strong>di</strong> eliminare alcune astrazioni dall’uso scientifico (16). Locuzioni<br />

quali “facoltà linguistica” o “il dono del linguaggio” <strong>di</strong>ventano<br />

definitivamente superflue, se viene chiaramente riconosciuto che l’uso<br />

linguistico, vale a <strong>di</strong>re l’esercizio dell’attività linguistica, ha sviluppato<br />

per primo lo strumento linguistico. Si troverà allora assurdo il concetto<br />

<strong>di</strong> una “facoltà linguistica” come si trova assurda l’idea <strong>di</strong> una particolare<br />

“facoltà motoria” o <strong>di</strong> una particolare “facoltà respiratoria”. Certo<br />

vi è maggiore como<strong>di</strong>tà nello spontaneo muoversi dell’animale rispetto<br />

al sostare in attesa delle piante; ma lo strumento del movimento si è<br />

sviluppato col muoversi. Allo stesso modo respirare con i polmoni è<br />

probabilmente più confortevole che prendere l’aria nell’acqua come<br />

fanno i branchiati; ma nessun uomo potrà sorvolare sullo “sviluppo”<br />

graduale <strong>di</strong> questo “dono”, perché ogni rana ne offre un esempio.<br />

Camminare e parlare – <strong>La</strong> somiglianza tra il camminare, o altre azioni,<br />

e il parlare <strong>di</strong>verrebbe più evidente se fin d’ora, con una prospettiva<br />

più precisa, potessimo sempre sostituire l’astratto «linguaggio» con il<br />

termine «parlare», che designa un’attività.<br />

Il nostro punto <strong>di</strong> vista ha inoltre il merito <strong>di</strong> far perdere l’antico<br />

senso alla domanda sull’origine “del” linguaggio. L’origine deve essere<br />

posta sempre più in<strong>di</strong>etro e la ricerca sulle ra<strong>di</strong>ci sanscrite decade a<br />

una storia linguistica del giorno prima. Quando anche io – seguendo<br />

l’invincibile uso linguistico – parlo <strong>di</strong> un’origine del linguaggio, non<br />

penso con questo a un’origine effettiva che non riusciamo ad avvicinare,<br />

ma a un punto del corso <strong>della</strong> corrente situato chissà dove all’in<strong>di</strong>etro,<br />

a un punto <strong>di</strong> quiete, che esiste però solo nella mia rappresentazione.<br />

I movimenti finalistici, che noi riassumiamo nel nome linguaggio<br />

o meglio nel verbo “parlare” (ogni verbo è un concetto or<strong>di</strong>natore<br />

dal punto <strong>di</strong> vista umano in vista <strong>di</strong> un fine), hanno un loro percorso<br />

generale che dal movimento inconscio passa attraverso il volere conscio<br />

e ritorna all’inconscio, e sicuramente sia nell’evoluzione generale <strong>della</strong><br />

lingua come nella lingua (17) dell’in<strong>di</strong>viduo. Le espressioni <strong>di</strong> dolore<br />

e <strong>di</strong> felicità continuano a non provenire dal volere cosciente; non<br />

provengono, per applicare un uso linguistico degli psicologi francesi,<br />

dalla volonté. Nei bambini imparare a parlare e imparare a camminare<br />

sono ugualmente legati alla coscienza; dobbiamo allora ritenere che<br />

anche nello sviluppo genetico <strong>della</strong> lingua ogni arricchimento, ogni<br />

nuova sottile metafora sia stata connessa alla coscienza. Alla fine però<br />

ogni lingua abituale <strong>di</strong>venta tanto automatica che al profano riesce inizialmente<br />

<strong>di</strong>fficile vedere solo nei movimenti la realtà <strong>della</strong> lingua. In<br />

fondo egli nota solo i risultati dei movimenti, i suoni, non i movimenti<br />

stessi. Il parlare o il pensare, ogni conoscere, rimangono sempre legati<br />

al volere conscio o inconscio, perché ogni conoscere ha la sua origine<br />

ultima nell’attenzione suscitata dall’interesse in<strong>di</strong>viduale e nell’attenzione<br />

ere<strong>di</strong>tata dall’interesse dei predecessori.<br />

88


Se gli uomini non avessero imparato a parlare, e uno solo <strong>di</strong> loro<br />

parlasse, sarebbe naturale per un osservatore interpretare il fenomeno<br />

come una successione <strong>di</strong> movimenti e <strong>di</strong>fficilmente gli verrebbe in<br />

mente <strong>di</strong> dare a questi movimenti un nome comune. Così, un bambino<br />

posto <strong>di</strong> fronte a un bue che muggisce, percepisce chiaramente la<br />

fatica dell’animale. Al contrario i movimenti linguistici <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo<br />

che fosse il solo a parlare tra simili privi <strong>di</strong> linguaggio non sarebbero<br />

affatto linguaggio. Così non si può proprio immaginare un unico uomo<br />

che parli tra compagni senza linguaggio, come un <strong>di</strong>o parlante che per<br />

primo doni agli uomini il linguaggio. Oppure sarebbe come l’abbonato<br />

<strong>di</strong> una estesa catena telefonica che non avesse un secondo abbonato. I<br />

suoi movimenti finalistici non sarebbero linguaggio. I suoi movimenti<br />

finalistici <strong>di</strong>verrebbero linguaggio solo attraverso la caratteristica, che<br />

va oltre l’in<strong>di</strong>viduo e la realtà, <strong>di</strong> essere uguali in un gruppo <strong>di</strong> uomini,<br />

<strong>di</strong> essere perciò comprensibili, <strong>di</strong> essere utili. Solo come fattore<br />

sociale la lingua, che prima dell’invenzione (18) dell’arte <strong>della</strong> stampa<br />

non era neppure raccolta in un vocabolario, <strong>di</strong>viene qualcosa <strong>di</strong> reale.<br />

Il linguaggio è una realtà sociale; a prescindere da questa, è solo<br />

un’astrazione da determinati movimenti.<br />

Non ho bisogno <strong>di</strong> aggiungere che gli usuali concetti <strong>di</strong> volizione<br />

e <strong>di</strong> volere sono a loro volta astrazioni alle quali non corrisponde nulla<br />

<strong>di</strong> reale. Così ogni movimento <strong>della</strong> lingua si riconduce alla fine a<br />

un impulso alla comunicazione che andrebbe ottimamente aggiunto<br />

all’impulso a respirare, all’impulso ad alimentarsi (del quale l’impulso<br />

a respirare sarebbe solo una sottospecie), all’impulso sessuale (<strong>di</strong> cui<br />

l’impulso al nutrimento sarebbe solo un servitore), all’impulso al gioco<br />

e all’impulso alla percezione. L’impulso alla percezione si potrebbe allo<br />

stesso modo <strong>di</strong>videre in impulso alla visione, impulso a u<strong>di</strong>re ecc. Ma<br />

tutti questi impulsi derivano solo dall’impulso umano a classificare, il<br />

quale è degno <strong>di</strong> quelli, il che significa per l’economia <strong>della</strong> memoria<br />

umana; nella realtà psicologica può anche non esserci alcun impulso<br />

al <strong>di</strong> fuori <strong>della</strong> volontà in<strong>di</strong>viduale <strong>di</strong> vivere, per la quale poi si trova<br />

naturalmente la designazione <strong>di</strong> impulso alla sopravvivenza.<br />

Da nessuna parte la lingua materna – Non ci sono due uomini che parlino<br />

la stessa lingua. Nei momenti <strong>di</strong> malumore più profondo, ognuno<br />

avrà pensato almeno una volta che nessun altro possa comprendere la<br />

sua lingua. Metaforicamente ognuno afferra questa proposizione. Tuttavia<br />

non si concede facilmente che essa contenga una verità scientifica<br />

obiettiva. Una verità che si potrebbe esprimere anche così: ciascuno<br />

«domina» un frammento <strong>di</strong>verso <strong>della</strong> madrelingua comune. Scegliere<br />

quest’ultima <strong>parola</strong> mi riesce <strong>di</strong>fficile. Capita quoti<strong>di</strong>anamente infatti<br />

<strong>di</strong> comprendere una porzione più grande <strong>della</strong> nostra madrelingua e<br />

<strong>di</strong> riuscire a parlarne una più piccola; come del resto si comprende in<br />

genere un <strong>di</strong>aletto vicino, ma si riesce a parlare solo il proprio.<br />

89


Alla base <strong>di</strong> questa riflessione sta il concetto <strong>di</strong> una lingua comune<br />

a un popolo, (19) la madrelingua. Ma dove questa lingua è realtà? dove<br />

mai? non nel singolo. Perché chi comprende solo una parte del patrimonio<br />

<strong>di</strong> parole e <strong>di</strong> forme, usa solo una piccolissima parte <strong>di</strong> quello<br />

che comprende. Non nei libri. Perché altrimenti non ci sarebbe stata<br />

nessuna lingua prima dell’invenzione <strong>della</strong> scrittura. Dappertutto nei<br />

libri c’è, al massimo, una raccolta <strong>di</strong> parole e regole, e le letterature che<br />

casualmente si sono sviluppate; non c’è mai però neppure la possibilità<br />

<strong>di</strong> raccogliere una lingua. Dov’è dunque realtà l’astratto “linguaggio”?<br />

Nell’aria. Nel popolo, tra gli uomini.<br />

Nessuno può vantarsi <strong>di</strong> conoscere anche solo la propria lingua.<br />

Jacob Grimm non ha sempre osservato le sue proprie regole. Un Goe- Goe-<br />

the usa alcune parole con incertezza, fa “errori linguistici”. In breve,<br />

nessuno conosce tanto precisamente la lingua tedesca da essere sicuro<br />

<strong>di</strong> ogni forma d’uso, da non trovare ogni tanto parole che non ha mai<br />

usato, mai sentito o letto. […]<br />

Linguaggio e socialismo<br />

Il linguaggio e il suo uso – (24) Ma questo è proprio lo straor<strong>di</strong>nario<br />

gioco <strong>di</strong> prestigio del linguaggio, cioè che il fondamento e il segno <strong>della</strong><br />

sua miserabile povertà vengono ritenuti enorme ricchezza, e ritenuti<br />

a ragione dalle masse degli uomini e dagli uomini <strong>di</strong> massa: perché il<br />

linguaggio è un oggetto d’uso che guadagna valore con l’estendersi<br />

dell’uso. È facile chiarire il pro<strong>di</strong>gio. Tutti gli altri oggetti d’uso vengono<br />

completamente consumati dall’uso, come gli alimenti, oppure<br />

logorati, come gli strumenti e le macchine. Se il linguaggio fosse uno<br />

strumento, verrebbe anch’esso logorato o consumato. Soltanto però le<br />

parole vengono consumate, logorate, messe da parte, svalutate. Ma in<br />

questo modo acquistano valore per le masse. Il linguaggio non è però<br />

un oggetto dell’uso, nemmeno uno strumento, non è affatto un oggetto,<br />

non è niente altro che il suo uso. Linguaggio è uso del linguaggio.<br />

Allora, che l’uso aumenti con l’uso non costituisce più un pro<strong>di</strong>gio.<br />

Questo fatto, che non poteva certo passare del tutto inosservato, ha<br />

subito a partire da Hegel tali tentativi <strong>di</strong> <strong>di</strong>storsione che si è annoverato<br />

il linguaggio, insieme con l’arte, la religione e le istituzioni statali, tra<br />

le creazioni del cosiddetto spirito oggettivo. Propriamente spirito è il<br />

soggettivo nell’uomo: nel momento in cui ora lo si scaraventa fuori dal<br />

singolo uomo e lo si chiama oggettivo, ci si costruisce un nuovo <strong>di</strong>o,<br />

con cui i socialdemocratici dovrebbero trovarsi d’accordo. Questo spirito<br />

poi pensa vuole e fa quello che la massa pensa vuole e fa. In verità il<br />

fatto che si presenta con parole così altisonanti come spirito oggettivo,<br />

non è altro che la <strong>di</strong>pendenza del singolo uomo dal linguaggio che egli<br />

ha ere<strong>di</strong>tato dalle masse dei suoi antenati che sono succedute le une<br />

90


alle altre, e che ha valore d’uso per lui proprio perché è una proprietà<br />

comune <strong>di</strong> tutti i compagni del popolo. Gli oggetti d’uso rimangono<br />

inalterati (25) quando non vengono consumati dall’uso degli uomini o<br />

dall’uso involontario degli agenti naturali. Il linguaggio per contro senza<br />

uso muore, poiché non è un oggetto d’uso, ma esso stesso uso. Allora<br />

è <strong>di</strong> decisiva importanza che tutte le parti <strong>della</strong> lingua siano sempre<br />

in uso in qualche luogo tra il popolo. Il singolo uomo non usa forse<br />

per anni solo la decima parte delle parole che il linguaggio gli mette<br />

a <strong>di</strong>sposizione e solo una minima parte delle combinazioni <strong>di</strong> queste<br />

parole? Il singolo, come si è detto, non domina la sua madrelingua.<br />

Altrove è certo in uso un altro decimo e <strong>di</strong> tanto in tanto colpiscono<br />

l’orecchio del singolo uomo tanti centri <strong>di</strong> associazione linguistica dei<br />

decimi non usati che alla fine una parte molto più ampia dell’intera<br />

lingua è continuamente a <strong>di</strong>sposizione nell’esercizio passivo.<br />

Linguaggio, una regola del gioco – Il comunismo è potuto <strong>di</strong>venire<br />

realtà sul piano del linguaggio, poiché il linguaggio non è qualcosa<br />

<strong>di</strong> cui ci si possa impossessare; il possesso comune è possibile senza<br />

inconvenienti, poiché il linguaggio non è niente altro che l’affinità o<br />

la volgare comunanza 17 <strong>della</strong> concezione del mondo. Le masse degli<br />

uomini e gli uomini <strong>di</strong> massa si rallegrano stupiti <strong>di</strong> tale possesso e<br />

non sospettano che si tratti <strong>di</strong> un’illusione. Anche luce e aria sono in<br />

comune, ma esse sono qualcosa, e ogni raggio <strong>di</strong> calore, ogni atomo<br />

d’aria che qualcuno consuma viene sottratto a un altro. Luce e aria<br />

sono pur sempre valori. Il citta<strong>di</strong>no li deve pagare cari. Il linguaggio è<br />

un valore solo apparente, come una regola del gioco che <strong>di</strong>venta tanto<br />

più cogente quanti più giocatori vi si sottomettono, una regola però<br />

che non vuole né cambiare, né comprendere il mondo <strong>della</strong> realtà. Nel<br />

gioco <strong>di</strong> società del linguaggio, che si estende a tutto il mondo e quasi<br />

lo domina, il singolo è contento <strong>di</strong> pensare assieme a milioni <strong>di</strong> persone<br />

seguendo le stesse regole, quando impara ad esempio a rispondere<br />

ai vecchi enigmi ripetendo la nuova risposta “progresso”, quando la<br />

<strong>parola</strong> “naturalismo” è <strong>di</strong>ventata <strong>di</strong> moda, oppure quando le parole<br />

“libertà”, “progresso” lo eccitano e lo dominano. <strong>La</strong> storia viene fatta<br />

da nature forti che in questo gioco <strong>di</strong> società mon<strong>di</strong>ale gridano le parole<br />

alle masse degli uomini. (26) Queste nature forti vanno bene per<br />

il mondo. <strong>La</strong> storia spirituale viene fatta da uomini eccezionali che non<br />

vanno bene per il mondo, i quali, <strong>di</strong>scostandosi dal gioco, considerano<br />

il mondo <strong>di</strong>versamente da come lo hanno considerato le masse dei<br />

predecessori e da come la lingua ere<strong>di</strong>tata pretende, da uomini che,<br />

senza ere<strong>di</strong>tà e origine, credono <strong>di</strong> conoscere il mondo in modo nuovo<br />

e possono a mala pena ammettere che anch’essi, con il sacrificio <strong>della</strong><br />

propria vita, non hanno escogitato che piccole mo<strong>di</strong>fiche delle regole<br />

del gioco per il gioco <strong>di</strong> società del mondo. Li si possono considerare<br />

come variazioni casuali che rompono la rigida ere<strong>di</strong>tarietà <strong>della</strong> specie<br />

91


e forse possono contribuire a un lieve cambiamento <strong>della</strong> specie. Essi<br />

non sanno che farsene <strong>della</strong> proprietà comune del linguaggio, e la<br />

società, ciò che è comune, non sa che farsene <strong>di</strong> loro.<br />

Il linguaggio, non un’opera d’arte – Si è chiamato così spesso il linguaggio<br />

una meravigliosa opera d’arte che la maggioranza degli uomini ha<br />

considerato davvero questa massa nebulosa e fluttuante, che confluisce<br />

in un concetto confuso, come un’opera d’arte. Solo che la stessa opera<br />

uno l’ha considerata una <strong>di</strong>stesa erbosa, un secondo un tempio antico,<br />

un terzo il ritratto del nonno.<br />

Il linguaggio non può essere un’opera d’arte già per il fatto che non<br />

è la creazione <strong>di</strong> un singolo. Come abbiamo già detto, io non posso<br />

veramente rappresentarmelo, ma posso pensare a parole che l’umanità<br />

abbia vissuto per migliaia <strong>di</strong> anni senza parole e senza concetti, senza<br />

dubbi e senza menzogne come il mondo animale, e poi all’improvviso<br />

sia nato un uomo gigantesco, un uomo grande come una catasta tra<br />

uomini alti un cubito. E costui sarebbe stato un poeta. Perché il linguaggio<br />

non fu mai un’opera d’arte, ma pur sempre il mezzo artistico<br />

<strong>della</strong> poesia. Egli avrebbe, per sé e del tutto da solo, come se avesse<br />

voluto scaricare la tensione in un tuono, desiderato con ardore, inventato<br />

e completato il linguaggio. Allora sarebbe <strong>di</strong>ventato un’opera<br />

d’arte. L’opera <strong>di</strong> un Uno. Anche un monologo però. Gli uomini alti<br />

un cubito non lo avrebbero capito. Il linguaggio nato dal bisogno <strong>di</strong><br />

scaricare un tuono sarebbe potuto essere un’opera d’arte. Il linguaggio<br />

nato da un istinto or<strong>di</strong>nario <strong>della</strong> comunicazione è un brutto (27)<br />

lavoro <strong>di</strong> fabbrica, raffazzonato da miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> lavoratori a giornata.<br />

Il linguaggio non può essere un’opera d’arte perché un singolo non<br />

può averlo creato, e non è neanche un’opera d’arte perché non è stato<br />

creato per un bisogno grande <strong>di</strong> un uomo grande come una catasta, ma<br />

per i piccoli bisogni <strong>di</strong> tutti. Il linguaggio è cresciuto come una grande<br />

città. Camera su camera, finestra su finestra, abitazione su abitazione,<br />

casa su casa, strada su strada, quartiere su quartiere, e tutto è inscatolato<br />

in qualcos’altro, legato all’altro, spalmato sull’altro, attraverso<br />

tubi e fossi, e se gli si pone davanti uno zulù e gli si <strong>di</strong>ce che quella<br />

è un opera d’arte, allora quell’asino ci crede, eppure a casa ha la sua<br />

capanna, rotonda e libera.<br />

Volgarità del linguaggio – Se però il linguaggio non è un’opera d’arte,<br />

proprio per questo è fino a oggi l’unica istituzione <strong>della</strong> società che<br />

effettivamente si fonda su basi socialistiche. Davvero la città, come il<br />

linguaggio, ha i suoi tubi del gas che portano luce avvelenata in tutte<br />

le stanze, i tubi <strong>di</strong> piombo che portano un’acqua infetta in tutte le<br />

cucine, le condutture che fanno gorgogliare vivacemente sotto terra la<br />

sporcizia <strong>di</strong> milioni <strong>di</strong> uomini in bella simmetria con la vita <strong>di</strong> superficie<br />

verso nuovi territori dell’umanità a venire, le marcite. Ma caligine,<br />

92


acqua putrida e letame non sono ancora dappertutto bene comune.<br />

L’esattore delle tasse regola il rubinetto e pretende denaro. Per questo<br />

il linguaggio è una cosa ancor più <strong>di</strong>vertente. Per <strong>di</strong>rla chiara: nei suoi<br />

tubi arrugginiti scorrono insieme luce e veleno, acqua pura e contagio<br />

e schizzano fuori dalle giunture gratis e dappertutto in mezzo agli uomini;<br />

l’intera società non è altro che un’enorme opera idraulica gratuita<br />

costruita per questo miscuglio; ogni singolo è un doccione, e <strong>di</strong> bocca<br />

in bocca la sorgente torbida si vomita addosso e si mischia gravida e<br />

contagiosa, ma infruttuosa e infame, e per questo non c’è proprietà e<br />

nemmeno <strong>di</strong>ritto e nemmeno potere. Il linguaggio è un bene comune.<br />

Tutto appartiene a tutti, tutti ci fanno il bagno, tutti lo respirano, e<br />

tutti lo producono da sé.<br />

(28) Gli utopisti sperano e insegnano che un giorno l’intera natura<br />

<strong>di</strong>venterà comune così come lo è il linguaggio, solo quando ogni proprietà<br />

sarà comune e a buon mercato come il linguaggio. […]<br />

<strong>La</strong> superstizione <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

(158) Platone e altri buoni filosofi del Me<strong>di</strong>oevo si richiamano spesso<br />

ai versi <strong>di</strong> Omero, come se il poeta fosse un’autorità per il mondo<br />

reale. Quei versi non sono per loro citazioni ornamentali, né sostegno<br />

morale delle loro argomentazioni, ma sono davvero qualcosa come principî<br />

dottrinali. Oggi siamo <strong>di</strong>ventati più raffinati. Ma le parole che il<br />

popolo ha escogitato per necessità o per superstizione vengono sempre<br />

ancora trattate come se l’esistenza <strong>di</strong> una <strong>parola</strong> fosse una <strong>di</strong>mostrazione<br />

per la realtà <strong>di</strong> quello che designa.<br />

Il termine comunissimo “significare (bedeuten)” ci pare una paro<strong>di</strong>a<br />

dello sviluppo del linguaggio. Dal significato originario “produrre<br />

qualcosa me<strong>di</strong>ante un’in<strong>di</strong>cazione (Hindeutung)”, ad esempio in<strong>di</strong>care<br />

(bedeuten) a qualcuno <strong>di</strong> fare qualcosa, è <strong>di</strong>ventato con il tempo una<br />

designazione per tutti i casi in cui si in<strong>di</strong>ca qualcosa d’altro, <strong>di</strong> estraneo,<br />

<strong>di</strong> impreciso. Il linguaggio si è sviluppato me<strong>di</strong>ante metafore, così<br />

che una <strong>parola</strong> finisce col significare qualcosa d’altro da quello che<br />

significa. Adesso per “significativo (bedeutend)” si intende importante;<br />

ancora Goethe, che amava molto il termine, intende per bedeutend<br />

qualcosa come tipico, caratteristico. Sarebbe bene circoscrivere questo<br />

termine abusato alla spiegazione delle metafore; ad esempio nella<br />

proposizione “lei contava <strong>di</strong>ciassette primavere”, “primavera” significa<br />

anni.<br />

<strong>La</strong> superstizione umana possedeva però in “significare” una <strong>parola</strong><br />

perfetta per questo suo in<strong>di</strong>care un segno in un evento futuro o in<br />

un fatto nascosto; e poiché aveva la <strong>parola</strong>, la usava. Allora <strong>di</strong>etro ai<br />

fenomeni <strong>della</strong> natura si nascose la potenza degli dei che rendevano<br />

noto il futuro e l’occulto con segni e pro<strong>di</strong>gi, così come i sacerdoti<br />

93


ivelano con parole il futuro e l’occulto. Allora ci si chiese: cosa significa<br />

questo terremoto? Cosa significa questo mostro? Cosa significa<br />

questa cometa?<br />

(159) Oggi si è fatta tremenda chiarezza e si sono consegnati terremoti,<br />

mostri e comete alla scienza. Ma se si trova da qualche parte<br />

nell’uso linguistico una <strong>parola</strong>, ormai debole e vecchia, che non si<br />

comprende più, si chiede allora con la stessa superstizione: cosa significa<br />

anima? cosa significa ragione? cosa significa materia? Quando<br />

la geologia insegnava ancora che Dio aveva creato le rocce e insieme<br />

aveva subito impresso i calchi <strong>di</strong> piante e animali, ci si chiedeva: cosa<br />

significano questi pro<strong>di</strong>gi <strong>della</strong> natura? Ora i calchi <strong>di</strong> piante e animali<br />

si spiegano con la formazione <strong>della</strong> terra e con la storia dell’evoluzione<br />

delle specie e si chiede: cosa significa evoluzione?<br />

“rebus” – <strong>La</strong> maggioranza degli uomini soffre <strong>della</strong> debolezza <strong>di</strong> credere<br />

che, perché c’è una <strong>parola</strong>, la <strong>parola</strong> deve esserci per qualcosa;<br />

perché c’è una <strong>parola</strong>, alla <strong>parola</strong> deve corrispondere qualcosa <strong>di</strong> reale.<br />

Come se ogni <strong>di</strong>sgregazione in una pietra debba essere il calco <strong>di</strong> una<br />

pianta! Oppure come se una linea scarabocchiata per caso da un pazzo<br />

debba sempre essere un rebus con una soluzione.<br />

<strong>La</strong> lingua viene usata in generale proprio così. Non solo la gente<br />

comune e chi – come si <strong>di</strong>ce – abbia anche solo una mezza cultura<br />

acchiappa al volo parole nuove e straniere che non comprende, per<br />

ricamare il suo modello <strong>di</strong> chiacchiera con smancerie o con affettazione,<br />

ma anche dotti e ricercatori e pensatori hanno da sempre cavillato<br />

su testi antichi in <strong>di</strong>sfacimento per sciogliere enigmi che vi avevano<br />

messo dentro loro. Si è creduto seriamente <strong>di</strong> trovare e <strong>di</strong> risolvere<br />

rebus nei <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> singoli fiori come negli scheletri <strong>di</strong> teste <strong>di</strong> pesce.<br />

Questi erano però passatempi per metà coscienti. Si sono volute spiegare<br />

le linee decorative dell’antica America con l’aiuto dei caratteri<br />

ebraici. Queste erano pazzie. Si è voluto da sempre applicare – e lo si<br />

fa ancora – il pensiero più intenso <strong>di</strong> uomini vivi, cioè le associazioni<br />

delle loro esperienze vive, a resti <strong>di</strong> parole <strong>di</strong> generazioni morte che<br />

si perdono nella lontananza del tempo, si sono voluti da sempre convertire<br />

in nuovo alimento gli escrementi degli antichi con l’aiuto <strong>di</strong><br />

succhi gastrici <strong>di</strong> organi viventi. E qui non si fa (160) nient’altro che<br />

voler risolvere senz’altro un rebus che non lo è, oppure del quale non<br />

si capisce la lingua. Come ad esempio quando ricercatori in tutto e<br />

per tutto moderni continuano a cercare <strong>di</strong> definire l’anima, lo scopo,<br />

l’organismo, la vita, la morte oppure anche il linguaggio, le categorie,<br />

le ra<strong>di</strong>ci, semplicemente perché esistono le parole.<br />

Deve essere un perfetto folle chi ha inserito il giocattolo dei rebus<br />

nelle nostre riviste <strong>di</strong> passatempi. Certo sarebbe bello parlare con i<br />

fatti invece che con le parole, rebus invece che verbis. Ma il suggeritore<br />

<strong>di</strong> rebus semplifica soltanto la comoda scrittura delle lettere. Io credo<br />

94


seriamente che siano malati <strong>di</strong> spirito quelli che compongono i nostri<br />

orren<strong>di</strong> rebus (eccetto gli scherzi); e che siano solo bambini quelli che<br />

– per antica consuetu<strong>di</strong>ne – si occupano delle opere <strong>di</strong> questi pazzi.<br />

Feticismo del linguaggio – Nelle scienze il feticismo delle parole viene<br />

praticato molto <strong>di</strong> più che nell’uso linguistico comune; come anche<br />

il teologo che costruisce un sistema dal fantasma <strong>della</strong> superstizione<br />

popolare, o che lo porta avanti, pratica un feticismo peggiore del semplice<br />

conta<strong>di</strong>no che semplicemente crede al fantasma.<br />

Noi siamo portati più facilmente a ritenere i teologi del Me<strong>di</strong>oevo<br />

o i teologi degli antropofagi come teorici <strong>di</strong> un sapere morto, come<br />

lo sono del resto anche i professori attuali <strong>di</strong> teologia; ve<strong>di</strong>amo anche<br />

chiaramente che nella storia delle scienze si sono praticate mistificazione<br />

e idolatria con concetti che oggi sono invecchiati, ma non siamo<br />

<strong>di</strong>sposti ad accettare con facilità lo stesso per i concetti più elevati<br />

<strong>della</strong> scienza del momento. Eppure la personificazione e la deificazione<br />

è oggi la stessa dei tempi antichi. Le singole “forze” giocano oggi lo<br />

stesso ruolo delle qualitates occultae <strong>di</strong> un tempo. E anche se gli stu<strong>di</strong>osi<br />

ci sbattono il naso, negano l’errore <strong>della</strong> personificazione e così<br />

continuano a pensare, appena si credono non osservati, nello stesso<br />

modo infantile. Per il me<strong>di</strong>co le singole (161) malattie sono forze personali,<br />

nonostante Virchow, personificazioni che egli combatte. Per lo<br />

scienziato <strong>della</strong> natura le specie <strong>di</strong>ventano personificazioni, nonostante<br />

Darwin, anche se non lo si vuol riconoscere. L’errore <strong>di</strong>venta ancor più<br />

visibile laddove la percezione <strong>di</strong> sé esprime in maniera incontrollabile<br />

le rappresentazioni <strong>di</strong> fondo. <strong>La</strong> psicologia pullula <strong>di</strong> personificazioni.<br />

Ad esempio all’anima umana vengono attribuite tre personificazioni:<br />

l’intelletto, la ragione e la fantasia. Neppure teste altrimenti libere –<br />

che nell’introduzione o nel capitolo finale o in un qualche altro luogo<br />

appropriato esprimono il loro miglior punto <strong>di</strong> vista – riescono facilmente<br />

a liberarsi dall’immagine che ognuna <strong>di</strong> queste tre sotto<strong>di</strong>vinità<br />

presieda a una determinata attività dell’anima come il presidente <strong>di</strong><br />

una sezione ministeriale. È esattamente lo stesso processo per cui i<br />

Greci deificarono per i gran<strong>di</strong> ambiti del vivere determinate <strong>di</strong>vinità<br />

protettrici e poi per le sezioni più piccole personificarono ninfe speciali<br />

come le dria<strong>di</strong> e le orea<strong>di</strong>.<br />

Il concetto <strong>di</strong> un <strong>di</strong>o panteistico non è per nulla più metaforico<br />

del concetto <strong>di</strong> un <strong>di</strong>o monoteistico o politeistico. Così nella vita del<br />

popolo il concetto <strong>di</strong> sovranità si è impersonato dapprima nel capo<br />

<strong>della</strong> stirpe, poi nel re <strong>della</strong> comunità popolare, poi nell’insieme dello<br />

stesso popolo; la sovranità non era però altro che il bisogno <strong>di</strong> tutti <strong>di</strong><br />

proteggersi dalla bestialità del singolo. Patriarchia, monarchia e democrazia<br />

(panarchia) furono forme <strong>di</strong>verse dello stesso bisogno. Il grande<br />

errore dell’anarchismo sta nel non vedere la bestialità degli uomini, nel<br />

negare il bisogno <strong>della</strong> costrizione, nel credere <strong>di</strong> aver superato questo<br />

95


isogno per aver scosso i fondamenti logici e la legittimità delle singole<br />

forme <strong>di</strong> potere. Nelle prime democrazie (panarchie) moderne venne<br />

in voga anche il panteismo sistematico. […]<br />

Pensare e parlare<br />

(176) Il più grave ostacolo alla conoscenza <strong>della</strong> verità è che gli<br />

uomini tutti credono <strong>di</strong> pensare, mentre parlano soltanto, ma anche<br />

che i teorici del pensiero e gli psicologi parlano tutti quanti <strong>di</strong> un<br />

pensiero per il quale il parlare dovrebbe essere nel migliore dei casi<br />

lo strumento. Oppure la veste. Ma questo non è vero; non c’è pensare<br />

senza parlare, cioè senza parole. O meglio: non c’è proprio un pensare,<br />

c’è solo il parlare. Il pensare è il parlare valutato al suo prezzo<br />

<strong>di</strong> mercato.<br />

Se solo potessi <strong>di</strong>re forte abbastanza come sono comuni le parole<br />

<strong>di</strong> tutti i giorni, le parole <strong>della</strong> lingua comune tra uomini comuni! Le<br />

parole sono aringhe sotto sale, merce vecchia conservata. Chi crede <strong>di</strong><br />

pensare ha fame <strong>di</strong> comunicazione, e per questo gli piace la vecchia<br />

merce conservata sotto sale. E se si vuole, si può mettere a confronto il<br />

pensiero con la soluzione salata delle aringhe, che bagna tanto meglio<br />

la roba conservata quanta meno merce c’è ancora nell’estensione e nel<br />

concetto del grosso barile; la soluzione, in sé senza valore e senza forza,<br />

considera sé stessa come la cosa principale – e in essa i garzoni <strong>di</strong><br />

bottega e le cuoche e altri uomini pensanti rimestano con <strong>di</strong>ta sporche<br />

per acchiappare una misera aringa e poi leccar via dalle <strong>di</strong>ta il liquido,<br />

per poter <strong>di</strong>re in tono solenne con slancio 18 e serietà da bottega:<br />

questo sa <strong>di</strong> sale, questo è il pensare. E gli uomini che parlano sono il<br />

sale <strong>della</strong> terra.<br />

Peggio ancora che con l’estetica del pensare va con l’etica. <strong>La</strong> me<strong>di</strong>cina<br />

più antica, che ancora non sapeva degli effetti dell’acido carbonico<br />

espirato, attribuiva la pericolosità dell’accalcarsi degli uomini<br />

a un veleno, l’antropotoxina. <strong>La</strong> vera antropotoxina o veleno umano<br />

è il parlare.<br />

Non si dà un pensare al <strong>di</strong> là del parlare, una logica al <strong>di</strong> là <strong>della</strong><br />

teoria del linguaggio, un logos al <strong>di</strong> là delle parole, idee al <strong>di</strong> là delle<br />

cose, come non esiste una forza vitale al <strong>di</strong> sopra del vivente, un calore<br />

al <strong>di</strong> sopra <strong>della</strong> sensazione <strong>di</strong> calore, (177) la caninità al <strong>di</strong> sopra dei<br />

cani. E chi trova <strong>di</strong>letto in parole astratte, può sempre parlare <strong>di</strong> una<br />

facoltà del parlare che porta al parlare. Il suo sapere ne guadagnerà<br />

tanto quanto il sapere che gli animali si muovono liberamente perché<br />

sono mobili. Oppure meglio ancora: che gli animali si muovono liberamente<br />

per rendere possibile la motilità. Gli uomini parlano perché<br />

(essi pensano) possiedono la facoltà <strong>di</strong> parlare. Gli uomini parlano per<br />

mostrare la loro facoltà <strong>di</strong> parlare (per poter pensare).<br />

96


L’errore è nato proprio dal fatto che si è attribuito al pensare, alla<br />

facoltà <strong>di</strong> parlare (Sprachigkeit) – come a tutti gli altri termini che in<br />

tedesco finiscono in -heiten, -keiten e -schaften – un certo ché <strong>di</strong> fantasmatico,<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>vino, <strong>di</strong> sovrumano, come ficcare un <strong>di</strong>adema su un corpo<br />

senza testa. In questo caso allora le -eiten, -keiten e -schaften, e con loro<br />

naturalmente il pensiero, dovrebbero essere qualcosa <strong>di</strong> ultra decoroso.<br />

Ma <strong>di</strong> solito il parlare è in tutta evidenza un cicaleccio, nei casi migliori<br />

un comando da cameriere, una chiacchiera. Allora <strong>di</strong>etro il parlare<br />

sciocco ci deve essere il pensare, l’astratto acefalo con il <strong>di</strong>adema del re.<br />

Suona terribilmente raffinato: il pensare. Chi pensa, parla. E viceversa:<br />

chi parla, pensa. Se ne deve desumere come sia comune il pensare.<br />

L’identità <strong>di</strong> pensare e parlare dev’essere un tesi molto antica, se già<br />

l’asserzione <strong>di</strong> Platone che il pensare è un parlare interiore conteneva<br />

un giu<strong>di</strong>zio su due concetti definiti in modo chiaro; infatti non se ne<br />

viene a capo con la relativa qualità del parlare ad alta o a bassa voce,<br />

tanto meno da quando sono stati segnalati sentimenti motorii nel parlare<br />

muto o nel pensare articolato. L’identificazione <strong>di</strong> pensare e parlare<br />

è però sempre un’idea così arrischiata che anche in questo libro,<br />

ogni volta che il pensare è stato identificato con il parlare, la voce <strong>della</strong><br />

coscienza linguistica ha poi subito messo in guar<strong>di</strong>a <strong>di</strong> fronte a questa<br />

identità. <strong>La</strong> critica del linguaggio è suicida, perché la critica scaturisce<br />

dalla ragione, dunque dal linguaggio. Già nel 1784 19 Hamann scriveva<br />

(178) a Herder: «Anche se io avessi l’eloquenza <strong>di</strong> Demostene, non<br />

dovrei che ripetere tre volte una sola <strong>parola</strong>: ragione è linguaggio –<br />

lovgo". Rosicchio questo osso con midollo e lo rosicchierò fino alla<br />

morte». Non è semplice modestia se qui Hamann parla del suo “osso<br />

con midollo”, e poi <strong>di</strong> nuovo del suo “letamaio” (in contrapposizione<br />

al “giar<strong>di</strong>no delle delizie” <strong>di</strong> Herder; con l’osso midollare pensa certamente<br />

anche all’os médullaire del Prologo al Gargantua e, in aggiunta,<br />

al cane filosofico <strong>di</strong> Platone). È <strong>di</strong> più. <strong>La</strong> critica del linguaggio è più<br />

sospetta <strong>di</strong> ogni altra <strong>di</strong>sciplina scientifica. Lo strumento, il linguaggio,<br />

si ribella, vuole intervenire. Anche nella proposizione: ragione è<br />

linguaggio. <strong>La</strong> cosa è così <strong>di</strong>fficile perché anche oggi non posse<strong>di</strong>amo<br />

ancora una chiara definizione né del parlare né del pensare. L’incertezza<br />

sull’essenza del linguaggio potrebbe ancora andare, perché se<br />

non altro per gli scopi pratici si ha all’incirca una rappresentazione<br />

nell’usare la <strong>parola</strong> “linguaggio”. L’essenza del pensiero è invece così<br />

inafferrabile che ogni volta ci si rappresenta qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso, a<br />

seconda che si <strong>di</strong>a al pensiero questo e quel pre<strong>di</strong>cato. Se si <strong>di</strong>ce “il<br />

pensare è linguaggio”, nel pensare ci si rappresenta proprio subito, o<br />

lo si anticipa imme<strong>di</strong>atamente, proprio il parlare.<br />

Per un certo tempo ho pensato <strong>di</strong> risolvere il problema accostando<br />

i termini: il linguaggio sarebbe identico alla ragione, ma non all’intelletto.<br />

Con questo avevo in mente la <strong>di</strong>stinzione usuale nella forma più<br />

completa e decisa datagli da Schopenhauer. <strong>La</strong> spiegazione dà l’im-<br />

97


pressione che la ragione sia un pensiero in concetti o in parole: tanto<br />

più se la ragione viene derivata dal sentire (vernehmen) e sentire=u<strong>di</strong>re<br />

pare chiaramente in<strong>di</strong>care il comprendere attraverso la comunicazione<br />

linguistica. Ma sentire (vernehmen) nella lingua più antica non significava<br />

niente altro che il percepire (Wahrnehmen), cosicché la bella<br />

etimologia ci lascia in asso.<br />

Ragione e intelletto – Atteniamoci non<strong>di</strong>meno alla comoda <strong>di</strong>stinzione,<br />

che certo non è l’uso linguistico generale, ma lo è <strong>di</strong> molti pensatori,<br />

(179) cioè alla <strong>di</strong>stinzione seguente: la ragione comprende le attività<br />

mentali che si realizzano in concetti o parole, l’intelletto le attività<br />

mentali che hanno come fine <strong>di</strong> volta in volta l’orientamento nel mondo<br />

<strong>della</strong> realtà attuale o nel presente attuale; sembra così possibile, a<br />

un primo sguardo, identificare ragione e linguaggio, e lasciar invece<br />

lavorare l’intelletto senza linguaggio. Si sarebbe ottenuta o avviata così<br />

una bella definizione, se solo le cose stessero in modo così semplice.<br />

Ma in questa <strong>di</strong>stinzione tra ragione e intelletto interviene purtroppo<br />

l’antico pregiu<strong>di</strong>zio delle facoltà dell’anima personificate. Se si vuole<br />

rendere in immagine l’intera <strong>di</strong>stinzione, in un qualche posto del castello<br />

siede lo spirito umano come padrone, e ragione e intelletto sono<br />

tutti e due suoi ministri, per il mondo esterno e per quello interno. Se<br />

si riconosce poi lo spirito, insieme a ragione e intelletto, come qualcosa<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>venuto (meglio: come <strong>parola</strong> che designa un <strong>di</strong>venire eterno, come<br />

la storia designa ciò che eternamente avviene), come una <strong>parola</strong> per<br />

le combinazioni in evoluzione <strong>di</strong> dati ricavati dai sensi in evoluzione,<br />

allora le competenze <strong>di</strong> ambedue queste facoltà dell’anima si spostano<br />

in modo davvero strano.<br />

Si può poi sempre identificare con il linguaggio l’attività mentale<br />

in parole o concetti, ma se avremo riconosciuto il linguaggio come<br />

la memoria dell’umanità, la ragione in questo senso non sarà niente<br />

altro che l’applicazione <strong>della</strong> memoria in<strong>di</strong>viduale, che ha ere<strong>di</strong>tato e<br />

acquisito la memoria dell’umanità. <strong>La</strong> fisiologia, anche la più recente,<br />

ci pianta in asso. Si è definita la memoria, intesa qui come memoria<br />

in<strong>di</strong>viduale acquisita, come la <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> determinate parti nervose<br />

a rievocare le impressioni sensibili che sono state percepite. <strong>La</strong><br />

coscienza ere<strong>di</strong>tata deve allora essere un tipo <strong>di</strong> <strong>di</strong>sposizione che però,<br />

ritornando al nucleo dell’ovulo umano, deve basarsi su un’altra successione<br />

ere<strong>di</strong>taria rispetto alla memoria in<strong>di</strong>viduale ere<strong>di</strong>tata. Come che<br />

sia, nessun uomo avrebbe raccolto da solo esperienze sufficienti (180)<br />

a partire dalle quali costruire l’enorme impalcatura <strong>della</strong> sua lingua<br />

materna (nelle classificazioni latenti <strong>della</strong> quale è insita a priori tutta la<br />

sua conoscenza del mondo e tutto il suo concludere, dunque tutto il<br />

suo pensare); la parte <strong>di</strong> gran lunga maggiore <strong>della</strong> sua lingua, quella<br />

che egli ritiene memoria acquisita, egli l’ha ere<strong>di</strong>tata; per questo l’uomo<br />

qualunque usa la sua lingua in maniera così priva <strong>di</strong> pensiero; e per<br />

98


nulla vale più che per il linguaggio il detto “quello che hai ere<strong>di</strong>tato<br />

da tuo padre, acquistalo per possederlo”. C’è nell’uso del linguaggio<br />

una massa spropositata <strong>di</strong> beni ere<strong>di</strong>tati, non acquisiti, non vagliati,<br />

che vengono usati sulla fiducia. Si potrebbe esprimere tutto questo<br />

anche con una facezia storico-filosofica: che l’uomo pensante dovrebbe<br />

utilizzare solo concetti acquisiti, che egli però inconsciamente esprime<br />

molto più spesso concetti innati. Naturalmente non penso con questo<br />

ai concetti innati <strong>della</strong> più antica psicologia, ma a ciò che, nel nostro<br />

linguaggio quoti<strong>di</strong>ano, è insito nelle classificazioni e nelle astrazioni ere<strong>di</strong>tate,<br />

non vagliate. Chi lo abbia chiaro non dubiterà che noi, fossimo<br />

anche dottori in filosofia, usiamo parole come pianta, animale, cielo,<br />

luce, parlare, pensare, ragione, intelletto, vita, morte, salute, malattia<br />

e così via, proprio allo stesso modo in cui il pulcino appena uscito<br />

dall’uovo becca il seme, come il merlo costruisce il suo nido. Le attività<br />

mentali degli animali classificate come inferiori all’intelletto umano le<br />

chiamiamo istinto; le attività mentali in parole, classificate come attività<br />

superiori dell’intelletto umano, le chiamiamo ragione. Ma già a un<br />

primo approccio abbiamo imparato che in questa ragione è insita una<br />

massa <strong>di</strong> attività mentali ere<strong>di</strong>tate, non acquisite in<strong>di</strong>vidualmente, non<br />

vagliate, quin<strong>di</strong> istintive. Non mi si obietti ora <strong>di</strong> nuovo che la lingua<br />

è ancora qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso dalle sue parti, che l’astratto “linguaggio”<br />

è qualcosa al <strong>di</strong> fuori delle parole. Se si tolgono via da un e<strong>di</strong>ficio<br />

tutte le pietre e tutto il resto del materiale, può rimanere un’immagine<br />

mnemonica, ma l’e<strong>di</strong>ficio non c’è più. Il linguaggio (181) in sé è una<br />

non-cosa senza essenza (ein wesenloses Un<strong>di</strong>ng 20 ) e può sempre ancora,<br />

se <strong>di</strong>verte qualcuno, essere posto come uguale al pensiero.<br />

Pensare senza parlare – Ora però si effettuano molto spesso operazioni<br />

intellettuali senza l’intervento del linguaggio e sono tuttavia operazioni<br />

mentali. Quando un ingegnere deve costruire un ponte <strong>di</strong> cento metri,<br />

usa certo abitualmente il linguaggio, ma solo finché formule e simili<br />

facilitano il lavoro. Se avesse a <strong>di</strong>sposizione travi <strong>della</strong> lunghezza necessaria<br />

e una forza fisica adeguata, lavorerebbe in silenzio, in un senso<br />

<strong>di</strong>verso rispetto agli osservatori. E <strong>di</strong> fatto la vera e propria costruzione<br />

del ponte si realizza benissimo ancora senza parole, le or<strong>di</strong>nazioni alle<br />

singole fabbriche richiedono tutt’al più un paio <strong>di</strong> espressioni tecniche<br />

e <strong>di</strong> cifre. Questo è lavoro dell’intelletto. Se un uomo oppure un cane<br />

saltano un fosso, misurano la <strong>di</strong>stanza senza parole, il che è ancora<br />

lavoro dell’intelletto. Se l’uomo o il cane vedono una fragola o una<br />

lepre al <strong>di</strong> là del fosso, e così hanno solo interpretato una mo<strong>di</strong>ficazione<br />

sulla loro retina e l’hanno proiettatata al <strong>di</strong> là del fosso, quello<br />

che li attira è <strong>di</strong> nuovo lavoro dell’intelletto. Tutte le attività mentali<br />

dell’intelletto si riducono a quest’ultimo tipo <strong>di</strong> lavoro intellettuale,<br />

all’interpretare le impressioni dei sensi (anche il semplice vedere, sentire,<br />

ecc. è, come ora sappiamo, lavoro dell’intelletto, un interpretare<br />

99


stimoli, che <strong>di</strong>ventano sensazioni solo attraverso l’intelletto). Questa<br />

attività non è però niente altro che una ere<strong>di</strong>tata capacità <strong>di</strong> adattamento<br />

dell’in<strong>di</strong>viduo agli stimoli esterni, a ciò che noi chiamiamo<br />

realtà. Senza concetti o parole non se la cava né l’uomo né il cane.<br />

Rapporti <strong>di</strong> grandezza e immagini mentali sono rappresentazioni ere<strong>di</strong>tate,<br />

e in essi ci manca la coscienza <strong>di</strong> parole e concetti, solo perché<br />

queste attività intellettuali sono state esercitate all’infinito, da quando<br />

esistono organismi sulla terra, e perché queste attività in questo modo<br />

sono <strong>di</strong>ventate automatiche. C’è soltanto una rappresentazione che è<br />

stata ancor più esercitata, che è <strong>di</strong>ventata nostra solo attraverso innumerevoli<br />

esperimenti (182): la più alta rappresentazione che costruisce<br />

il mondo, il mondo <strong>della</strong> realtà là fuori. Questa rappresentazione ci<br />

risulta comicamente in<strong>di</strong>mostrabile, perché incessantemente <strong>di</strong>mostrata.<br />

Ogni volta che mangiamo, <strong>di</strong>mostriamo che il mondo esterno può<br />

<strong>di</strong>ventare mondo interno. L’attività dell’intelletto ci sembra priva <strong>di</strong><br />

concetti, perché non c’è sguardo e movimento delle <strong>di</strong>ta senza che si<br />

metta in pratica il concetto <strong>di</strong> spazio ecc. Se il fosso che un uomo deve<br />

saltare è largo un metro, cioè non più largo del passo umano che egli<br />

ha praticato da sempre, l’uomo salta al <strong>di</strong> là senza pensarci; il suo intelletto<br />

lavora automaticamente. Se il fosso ha una larghezza inusuale,<br />

l’uomo ci pensa prima <strong>di</strong> saltare, e il cane forse abbaia. Se la <strong>di</strong>stanza è<br />

ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> cento metri e l’ingegnere non è così esercitato per questa<br />

larghezza da compiere automaticamente il salto, allora l’intelletto non<br />

lavora più in silenzio: l’ingegnere pensa e scrive cifre.<br />

Soltanto la natura non ha nessun intelletto, nessuna ragione, nessuna<br />

lingua. Chi potesse prendere la natura come maestra, sarebbe saggio<br />

senza linguaggio. «Natura – <strong>di</strong>ce Spinoza nel Tractatus teologico-politicus,<br />

i 21 – nobis <strong>di</strong>ctat, non quidem verbis, sed modo longe excellentiore».<br />

Noi però non possiamo scrivere quello che la natura ci detta.<br />

Anima e sensi<br />

Zufallssinne – (327) Forse riusciamo a fare un passo avanti oltre la<br />

tautologia se ci serviamo del concetto che ci è proprio, quello <strong>di</strong> sensi<br />

accidentali. Forse su questa strada impariamo quello che nel migliore<br />

dei casi possiamo farcene del concetto <strong>di</strong> anima.<br />

Il nostro nuovo concetto <strong>di</strong> “sensi accidentali” si contrappone alla<br />

concezione, assunta inconsapevolmente sia dai filosofi che dagli uomini<br />

più semplici, che da un lato vi sia il mondo, dall’altro lato l’uomo con<br />

organi adeguati per l’insieme dei fenomeni del mondo. In questa rappresentazione<br />

la cultura filosofica non cambia granché. Che il conta<strong>di</strong>no<br />

riconosca che il guanto si adatta alla mano, oppure che Kant riconosca<br />

che la mano (il mondo dei fenomeni) si adatta nel guanto (l’intelletto),<br />

dal nostro punto <strong>di</strong> vista è in<strong>di</strong>fferente. Kant pensa, proprio come il<br />

100


conta<strong>di</strong>no, che intelletto e mondo sono fatti l’uno per l’altro come il<br />

guscio per la chiocciola, come (328) i rispettivi organi genitali <strong>di</strong> una<br />

specie animale, come la scimitarra curva e la guaina curva. A mio parere<br />

le <strong>di</strong>spute metafisiche vecchie <strong>di</strong> millenni su come sia da spiegare<br />

l’accordo tra mondo esterno e vita interiore, a mio parere gli enormi<br />

errori metafisici, da quando esistono il teismo, l’occasionalismo e il darwinismo,<br />

<strong>di</strong>pendono dal fatto che nessuno vuole accorgersi <strong>della</strong> natura<br />

dei sensi accidentali, dal fatto che nessuno finora si è mai accorto <strong>di</strong><br />

quanto poco il mondo e i nostri poveri cinque sensi siano adatti l’uno<br />

agli altri, <strong>di</strong> come piuttosto gli organismi abbiano sviluppato questi<br />

<strong>di</strong>sperati cinque sensi nei loro bisogni vitali, per adattare sé, cioè la<br />

loro vita e quella <strong>della</strong> loro prole, alla vita che li circonda. Il mondo<br />

esterno è un oceano <strong>di</strong> realtà e <strong>di</strong> possibilità, <strong>di</strong> elementi e <strong>di</strong> forze,<br />

forse <strong>di</strong> possibilità <strong>di</strong>venute reali. Cosa ne sappiamo? I nostri sensi non<br />

bastano per una qualche conoscenza <strong>della</strong> realtà nemmeno nell’ambito<br />

<strong>della</strong> semplice chimica fatta in casa. A malapena <strong>di</strong>stinguiamo l’arsenico<br />

dallo zucchero senza ricorrere allo stratagemma <strong>di</strong> far giocare un organo<br />

<strong>di</strong> senso contro l’altro. Me<strong>di</strong>ante questo e altri stratagemmi siamo<br />

arrivati a <strong>di</strong>stinguere all’incirca ottanta elementi; noi ci ren<strong>di</strong>amo conto<br />

<strong>della</strong> brutale assur<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> questa cifra e non sappiamo come cavarcela e<br />

che pesci pigliare quando all’improvviso un inglese astutamente scopre<br />

nell’estensione più ampia <strong>di</strong> tutte le sostanze, nell’aria, nuovi elementi.<br />

Dunque nemmeno per la spigolosa sfacciataggine (<strong>di</strong>e Eckigkeit und<br />

Dreckigkeit) dell’atomismo chimico bastano i nostri sensi. Nemmeno<br />

per le forze! Secondo l’attuale concezione dei fisici qui fuori ci sono<br />

ovunque oscillazioni, dappertutto, all’infinito. Se i nostri sensi dovessero<br />

farcela e se si dovessero prendere alla lettera queste oscillazioni,<br />

come dovrebbe apparire una pallina d’aria <strong>della</strong> grandezza <strong>di</strong> una goccia<br />

<strong>di</strong> rugiada? Nello stesso tempo, più fortemente o più debolmente,<br />

in essa dovrebbero oscillare ogni calore, ogni luce, ogni suono che da<br />

un qualunque punto o sulla terra o sull’ultima stella <strong>della</strong> via lattea<br />

tracci la sua onda; e dovrebbe continuare a oscillare fino all’infinito<br />

(329) ogni suono, ogni colore, ogni processo <strong>di</strong> riscaldamento e ogni<br />

scarica elettrica, che in un qualche tempo in un qualche punto <strong>della</strong><br />

terra o in qualche punto <strong>della</strong> via lattea abbia dato inizio al cerchio<br />

<strong>della</strong> sua onda imperitura. Le oscillazioni, che in una particella d’aria<br />

si incrociano in modo caotico e pur armonioso, quando in una sala<br />

da concerto l’orchestra intera fa risuonare un accordo complicato con<br />

tutti i suoi suoni e gli armonici <strong>di</strong> tutti gli strumenti, questo an<strong>di</strong>rivieni<br />

<strong>di</strong> onde, in<strong>di</strong>stricabile da qualsiasi formula matematica, lo si potrebbe<br />

<strong>di</strong>re la quiete più assoluta in confronto all’incrocio cosmico delle onde<br />

<strong>di</strong> ogni pallina d’aria <strong>della</strong> grandezza <strong>di</strong> una goccia <strong>di</strong> rugiada. Ma<br />

cosa percepiscono i nostri sensi in questa infinità <strong>di</strong> supposte oscillazioni?<br />

Non sappiamo nulla ad esempio delle oscillazioni interme<strong>di</strong>e tra<br />

le oscillazioni dei suoni e quelle sensibili del calore che riempiono il<br />

101


mondo. I nostri sensi casualmente non hanno avuto interesse ad adattarsi<br />

a queste oscillazioni.<br />

L’arte <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

Poesia e concetti – (B i, 111) Se si chiede a uno scolaro o a un maestro<br />

<strong>di</strong> scuola cosa sia un concetto, risponderà pressappoco così: una rappresentazione<br />

generale che viene “astratta” dalle singole rappresentazioni.<br />

Noi abbiamo – secondo questi maestri <strong>di</strong> scuola – innumerevoli<br />

rappresentazioni singole <strong>di</strong> alberi, conosciamo abeti, querce, (112) noci<br />

ecc, conosciamo tante specie <strong>di</strong> abeti, <strong>di</strong> ogni tipo innumerevoli in<strong>di</strong>vidui.<br />

Togliamo ora da queste immagini – secondo la dottrina corrente<br />

– l’elemento accidentale: la grandezza, il colore, la forma delle foglie<br />

ecc. e otteniamo così la rappresentazione generale, il concetto.<br />

Che non succeda così nella nostra testa, lo ha già sostenuto il fantastico<br />

Berkeley contro Locke, e invero molto rigorosamente. Egli non<br />

potrebbe rappresentarsi un triangolo che non abbia una forma determinata,<br />

che non sia acuto, retto o scaleno.<br />

Che le nostre rappresentazioni generali o concetti si formino me<strong>di</strong>ante<br />

astrazioni lo si può far credere alla gente per gusci vuoti come:<br />

virtù, immortalità e simili. Appena però vi è un riscontro con il mondo<br />

reale, dovrebbe sembrare evidente, senza bisogno <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrarlo, che<br />

propriamente non ci sono rappresentazioni generali, che nella nostra<br />

memoria ci sono solo in<strong>di</strong>stinte rappresentazioni simili, che scorrono<br />

una nell’altra, che stanno come scorta <strong>di</strong>etro i concetti e dalle quali la<br />

fantasia trae fuori <strong>di</strong> continuo quelle che adopera in quel momento o<br />

che l’associazione inconscia le procura.<br />

Con questo non si deve <strong>di</strong>menticare che solo in pochi ritengono<br />

anche necessario nell’uso <strong>della</strong> <strong>parola</strong> rifornire tutte le volte il singolo<br />

concetto o la <strong>parola</strong> con la scorta delle rappresentazioni e, in questo<br />

modo, renderle o mantenerle vitali. Il comune lettore <strong>di</strong> romanzi<br />

(come lo scrittore pasticcione) non si rappresenta nulla con una frase<br />

come: “i cavalli trottavano attraverso il prato”, e quando egli crede<br />

tuttavia <strong>di</strong> capire le parole a lui ben note, avviene che la scorta delle<br />

rappresentazioni sta <strong>di</strong>etro i concetti, proprio come la melo<strong>di</strong>a infinita<br />

dell’orchestra wagneriana <strong>di</strong>etro le parole cantate, e che inconsciamente<br />

un qualche cosa <strong>di</strong> nebuloso si presenta insieme in cavallo, trottare,<br />

prato. Di qui derivano le molte frasi sciocche da romanzo che fanno lo<br />

spasso del “Kladderadatsch” 22 . «Ella coprì il suo volto con entrambe<br />

le mani e allungò verso il conte la destra aristocraticamente fine». Lo<br />

scrittore pasticcione lo può scrivere solo perché egli usa il concetto<br />

senza rappresentazione. (113) E in questo egli è ancora più ricco <strong>di</strong><br />

fantasia del suo lettore, <strong>di</strong> Tizio e <strong>di</strong> Caio.<br />

Così senza rappresentazione usa la scienza le sue parole, solo che<br />

102


essa le applica con una fiducia spensierata come segni matematici inalterati.<br />

“Il cavallo è un mammifero” vien detto quasi senza alcuna rappresentazione<br />

23 .<br />

Va così nell’uso comune dei chiacchieroni e dei dotti. Accade <strong>di</strong>versamente<br />

quando la ricerca linguistica o un imbarazzo ci costringono a<br />

far cadere una luce abbagliante su un concetto o su una <strong>parola</strong>; sentiamo<br />

allora come una quantità <strong>di</strong> rappresentazioni in<strong>di</strong>viduali si ammassi<br />

davanti alla cruna <strong>della</strong> nostra coscienza, pronta a passarci attraverso e a<br />

far rivivere il concetto. Possiamo poi rappresentare molte cose una dopo<br />

l’altra e abbiamo l’autoillusione <strong>di</strong> una rappresentazione generale.<br />

Poiché ora però il ricordo <strong>di</strong> una singola rappresentazione ben si<br />

sbia<strong>di</strong>sce e sfuma, ma non può mai davvero in senso proprio connetterla<br />

con un’altra, sembra ad<strong>di</strong>rittura impossibile che si <strong>di</strong>a una vera<br />

e propria rappresentazione o concetto generale. Cos’è allora ciò che<br />

pure ben conosciamo come rappresentazione generale o concetto, come<br />

<strong>parola</strong> fuori <strong>di</strong> noi?<br />

Una mescolanza, come del resto si trova nel sogno, e che è possibile<br />

nella veglia solo per il concorso <strong>della</strong> cosiddetta fantasia, la fantasia<br />

poetica, che certo è così simile al sogno. Senza questo concorso non<br />

sarebbe stato possibile nessun linguaggio, nessun concetto singolo. Fu<br />

un genio poetico colui che per primo nei tempi più antichi riuscì a<br />

fissare le sue singole rappresentazioni <strong>di</strong> abeti, querce ecc. me<strong>di</strong>ante<br />

il segno sonoro albero, e <strong>di</strong> nuovo oggi solo un modo <strong>della</strong> fantasia<br />

poetica collega ancora rappresentazioni vivaci alla <strong>parola</strong> albero.<br />

Con questo si accorda bene la mia teoria, cioè che il linguaggio si è<br />

formato me<strong>di</strong>ante metafore e cresce me<strong>di</strong>ante metafore, se la fantasia<br />

poetica deve continuamente integrare e far rivivere le parole.<br />

Poesia e metafora – (114) […] Il lettore che non ha letto la mia opera<br />

per la seconda volta – è un libro vuoto quello che non bisogna leggere<br />

due volte – non saprà ancora molto del concetto dei sensi accidentali.<br />

Ma avrà accettato con favore come già si possa spiegare, senza allontanarsi<br />

dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> Lessing, la collocazione eminente <strong>della</strong> poesia<br />

nei confronti <strong>di</strong> tutte le altre arti possibili e la menzogna <strong>della</strong> sopravvalutazione<br />

del dramma. Ora però verremo a conoscenza <strong>di</strong> ciò che fa<br />

<strong>di</strong> nuovo vacillare ogni teoria delle arti, che cioè i nostri cinque sensi<br />

sono sensi accidentali e il nostro linguaggio, formatosi dai ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> questi<br />

sensi accidentali ed estesosi me<strong>di</strong>ante conquiste metaforiche a tutto<br />

il conoscibile, non sono mai in grado <strong>di</strong> dare l’intuizione <strong>della</strong> realtà.<br />

L’idea, per il momento ancora paradossale, che i nostri sensi siano<br />

sensi accidentali, fa risaltare ancor più chiaramente il valore più elevato<br />

<strong>della</strong> <strong>parola</strong> poetica. Come la <strong>parola</strong> o il concetto riassumono dapprima<br />

in modo sostantivo le <strong>di</strong>verse qualità che i singoli sensi hanno percepito<br />

come effetti ad esempio dell’usignolo, per così <strong>di</strong>re in modo preistorico,<br />

sì certo, preumano; come la <strong>parola</strong> usignolo rende per la fantasia più<br />

103


del ricordo <strong>di</strong> una <strong>di</strong> quelle osservazioni che l’hanno suscitata, allo<br />

stesso modo la poesia produce più <strong>di</strong> qualsiasi altra arte, sì, più <strong>della</strong><br />

somma <strong>di</strong> tutte le altre arti. L’intera nostra conoscenza del mondo non<br />

si è formata dalla deduzione, ma dall’induzione, da un’induzione incompleta,<br />

ed è solo utilizzando campioni tratti dal mondo <strong>della</strong> realtà<br />

che abbiamo composto l’immagine del mondo; allo stesso modo, l’arte<br />

<strong>della</strong> <strong>parola</strong> unifica i dati dei sensi accidentali in un’immagine che, me<strong>di</strong>ante<br />

il suo accordo con sé stessa, cioè me<strong>di</strong>ante la possibilità <strong>della</strong> sua<br />

ripetizione non contrad<strong>di</strong>ttoria, sembra qualcosa più che un caso.<br />

Parole senza intuizione – Ma questa elevata attività dell’arte <strong>della</strong> <strong>parola</strong>,<br />

che come immagine del mondo reale finora supera ancora tutti i tentativi<br />

<strong>di</strong> una conoscenza scientifica, (115) ha i suoi limiti nella capacità<br />

del linguaggio <strong>di</strong> dare delle intuizioni. Non solo la vecchia estetica, da<br />

Aristotele a Lessing, sperò me<strong>di</strong>ante le parole <strong>di</strong> poter imitare la natura;<br />

il termine “imitazione” non lo si usa più, ma nessun poeta o stu<strong>di</strong>oso<br />

<strong>di</strong> estetica dubita che le immagini del mondo reale si possano chiaramente<br />

suscitare me<strong>di</strong>ante parole. Vischer <strong>di</strong>ce invero: «chi basa l’arte<br />

sull’imitazione, la considera un gioco» (iii, 93) 24 ; poi gioca un po’ con<br />

la <strong>parola</strong> “gioco”. Ma noi abbiamo appreso che le parole non danno<br />

immagini e non suscitano immagini, ma solo immagini <strong>di</strong> immagini <strong>di</strong><br />

immagini. Nella vita pratica, <strong>di</strong> fronte al cameriere, ce la caviamo così<br />

bene con le parole del linguaggio che sorvoliamo d’abitu<strong>di</strong>ne su come<br />

il linguaggio sia incapace <strong>di</strong> raggiungere i suoi fini ultimi. Ogni singola<br />

<strong>parola</strong> è pregna <strong>della</strong> sua propria storia, ogni singola <strong>parola</strong> porta in<br />

sé uno sviluppo infinito <strong>di</strong> metafora in metafora. Di fronte al cumulo<br />

chiassoso <strong>di</strong> visioni, chi usa la <strong>parola</strong>, non sarebbe nemmeno in grado<br />

<strong>di</strong> arrivare a parlare, se solo gli fosse presente anche una minima parte<br />

<strong>di</strong> questo sviluppo metaforico; se però <strong>di</strong> nuovo questo non gli è più<br />

presente, egli usa ogni singola <strong>parola</strong> soltanto nel suo valore quoti<strong>di</strong>ano<br />

convenzionale, come gettoni, e con questi gettoni dà solo un valore<br />

immaginario, non dà mai intuizioni.<br />

<strong>La</strong> metafora<br />

(B ii, 450) Sull’origine del linguaggio qualcosa <strong>di</strong> atten<strong>di</strong>bile, fondato<br />

sull’esperienza, non lo si può ovviamente sapere. L’induzione è<br />

allora esclusa. <strong>La</strong> deduzione da concetti porta solo a tautologie.<br />

Se dunque, ciononostante, vogliamo rappresentarci l’origine del<br />

linguaggio, dobbiamo farlo metaforicamente, con delle immagini, e vi<br />

guadagneremo qualcosa <strong>di</strong> più che con sottili asserzioni. Voglio provvisoriamente<br />

prendere i concetti fondamentali nel loro senso comune<br />

e sperare che alla fine <strong>di</strong> questa riflessione dobbiamo <strong>di</strong> nuovo porre<br />

un punto interrogativo su questo senso comune.<br />

104


<strong>La</strong> crescita del linguaggio – Quello che costituisce la crescita (conservazione<br />

e riproduzione) degli organismi deve ben aver dato origine alla sua<br />

formazione. Detto in immagini: nutrizione è crescita. E posso <strong>di</strong>vertirmi<br />

a immaginare che la derivazione del regno animale da quello vegetale<br />

sia avvenuta quando un che <strong>di</strong> simile a un organismo parassita (vegetale)<br />

per fame e invi<strong>di</strong>a si sia rivoltato, abbia trattenuto il nutrimento<br />

circondandolo, formando quin<strong>di</strong> uno stomaco e poi sia stato costretto<br />

a spinger fuori da sé degli arti per procurare a questo stomaco il nutrimento<br />

che non poteva più succhiare da parassita. E ancor prima la vita<br />

potrebbe essersi <strong>di</strong>visa dalla materia inerte quando a una molecola più<br />

capace si avvicinò del nutrimento. So che questa finzione non spiega<br />

nulla; la “capacità” <strong>della</strong> molecola rimanda a sua volta alla questione<br />

dell’origine <strong>della</strong> vita. Ma certamente la questione viene semplificata<br />

dall’immagine. Allora cos’è che costituisce la crescita <strong>della</strong> lingua? Qual<br />

è il nutrimento spirituale <strong>della</strong> lingua?<br />

me<strong>di</strong>ante trasposizione – Se <strong>di</strong>stinguo in maniera del tutto netta tra<br />

la crescita repentina delle nostre conoscenze <strong>della</strong> realtà (che sono<br />

osservazioni delle cose e sempre precedono il linguaggio, la (451) loro<br />

<strong>parola</strong>) e la crescita organica del linguaggio stesso, cioè quella delle leggi<br />

<strong>di</strong> natura, dei concetti, delle inferenze, in breve del chiacchiericcio<br />

umano, allora giungo all’idea che il linguaggio è cresciuto e ancor oggi<br />

cresce a partire dalla memoria umana (e la memoria umana è a sua<br />

volta solo linguaggio) soltanto me<strong>di</strong>ante la trasposizione (metafevrein)<br />

<strong>di</strong> una <strong>parola</strong> definita (fertig) su un’impressione indefinita, me<strong>di</strong>ante<br />

il confronto dunque, me<strong>di</strong>ante questo atto eterno del à-peu-près, me<strong>di</strong>ante<br />

questo infinito circoscrivere e parlare figurato, che costituisce<br />

la forza artistica e la debolezza logica del linguaggio. I due o cento<br />

“significati” <strong>di</strong> una <strong>parola</strong> o <strong>di</strong> un concetto sono altrettante metafore o<br />

immagini e, dato che oggi non conosciamo assolutamente il significato<br />

originario <strong>di</strong> nessuna <strong>parola</strong>, dato che la prima etimologia si colloca infiniti<br />

anni ad<strong>di</strong>etro rispetto alla nostra conoscenza <strong>di</strong> questo significato,<br />

allora nessuna <strong>parola</strong> ha mai altro significato che quello metaforico.<br />

Siamo così abituati a questo uso che non lo sentiamo mai come<br />

una mancanza quando denominiamo con immagini persino i concetti<br />

più impellenti, quelli che devono avere anche gli animali, utilizzando<br />

termini contrastanti tratti da ambiti quasi contrapposti. Quando in una<br />

lingua straniera dobbiamo formare una perifrasi anche soltanto per<br />

una <strong>parola</strong> rara, ci vergognamo e lo sentiamo come un’incapacità. Ma<br />

non lo avvertiamo come metafora, non ci vergognamo affatto, quando<br />

definiamo il tempo con espressioni spaziali (lungo, breve), quando definiamo<br />

l’altezza del suono con concetti spaziali o <strong>di</strong> colore (profondo,<br />

chiaro); lo ve<strong>di</strong>amo bene nelle nostre lingue obsolete.<br />

<strong>La</strong> nostra lingua cresce me<strong>di</strong>ante metafore. E si può <strong>di</strong>re davvero<br />

che ogni metafora viene dapprima usata consciamente e poi è entrata<br />

105


ad arricchire l’organismo del linguaggio, quando non la si avverte più<br />

come metafora.<br />

Così sarebbe allora una pura supposizione che la metafora, che<br />

determina la crescita del linguaggio, ne abbia causato anche l’origine.<br />

A questo proposito non riesco per ora (452) a pensare ancora nulla.<br />

Si ha una qualche impressione, ma è ancora chiacchiera. <strong>La</strong> tesi che la<br />

metafora abbia creato il linguaggio <strong>di</strong>venta però pensabile, comprensibile,<br />

davvero illuminante, se io ora ripeto che la metafora opera una<br />

me<strong>di</strong>azione tra i concetti <strong>di</strong> spazio, tempo e suono.<br />

Metafore naturali dello spazio – Chi in un paese straniero, del quale<br />

non conosce la lingua, vuole <strong>di</strong>re “grande”, aprirà molto le braccia;<br />

questo è un gesto del tutto naturale. (È naturale che l’animale non lo<br />

abbia.) Chi vuol <strong>di</strong>re “piccolo” avvicinerà i palmi delle mani. Cosa<br />

succederebbe allora, se anche l’intero apparato vocale partecipasse alla<br />

gesticolazione? Cosa, se glottide e bocca si rinserrassero, <strong>di</strong>cendo poi<br />

“i”, per imitare un piccolo spazio, glottide e bocca si aprissero, facendo<br />

“o”, per imitare uno spazio grande? Cosa, se questo fosse già una<br />

metafora? Se poi il suono venisse trasposto dallo spazio al tempo, ai<br />

colori, ecc.? Ammetto che con questa ipotesi sembra davvero <strong>di</strong> aver<br />

ottenuto qualcosa per la questione dell’origine del linguaggio.<br />

E seppure a Platone non sia certo venuta in mente una simile interpretazione<br />

<strong>della</strong> sua onomatopea (formazione delle parole), si potrebbe<br />

a buon <strong>di</strong>ritto chiamare onomatopea una metafora originaria. Infatti le<br />

nostre presunte imitazioni, per quanto appartengano al linguaggio effettivo<br />

e non siano degli scherzi, non sono imitazioni pappagallesche <strong>di</strong><br />

suoni naturali articolati e classificati in consonanti e vocali, ma imitazioni<br />

metaforiche (per es. <strong>di</strong> melo<strong>di</strong>e me<strong>di</strong>ante sillabe), che ci sono <strong>di</strong>venute<br />

così abituali che noi sentiamo trasposta nella natura (hineinhören) la nostra<br />

onomatopea metaforica. Il cuculo non canta “c” o qualcosa <strong>di</strong> simile<br />

a “c”, non “u” o qualcosa <strong>di</strong> simile a “u”. E tuttavia noi lo sentiamo<br />

cantare cu-cù e cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> imitare con il suo nome il suo richiamo.<br />

Ora però devo stare attento a non <strong>di</strong>ventare io stesso un servitore<br />

del linguaggio e credere <strong>di</strong> aver spiegato con la metafora <strong>della</strong> metafora<br />

qualcosa <strong>di</strong> reale. È una <strong>parola</strong> (453) che ho fatto crescere me<strong>di</strong>ante<br />

la mia osservazione ipotetica. Questo è tutto. E <strong>di</strong> nuovo non tutto.<br />

Dev’esserci tuttavia <strong>di</strong>etro lo spazio del nostro linguaggio qualcosa<br />

<strong>di</strong> nascosto nel mondo reale, apparentato allo spazio, se l’apparato<br />

fonatorio, quando vuole rendere in immagine rappresentazioni spaziali,<br />

<strong>di</strong>venta esso stesso immagine spaziale. E così può esserci <strong>di</strong>etro<br />

l’istinto verso metafore così audaci (come la trasposizione dallo spazio<br />

al tempo, dal colore al suono) una cogenza che sta nei rapporti non<br />

svelati del mondo reale. Il linguaggio è metafora; ma la metafora copre<br />

in qualche modo il mondo.<br />

In questa idea dell’origine del linguaggio nulla cambia se pensiamo<br />

106


che mai un singolo uomo può aver creato in sé il linguaggio, che il<br />

linguaggio è essenzialmente qualcosa <strong>di</strong> intersoggettivo, un prodotto<br />

sociale, che il monologo è qualcosa <strong>di</strong> malato. Al contrario: così come<br />

la perifrasi (in una lingua parlata male) <strong>di</strong>venta necessaria solo quando si<br />

viene in contatto con una nazione straniera, così la metafora <strong>della</strong> lingua<br />

originaria, l’onomatopea originaria, la mimesi metaforica me<strong>di</strong>ante il<br />

suono, può essere sorta proprio anche per l’esigenza <strong>di</strong> comunicare reciprocamente,<br />

in un tempo in cui ognuno era straniero tra stranieri. […]<br />

Max Müller – (455) Max Müller arriva abbastanza vicino alla convinzione<br />

che ogni mutamento <strong>di</strong> significato sia metaforico. Ma si preclude<br />

la via <strong>di</strong>stinguendo nettamente tra due tipi <strong>di</strong> metafora, tra metafora<br />

poetica e metafora ra<strong>di</strong>cale, e così non si accorge <strong>di</strong> non avere il <strong>di</strong>ritto<br />

<strong>di</strong> parlare <strong>di</strong> un’immagine per la cosiddetta metafora ra<strong>di</strong>cale, se non<br />

fosse esistita psicologicamente, in un qualche momento del mutamento<br />

semantico, una metafora poetica. Egli non considera come solo l’uso<br />

frequente <strong>della</strong> metafora poetica l’abbia resa così impoetica, così automatica,<br />

che infine sembrò presente alla coscienza linguistica il semplice<br />

mutamento semantico. A questo proposito già il vecchio Quintiliano<br />

sapeva considerare più correttamente l’origine del mutamento semantico<br />

dalla metafora; ed è ben questo il senso <strong>della</strong> sua sorprendente<br />

proposizione (Libro ix, 3, all’inizio: «Si antiquum sermonem nostro<br />

comparemus, paene iam quidquid loquimur figura est»).<br />

Queste idee dell’importanza <strong>della</strong> metafora per la storia del linguaggio,<br />

anzi dell’identità <strong>della</strong> metafora con il mutamento semantico, si era<br />

già consolidata in me, quando fui stimolato da uno scrittore che mi era<br />

fino ad allora sconosciuto a inseguire oltre questo pensiero. Fino ad<br />

allora la mia guida era stato Locke, la cui teoria del passaggio da significati<br />

concreti ad astratti in fondo spiegava soltanto meglio l’antica <strong>parola</strong><br />

<strong>di</strong> Quintiliano. Bastò semplicemente tralasciare il paene per riconoscere<br />

il dominio assoluto <strong>della</strong> metafora nel mutamento semantico. Con ciò<br />

l’attività <strong>di</strong> creazione graduale del linguaggio apparve graziosamente<br />

come una creazione poetica, come ciò che anche in ogni singolo caso<br />

può avere un ulteriore valore.<br />

Vico – Allora la mia attenzione fu attirata da una <strong>parola</strong> <strong>di</strong> Goethe<br />

su Vico e ora mi getto con gran<strong>di</strong> attese sulla sua opera senza mai<br />

rimanerne deluso. (456) Quest’uomo straor<strong>di</strong>nario è ingiustamente semi<strong>di</strong>menticato.<br />

Per <strong>di</strong>re subito l’ultima cosa che devo al pensare fino<br />

in fondo le sue idee: ogni formazione linguistica non può essere niente<br />

altro che un mutamento semantico metaforico, perché il concetto <strong>di</strong><br />

metafora non è in fondo niente altro che un’espressione tra<strong>di</strong>zionale,<br />

che ci deriva dalle scuole <strong>di</strong> retorica, insopportabilmente pedante, per<br />

l’essenziale nella nostra vita spirituale, per quello per cui noi abbiamo<br />

la nuova espressione associazione <strong>di</strong> idee. […]<br />

107


Jean Paul – Prima però <strong>di</strong> tentare <strong>di</strong> fondare l’essenza psicologica <strong>della</strong><br />

metafora, vorrei ancora riportare quello che il nostro immaginifico Jean<br />

Paul ha espresso in modo così squisito sul significato linguistico <strong>della</strong><br />

metafora: «Come nello scrivere l’ideografia anticipò la scrittura alfabetica,<br />

così nel parlare la metafora, adatta a designare rapporti e non<br />

oggetti, fu la <strong>parola</strong> primitiva, che lentamente finì per scolorarsi, sino a<br />

<strong>di</strong>ventare espressione propria. L’animazione e l’incarnazione me<strong>di</strong>ante<br />

tropi costituivano ancora un’unità in quel tempo in cui l’io e il mondo<br />

erano ancora fusi insieme. Perciò ciascuna lingua, sotto l’aspetto<br />

delle relazioni intellettuali, è un vocabolario <strong>di</strong> metafore sbia<strong>di</strong>te» 25 .<br />

Jean Paul era imparentato con il nostro Hamann, come Hamann con<br />

Vico. E già Hamann aveva pre<strong>di</strong>cato (Aesthetica in nuce 26 ): «L’intero<br />

tesoro <strong>della</strong> conoscenza umana e <strong>della</strong> beatitu<strong>di</strong>ne consiste in immagini».<br />

Il suo Bacone, e quello <strong>di</strong> Vico, aveva detto: «ut hieroglyphica<br />

literis, sic parabolae argumentis antiquiores». Il devoto Hamann si era<br />

riservato la possibilità <strong>di</strong> mescolare conoscenza e beatitu<strong>di</strong>ne; ma per<br />

la questione <strong>della</strong> teoria <strong>della</strong> conoscenza, cioè per il lato psicologico<br />

<strong>della</strong> questione, Jean Paul, Vico e Bacone non avevano un’idea chiara.<br />

Wilhelm Wundt ha collegato molto bene (in tutti e due i primi volumi<br />

<strong>della</strong> sua Völkerpsychologie) la metafora con il gesto sonoro, meno<br />

bene con il mutamento semantico. Ernst Elster (Prinzipien der Literaturwissenschaft<br />

27 ) ha un po’ raffinato la poetica <strong>della</strong> metafora. Alfred<br />

Biese ha scandagliato più a fondo e ha scritto una Philosophie des<br />

Metaphorischen davvero degna <strong>di</strong> essere letta. (457) Ma anche Biese, al<br />

quale devo abbastanza materiale, non penetra al centro del problema<br />

<strong>della</strong> teoria <strong>della</strong> conoscenza.<br />

Aristotele – Il concetto <strong>di</strong> metafora, come viene spiegato nelle nostre<br />

scuole, risale ad Aristotele. Così da duemila anni la metafora passa<br />

per la trasposizione (conscia) <strong>di</strong> una denominazione che propriamente<br />

significa qualcos’altro, sia essa la trasposizione dal concetto più vasto<br />

al più ristretto, o dal concetto più ristretto al più vasto. L’intenzione<br />

<strong>di</strong> questa definizione è <strong>di</strong> spiegare in senso logico il linguaggio immaginifico<br />

<strong>della</strong> poesia. Questa intenzione e quin<strong>di</strong> la limitazione alla<br />

metafora artistica risulta chiaramente dal modo in cui Aristotele cerca<br />

<strong>di</strong> risolvere ogni metafora in una proporzione matematica completa o<br />

incompleta. Ad esempio la coppa <strong>di</strong> Dioniso sta a questo <strong>di</strong>o come lo<br />

scudo sta al <strong>di</strong>o Ares; si potrebbero quin<strong>di</strong> scambiare l’uno con l’altro<br />

i termini <strong>della</strong> proporzione in maniera del tutto meccanica e <strong>di</strong>re in<br />

modo arguto che la coppa sia lo scudo <strong>di</strong> Dioniso (il che sarebbe pur<br />

sempre spiritoso) o che lo scudo sia la coppa <strong>di</strong> Ares (il che sarebbe<br />

davvero insulso). Un altro esempio: la vecchiaia: la vita = la sera : il<br />

giorno; dopo <strong>di</strong> che si può <strong>di</strong>re che la vecchiaia è la sera <strong>della</strong> vita<br />

o che la sera è la vecchiaia del giorno. Il fascino <strong>di</strong> questa maniera<br />

poetica <strong>di</strong> esprimersi (che del resto ha imperversato malamente al<br />

108


tempo <strong>di</strong> Shakespeare, in particolare come marinismo, gongorismo,<br />

eufuismo o come “estilo culto” in Inghilterra, Italia e Spagna, persino<br />

negli scritti dei maestri, e che oggi ri<strong>di</strong>viene pericolosa come art pour<br />

l’art) consiste naturalmente nel tralasciare, nel lasciar indovinare uno<br />

dei quattro termini <strong>della</strong> proporzione. Dove la comparazione è ancor<br />

più semplice da indovinare, vengono subito tralasciati due termini;<br />

Aristotele porta l’esempio dello spargersi (secondo l’immagine del seminatore)<br />

dei raggi del sole.<br />

L’idea <strong>di</strong> Aristotele <strong>di</strong> chiarire la metafora con la proporzione matematica<br />

non ha nulla a che fare con il processo o la con<strong>di</strong>zione psicologica,<br />

quale (458) si rivelerà a noi la metafora; non<strong>di</strong>meno la trovata<br />

rimane ingegnosa. Ci può aiutare a <strong>di</strong>stinguere il concetto <strong>di</strong> metafora,<br />

apparentemente così ben conosciuto, dai numerosissimi concetti attigui.<br />

Ci sono infatti – con questo rimango provvisoriamente nell’ambito <strong>della</strong><br />

poetica – paragoni nei quali si giunge a qualcosa <strong>di</strong> più e a qualcosa <strong>di</strong><br />

meno che ai quattro termini <strong>di</strong> una proporzione. Se il paragone è più<br />

complicato, esso può estendersi a un tipo <strong>di</strong> similitu<strong>di</strong>ni che sono conosciute<br />

in particolare come similitu<strong>di</strong>ne omeriche, nelle quali però certo la<br />

fantasia del poeta suole <strong>di</strong>menticare l’attività <strong>di</strong> comparazione e cavalca<br />

una tratta più in là montando un cavallo nuovo; se invece la similitu<strong>di</strong>ne<br />

non contiene nemmeno in<strong>di</strong>rettamente quei quattro termini, al posto<br />

<strong>della</strong> proporzione sta, per così <strong>di</strong>re, una regola del tre (capelli neri come<br />

il carbone), allora la si chiama una similitu<strong>di</strong>ne in senso stretto. Devo<br />

essere un po’ pedante prima <strong>di</strong> proseguire; lo richiede l’occuparsi <strong>di</strong><br />

antiche definizioni. Vorrei notare infatti che il famoso tertium comparationis<br />

non è né la regola del tre né uno dei tre o quattro termini nella<br />

proporzione; è sempre un concetto più alto (il colore nel caso dei capelli<br />

e del carbone, l’attributo nel caso in cui venga paragonata la coppa <strong>di</strong><br />

Dioniso con lo scudo <strong>di</strong> Ares). Dove la metafora (come specifica Vischer<br />

iii, p. 1221 28 ) è più poetica <strong>della</strong> similitu<strong>di</strong>ne è nel lasciar indovinare<br />

il segno <strong>di</strong> paragone: «il “come” o il “quasi” è un prendere le <strong>di</strong>stanze<br />

da una supposta prosa, cioè dal confondere immagine e contenuto; e<br />

proprio per questo motivo precipita in essa ».<br />

<strong>La</strong> similitu<strong>di</strong>ne – Nella similitu<strong>di</strong>ne (in senso stretto) è molto facile<br />

<strong>di</strong>mostrare che il processo psicologico porta all’evoluzione del linguaggio.<br />

È probabile che le stesse designazioni <strong>di</strong> colore più antiche, e che<br />

a noi appaiono senza possibilità <strong>di</strong> paragone, fossero dapprima delle<br />

similitu<strong>di</strong>ni; in parole come il tedesco lila (in francese il lillà, mentre<br />

il tedesco violett è il francese la violetta) la similitu<strong>di</strong>ne è chiara; nelle<br />

designazioni dei colori <strong>di</strong> moda (rosso ruggine, verde reseda, color<br />

“torre Eiffel” e simili) non si può nemmeno <strong>di</strong>re con sicurezza se sia<br />

ancora (459) presente una similitu<strong>di</strong>ne cosciente o già un nuovo concetto<br />

<strong>di</strong> colore.<br />

<strong>La</strong> metafora è quin<strong>di</strong>, a <strong>di</strong>fferenza <strong>della</strong> similitu<strong>di</strong>ne a tre termini in<br />

109


senso stretto, il tipico paragone <strong>di</strong> due rapporti, nel quale è <strong>di</strong>venuto<br />

abituale lasciare inespresso il concetto più comune. Nella proposizione<br />

“la prudenza è la madre <strong>della</strong> saggezza” ognuno capisce: la saggezza si<br />

rapporta alla prudenza, come la figlia alla madre. Il tertium comparationis<br />

– tanto per non rinunciare alla pedanteria – è qui che la madre<br />

abbia generato la figlia. Si potrebbe anche pensare che la figlia sia<br />

simile alla madre, che la figlia sia obbe<strong>di</strong>ente nei confronti <strong>della</strong> madre;<br />

ma il mondo <strong>della</strong> realtà nella nostra anima non ci lascia proprio<br />

pensare a un tale non-senso. Se noi u<strong>di</strong>amo i tre concetti “prudenza,<br />

madre e saggezza”, l’associazione del pensiero getta un ponte tra loro<br />

soltanto nel concetto del generare, non nel concetto dell’ubbi<strong>di</strong>enza.<br />

Impareremo presto come sia importante anche per la metafora questa<br />

necessità, questa cogenza <strong>della</strong> connessione <strong>di</strong> immagini.<br />

Tropi – Ancora una cosa. Se qui applico il termine metafora, abbastanza<br />

in accordo con la spiegazione <strong>di</strong> Aristotele (il quale parlava greco;<br />

per lui dunque la <strong>parola</strong> metafora, trasposizione, non era ancora un<br />

termine tecnico straniero), all’intero gruppo delle immagini cosiddette<br />

poetiche o ai tropi, sono d’accordo con il più recente uso linguistico<br />

che non sa più molto che farsene delle <strong>di</strong>stinzioni <strong>della</strong> retorica antica.<br />

Mi sembra evidente che un grande numero delle specie, in cui<br />

tra<strong>di</strong>zionalmente sono ripartiti i tropi, cada comunque sotto l’antico<br />

concetto <strong>della</strong> metafora, cioè dello scambio dei concetti <strong>di</strong> due oggetti<br />

confrontati. Su questo si potrebbe scrivere un saggio inutile: come gli<br />

antichi maestri <strong>della</strong> retorica hanno utilizzato le sterili categorie logiche<br />

per ricavare tali sottospecie. Ancora Salomon Maimon ha pensato a<br />

un simile sistema dei tropi, che sarebbe <strong>di</strong>ventato simile (o uguale?) al<br />

sistema (460) delle categorie (Lebensgeschichte, ii, p. 261 29 ). <strong>La</strong>scerò<br />

volentieri a qualcun altro il compito <strong>di</strong> scrivere questo saggio e mi<br />

limiterò a fornire solo alcuni esempi. Se si scambiano tra loro specie<br />

e genere, la parte e il tutto (lei aveva vissuto 15 primavere), questo si<br />

chiama sineddoche, se si scambiano causa ed effetto (egli è un grosso<br />

sacco <strong>di</strong> denaro), si chiama metonimia, se si paragona l’animato con<br />

l’inanimato (il piede del monte), si chiama personificazione; ma non<br />

appartiene proprio più al nostro stile <strong>di</strong> pensiero fare simili <strong>di</strong>stinzioni<br />

scolastiche. Ci accontentiamo del fatto che alla base <strong>di</strong> tutti questi<br />

mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re sta il processo psicologico <strong>della</strong> comparazione; e l’uomo<br />

ha bisogno <strong>di</strong> accontentarsi, non <strong>di</strong> pensare oltre.<br />

Ci sono alcuni altri tropi che a prima vista non sembrano riconducibili<br />

al concetto del paragone metaforico, per es. l’iperbole e l’ironia.<br />

Ma sembra soltanto. Finché rimaniamo nell’ambito <strong>della</strong> poetica,<br />

l’intenzione <strong>di</strong> ogni espressione figurata <strong>di</strong> questo tipo è certamente<br />

quella <strong>di</strong> rafforzare l’intuibilità. Se qualcuno <strong>di</strong>ce primavera al posto <strong>di</strong><br />

anno, sacco <strong>di</strong> denaro al posto <strong>di</strong> uomo ricco o piede del monte (che<br />

già è <strong>di</strong>ventato lingua, per la quale non abbiamo quin<strong>di</strong> più nessuna<br />

110


espressione propria), egli vuole solo illuminare con più forza la rappresentazione,<br />

e questo comporta sempre una forma <strong>di</strong> ingran<strong>di</strong>mento. In<br />

ogni metafora c’è qualcosa <strong>di</strong> iperbolico. E l’ironia raggiunge lo stesso<br />

scopo in una piccola perifrasi, quando ad es. chiama il Chimborasso<br />

un nano, e così, acuendo la contrad<strong>di</strong>zione, rende particolarmente evidente<br />

la grandezza del monte. Ora, che mi si conceda o meno questa<br />

spiegazione dell’iperbole, io uso tuttavia la <strong>parola</strong> metafora nel senso<br />

del tropo o del paragone figurato in generale, la qual cosa è mio <strong>di</strong>ritto,<br />

avendolo detto esplicitamente. […]<br />

Metafora e Witz – (487) Ogni metafora è arguta (witzig). <strong>La</strong> lingua<br />

attualmente parlata da un popolo è la somma <strong>di</strong> milioni <strong>di</strong> arguzie<br />

(Witze), è la raccolta delle pointe <strong>di</strong> milioni <strong>di</strong> aneddoti, la storia dei<br />

quali è andata perduta. A questo riguardo dobbiamo pensare che gli<br />

uomini del periodo <strong>della</strong> creazione del linguaggio fossero più <strong>di</strong>vertenti<br />

(488) degli attuali buffoni che vivono delle loro arguzie. Si potrebbe<br />

persino sostenere in generale che l’uomo è tanto più arguto, quanto<br />

più è ignorante, il che non contrad<strong>di</strong>ce certo l’essenza dell’arguzia.<br />

L’arguzia scorge somiglianze lontane. Le somiglianze vicine si possono<br />

fissare subito con concetti o parole. Il mutamento semantico consiste<br />

nella conquista <strong>di</strong> queste parole, nell’estensione metaforica o arguta del<br />

concetto alle somiglianze più lontane. E queste più lontane somiglianze<br />

colpiscono, si sa, piuttosto l’estraneo che il conoscitore. L’europeo<br />

trova simili tra loro tutti i cinesi, il citta<strong>di</strong>no tutte le mucche, l’estraneo<br />

tutti i membri <strong>di</strong> una famiglia. L’ignoranza rende spassoso (witzig). <strong>La</strong><br />

non conoscenza trova velocemente le somiglianze. Ne ho esperienza<br />

anche in me stesso: mi colpiscono somiglianze nelle melo<strong>di</strong>e in cui il<br />

musicista sa che sono stato ingannato dalla casuale somiglianza <strong>di</strong> due<br />

toni collegati.<br />

Non mi si torni a <strong>di</strong>re che ogni singola arguzia, ogni singola metafora<br />

è stata necessaria nella storia del mutamento semantico, perché<br />

quin<strong>di</strong> dev’esserci sotto una legge. Anche il corso <strong>di</strong> un ruscello è necessario<br />

nel senso che ogni più piccola goccia d’acqua obbe<strong>di</strong>sce alla legge<br />

<strong>di</strong> gravità e quin<strong>di</strong> il ruscello, la somma delle sue gocce, deve seguire<br />

questo corso e nessun altro. Si può pur sempre definire secondo legge<br />

la gravità, ma il corso del ruscello rimane casuale, proprio in relazione<br />

alla forza <strong>di</strong> gravità. Mi devo guardare continuamente dal confondere<br />

la necessità con la legalità. E la storia del mutamento semantico è anche<br />

molto più irregolare: essa somiglia piuttosto alla figura che l’acqua versata<br />

<strong>di</strong>segna su una tavola. Anche in questo caso ogni goccia obbe<strong>di</strong>sce<br />

alla legge <strong>di</strong> gravità, ciononostante la figura è casuale.<br />

E se riflettiamo su quale enorme mutamento semantico sia presente<br />

nelle parti del <strong>di</strong>scorso non in<strong>di</strong>pendenti, per esempio nelle flessioni<br />

e nelle preposizioni, con quale audacia metaforica la nostra forma del<br />

genitivo o la nostra preposizione “in” designa, tastando attorno a sé,<br />

111


le relazioni più <strong>di</strong>stanti, (489) riconosceremo allora, anche a partire<br />

da qui, la casualità non solo <strong>della</strong> materia <strong>della</strong> lingua, ma anche <strong>della</strong><br />

forma <strong>della</strong> lingua.<br />

Ampliamento metaforico – Secondo il nostro modo <strong>di</strong> esprimerci il<br />

mutamento semantico delle parole riguarda molto spesso solo l’ampliamento<br />

dei concetti. Solo nel suo risultato ultimo chiamiamo infatti<br />

il restringimento un mutamento; il processo stesso è la per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong><br />

un gruppo <strong>di</strong> altri significati. L’ampliamento però consiste <strong>di</strong> regola<br />

nell’applicazione metaforica, nella limitazione <strong>di</strong> un nuovo contenuto.<br />

Questo rapporto <strong>di</strong>venta molto chiaro in una <strong>parola</strong> relativamente nuova<br />

come ala. Il significato dell’ala come ala <strong>di</strong> uccello (propriamente<br />

non così semplice dal punto <strong>di</strong> vista etimologico) è presente a noi tutti;<br />

non è quin<strong>di</strong> per niente <strong>di</strong>fficile mostrare al mugnaio che parla delle ali<br />

del suo mulino a vento, all’ufficiale che parla delle ali <strong>della</strong> sua armata,<br />

al signore che parla delle ali del suo castello, che si intende in senso<br />

metaforico la parte laterale del mulino, dell’armata, <strong>della</strong> casa, come<br />

un’ala <strong>di</strong> uccello è la parte laterale del corpo dell’uccello. Anche una<br />

mente semplice arriverà da sé a comprendere che Flügel (ala, pianoforte<br />

a coda) ha ricevuto il suo nome dalla somiglianza con un’ala <strong>di</strong><br />

uccello triangolare e arcuata.<br />

In connessione con ampliamenti <strong>di</strong> questo tipo succede poi che<br />

venga affermato solo l’ambito che è stato conquistato e che il possesso<br />

antico vada perduto, dove poi – quando la connessione non è chiara<br />

– sembra esserci un puro mutamento semantico senza ampliamento.<br />

In francese e in italiano l’espressione antica per Kopf (capo, chef) è<br />

<strong>di</strong>ventata così abituale nel suo significato metaforico <strong>di</strong> “guida”, che<br />

quella originaria è andata perduta; e tralasciando quanti miseri anni<br />

prima lo stesso significato originario possa essere stato una metafora.<br />

Lo sostituì testa, tête, così come Topf (pentola), il che era però una<br />

metafora molto comune, finché non è <strong>di</strong>ventata così generale che ha<br />

cessato <strong>di</strong> essere comune. In tedesco non è molto <strong>di</strong>verso. (488) Haupt<br />

(sì, certo un prestito dal latino caput, nonostante la sua formazione<br />

anomala) viene usato per testa quasi solo da rimatori senza gusto. Kopf<br />

è <strong>di</strong> nuovo una pura metafora, certo per la somiglianza del cranio con<br />

una coppa (lat. cuppa). Se Kopf dovesse lentamente restringersi, in una<br />

nuova metafora, al significato <strong>di</strong> intelletto, potrebbe forse venire in<br />

auge (come pentola e coppa) una delle parole ora già popolari o solo<br />

gergali come zucca, melone ecc., per designare la parte più nobile del<br />

corpo. In svedese testa si <strong>di</strong>ce panna, pentola.<br />

Il mutamento semantico per ampliamento del concetto porta anche<br />

a un fenomeno che i linguisti e i profani hanno spesso già notato, senza<br />

che se ne sia riconosciuto il suo carattere metaforico. Si è detto spesso<br />

che il significato delle parole sbia<strong>di</strong>sce, che esse perdono la loro precisa<br />

definizione e quin<strong>di</strong> il loro antico valore – proprio come la moneta<br />

112


spicciola. Certo, con ciò esse ampliano <strong>di</strong> solito il loro concetto, il loro<br />

ambito <strong>di</strong> vali<strong>di</strong>tà; in questo modo <strong>di</strong>vengono però solo più utilizzabili,<br />

non <strong>di</strong> maggior valore. Gli esempi sono quasi superflui; per lo più si cerca<br />

l’origine <strong>di</strong> gene e del tedesco sich genieren (imbarazzarsi) nell’ebraico<br />

Gehenna (inferno) passando attraverso le pene dell’inferno e il martirio<br />

per arrivare alla costrizione e al <strong>di</strong>sturbo, fino all’insignificante imbarazzo,<br />

che è per noi il significato <strong>di</strong> questa <strong>parola</strong> straniera. L’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

certe cerchie <strong>di</strong> applicare a banalità ora questa ora quella <strong>parola</strong> enorme<br />

offre esempi meno convincenti, ma più quoti<strong>di</strong>ani; così vengono a galla<br />

improvvisamente parole come gigantesco, colossale, spaventoso, dette a<br />

proposito delle cose più ri<strong>di</strong>cole, per scomparire subito <strong>di</strong> nuovo da<br />

questo gergo e far posto ad altre novità. Non sempre scompaiono. <strong>La</strong><br />

nostra <strong>parola</strong> <strong>di</strong> comodo sehr (molto) si è formata allo stesso modo.<br />

Si è formata da una <strong>parola</strong> che significava doloroso, veemente, violento<br />

e va confrontata con l’inglese sore. Nel <strong>di</strong>aletto viene usato così arg<br />

(originariamente: cattivo, <strong>di</strong> poco valore) nel senso <strong>di</strong> sehr. […]<br />

Le metafore vanno e vengono – (495) Si può <strong>di</strong>re che il mutamento<br />

semantico delle parole non è compiuto fintanto che l’uso metaforico è<br />

avvertito come tale. L’uso metaforico è solo l’impalcatura per la nuova<br />

costruzione. È questo oscillare <strong>della</strong> nostra memoria tra uso conscio e<br />

inconscio <strong>di</strong> metafore a fare una grande <strong>di</strong>fferenza tra buoni e cattivi<br />

scrittori, tra poeti e non poeti, e si può <strong>di</strong>re che nell’enorme costruzione<br />

<strong>della</strong> memoria umana, come si presenta in ciò che chiamiamo<br />

astrattamente la lingua <strong>di</strong> un popolo, si può sempre solo abitare in un<br />

luogo <strong>di</strong> confine. Dietro <strong>di</strong> noi rovine, davanti a noi costruzioni nuove,<br />

con noi la casa in cui <strong>di</strong>moriamo; <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> noi una lingua morta,<br />

davanti a noi il sentore <strong>di</strong> nuovi concetti, con noi un ondeggiare e<br />

un intrecciarsi (ein Wogen und Weben) <strong>di</strong> metafore, che stanno per<br />

<strong>di</strong>ventare parole senza senso e quin<strong>di</strong> utilizzabili. Se facciamo bene<br />

attenzione, in molti ambiti linguistici si fanno ancora sentire le tracce<br />

<strong>di</strong> antiche metafore. Non si può più risvegliare la metafora nelle forme<br />

pure delle parole, nelle sillabe <strong>di</strong> derivazione, la si può tutt’al più ancora<br />

<strong>di</strong>mostrare. In parole come il latino: amabo (forse: ama-fuo), gotico:<br />

habaida (haben tat ich), francese: <strong>di</strong>rai (<strong>di</strong>re-ai) la composizione <strong>di</strong> due<br />

parole la si può ancora rintracciare storicamente; ma il cammino sul<br />

quale questi concetti, certo in un primo tempo grossolani, dell’”esser<br />

fatto”, del “fare”, dell’”avere” si avvicinavano, in una qualche ar<strong>di</strong>ta<br />

iperbole, ai verbi, il cammino sul quale queste parole si univano alla<br />

rappresentazione <strong>di</strong> un concetto temporale, persero la loro intuibilità,<br />

persero il tratto iperbolico, il cammino sul quale poi la <strong>parola</strong>, <strong>di</strong>ventata<br />

un semplice strumento, fu imitata analogicamente, finché essa finì<br />

come sillaba formale grammaticale e morì, questo cammino non lo si<br />

può più ricostruire; si può solo profetizzare che queste parole, una volta<br />

in fiore, dopo aver percorso un tale mutamento semantico, in futuro<br />

113


spariranno dalla lingua, come le desinenze latine sono scomparse dal<br />

francese, quelle germaniche dall’inglese, a parte alcuni residui; poi le<br />

lingue avranno bisogno <strong>di</strong> nuove forme e parole che un tempo erano<br />

in fiore deperiranno in questa loro funzione. Succede con le parole<br />

come con le generazioni degli uomini: qui e là si estinguono delle famiglie,<br />

ma la stirpe umana <strong>di</strong>venta sempre più grande; infatti da ogni<br />

parte emergono nuove stirpi e nuovi in<strong>di</strong>vidui, e proprio ciò che vale<br />

per le parole più forti che nullifichiamo usandole come desinenze, vale<br />

anche per il <strong>di</strong>verso impiego formale delle parole.<br />

Nel tedesco è andata perduta la declinazione antica, non in modo<br />

così completo come nell’inglese e nel francese, certo però in maniera<br />

abbastanza rilevante. Al posto delle antiche forme dei casi dovettero<br />

entrare in uso nuove preposizioni, e dovettero prestarsi a questo parole<br />

sature. Anche qui ondeggia e si intreccia nella lingua una confusione<br />

<strong>di</strong> utilizzo conscio e inconscio <strong>di</strong> tali parole. In dank o kraft (grazie a<br />

questa legge, in forza <strong>di</strong> questa legge) si ha ancora coscienza dell’uso<br />

figurato; in mit (con), durch (me<strong>di</strong>ante) non più da lungo tempo. Nessun<br />

tedesco sente più che lo strumento, per mezzo (durch) del quale,<br />

con (mit) il quale viene compiuta un’azione, sta in mezzo tra colui che<br />

compie l’azione e l’atto, che l’atto passa attraverso lo strumento, che<br />

lo strumento sta nel mezzo. Il francese che usa puisque nel senso <strong>di</strong><br />

perché <strong>di</strong>fficilmente ha la sensazione <strong>di</strong> ripetere così una metafora che<br />

cerca <strong>di</strong> rispondere alla domanda forse più <strong>di</strong>fficile <strong>di</strong> tutta la filosofia,<br />

ponendo la successione nel tempo come una successione causale,<br />

la sensazione (497) che in puisque (latino postquam) la congiunzione<br />

temporale dopo che è <strong>di</strong>ventata il causale perché. A questo proposito<br />

non dovremmo <strong>di</strong>menticarci che il viennese fa sorridere il tedesco del<br />

nord quando usa, come il francese, nachdem (dopo che) nel senso <strong>di</strong><br />

perché. Oltre a questo forse ci viene in mente che anche il nostro weil<br />

non si è formato in altro modo che come un’antica trasformazione <strong>di</strong><br />

Weile, che altro non vuol <strong>di</strong>re che tempo, forse anche riposo.<br />

“Wippchen” – L’antica <strong>parola</strong> Wippchen (Hermann Paul la spiega con<br />

Faxen, buffoneria), da quando fu chiamato così il corrispondente <strong>di</strong><br />

guerra <strong>di</strong> un giornale umoristico, è passata a designare gli accostamenti<br />

ri<strong>di</strong>coli, preferiti nelle sue notizie, delle vignette <strong>di</strong> protesta.<br />

Ci vuole molto spirito (Witz) ed esercizio per accumulare questo<br />

tipo <strong>di</strong> scherzi. Stettenheim, il virtuoso del gioco <strong>di</strong> parole, ha perfezionato<br />

questo passatempo, facendone la sua specialità, ma nelle sue<br />

mani il gioco è <strong>di</strong>ventato quasi meccanico, così che il suo seguace<br />

Alexander Moszkowski nello stesso spirito è riuscito a essere molto<br />

più incisivo. <strong>La</strong>vorando in questo vasto campo, tutti e due avrebbero<br />

però ragione <strong>di</strong> stupirsi che le loro allegre violazioni del linguaggio<br />

ci aiutano a penetrare più a fondo da un nuovo lato nell’essenza del<br />

linguaggio. Anche dei professori potrebbero stupirsene. Potrebbero.<br />

114


Nessun linguaggio senza Wippchen – A Stettenheim non sarebbe venuto<br />

in mente <strong>di</strong> elaborare questa contraffazione e spingerla fino in fondo,<br />

se non l’avesse trovata molto spesso in articoli considerati seri. L’ironica<br />

rubrica delle lettere del “Kladderadatsch” brulica <strong>di</strong> Wippchen, che<br />

sono stati perpetrati inconsciamente da giornalisti frettolosi. Spesso anche<br />

dai migliori scrittori si può sentir <strong>di</strong>re che nessuno è sicuro <strong>di</strong> non<br />

aver scritto qualche volta qualcosa <strong>di</strong> simile. Ma qui per me si tratta <strong>di</strong><br />

stabilire che piccoli Wippchen inconsci, che per questo possono anche<br />

non avere un effetto comico e che quasi sempre vengono ignorati, sono<br />

(498) fenomeni <strong>di</strong> ogni giorno; forse finiremo ad<strong>di</strong>rittura con il dubitare<br />

che non sia possibile una lingua senza Wippchen nascosti.<br />

Se consideriamo solo in generale il processo psicologico dal punto<br />

<strong>di</strong> vista che ho esposto qui a proposito dello sviluppo del linguaggio<br />

umano, questo triste risultato emerge subito logicamente e scientificamente.<br />

E se per questo dovessi dare a credere più che persuadere,<br />

potrei accontentarmi, come altri scrittori <strong>di</strong> libri, <strong>della</strong> logica e <strong>della</strong><br />

scienza. Sappiamo infatti che tutte le parole del nostro linguaggio sono<br />

giunte al loro significato me<strong>di</strong>ante applicazione figurata. Ogni <strong>parola</strong><br />

ritorna ora naturalmente in ogni suo significato a un’altra rappresentazione<br />

figurata. Non si può certo tralasciare il fatto che già nell’accostamento<br />

banale <strong>di</strong> due parole risulta una commistione <strong>di</strong> due immagini<br />

<strong>di</strong>vergenti. Pren<strong>di</strong>amo un esempio qualsiasi, più è semplice e meglio<br />

è. Se la <strong>parola</strong> del sanscrito per la nostra <strong>parola</strong> da esso derivata (?)<br />

Tochter (figlia) proviene davvero dalla rappresentazione <strong>di</strong> una mungitrice<br />

(forse perché il compito <strong>di</strong> mungere spettava come privilegio<br />

alla figlia <strong>di</strong> casa), quando l’immagine <strong>della</strong> mungitrice viveva ancora<br />

nella coscienza <strong>della</strong> lingua, ci doveva essere un Wippchen ogni volta<br />

che si <strong>di</strong>ceva: la mungitrice fa il fuoco o ricama o partorisce. Con questo<br />

tralascio del tutto il fatto che il far fuoco, il ricamare, il partorire<br />

ritornino a loro volta ad altre rappresentazioni figurate. Certo oggi lo<br />

<strong>di</strong>cono solo i filologi che la nostra Tochter (allo stesso modo lo slavo<br />

dcera) era collegata un tempo con l’immagine <strong>della</strong> mungitrice. Con<br />

questo la possibilità <strong>di</strong> avvertire il Wippchen è scomparsa. Ma non<br />

si può negare allora che <strong>di</strong>etro a quasi tutte le connessioni <strong>di</strong> parole<br />

<strong>della</strong> lingua siano nascosti questi antichissimi Wippchen. Ad<strong>di</strong>rittura si<br />

deve ritenere un caso più raro se capita che le immagini <strong>di</strong> due parole<br />

collegate combacino. Come se ad esempio quando qualcuno <strong>di</strong>ce che<br />

la Tochter (499) gli ha dato da bere del latte. Eppure mi si deve concedere<br />

che nella frase c’è qualcosa che suona originario, patriarcale.<br />

L’insieme dell’immagine ha qualcosa <strong>di</strong> intimamente vero.<br />

Contaminazione – I cultori <strong>della</strong> scienza del linguaggio non si stupiranno<br />

<strong>di</strong> apprendere <strong>di</strong> essere stati loro a formulare la teoria dei Wippchen<br />

quando applicarono a certe formazioni linguistiche basate sull’errore<br />

l’espressione dotta contaminazione. Contaminazione significa propria-<br />

115


mente contagio. Nella linguistica, spiega Hermann Paul, la contaminazione<br />

è il processo «per cui due forme <strong>di</strong> espressione sinonimiche<br />

si introducono contemporaneamente nella coscienza, così che nessuna<br />

delle due si realizza in modo puro, ma si costituisce una nuova forma,<br />

nella quale si mescolano elementi dell’una con quelli dell’altra».<br />

1 [Gli ultimi nove anni sono quelli <strong>della</strong> stesura dell’opera, ma il numero nove sembra<br />

contenere anche suggestioni sacre, Cfr. Ludger Lüktenhaus, Einleitung des Herausgeber, B<br />

i, p. ix, n. 1]<br />

2 [Sta rispondendo alle critiche <strong>di</strong> incompetenza.]<br />

3 [«Dem Volke aufs Maul sehen können», l’espressione è <strong>di</strong> Lutero e riguarda i criteri<br />

per la traduzione <strong>della</strong> Bibbia.]<br />

4 [1896.]<br />

5 [Baruch Spinoza, Tractatus theologico-politicus, Hamburgi, apud Henricum Kühnrat,<br />

1670, p. 217.]<br />

6 [Ivi, p. 34.]<br />

7 [Elmo.]<br />

8 [Platz, luogo, posto, <strong>di</strong>venta posto a sedere in Platzkarte, biglietto <strong>di</strong> prenotazione.]<br />

9 [“Per Hamburg ci vogliono quattro ore”]<br />

10 [“Buone quattro ore fin su”.]<br />

11 [Imperfetto <strong>di</strong> backen, cuocere al forno.]<br />

12 [Imperfetto <strong>di</strong> trinken, bere.]<br />

13 [Cavallo.]<br />

14 [Vedere e andare.]<br />

15 [William Dwight Whitney, Die Sprachwissenschaft: Vorlesungen über vergleichende Sprachforschung,<br />

bearb. u. erw. von Julius Jolly, Ackermann, München 1874 (Olms, Hildesheim - New<br />

York 1974)].<br />

16 [Friedrich Max Müller, Einleitung in <strong>di</strong>e vergleichende Religionswissenschaft, Trübner,<br />

Strassburg 1874.]<br />

17 [Gemeinsamkeit = comunanza, Gemeinheit = volgarità: gemein = comune, volgare.]<br />

18 [In tedesco <strong>La</strong>denschwung è sinonimo <strong>di</strong> <strong>La</strong>denschwengel, garzone.]<br />

19 [Lettera dell’8 agosto.]<br />

20 [Un<strong>di</strong>ng si usa in tedesco anche nel senso: non è cosa, è una follia, una chimera.]<br />

21 [Baruch Spinoza, Tractatus theologico-politicus, cit., p. 16.]<br />

22 [Settimanale satirico berlinese, 1848-1944.]<br />

23 [Diversa la rappresentazione per la <strong>parola</strong> tedesca: Säugetier, animale che succhia, viene<br />

allattato.]<br />

24 [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, Mäcken, Reutlingen-Leipzig<br />

1846-1858 (Georg Olms Verlag, Hildesheim - Zürich - New York 1996, iii, p. 108).]<br />

25 [Jean Paul Richter, Vorschule der Aesthetik, in Sämtliche Werke, Abt. i, V Bd., hg. von<br />

Norbert Miller, Hanser, München 1963, p. 184.]<br />

26 [Johann Georg Hamann, Aesthetica in nuce, in Sämtliche Werke, Verlag Herder, Wien,<br />

ii, p. 197.]<br />

27 [Verlag von Max Niemeyer, Halle, 1911.]<br />

28 [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, cit., vi, p. 75).]<br />

29 [Salomon Maimon, Lebensgeschichte, hg. von Karl Philipp Moritz, ii, Vieweg, Berlin<br />

1793.]<br />

116


Dizionario <strong>di</strong> Filosofia<br />

(voci dal Wörterbuch der Philosophie)<br />

Significato (Bedeutung)<br />

(W i, 146) Non potè sfuggire all’attenzione dei grammatici che le<br />

parole <strong>della</strong> loro <strong>di</strong>sciplina, le parole <strong>della</strong> lingua or<strong>di</strong>naria hanno un<br />

contenuto, un senso, un significato; allo stesso modo non potè sfuggire<br />

all’attenzione dei logici che il contenuto dei loro concetti e i significati<br />

delle loro proposizioni sono legati al linguaggio umano. <strong>La</strong> conseguenza<br />

dell’una e dell’altra attenzione fu che davvero presto comparve la<br />

<strong>di</strong>stinzione tra la <strong>parola</strong> (la proposizione) e il suo significato. Come tra<br />

il parlare e il pensare. Questa era una <strong>di</strong>stinzione morta, una procedura<br />

anatomica, finché non si notò esplicitamente che anche la <strong>parola</strong><br />

viva ha un significato.<br />

Le parole morte si trovano soltanto sul tavolo anatomico degli stu<strong>di</strong>osi<br />

<strong>di</strong> etimologia e nei <strong>di</strong>zionari. Poi anche nei cattivi libri. Nella<br />

lingua viva non si può staccare la <strong>parola</strong> dal suo significato come non<br />

si può staccare un organismo dalla sua “anima”; chi si accorgesse che<br />

proprio non esiste un’anima particolare al <strong>di</strong> fuori <strong>della</strong> lingua, sarebbe<br />

propenso a definire il significato l’anima delle parole.<br />

Una <strong>parola</strong> che non avesse significato non sarebbe una <strong>parola</strong> del<br />

linguaggio, come la maggior parte delle parole <strong>di</strong> un papagallo non<br />

sono ancora parole del linguaggio.<br />

Ora, ogni lettore avveduto <strong>di</strong> <strong>di</strong>zionari deve essersi accorto che in<br />

un lungo articolo <strong>di</strong> un <strong>di</strong>zionario serio si trovano molti significati <strong>della</strong><br />

<strong>parola</strong>, ma non si trova mai il significato; quanto più un <strong>di</strong>zionario è<br />

piccolo e misero, tanto più si limita a in<strong>di</strong>care in modo falso e fuorviante<br />

un’unica traduzione, il significato. (147) Lo sforzo <strong>di</strong> rendere<br />

ogni <strong>parola</strong> <strong>di</strong> una lingua con una <strong>parola</strong> dell’altra – che è un errore<br />

evidente negli strumenti più miseri impiegati per l’appren<strong>di</strong>mento o<br />

per l’uso pratico <strong>di</strong> una lingua straniera, e che nei viaggi in paesi stranieri<br />

<strong>di</strong>venta la fonte <strong>di</strong> confusioni infinite e spesso spassose – proprio<br />

questo sforzo era fino a poco tempo fa l’ideale dei lessici filosofici e in<br />

generale dell’uso filosofico delle parole. L’adepto <strong>della</strong> filosofia incappava<br />

a ogni passo, durante il suo viaggio nel paese straniero del pensiero<br />

astratto, in parole straniere e ne cercava la spiegazione dapprima<br />

in un <strong>di</strong>zionario delle parole straniere <strong>della</strong> filosofia; qui imparava velo-<br />

117


cemente in modo sicuro il significato <strong>di</strong> tutti i termini tecnici filosofici.<br />

Man mano che invecchiava, quanto più <strong>di</strong>ligentemente si de<strong>di</strong>cava alla<br />

storia <strong>della</strong> filosofia, leggendo cioè le opere originali dei pensatori più<br />

significativi <strong>di</strong> tutti i tempi, gli doveva <strong>di</strong>ventare sempre più chiaro<br />

che i termini tecnici <strong>della</strong> filosofia (accanto alle loro traduzioni e sostituzioni)<br />

non hanno un unico vero, immutabile significato, che non<br />

c’è proprio il significato accanto ai significati. I <strong>di</strong>zionari filosofici più<br />

nuovi, quello tedesco <strong>di</strong> Eisler e quello inglese <strong>di</strong> Baldwin – e qui vorrei<br />

ringraziare tutti e due per le innumerevoli in<strong>di</strong>cazioni bibliografiche<br />

– hanno compreso che si può conoscere il significato <strong>di</strong> un termine<br />

solo dalla storia del termine, e arricchiscono questa storia reperendo<br />

materiali dovunque; invero tutti e due i lessici si preoccupano troppo<br />

spesso <strong>di</strong> fissare oltre a ciò anche il significato, come se ci fosse ancora<br />

una volta un qualche concetto al <strong>di</strong> fuori <strong>della</strong> sua storia. Quello che<br />

si può notare a proposito del significato attuale <strong>della</strong> <strong>parola</strong> lo si può<br />

definire solo à peu près, tracciando una linea risultante dalle <strong>di</strong>rezioni<br />

presenti, in lotta tra loro, e decidendo <strong>di</strong> attenersi a questa risultante<br />

per la concezione del mondo del presente o perfino per la concezione<br />

del mondo definitiva; anche il significato attuale <strong>di</strong> tutte le parole è<br />

<strong>di</strong>venuto storicamente. Il <strong>di</strong>zionario <strong>della</strong> filosofia, che non ha osato<br />

chiamarsi un <strong>di</strong>zionario filosofico, può aggiungere a ogni saggio <strong>di</strong> una<br />

storia <strong>della</strong> <strong>parola</strong> (148) anche una critica al significato del momento<br />

o ai significati in conflitto.<br />

Da questo si vede che cosa si ottiene quando nelle più moderne<br />

esposizioni <strong>della</strong> logica il <strong>di</strong>scorso verte su un significato in sé, su un<br />

significato obiettivo-ideale (Husserl). Ma a <strong>di</strong>re il vero anche qui vi<br />

è al fondo una <strong>di</strong>fferenza che, se fosse stata chiara, avrebbe dovuto<br />

metter fine all’inutile ricerca del significato. Penso alla <strong>di</strong>fferenza tra<br />

concetto e significato.<br />

Di una <strong>parola</strong> si può <strong>di</strong>re cha ha significato; come si può <strong>di</strong>re <strong>di</strong><br />

una cosa che ha delle proprietà, anche se la cosa non è nulla al <strong>di</strong><br />

fuori e accanto alle sue proprietà. Così anche la <strong>parola</strong> non è più una<br />

possibile parte costitutiva del linguaggio se le si toglie il suo significato.<br />

Il significato può essere giusto oppure sbagliato, chiaro oppure oscuro,<br />

usuale oppure occasionale, preso in generale oppure limitato a un<br />

ambito ristretto, può appartenere al linguaggio comune o del mestiere:<br />

il significato appartiene sempre in<strong>di</strong>ssolubilmente alla <strong>parola</strong> e nella<br />

psicologia reale del pensiero non lo si può separare dalla <strong>parola</strong>. Il<br />

significato è un puro concetto psicologico.<br />

Il concetto ha un significato solo nella logica. Non è corretto <strong>di</strong>re:<br />

la <strong>parola</strong> ha un concetto. Il concetto non è una proprietà <strong>della</strong> <strong>parola</strong>,<br />

è invece la <strong>parola</strong> stessa, nel momento in cui con essa si eseguono delle<br />

operazioni logiche.<br />

Non saprei <strong>di</strong>re chi abbia coniato per primo la <strong>parola</strong> tedesca Bedeutung<br />

(significato) in questo senso psicologico; quando si <strong>di</strong>ce che<br />

118


qualcosa <strong>di</strong> irreale, ad esempio un sogno, bedeute (significhi) qualcosa<br />

<strong>di</strong> reale, bisogna prima deuten (interpretare) il sogno perché esso abbia<br />

un senso; così bedeuten viene ancora usato molto spesso, e fu usato in<br />

tempi più antichi, per ‘interpretare’, per l’interpretazione (Auslegen)<br />

<strong>di</strong> parole <strong>della</strong> propria lingua in relazione a parole straniere o oscure<br />

o equivoche. Per questa ragione sarebbe molto seducente derivare la<br />

<strong>parola</strong> primitiva deuten, come la <strong>parola</strong> deutsch, dall’antico alto tedesco<br />

<strong>di</strong>ot (popolo), (149) così che deuten potesse significare: render<br />

popolare, comprensibile. Deutsch era già in gotico = pagano, popolaresco;<br />

Lutero poteva tradurre bavrbaro" con undeutsch (non tedesco),<br />

nel senso <strong>di</strong> undeutlich (non chiaro). (Nelle scuole ebraiche si usa<br />

molto spesso, come ho avuto modo <strong>di</strong> imparare, la domanda: “Was<br />

ist taitsch?” nel senso <strong>di</strong> “che cosa significa?”) Se si considera però<br />

originale il significato attuale <strong>di</strong> deuten, cioè in<strong>di</strong>care, dare un segno,<br />

deiknuvnai, allora Bedeutung potrebbe (non posso <strong>di</strong>mostrarlo) essere<br />

un’antica traduzione <strong>di</strong> connotatio, <strong>parola</strong> usuale nel Me<strong>di</strong>oevo e <strong>di</strong>venuta<br />

<strong>di</strong> recente un termine inglese con Mill. Non è giusto tradurre<br />

l’inglese connotation con il tedesco Mitbezeichnung (connotazione) o<br />

Nebenbedeutung (significato secondario); il suffisso be (antico alto tedesco<br />

bi = nuovo alto tedesco bei) in Bezeichnung (designazione), in<br />

Bedeutung rende già sufficientemente il suffisso latino con e lo ha già<br />

tradotto; connotation nel senso <strong>di</strong> Mill vuole esprimere propriamente<br />

solo il contenuto semantico <strong>di</strong> una <strong>parola</strong>, ma, accanto a questo, anche<br />

il contenuto in opposizione al contesto logico; non ci dobbiamo più<br />

preoccupare <strong>di</strong> ciò che, con meticolosa <strong>di</strong>stinzione, esprimeva connotatio<br />

nell’uso linguistico degli scolastici.<br />

Sul mutamento semantico ho già parlato esaurientemente (B ii, pp.<br />

248ss.); sarebbero ora da confrontare i Prinzipien der Sprachgeschichte<br />

<strong>di</strong> Paul (terza e<strong>di</strong>zione, p. 67 1 ) e l’Essai de Sémantique <strong>di</strong> Bréal. Tutti<br />

e due questi ricercatori si erano evidentemente stancati <strong>di</strong> indagare<br />

oltre sul mutamento fonico secondo presunte leggi; Bréal esprime questa<br />

sensazione in maniera graziosa nelle Idée de ce travail: «Si l’on se<br />

born aux changements des voyelles et des consonnes, on réduit cette<br />

étude aux proportions d’une branche secondaire de l’acoustique et de<br />

la physiologie; si l’on se contente d’énumérer les pertes subies par le<br />

mécanisme grammatical, on donne l’illusion d’un é<strong>di</strong>fice qui tombe en<br />

ruines» 2 . Il più rigoroso Paul, che non possiede orecchio meno fine<br />

dello stu<strong>di</strong>oso francese per la forma interna <strong>della</strong> lingua, tiene in maggior<br />

conto il contesto delle scienze in questione, si accontenta anche<br />

<strong>della</strong> designazione tra<strong>di</strong>zionale del mutamento semantico; io non oso<br />

decidere se sia meglio che la nuova <strong>di</strong>sciplina (150) debba chiamarsi<br />

semantica o semasiologia; in qualsiasi modo la si chiami, la nuova <strong>di</strong>sciplina,<br />

più feconda <strong>della</strong> teoria del mutamento fonico, potrebbe dare<br />

i contributi più vali<strong>di</strong> alla storia del pensiero umano.<br />

<strong>La</strong> teoria inglese del significato (significs) non è davvero molto lon-<br />

119


tana dalla critica del linguaggio. Distingue con precisione tra significato<br />

usuale (l’uso linguistico dominante), significato in<strong>di</strong>viduale (l’intenzione<br />

del parlante o dello scrittore nell’uso <strong>di</strong> una <strong>parola</strong>) e il significato<br />

del valore <strong>di</strong> una rappresentazione. In quest’ultimo senso bedeutend è<br />

stata una <strong>parola</strong> molto amata dall’ultimo Goethe; già Jacob Grimm ha<br />

registrato con amore e delicatezza questo uso in<strong>di</strong>viduale: «Goethe usa<br />

la <strong>parola</strong> troppo spesso, come se essa non fosse passata dalla rappresentazione<br />

più vivace <strong>di</strong> colui che ti adora, <strong>di</strong> colui che ti fa presagire,<br />

senza che tu te ne renda conto, anche senza esagerare, in quella più<br />

astratta <strong>di</strong> ciò è importante, decisivo, eccezionale, grande» 3 ; e Grimm<br />

nota già che nel linguaggio comune unbedeutend (= insignifiant) precede<br />

questo bedeutend (significans).<br />

Coscienza (Bewusstsein)<br />

(174) Il sostantivo “coscienza” non esprime proprio null’altro che<br />

la somma <strong>di</strong> quelle attività interne che con un’altra <strong>parola</strong> chiamiamo<br />

la nostra vita spirituale. Ci sono parole-somma (Summenworte), come<br />

appunto “vita”, che hanno <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> esistenza nel linguaggio scientifico;<br />

a queste parole utilizzabili non appartiene “coscienza”, e io cercherò<br />

<strong>di</strong> mostrare il <strong>di</strong>fetto del concetto <strong>di</strong> coscienza che lo <strong>di</strong>fferenzia dal<br />

concetto <strong>di</strong> vita. Ora la <strong>parola</strong> “coscienza” è ancora più inutilizzabile <strong>di</strong><br />

altre parole-somma sostantive dello stesso tipo, poiché il suo contenuto<br />

coincide del tutto con quello <strong>di</strong> altre parole, dalle quali la superstizione<br />

<strong>della</strong> <strong>parola</strong> degli psicologi vorrebbe <strong>di</strong> nuovo <strong>di</strong>stinguerla. È talmente<br />

chiaro che da circa cent’anni nel linguaggio comune si <strong>di</strong>ce “spirito”,<br />

“spirituale” là dove la scienza parla <strong>di</strong> espressioni <strong>della</strong> coscienza. Meno<br />

chiaro è purtroppo che anche i concetti <strong>di</strong> “io”, “memoria”, “linguaggio”<br />

sono solo sinonimi <strong>di</strong> coscienza. Se però il sentimento dell’io è<br />

un’illusione, se il sentimento dell’io è solo il sentimento vissuto <strong>di</strong> aver<br />

ricor<strong>di</strong>, sentimento che noi chiamiamo in<strong>di</strong>viduale, perché non c’è un<br />

altro tipo <strong>di</strong> ricor<strong>di</strong>, se – detto altrimenti – l’enigma <strong>della</strong> personalità è<br />

tutt’uno con l’enigma <strong>della</strong> memoria; se inoltre la nostra vita, <strong>di</strong>ciamo,<br />

animale, il nostro corpo ere<strong>di</strong>tato e le sue funzioni, sono tutt’uno con<br />

la memoria degli organismi; se infine la nostra vita spirituale o il nostro<br />

linguaggio sono tutt’uno con i ricor<strong>di</strong> ere<strong>di</strong>tati del nostro popolo e <strong>di</strong><br />

nuovo dell’umanità: con ciò l’identificazione <strong>di</strong> coscienza e memoria,<br />

personalità e linguaggio non è invero <strong>di</strong>mostrata logicamente; tuttavia<br />

questa idea inusuale si avvicina alla spiegazione.<br />

Anche senza ricondurre la coscienza all’attività <strong>della</strong> memoria, la<br />

<strong>parola</strong> “coscienza” dopo più <strong>di</strong> duemila anni <strong>di</strong> servizio (la sua storia<br />

(175) va dai neoplatonici fin oltre Wolff, che coniò il termine tedesco)<br />

è in procinto <strong>di</strong> essere licenziata; la nuova psicologia non la ama e<br />

non trova più alcuna <strong>di</strong>fferenza tra “cosciente” e “psichico”; solo gli<br />

herbartiani, e agli herbartiani appartiene anche Wundt, si trascinano<br />

ancora avanti con la <strong>parola</strong> <strong>di</strong>venuta superflua e si danno pena <strong>di</strong> ri-<br />

120


empire la vecchia forma linguistica con nuove rappresentazioni. Così<br />

arrangiata, essa è finita nella raccolta dei concetti filosofici <strong>di</strong>smessi<br />

come un animale imbalsamato: paglia nella pelle graziosa.<br />

Mi si potrebbe obiettare: se coscienza vuol <strong>di</strong>re lo stesso che vita<br />

spirituale o psichica, e se questa vita interna, o come altro la si voglia<br />

chiamare, è anche una realtà, anzi persino la realtà più certa e forse<br />

l’unica, il modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>rla non importa e si potrebbe lasciare in vita la<br />

<strong>parola</strong> antica, ripulita dalla polvere scolastica. Ma “vita spirituale” è<br />

evidentemente un’espressione figurata e dà una falsa immagine <strong>della</strong><br />

rappresentazione. <strong>La</strong> falsità invero, che si nasconde in tutti questi sostantivi<br />

astratti, è comune al concetto <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> coscienza: non c’è<br />

una vita, un’altra volta, accanto alle espressioni <strong>della</strong> vita, non c’è una<br />

coscienza, un’altra volta, accanto agli atti <strong>della</strong> coscienza. Tutti i sostantivi<br />

astratti danno l’illusione a un critico del linguaggio, che fosse<br />

giovane e forte abbastanza, <strong>di</strong> poter spazzar via con una scopa <strong>di</strong> ferro<br />

i sostantivi astratti in una grande riforma del linguaggio. I sostantivi<br />

concreti dovremo ben tenerceli finché vogliamo conservare il credo<br />

mistico nella realtà dell’amato mondo.<br />

Cosa (Ding)<br />

(295) Abbiamo imparato a riconoscere che la totalità delle cose,<br />

che la si sia chiamata materia (Materie) o anche sostanza (Stoff), è una<br />

rappresentazione o, con altro termine, un’astrazione (Gedanken<strong>di</strong>ng).<br />

«Quello che noi chiamiamo materia è un determinato complesso <strong>di</strong><br />

sensazioni conforme a leggi» (Mach). Non è così semplice riconoscere<br />

che questa critica del concetto generale <strong>di</strong> sostanza vale anche per<br />

quella che viene comunemente chiamata cosa (Ding), una singola cosa,<br />

un oggetto, una cosa (Sache). Verremo a sapere ancor più precisamente<br />

che Ding e Sache sono due calchi che provengono dall’uso giuri<strong>di</strong>co dei<br />

<strong>La</strong>tini e in origine significavano l’oggetto controverso <strong>di</strong> un processo,<br />

che al contrario Gegenstand è un calco <strong>di</strong> obstantia (objectivum), che<br />

proviene dalla filosofia e che, nel suo significato, già (296) alludeva<br />

in modo oscuro a questioni <strong>di</strong> teoria del conoscere: Gegenstand è ciò<br />

che sta <strong>di</strong> fronte all’io, la rappresentazione del quale deriva insieme da<br />

qualcosa <strong>di</strong> esterno alla ragione umana e dall’impiego <strong>della</strong> ragione.<br />

Tutte queste espressioni vengono usate nel linguaggio comune senza<br />

particolari <strong>di</strong>stinzioni per le singolarità del reale, per le piccole e gran<strong>di</strong><br />

realtà, per le quali il realismo ingenuo nemmeno cerca una spiegazione,<br />

ma che <strong>di</strong> una spiegazione hanno davvero molto bisogno. Poiché tutte<br />

queste cose non sono invero reali, sono piuttosto le cause <strong>di</strong> una metà<br />

del nostro mondo reale, quello esterno. Una mela non è che la causa<br />

delle sensazioni: rotondo, rosso, dolce, ecc.; e non c’è una seconda<br />

volta accanto alle sensazioni, delle quali è causa; non c’è poi un’altra<br />

volta ancora. In questo senso tutte le cose sono soltanto astrazioni,<br />

soltanto rappresentazioni. E qui ci si deve guardare dallo scambiare<br />

121


appresentazione (Vorstellung) e apparenza (Erscheinung). Apparenze<br />

(nel senso <strong>di</strong> Berkeley e Kant) sono anche le sensazioni aggettive date<br />

imme<strong>di</strong>atamente; queste però non sono astrazioni, non rappresentazioni;<br />

esse sono sì già in qualche modo elaborate dall’apparato centrale del<br />

nostro cervello, nel momento in cui arrivano alla coscienza, ma le sensazioni<br />

non sono ancora elaborate dalla ragione o dal linguaggio, non<br />

sono ancora astrazioni o rappresentazioni, come lo sono le cose. Non<br />

sappiamo <strong>di</strong>re delle cose più <strong>di</strong> questo, che cioè tutte le cose sono solo<br />

astrazioni. <strong>La</strong> teoria del conoscere, che applica alle cose la proposizione<br />

<strong>di</strong> Mach: «quello che chiamiamo una cosa è un determinato complesso,<br />

conforme a leggi, <strong>di</strong> sensazioni connesse tra loro», si <strong>di</strong>stingue solo per<br />

un particolare dal realismo ingenuo che crede <strong>di</strong> percepire sensibilmente<br />

proprio le cose, solo per questo: che essa vede un problema dove<br />

il cosiddetto sano buonsenso non vede nulla e non cerca nulla. Tutti<br />

gli enigmi dei concetti <strong>di</strong> causa, sostanza, legge, unità si nascondono<br />

<strong>di</strong>etro il fatto che si è costretti ad assumere un determinato complesso<br />

conforme a legge (297) che i nostri sensi non rivelano e che per questo<br />

apre la strada alla seduzione del sensismo.<br />

Kant, e ancor più chiaramente i neokantiani, hanno indagato il rapporto<br />

tra le sensazioni e le loro cause, il rapporto tra il mondo aggettivo<br />

e il mondo causale o verbale; i neokantiani hanno conservato la<br />

terminologia <strong>di</strong> Kant e, in maniera completamente sbagliata, chiamano<br />

cose in sé le cause <strong>della</strong> sensazione aggettiva; recentemente credono<br />

<strong>di</strong> aver riconosciuto le vere cose in sé nelle energie. Le energie però<br />

non sono affatto cose, anche se sono oggetti del pensiero. Le cose<br />

appartengono al mondo sostantivo, anche se sono tutte solo astrazioni.<br />

Mi pare allora – e da qui vorrei prendere le mosse – che, secondo<br />

questa concezione, non abbia nessun senso che qualcuno si interroghi<br />

sulla cosa in sé dell’astrazione; sarebbe come se si volesse decidere <strong>di</strong><br />

designare proprio le sensazioni aggettive come cose in sé relative delle<br />

astrazioni sostantive, il che è abbastanza paradossale.<br />

Ovviamente non intendo per astrazioni degli pseudoconcetti; infatti<br />

questi (strega, miracolo) si segnalano per il fatto che a loro nel mondo<br />

sensibile non corrisponde nulla. All’idea che tutte le cose siano solo<br />

astrazioni ci si abitua meglio con concetti come: ombra, fiamma, vento,<br />

tuono. Il tuono non esiste una seconda volta, sostantivamente, accanto<br />

alle nostre sensazioni <strong>di</strong> tuono; la fiamma non esiste una seconda volta,<br />

oltre e accanto agli effetti, come causa dei quali noi la proiettiamo, la<br />

ipostatizziamo o come <strong>di</strong>r si voglia; esattamente allo stesso modo la<br />

mela non c’è due volte, una volta nel mondo aggettivo e una volta in<br />

quello sostantivo. Noi sorri<strong>di</strong>amo con superiorità del bambino, cui era<br />

stato promesso un viaggio, il quale lontano da casa, dopo aver visto<br />

nuove montagne e laghi e boschi, chiede: “allora – ma dov’è il viaggio?”.<br />

Noi siamo infantili allo stesso modo quando chie<strong>di</strong>amo al fisico:<br />

“allora – ma dov’è la mela, la mela in sé? <strong>La</strong> mela accanto (298) e al <strong>di</strong><br />

122


fuori delle sue qualità?” Preten<strong>di</strong>amo due volte la mela che la natura<br />

nonostante la sua onnipotenza ci può dare soltanto una volta.<br />

Così arrivo a un nuovo paradosso, che però può sembrare qualcosa<br />

<strong>di</strong> strano solo dal punto <strong>di</strong> vista del realismo ingenuo, non invece secondo<br />

la concezione del mondo che ha imparato qualcosa da Hume: le<br />

nostre rappresentazioni <strong>di</strong> un’astrazione (<strong>di</strong> un ens rationis) sono molto<br />

più chiare delle nostre rappresentazioni <strong>di</strong> una cosa corporea. Ho detto<br />

poc’anzi che le nostre impressioni sensibili sono le cose in sé relative,<br />

che non ha nessun senso cercare ancora una volta e in aggiunta cose in<br />

sé <strong>di</strong>etro le cose reali, e dover credere alla loro esistenza. Ho chiamato<br />

cose in sé relative le sensazioni; qualcosa <strong>di</strong> assoluto non c’è.<br />

Tutte le cose corporee o i corpi sono appunto già rappresentazioni.<br />

Soltanto che le astrazioni non ci inducono dapprima a cercare <strong>di</strong>etro<br />

<strong>di</strong> esse una seconda esistenza, mentre i corpi danno sempre <strong>di</strong> nuovo<br />

a<strong>di</strong>to a questa doppia visione, non appena rifiutiamo <strong>di</strong> accontentarci<br />

del sensismo. E questo non lo possiamo evitare, perché l’assunzione<br />

<strong>di</strong> un mondo reale <strong>di</strong>etro le impressioni sensibili è un istinto dell’intelletto<br />

umano.<br />

È la stessa <strong>di</strong>fficoltà che si presenta per il sentimento dell’io, che<br />

crede esserci, accanto e al <strong>di</strong> fuori <strong>della</strong> catena continua dei nostri<br />

vissuti, ancora un io a parte che tiene insieme questa catena. Proprio la<br />

stessa <strong>di</strong>fficoltà. <strong>La</strong> durata è per noi il contrassegno dell’io. <strong>La</strong> durata è<br />

per noi il contrassegno delle cose. Inconsciamente, spinti da un istinto,<br />

poniamo un io qualsiasi nelle cose; introiezione la si è chiamata; ne era<br />

a conoscenza già Hume, molto prima che Avenarius coniasse questa<br />

brutta <strong>parola</strong>. L’idea è stata espressa nel modo migliore da Mach (Erkenntnis<br />

und Irrtum, p. 15 4 ); egli considera la cosa e l’io problemi<br />

fittizi: «rimane il fatto che non esiste, in senso stretto, una cosa isolata.<br />

Solo se si considerano in modo preferenziale <strong>di</strong>pendenze più forti e<br />

vistose, e si trascurano (299) quelle più deboli, che si notano meno,<br />

ci è consentita, a un livello provvisorio <strong>di</strong> indagine, la finzione <strong>di</strong> cose<br />

isolate. Anche l’antitesi tra io e mondo si basa sulla stessa <strong>di</strong>stinzione<br />

in gra<strong>di</strong> delle <strong>di</strong>fferenze. Non c’è un io isolato, come non c’è una cosa<br />

isolata. Cosa e io sono finzioni provvisorie dello stesso tipo».<br />

Unità (Einheit)<br />

(360) Nella mia Kritik der Sprache (B iii, p. 142 ss.) ho già richiamato<br />

l’attenzione sulle <strong>di</strong>fficoltà del concetto <strong>di</strong> unità. Né le unità,<br />

con le quali lo scolaro oggi crede <strong>di</strong> dover lavorare, né l’unità logica<br />

tra il concetto che sussume e quello sussunto, nemmeno infine l’unità<br />

psicologica <strong>della</strong> cosiddetta autocoscienza, (361) sono così semplici<br />

da definire, come credono gli scolari, i logici e gli psicologi; e queste<br />

applicazioni <strong>della</strong> <strong>parola</strong> si lasciano ancor meno chiaramente inquadrare<br />

in un unico concetto <strong>di</strong> unità. (Nel suo piccolo scritto Rüge einer<br />

merkwür<strong>di</strong>gen Sprachverwirrung unter den Weltweisen, 1809 5 , Carl Le-<br />

123


onhard Reinhold ha richiamato l’attenzione sulla confusione tra unità e<br />

connessione [Zusammenhang] negli epigoni <strong>di</strong> Kant, ma senza interesse<br />

per la storia delle parole e nel suo tipico modo incerto <strong>di</strong> andare a<br />

tastoni). In tedesco Einheit, per quanto possa suonare sorprendente, è<br />

entrata nell’uso comune solo nel xviii secolo. Adelung la considera ancora<br />

come un neologismo del tutto inusuale: «<strong>La</strong> proprietà per cui una<br />

cosa è una; la proprietà per cui una cosa in determinate circostanze<br />

rimane la stessa; la proprietà per cui più cose […] costituiscono solo<br />

uno e proprio lo stesso essere» (Trinità); «la proprietà per cui una cosa<br />

è in<strong>di</strong>visibile» (monas). Si deve qui notare che cosa è andato perso<br />

per il nostro senso <strong>della</strong> lingua: una proprietà; soltanto nel contare,<br />

secondo Adelung, l’unità designa la cosa stessa, fintanto che essa è<br />

una; poi, come cosa, essa ha un plurale. Adelung non conosce ancora<br />

le unità plurali, per es., nel dramma le unità <strong>di</strong> luogo ecc. «Unità, un<br />

sostantivo dei nuovi filosofi, ricavato dal numerale uno, che esprime<br />

il latino unitas» 6 . Quin<strong>di</strong> Adelung sentiva ancora in Einheit il calco<br />

<strong>di</strong> unitas. Dei tentativi più antichi <strong>di</strong> rendere unitas con una ra<strong>di</strong>ce<br />

e un suffisso tedeschi, nella lingua è rimasto solo Einigkeit (unità),<br />

ma non nel senso <strong>di</strong> Einstimmgkeit (accordo), ma nel termine tecnico<br />

Dreieingkeit (trinità). Così la lingua conservatrice <strong>della</strong> fede può <strong>di</strong>re<br />

ancor oggi per l’Uno o l’unico Dio der einige Gott.<br />

Einigkeit era un modo <strong>di</strong> aggirare il problema, propriamente un<br />

calco <strong>di</strong> una unicitas non più esistente; poiché Einigkeit connette il<br />

suffisso keit (derivato da heit) a ein trasfomato nell’aggettivo einig,<br />

così che il suono k deriva due volte dalla sillaba finale -ig. I nuovi<br />

filosofi <strong>di</strong> Adelung (362) erano Leibniz e Wolff. Leibniz fu colui che<br />

per primo usò la <strong>parola</strong> Einheit per unité e la <strong>parola</strong> mona<strong>di</strong> per le<br />

sue Einheiten. Il neologismo Einheit è passato dal tedesco con lieve<br />

mo<strong>di</strong>fica all’olandese, allo svedese e al danese e, almeno nell’olandese,<br />

viene sentito come germanismo.<br />

Che Einheit sia un calco <strong>di</strong> unitas per il mio lettore non occorre<br />

<strong>di</strong>rlo e nemmeno <strong>di</strong>mostrarlo. Che il latino unitas fosse un calco del<br />

greco monav", suonerà ancora più strano, eppure è essenziale alla <strong>parola</strong><br />

latina e alla greca, come originariamente a quella tedesca, che essa significhi<br />

la proprietà dell’essere uno; non può non dare nell’occhio che<br />

unitas fosse usato in senso metaforico per Einigkeit, non ancora monav";<br />

che monav" designasse ancora l’unità sul dado, unitas non più. Una<br />

proposizione come «mun<strong>di</strong>, quae nunc partes sunt, aliquando unitas<br />

fuit» (Giustino, ii, i, 14) esprime con parole latine uno stato d’animo<br />

greco. Spingendomi ancora più in là, mi chiedo come i Greci siano<br />

giunti al loro termine astratto monav" senza effettuare un calco. Riflettiamo<br />

solo su questo: movno" non significa in greco uno (ei|"), ma unico; in<br />

ogni caso le due parole si convertono l’una nell’altra: Platone <strong>di</strong>ce ora<br />

monav" ora eJnav". Al tardo neoplatonismo non posso fare riferimento.<br />

L’antico significato <strong>di</strong> movno", solo, solitario, che ritorna curiosamente<br />

124


nell’uso <strong>di</strong> Einigkeit in Kaisersberg, ha dato vita a un’intera famiglia <strong>di</strong><br />

vocaboli (es. monasthvrion). In altre formazioni del greco monov" significa<br />

sempre solo oppure unico. Fino a che non mi si in<strong>di</strong>ca il passo in cui<br />

un pensatore greco ha formato, in modo autonomo e consapevole, a<br />

partire da questo movno" con la sillaba finale -a", il concetto dell’unità<br />

matematica o logica, io continuo a credere al calco <strong>della</strong> <strong>parola</strong> greca<br />

da una fonte orientale o egizia.<br />

Prima <strong>di</strong> andare avanti o <strong>di</strong> tornare in<strong>di</strong>etro, vorrei richiamare l’attenzione<br />

su come un certo senso <strong>della</strong> lingua poli-storico cooperi all’internazionalità,<br />

sì all’intertemporalità (363) delle nostre scienze. C’è un<br />

sistema filosofico che si chiama dottrina delle mona<strong>di</strong>, perché tutto ciò<br />

che è composto alla fine <strong>di</strong> un possibile processo <strong>di</strong> <strong>di</strong>visione viene<br />

ricondotto alle parti semplici, dando a queste il nome <strong>di</strong> mona<strong>di</strong>. Nel<br />

Me<strong>di</strong>oevo si sarebbe giustamente potuto <strong>di</strong>re unità o unicità. Ma se<br />

Leibniz, al posto <strong>di</strong> mona<strong>di</strong>, avesse detto “unità” (il che era assolutamente<br />

lo stesso), ben <strong>di</strong>fficilmente la dottrina che le unità siano semplici<br />

avrebbe ottenuto tutta questa fama.<br />

Littré in<strong>di</strong>ca do<strong>di</strong>ci gruppi <strong>di</strong> significato <strong>della</strong> <strong>parola</strong> unité; ma anche<br />

il suo acume positivistico naufraga davanti al compito <strong>di</strong> collegare<br />

logicamente questi gruppi. (1) L’unità come elemento del numero, (2)<br />

l’unità che è posta a fondamento del confronto <strong>di</strong> qualsivoglia grandezza<br />

fisica, (3) le mona<strong>di</strong> semplici o sostanze <strong>di</strong> Leibniz, (4) gli atomi o le<br />

molecole <strong>della</strong> chimica, (5) la proprietà dell’in<strong>di</strong>viso, che mette insieme<br />

l’unità <strong>di</strong> Dio e l’unità ad esempio <strong>di</strong> una specie animale, (6) l’unità<br />

dell’in<strong>di</strong>viduo, (7) l’unità del carattere, (8) le cosiddette tre unità <strong>di</strong><br />

Aristotele (le unità <strong>di</strong> azione, <strong>di</strong> luogo e <strong>di</strong> tempo, uno slogan che ha<br />

dominato tanto a lungo nel dramma francese, che il plurale “le tre<br />

unità” è <strong>di</strong>venuto un concetto unitario quasi come i nostri “<strong>di</strong>eci comandamenti”;<br />

Voltaire parla spesso delle tre unità); (9) l’unità del tipo<br />

nell’anatomia comparata, (10) l’unità <strong>della</strong> materia che sta alla base del<br />

materialismo moderno, (11) l’unità <strong>della</strong> malattia o dell’immagine <strong>della</strong><br />

malattia nella patologia; (12) la cosiddetta unità tattica dell’arte <strong>della</strong><br />

guerra, il battaglione, lo squadrone e la batteria. Sarebbe una per<strong>di</strong>ta<br />

<strong>di</strong> tempo già solo criticare l’or<strong>di</strong>namento logico <strong>di</strong> questa analisi. Ma<br />

gli esempi <strong>della</strong> prima sezione mostrano come sia potuta andare <strong>di</strong><br />

nuovo persa l’antichissima e giusta idea <strong>di</strong> Euclide, che cioè l’unità o<br />

l’uno sia il fondamento del contare, ma non esso stesso un numero.<br />

Niente<strong>di</strong>meno che Pascal, pensatore e matematico, <strong>di</strong>ce (Geom. I 7 ):<br />

«l’unico motivo (363) per non attribuire l’unità ai numeri è questo:<br />

Euclide e i primi aritmetici dovevano dare più proprietà che fossero<br />

proprie a tutti i numeri, fuorché all’unità; ora, per non dover ripetere<br />

che tale e talaltra con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> ogni numero, all’infuori dell’unità, era<br />

sod<strong>di</strong>sfatta, esclusero piuttosto l’unità dal concetto <strong>di</strong> numero, con la<br />

libertà, che ciascuno ha, <strong>di</strong> dare delle definizioni».<br />

<strong>La</strong> causa del <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne che si presenta in quasi tutte le trattazioni<br />

125


del concetto <strong>di</strong> unità sta nel fatto che il concetto <strong>di</strong> unità passa subito<br />

da due scienze tra loro inconciliabili all’uso linguistico generale o in<br />

ogni caso superficiale. Ed è certo del tutto <strong>di</strong>verso se l’uso metaforico<br />

del concetto <strong>di</strong> unità parte dall’unità numerica <strong>della</strong> matematica o<br />

dalla cosidetta unità dell’autocoscienza, e quin<strong>di</strong> da una psicologia,<br />

che farebbe del cosiddetto io il punto <strong>di</strong> partenza e la fonte <strong>di</strong> tutti gli<br />

altri concetti <strong>di</strong> unità. A questo si aggiunge ancora la logica formale,<br />

che vorrebbe ricondurre a un solo concetto le unità aritmetiche, cioè<br />

le unità <strong>di</strong> misura poste <strong>di</strong> volta in volta arbitrariamente, e le unità organiche,<br />

quin<strong>di</strong> le unità collegate, me<strong>di</strong>ante un qualche io in<strong>di</strong>viduale<br />

anche se sbia<strong>di</strong>to. Questo concetto presenterebbe l’ulteriore <strong>di</strong>fficoltà<br />

<strong>di</strong> tener separati le parole o i concetti <strong>di</strong> unità e semplicità e in questo<br />

caso non c’è possibilità <strong>di</strong> mettere or<strong>di</strong>ne nell’uso linguistico.<br />

A meno che non ristabiliamo nel nostro uso linguistico o nel senso<br />

interno <strong>della</strong> lingua quello che dal tempo <strong>di</strong> Adelung è andato perduto:<br />

il carattere qualitativo (Eigenschaftlichkeit) dell’unità logica e concettuale<br />

e il carattere non qualitativo (Nichteigenschaftlichkeit) dell’unità<br />

numerica. E qui scopriamo, forse con nostra sorpresa, che possiamo<br />

afferrare facilmente e definire il concetto astratto <strong>di</strong> unità, che sembra<br />

essere uno dei concetti più generali e più <strong>di</strong>fficili, che persino gli<br />

animali lo possono afferrare vagamente meglio del concetto <strong>di</strong> unità<br />

numerico, l’uno, apparentemente così infantilmente semplice.<br />

Il concetto astratto <strong>di</strong> unità, che per primo stabilisce il concetto <strong>di</strong><br />

cosa (365) nel sostantivo, il concetto <strong>di</strong> fine nel verbo, la connessione<br />

<strong>di</strong> causa ed effetto nella meccanica, è capace <strong>di</strong> un’estensione generale<br />

così vasta, da poter essere esteso a ogni numero o gruppo <strong>di</strong> numeri<br />

maggiore. <strong>La</strong> data <strong>di</strong> oggi, 4.12.1907, la si può comprendere come<br />

unità; in questo senso 2, 3, ecc. sono unità. Questo concetto <strong>di</strong> unità<br />

certo il mio cane non lo possiede. Ma l’unità del concetto <strong>di</strong> cosa deve<br />

essergli comprensibile, perché altrimenti non riconoscerebbe i singoli<br />

uomini e le singole cose. Lui non può pensare o scrivere in modo<br />

<strong>di</strong>scorsivo e scolastico con Leibniz «ce qui n’est pas véritablement<br />

un être, n’est non plus véritablement un être», ma per il mio cane io<br />

sono primariamente un uomo, perché sono un uomo. Deve aver percepito<br />

la mia astratta unità, mentre la mia unità numerica non riesce<br />

a contarla.<br />

Devo qui parzialmente correggere l’affermazione che l’unità non sia<br />

ancora un numero e che il primo numero sia il due. Solo l’unità astratta<br />

che deve essere stata precedente a ogni contare, ovviamente a ogni<br />

pensare o parlare, non è ancora un numero; un numero <strong>di</strong>venta però<br />

naturalmente l’unità numerica, perché appartiene al sistema numerico,<br />

ma solo dopo che un sistema numerico è stato completato. Altrimenti<br />

non potremmo contare con l’uno. Possiamo contare certamente anche<br />

con lo zero e con il <strong>di</strong>fferenziale; ma lo zero e il <strong>di</strong>fferenziale scompaiono,<br />

devono scomparire <strong>di</strong> nuovo, prima <strong>di</strong> esprimere il risultato esatto;<br />

126


l’uno rimane esatto nel risultato. 1+1 è esattamente 2 (1+1 = 2), 1² =<br />

1: l’unità astratta giunge a espressione solo nella denominazione. Se<br />

nell’ultima uguaglianza ho avuto in mente 1 cm, il risultato è 1 cm ¤,<br />

se pongo al suo posto 10 mm, devo calcolare 1² = 10² = 100 e 1 ¤cm<br />

= 100 ¤ mm. Voglio mostrare con un esempio, se possibile ancora più<br />

elementare, come si <strong>di</strong>stinguano il concetto astratto <strong>di</strong> unità e quello<br />

numerico. Se <strong>di</strong> notte sento il campanile battere l’una o le cinque, vuol<br />

<strong>di</strong>re che è stato necessario lo sviluppo culturale <strong>di</strong> secoli perché io fossi<br />

in grado <strong>di</strong> collegare al numero dei colpi (366) il concetto <strong>di</strong> questo<br />

numero e quanto richiamano uno o cinque rintocchi; il sistema numerico<br />

dovette prima essere <strong>di</strong>ventato un’abitu<strong>di</strong>ne meccanica, un’abitu<strong>di</strong>ne<br />

proprio dei bambini piccoli dei popoli acculturati, perché io possa<br />

contare come uno il primo rintocco dopo la mezzanotte e collegargli la<br />

rappresentazione corrispondente, e non bisogna nemmeno <strong>di</strong>menticare<br />

che la sud<strong>di</strong>visione del giorno in 24 ore, e poi la numerazione per due<br />

volte da uno a do<strong>di</strong>ci, è un ulteriore accomodamento arbitrario. Si può<br />

ammaestrare un cane, un cavallo, a <strong>di</strong>stinguere i colpi da uno a do<strong>di</strong>ci;<br />

ma gli animali non hanno il nostro sistema numerico, essi non sanno<br />

che si può andare avanti a contare così, non hanno l’unità numerica; a<br />

prescindere del tutto dal fatto che sarebbe <strong>di</strong>fficile far loro apprendere<br />

le associazioni <strong>di</strong> pensiero del nostro confrontare le ore e sarebbe <strong>di</strong>fficile<br />

che essi potessero <strong>di</strong>stinguere le otto <strong>di</strong> mattina dalle otto <strong>di</strong> sera.<br />

Tuttavia il cane deve pur percepire l’unità astratta <strong>di</strong> un colpo, perché<br />

altrimenti non avrebbe percepito il colpo come un rumore in<strong>di</strong>viduale<br />

che per esempio lo induce ad abbaiare. Potrei anche <strong>di</strong>re così: la via<br />

verso l’unità numerica scende in basso a partire dai numeri più alti; la<br />

via dell’unità astratta sale al sistema numerico. Il cane non possiede il<br />

nostro sistema numerico e non può mai raggiungere l’unità numerica,<br />

l’uno; il cane però possiede il concetto astratto <strong>di</strong> unità, l’unità <strong>della</strong><br />

cosa, ma non raggiunge per questo il sistema numerico, perché ha pur<br />

sempre meno capacità spirituali dell’uomo. E perché in origine è stato<br />

comunque un enorme passo avanti passare dall’unità <strong>della</strong> cosa al contare<br />

le cose. In breve: se noi poniamo l’unità numerica, già esercitiamo<br />

(ben lontani dall’eseguire il più semplice atto <strong>di</strong> pensiero) un’arte, la<br />

scienza applicata dell’aritmetica, il cui esercizio ci è <strong>di</strong>venuto tanto abituale<br />

nel far <strong>di</strong> conto, come avviene da circa 600 anni, che riteniamo<br />

scienza applicata l’applicazione dei concetti più semplici.<br />

(367) Ma non è così. E ora, alla fine, comprenderemo perché i<br />

numeri non sono mai parole come le altre parole, perché i numeri<br />

propriamente cadono fuori dall’architettura <strong>della</strong> grammatica. I numeri<br />

si collegano nel <strong>di</strong>scorso ai sostantivi, come se fossero i loro aggettivi;<br />

essi non hanno però niente a che fare con il mondo delle parole che<br />

in<strong>di</strong>cano delle qualità, con le Eigenschaftswörtern, come noi interpretiamo<br />

in tedesco la categoria <strong>di</strong> aggettivo. Nella forma grammaticale e<br />

anche nell’applicazione metaforica i pronomi possessivi e gli or<strong>di</strong>nali<br />

127


ientrano grammaticalmente negli aggettivi. Il mio secondo fratello aggiunge<br />

al nome “fratello” due aggettivi che aiutano a determinare in<br />

modo inequivocabile un in<strong>di</strong>viduo. Soggettivo è mio tanto quanto un<br />

aggettivo come buono; ancor più soggettiva è proprio la determinazione<br />

il secondo. Ma se <strong>di</strong>co io ho quattro fratelli, al mio giu<strong>di</strong>zio sopraggiunge<br />

imme<strong>di</strong>atamente, forse in modo deittico, un nuovo elemento<br />

reale, che è altrettanto importante come un qualsiasi sostantivo, verbo<br />

o aggettivo, ma che, nonostante questo, rimane senza forma in senso<br />

grammaticale. Nella maggior parte delle lingue. Spesso solo i primi tre<br />

numeri – in tedesco fino a circa 150 anni fa – hanno la declinazione<br />

del nome; al nominativo e all’accusativo (prima anche al genitivo e al<br />

dativo) venivano persino <strong>di</strong>stinti i tre generi: zween, zwo e zwei; solo a<br />

partire da Adelung si è imposta la forma del neutro, dopo che persino<br />

Goethe e Schiller avevano scambiato le forme. Crederei che questo<br />

carattere aggettivo dei primi numeri non derivi semplicemente dal fatto<br />

che vengono usati particolarmente spesso; forse ha contribuito la<br />

formazione analogica del linguaggio infantile, forse la circostanza, che<br />

si colloca a un livello più profondo, che tutti i numeri molto piccoli si<br />

possono percepire con uno sguardo, <strong>di</strong> colpo, senza contare, e quin<strong>di</strong><br />

i numeri molto piccoli possono essere afferrati senza usare l’aritmetica,<br />

davvero quasi come aggettivi o come impressioni sensoriali.<br />

Così l’analisi grammaticale toglie senza misericor<strong>di</strong>a il concetto<br />

astratto <strong>di</strong> unità – e quanto gli consegue nelle applicazioni logiche,<br />

psicologiche (368) e metafisiche – dal concetto <strong>di</strong> unità numerica e<br />

dopo una simile considerazione può sembrare un caso che si possano<br />

esprimere con la stessa <strong>parola</strong> le più alte essenzialità <strong>di</strong> ogni genere<br />

e il numero più piccolo. Ma tutti e due i concetti si avvicinano nuovamente<br />

quando tentiamo <strong>di</strong> forzare le categorie <strong>della</strong> grammatica.<br />

Io ho sostenuto (cfr. in particolare B iii, p. 94 ss.), e lo ritengo uno<br />

dei risultati più fruttuosi <strong>della</strong> critica del linguaggio, la tesi che l’aggettivo,<br />

che Aristotele non poteva ancora registrare, è la parte del<br />

<strong>di</strong>scorso originaria e iniziale (visto che abbiamo già dovuto spezzettare<br />

la lingua nelle parti del <strong>di</strong>scorso), la tesi che tutti i dati dei nostri<br />

organi <strong>di</strong> senso, quin<strong>di</strong> il fondamento <strong>di</strong> tutto ciò che è nel nostro<br />

intelletto, quin<strong>di</strong> nel nostro pensiero, ha propriamente e del tutto in<br />

senso proprio natura qualitativa, è aggettivo. <strong>La</strong> realtà naturale non si<br />

preoccupa certo del linguaggio umano né tantomeno delle parti grammaticali<br />

del <strong>di</strong>scorso; ma se potessimo comprendere la realtà naturale<br />

imme<strong>di</strong>tamente senza parole, se possedessimo delle tenaglie adeguate<br />

per questa comprensione, allora dovrebbero essere tenaglie aggettive.<br />

D’altronde l’intelletto umano si sforza da secoli <strong>di</strong> spiegare la realtà<br />

naturale, dal punto in cui deve sospendere la descrizione, con l’ipotesi<br />

<strong>di</strong> unità infinitamente piccole, uguali o <strong>di</strong>suguali. Appartiene all’unità<br />

già presso gli scolastici il fatto <strong>di</strong> essere in<strong>di</strong>visibile, in<strong>di</strong>visibile nella<br />

meccanica o nel pensiero. Ora, per me, da questo punto <strong>di</strong> vista, il<br />

128


più esterno, è del tutto in<strong>di</strong>fferente rappresentarsi queste unità come<br />

cieche o vedenti, con o senza finestre, come mona<strong>di</strong> o come atomi;<br />

nella storia <strong>della</strong> filosofia <strong>di</strong> fatto lottano da millenni la dottrina delle<br />

mona<strong>di</strong> e la dottrina atomistica, senza che mai un pensatore abbia saputo<br />

<strong>di</strong>re cosa fossero le mona<strong>di</strong>, cosa fossero gli atomi, a parte il fatto<br />

<strong>di</strong> essere unità. Oggi, nonostante Leibniz, Fechner e Hartmann, siamo<br />

immersi fin sopra i capelli nell’atomistica; domani tornerà <strong>di</strong> moda una<br />

nuova monadologia. Sarebbe possibile un’unificazione delle due ipotesi<br />

solo se si appianasse l’opposizione che ho appena in<strong>di</strong>cato. In tutte le<br />

mona<strong>di</strong> qualificate (Dio come monas (369) monadum lo si trova più<br />

<strong>di</strong> mille anni prima <strong>di</strong> Leibniz, in Sinesio, l’amico cristiano <strong>di</strong> Ipazia)<br />

c’è la qualità piuttosto che l’unità astratta, negli atomi non qualificabili<br />

c’è la mancanza <strong>di</strong> qualità piuttosto che l’unità numerica. Se non fosse<br />

altro che un caso relativo <strong>della</strong> storia delle parole ad aver legato in<br />

un incantesimo i due i concetti così <strong>di</strong>stanti <strong>di</strong> unità, noi potremmo<br />

comprendere il carattere qualitativo (Eigenschaftlichkeit) dell’unità numerica,<br />

l’uno, e con questo la proprietà dei numeri in generale; allora<br />

avremmo sciolto l’enigma del mondo. Fino alla prossima e migliore<br />

posizione del problema. Temo però che il concetto <strong>di</strong> unità, quello<br />

numerico come quello astratto, corrisponda solo a un bisogno umano,<br />

alla povertà del linguaggio umano, che non sia natura, e se dovessimo<br />

riuscire a sciogliere questo enigma e unificare il concetto astratto <strong>di</strong><br />

unità con il concetto numerico <strong>di</strong> unità, ci sarebbe ancora una volta<br />

soltanto una nuova filosofia, che si chiamerebbe una nuova spiegazione<br />

del mondo, ci sarebbe ancora una volta soltanto un nuovo libro con<br />

nuove sequenze <strong>di</strong> parole. E, dato che persino il riso è soltanto umano,<br />

la natura non potrebbe nemmeno riderci su.<br />

Il concetto <strong>di</strong> unità, in tutte le lingue colte, è un concetto numerico,<br />

è l’unità numerica. Esso può essere sorto, non etimologicamente, ma<br />

psicologicamente, dall’unità dell’autocoscienza, dall’atto <strong>della</strong> memoria<br />

in<strong>di</strong>viduale, atto che ci rispecchia il fenomeno primor<strong>di</strong>ale dell’unità,<br />

il sentimento umano dell’io. Questo concetto psichico <strong>di</strong> unità venne<br />

poi trasferito agli esseri organici, alle specie, a unità casuali o storiche,<br />

come potremo vedere meglio nella nostra ricerca sul concetto <strong>di</strong> forma,<br />

vedere cioè che il linguaggio è ciò che non può comprendere in altro<br />

modo il mondo <strong>della</strong> realtà e il mondo interno, se non cercando <strong>di</strong><br />

or<strong>di</strong>nare secondo unità, forme o concetti ciò che o la memoria <strong>della</strong><br />

specie ha già or<strong>di</strong>nato davvero o che l’interesse umano vuole or<strong>di</strong>nare<br />

per potergli dare un nome.<br />

È stata una fortuna che l’uno o l’unità (370) sia l’unico degli innumerevoli<br />

numeri a essere un concetto, una <strong>parola</strong> come altre parole.<br />

Conoscere (Erkennen)<br />

(441) Non sarebbe onesto se in questo piccolo saggio volessi seguire<br />

il concetto nel suo passaggio dal significato sensibile a quello sovra-<br />

129


sensibile, se volessi prendere le mosse dal significato più decisamente<br />

sensibile, perché nel linguaggio del tedesco biblico vuol <strong>di</strong>re lo stesso<br />

che consumare il coito; tuttavia non è ancora chiarita la questione se<br />

erkennen abbia un’antichissima connessione con zeugen (generare)<br />

(come assume Grimm) oppure se il senso <strong>di</strong> copulare sia un calco (al<br />

<strong>di</strong> là del latino e del greco) dall’ebraico 8 . <strong>La</strong> <strong>parola</strong>, presa nel significato<br />

corrente <strong>di</strong> riconoscere, ha pur sempre un contenuto puramente<br />

sensibile; si riconosce qualcosa che prima si è visto o sentito, in una<br />

sua caratteristica sensibile. Nell’uso o<strong>di</strong>erno del linguaggio (in passato<br />

kennen coincideva del tutto con erkennen) il processo molto più cosciente<br />

dell’Erkennen si <strong>di</strong>stingue dal processo inconscio del kennen<br />

per il fatto che il prefisso er (secondo Paul) designa veramente un processo<br />

momentaneo (442) e precisamente insieme l’evento e il risultato;<br />

si potrebbe anche <strong>di</strong>re: in kennen sta più un ricordo in potentia, in<br />

erkennen più un ricordo in actu.<br />

Il processo che avviene in un uomo quando riconosce un fenomeno<br />

sensibile dovrebbe spiegarlo la psicologia, in particolare la psicologia fisiologica.<br />

Un termine usato da Ziehen, che voleva ricondurre il perdurare<br />

<strong>di</strong> una impressione alla sintonizzazione <strong>di</strong> determinate cellule corticali<br />

del cervello, fa graziosamente pensare al paragone con il telegrafo senza<br />

fili, nel quale vengono prodotti dei segnali solo quando l’apparecchio<br />

ricevente viene sintonizzato su una determinata lunghezza d’onda. Ma<br />

se si osserva bene, questo tentativo <strong>di</strong> spiegazione è solo un’immagine.<br />

Del resto sono soltanto immagini anche le ricerche meno stimolanti<br />

che negano nell’oggetto conosciuto una qualità conoscitiva obiettiva e<br />

ammettono solo un sentimento conoscitivo soggettivo. Inoltre, dato che<br />

dovrebbe esserci prima una spiegazione <strong>della</strong> formazione dei concetti,<br />

e la psicologia fallisce già ai primi passi, possiamo trarne la conclusione<br />

che la sola psicologia importante, quella del pensiero, non esiste proprio.<br />

Questo <strong>di</strong> passaggio; volevo soltanto richiamare l’attenzione sul fatto<br />

che il concetto <strong>di</strong> erkennen, anche nel suo significato più semplice, ci<br />

è noto solo me<strong>di</strong>ante l’introspezione, quin<strong>di</strong> superficialmente.<br />

L’uso linguistico attuale, specie negli scritti <strong>di</strong> carattere spirituale,<br />

utilizza il termine per in<strong>di</strong>care un’esperienza mentale più intensa. Già<br />

nella traduzione <strong>della</strong> Bibbia <strong>di</strong> Lutero erkennen (Vulgata, intelligere)<br />

viene paragonato una volta al vedere e al sentire senza i sensi (Marco,<br />

iv, 12); ancora in Kant erkennen non è propriamente un’espressione<br />

tecnica <strong>della</strong> filosofia, ma viene usato senza precisione per “intuire”,<br />

”capire”, “comprendere”. Probabilmente non sbaglio nell’osservare<br />

che la prima <strong>parola</strong> che ne deriva, Erkenntnis, ma ancor più le nuove<br />

forme più nobili Erkenntnistheorie e Erkenntniskritik, ci costringono<br />

a scorgere nella <strong>parola</strong> base erkennen un’attività eccezionale <strong>della</strong> nostra<br />

facoltà <strong>di</strong> pensare. (443) Come in ogni verbo anche in erkennen è<br />

nascosto uno scopo. Ci stiamo abituando sempre più a esprimere con<br />

l’espressione fondamentale Erkenntnistheorie l’unico scopo <strong>di</strong> tutta la<br />

130


scienza e <strong>di</strong> tutta la filosofia; ci consideriamo dal punto <strong>di</strong> vista <strong>della</strong><br />

conoscenza (wir sehen uns nach Erkenntnis), abbiamo cioè il desiderio<br />

<strong>di</strong> imparare a conoscere il mondo che ci circonda nel suo essere<br />

e <strong>di</strong> comprenderlo nel suo <strong>di</strong>venire. L’essere del mondo cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong><br />

poterlo ancora sapere (wissen), il <strong>di</strong>venire del mondo lo dobbiamo<br />

conoscere (erkennen). Secondo l’attuale uso linguistico il sapere è <strong>di</strong>ventato<br />

così quasi una con<strong>di</strong>zione del conoscere. Non ho bisogno <strong>di</strong><br />

aggiungere che questo rapporto dei due concetti, sapere e conoscere,<br />

è sottoposto alla storia contingente delle mode linguistiche; altre lingue<br />

colte hanno sviluppato la relativa opposizione in modo un po’ <strong>di</strong>verso,<br />

così che sarebbe impreciso tradurre in francese o in inglese quello che<br />

ho formulato fin qui a proposito del termine tedesco.<br />

<strong>La</strong> piccola opposizione è relativa, anche perché – se mi si concede<br />

la tendenza che si è affermata nell’uso linguistico contemporaneo – la<br />

scienza del mondo progre<strong>di</strong>sce sempre più e si arresta proprio là dove<br />

comincia il desiderio <strong>di</strong> conoscere. Sappiamo molto (molto più che nel<br />

Me<strong>di</strong>oevo) del mondo reale nello spazio, del mondo aggettivo dei sensi.<br />

Lo chiamiamo una crescita del sapere, se si tratta <strong>di</strong> fare, me<strong>di</strong>ante<br />

concetti via via sempre più elevati, un catalogo del mondo molto asistematico<br />

ed eternamente lontano dall’ideale. Se un tale catalogo del<br />

mondo fosse poi possibile, sarebbe un’unità solo apparente del sapere<br />

nel concetto più alto e più vuoto, nel concetto <strong>di</strong> essere. Soltanto una<br />

tale unità del sapere anche solo nel mondo aggettivo si chiamerebbe<br />

conoscenza secondo l’uso linguistico in evoluzione.<br />

Anche del mondo verbale o del mondo del <strong>di</strong>venire abbiamo davvero<br />

un cumulo <strong>di</strong> conoscenze incommensurabilmente più grande rispetto<br />

al Me<strong>di</strong>oevo, ma anche qui siamo molto lontani da un’unità del<br />

sapere storico proprio (444) allo stesso modo che nel mondo aggettivo<br />

dei sensi. L’invi<strong>di</strong>abile monismo, invi<strong>di</strong>abile per il suo accontentarsi<br />

<strong>di</strong> sé, per essere l’ultima <strong>parola</strong> dello spirito umano, dovrebbe proprio<br />

teorizzare un’unità più alta rispetto alla conoscenza del mondo<br />

aggettiva e verbale, un’unità più alta del mondo topografico e storico,<br />

del mondo dello spazio e del mondo del tempo. Ma il monismo ha<br />

una pericolosa somiglianza con una istituzione religiosa per il fatto <strong>di</strong><br />

essere <strong>di</strong> nuovo solamente un’aspirazione verso il limite del sapere e<br />

non una rivelazione cre<strong>di</strong>bile; infatti, se non altro per amore <strong>di</strong> un vero<br />

metodo critico, non avremmo avuto bisogno <strong>di</strong> una <strong>parola</strong> nuova. I<br />

gran<strong>di</strong> pensatori e i gran<strong>di</strong> ricercatori ai quali si richiama volentieri il<br />

monismo non erano monisti.<br />

Io penso allora che l’attuale tendenza dell’uso linguistico porterà<br />

a intendere con conoscenza un’aspirazione che dovrebbe raggiungere,<br />

ai limiti del sapere relativo, un sapere assoluto.<br />

Una conoscenza in questo senso, una conoscenza assoluta è impossibile,<br />

perché ogni conoscenza ritorna alla fine alla conoscenza sensibile<br />

e i nostri sensi accidentali sono troppo rozzi anche solo per permettere<br />

131


nel mondo sensibile un conoscere definitivo, una conoscenza che giunga<br />

al fondamento ultimo. Il microscopio non ci mostra mai la natura<br />

del sangue o l’attività dei nervi fino alle cause ultime. Per una conoscenza<br />

assoluta dell’organismo ci vorrebbe <strong>di</strong> più, cioè la conoscenza<br />

quasi inimmaginabile dei processi vitali che fanno agire il sangue sulle<br />

vie nervose e i nervi sulle vie del sangue. E questo in innumerevoli<br />

casi. Non possiamo penetrare nella natura fino ai fondamenti ultimi,<br />

per non parlare poi delle connessioni e tessiture dei fondamenti ultimi.<br />

Arriviamo così a una confessione umiliante dove un po’ <strong>di</strong> humour<br />

può produrre una svolta. Conoscenza dei fondamenti ultimi è solo<br />

una <strong>parola</strong> del desiderio. L’altra <strong>parola</strong> del desiderio, Dio, è altrettanto<br />

un’espressione per la causa ultima <strong>di</strong> tutto ciò che è avvenuto<br />

in natura. (445) Uno scolastico devoto del Me<strong>di</strong>oevo potrebbe essere<br />

sod<strong>di</strong>sfatto <strong>di</strong> questo risultato, che quin<strong>di</strong> la <strong>parola</strong> Dio e la <strong>parola</strong><br />

conoscenza significhino pressappoco la stessa <strong>di</strong>sposizione dell’uomo<br />

che si eleva. Soltanto che non sarebbe sod<strong>di</strong>sfatto dell’affermazione<br />

che tutte due le parole siano povere allo stesso modo.<br />

Umorismo (Humor)<br />

(W ii, 104) È un concetto così nuovo che fino a ora non si è riusciti<br />

a darne una definizione. Né i primi inventori inglesi <strong>della</strong> cosa, né<br />

i Tedeschi, che l’hanno imitata e migliorata, sono riusciti a penetrare<br />

l’essenza dell’umorismo. Persino per i Francesi, che <strong>della</strong> <strong>parola</strong> hanno<br />

preso a prestito la forma dagli Inglesi, la cosa rimane ancor oggi una<br />

creazione straniera; per questa hanno cominciato a usare la <strong>parola</strong><br />

inglese humour e impiegano la <strong>parola</strong> quasi esclusivamente per l’umorismo<br />

inglese e per quello tedesco, per quanto lo siano riusciti a comprendere;<br />

gli Italiani, il cui umore corrisponde esattamente al francese<br />

humeur, hanno introdotto per questo termine la <strong>parola</strong> umorismo.<br />

Il termine Humor è nuovo ed è nazional-germanico. Ci si è inutilmente<br />

sforzati <strong>di</strong> scoprire nei Greci e nei Romani qualcosa che corrispondesse<br />

al nostro umorismo. E va forse imputato a questi sforzi<br />

che siano fallite le definizioni dell’estetica filosofica (proprio nei nostri<br />

migliori umoristi e nei migliori teorici dell’umorismo, in Jean Paul e<br />

Vischer).<br />

Su questo punto vorrei richiamare qui l’attenzione soltanto <strong>di</strong> sfuggita.<br />

Si è voluto spiegare l’umorismo come un concetto subor<strong>di</strong>nato<br />

del comico, perché l’umorismo riesce a suscitare il sorriso e il riso, e<br />

perché il riso veniva suscitato negli antichi unicamente e soltanto me<strong>di</strong>ante<br />

il comico. <strong>La</strong> letteratura comica dei Greci e dei Romani è assai<br />

ricca; il genio comico <strong>di</strong> Aristofane nel suo genere non è stato mai<br />

superato; ma <strong>di</strong> quello che noi chiamiamo umorismo nei comici antichi<br />

non se ne trova (105) nemmeno un barlume. Piuttosto si possono<br />

rintracciare tratti umoristici in alcuni caratteri realistici dei tragici. Ci<br />

troviamo qui <strong>di</strong> fronte a uno dei molti casi nei quali l’antichità, model-<br />

132


lo a quanto si <strong>di</strong>ce del nostro mondo spirituale, era troppo semplice,<br />

troppo poco complicata, troppo lineare, per poter anche solo presagire<br />

i nostri più moderni stati d’animo e concetti.<br />

<strong>La</strong> connessione pedante al concetto <strong>di</strong> comico è sbagliata proprio<br />

perché l’umorismo è esattamente vicino al comico come al pathos, il<br />

contrario del comico. Si pensi al ridere fino alle lacrime che l’umore<br />

porta nel suo blasone. E non è un caso che nel momento in cui<br />

gli Inglesi hanno preso coscienza del significato del loro umorismo,<br />

in Francia un’infelice imitazione portava alla comme<strong>di</strong>a lacrimevole.<br />

<strong>La</strong>rmoyant, malinconico, sentimentale, umoristico, tutti questi concetti<br />

erano ancora estranei ai Greci e ai Romani.<br />

<strong>La</strong> storia <strong>della</strong> <strong>parola</strong> parte dalla Grecia, passa per Roma, per la<br />

Francia e l’Inghilterra e arriva in Germania; passa però anche attraverso<br />

<strong>di</strong>verse <strong>di</strong>scipline scientifiche. <strong>La</strong> psicologia me<strong>di</strong>ca dell’antichità<br />

introdusse l’idea <strong>di</strong> quattro flui<strong>di</strong>, dei quattro humores, la corretta mescolanza<br />

o dosaggio (temperamentum) dei quali è necessaria alla salute.<br />

Anche alla salute dell’anima, al buon umore (gute Stimmung); e così<br />

ora il temperamentum, ora gli humores <strong>di</strong>vennero in psicologia l’espressione<br />

per ciò che siamo soliti chiamare, a conclusione <strong>della</strong> storia <strong>di</strong><br />

un’altra <strong>parola</strong>, il carattere; in questo significato si trova molto spesso il<br />

francese humeur. Nella realistica e in<strong>di</strong>vidualistica Inghilterra la <strong>parola</strong>,<br />

nella forma humour, è <strong>di</strong>ventata una <strong>parola</strong> <strong>di</strong> moda per le tendenze<br />

in<strong>di</strong>viduali dei tipi originali, per le stranezze del comportamento, per<br />

quello che gli Inglesi chiamano altrimenti fancy, whim; nei poeti <strong>della</strong><br />

comme<strong>di</strong>a, come Ben Johnson e anche Shakespeare, la <strong>parola</strong> viene<br />

spesso usata, perché si voleva metterla in ri<strong>di</strong>colo. Quando poi Shakespeare<br />

attraverso la traduzione <strong>di</strong> Schlegel <strong>di</strong>venne quasi un classico<br />

tedesco, la <strong>parola</strong> Humor, <strong>della</strong> quale non si notò l’uso ironico, da noi<br />

passò (106) a in<strong>di</strong>care la stranezza comica <strong>di</strong> un carattere in<strong>di</strong>viduale;<br />

e poiché i romantici vi ricavarono a ragione relazioni con la loro poesia<br />

trascendentale o la loro ironia romantica, l’estetica filosofica del<br />

tempo si impadronì del concetto <strong>di</strong> umorismo; si credette <strong>di</strong> analizzare<br />

l’umorismo <strong>di</strong> Shakespeare, ma si giunse a un nuovo ideale tedesco <strong>di</strong><br />

umorismo, per il quale non vi era alcun esempio nella storia del concetto.<br />

Vorrei però subito notare che gli humores <strong>della</strong> psicologia me<strong>di</strong>ca<br />

adesso ci sembrano infantili, perché la patologia umorale, che era in<br />

vigore un secolo e mezzo fa, attualmente o al momento è sostituita da<br />

un’altra teoria, la patologia cellulare; e vorrei notare che l’humeur <strong>della</strong><br />

precedente psicologia appartiene oggi già alla psicologia popolare, che è<br />

tenuta meno in considerazione, perché la <strong>parola</strong> <strong>di</strong> moda temperamento<br />

(che certamente appartiene al gruppo degli humeurs) è stata sostituita<br />

dalla <strong>parola</strong> <strong>di</strong> moda carattere, che gode <strong>di</strong> una sempre più alta considerazione,<br />

perché questa estetica filosofica è up to date.<br />

Per la storia decisiva <strong>della</strong> <strong>parola</strong> in Inghilterra e in Germania è<br />

importante un passo dell’Essay of dramatic poesy <strong>di</strong> Dryden (1668) e<br />

133


la traduzione che <strong>di</strong> questo passo ha dato il giovane Lessing nel saggio<br />

xiii <strong>della</strong> sua Biblioteca teatrale. Questo saggio xiii è certo tutto dello<br />

stesso Lessing, anche se quanto precede dovette essere <strong>di</strong> Nicolai. Il<br />

giovane Lessing allora premette: «ricordo anche che, quando voglio<br />

tradurre la <strong>parola</strong>, rendo Humour con <strong>La</strong>une, perché non credo che si<br />

troverà qualcosa <strong>di</strong> più adatto in tutta la lingua tedesca». Dopo questa<br />

spiegazione egli fa <strong>di</strong>re a Dryden: «Lo Humor è la stravaganza ri<strong>di</strong>cola<br />

nei rapporti per cui un uomo si <strong>di</strong>stingue da tutti gli altri. Gli antichi<br />

hanno molto poco <strong>di</strong> questo nelle loro comme<strong>di</strong>e; infatti il geloi'on <strong>della</strong><br />

comme<strong>di</strong>a greca antica, <strong>di</strong> cui Aristofane era l’esponente principale,<br />

non aveva lo scopo <strong>di</strong> imitare un determinato uomo, quanto piuttosto<br />

<strong>di</strong> far ridere il popolo con un colpo <strong>di</strong> scena insolito (107) che aveva in<br />

sé per lo più qualcosa <strong>di</strong> innaturale o <strong>di</strong> osceno 9 . […] Successivamente,<br />

nella comme<strong>di</strong>a moderna i poeti cercarono <strong>di</strong> esprimere l’h\qo" degli<br />

uomini, come nelle loro trage<strong>di</strong>e il pavqo". Solo che questo h\qo" conteneva<br />

semplicemente il carattere generale degli uomini e i loro costumi<br />

come essi si presentano: vecchi, amanti, servitori, cortigiane, scrocconi<br />

e altre persone <strong>di</strong> questo tipo, come le troviamo nelle loro comme<strong>di</strong>e<br />

[…] ma per quanto riguarda i Francesi, sebbene essi abbiano la <strong>parola</strong><br />

humeur nella loro lingua, ne fanno un uso assai parco nelle loro<br />

comme<strong>di</strong>e e nelle farse, che altro non sono che cattive imitazioni del<br />

geloi'on o del ri<strong>di</strong>colo <strong>della</strong> comme<strong>di</strong>a antica. Del tutto <strong>di</strong>verso negli<br />

Inglesi, che intendono per umorismo una qualche abitu<strong>di</strong>ne, passione<br />

o tendenza licenziosa che, come già detto, è propria <strong>di</strong> una persona<br />

che con questa stranezza si <strong>di</strong>stingue subito da tutte le altre. Se questo<br />

umorismo viene rappresentato in maniera vivace e naturale, suscita per<br />

lo più il piacere maligno che si tra<strong>di</strong>sce nel riso, che del resto tutte le<br />

deviazioni dall’or<strong>di</strong>nario sono in grado <strong>di</strong> suscitare molto efficacemente.<br />

Ma in questo modo il riso è solo casuale, <strong>di</strong>pende dal fatto che le persone<br />

rappresentate siano stravaganti o bizzarre; il piacere al contrario<br />

gli è essenziale come lo è ogni imitazione <strong>della</strong> natura. Allora il genio<br />

proprio e la più grande maestria del nostro Ben Johnson consistono<br />

nella descrizione <strong>di</strong> questo umorismo o buon umore che egli aveva<br />

notato in certe determinate persone» 10 .<br />

Si noti quanto poco questa esposizione corrisponda al nostro concetto<br />

<strong>di</strong> umorismo; il riso dev’essere solo casuale, <strong>di</strong>pendere solo dai<br />

caratteri strani e buffoneschi, quin<strong>di</strong> dalla materia, mentre noi nell’umorismo<br />

pensiamo prima <strong>di</strong> tutto alla forma soggettiva (108) dell’attività<br />

poetica; il ragionamento <strong>di</strong> Dryden corrisponde piuttosto abbastanza<br />

precisamente a ciò che chiamiamo realismo o naturalismo del dramma;<br />

e l’inglese ha proprio ragione quando contrappone alla comme<strong>di</strong>a francese<br />

la nuova e nazionale esigenza <strong>di</strong> rappresentare in modo naturale<br />

i caratteri specifici.<br />

Il Lessing maturo <strong>della</strong> Hamburgischen Dramaturgie è tornato ancora<br />

una volta sulla storia <strong>della</strong> <strong>parola</strong> (1768), nel saggio 93, in una nota<br />

134


che si ricollega sia a Dryden che a Ben Johnson: «la <strong>parola</strong> Humor era<br />

tornata <strong>di</strong> moda e venne abusata nella maniera più ri<strong>di</strong>cola». Egli cita<br />

un passo <strong>di</strong> Ben Johnson:<br />

As when some one peculiar quality<br />

Doth so possess a Man, that it doth draw<br />

All his affects, his spirits, and his powers<br />

In their construction, all to run one way,<br />

This may be truly said to be a humour.<br />

(«Quando una qualche peculiare qualità <strong>di</strong> un uomo lo possiede in<br />

modo tale da coinvolgere nella sua tutte le sue passioni, i suoi spiriti<br />

e le sue forze, da incanalarle tutte in una sola via, questo lo si può<br />

veramente chiamare umorismo») […] «L’umorismo, che noi ora consideriamo<br />

così eccellente negli Inglesi, era allora in loro in gran parte affettazione<br />

e in particolare il rendere ri<strong>di</strong>cola questa affettazione descrive<br />

l’umorismo <strong>di</strong> Ben Johnson. […] Ne ho raccolto <strong>di</strong>ligentemente degli<br />

esempi (Lessing pensa <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidualizzare l’arte degli antichi), esempi<br />

che desideravo anche solo poter mettere in or<strong>di</strong>ne per rivedere con<br />

l’occasione un errore che è <strong>di</strong>ventato abbastanza generale. Ho tradotto<br />

cioè – ed è ora quasi comune – umorismo con <strong>La</strong>une (buon umore) e<br />

credo consapevolmente <strong>di</strong> essere stato il primo ad averlo tradotto così.<br />

Ho sbagliato e desidererei che non mi avessero seguito. Credo infatti<br />

<strong>di</strong> poter <strong>di</strong>mostrare in modo inconfutabile che umorismo e <strong>La</strong>une sono<br />

cose del tutto <strong>di</strong>verse e, in determinate con<strong>di</strong>zioni, del tutto opposte.<br />

<strong>La</strong>une può <strong>di</strong>ventare umorismo (109), ma l’umorismo, al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong><br />

questo unico caso, non è mai <strong>La</strong>une. Avrei dovuto indagare meglio la<br />

derivazione <strong>della</strong> nostra <strong>parola</strong> tedesca e il suo uso comune e rifletterci<br />

meglio. Ho concluso troppo in fretta che, dato che <strong>La</strong>une esprime<br />

il francese humeur, potesse esprimere anche l’inglese humour; ma i<br />

Francesi stessi non possono tradurre humour con humeur» 11 ; penso<br />

<strong>di</strong> sapere come Lessing sia giunto a questa correzione. Tra il 1758 e il<br />

1768 cade la pubblicazione <strong>di</strong> una lettera <strong>di</strong> Voltaire all’Abbé d’Olivet,<br />

il cancelliere dell’Accademia francese. Voltaire lamenta che la lingua<br />

francese sia impoverita dalla massa <strong>di</strong> libri inutili, che abbia perso le<br />

belle espressioni che in inglese si sarebbero mantenute, come désappointé<br />

e partie. A proposito del nostro tema scrive (20 agosto 1761):<br />

«Je trouve, par exemple, plusieurs mots qui ont vieilli parmi nous,<br />

qui sont même entièrement oubliés, et dont nos voisins les Anglais se<br />

servent heureusement. Ils ont un terme pour signifier cette plaisanterie,<br />

ce vrai cornique, cette gaieté, cette urbanité, ces saillies qui échappent<br />

à un homme sans qu’il s’en doute; et ils rendent cette idée par le mot<br />

humeur, humour, qu’ils prononcent yumour; et ils croient qu’ils ont<br />

seul cette humeur, que les autres nations n’ont point de terme pour<br />

exprimer ce caractère d’esprit. Cependant, c’est un ancien mot de notre<br />

langue, employé en ce sens dans plusieurs comé<strong>di</strong>es de Corneille.<br />

135


Au reste, quand je <strong>di</strong>s que cette humeur est une éspèce d’urbanité,<br />

je parle à un homme instruit, qui sait que nous avons appliqué mal à<br />

propos le mot d’urbanité à la politesse, et qu’urbanitas signifiait à Rome<br />

precisément ce qu’humour signifie chez les Anglais.»<br />

Ho presentato in maniera esauriente le doglie del parto <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

tedesca, dell’uso linguistico tedesco, perché essa ha acquisito un così<br />

alto cre<strong>di</strong>to proprio a partire dall’estetica tedesca che sempre vuol essere<br />

metafisica del bello. Persino i due eccellenti umoristi, Jean Paul e<br />

Vischer, che hanno scritto sull’umorismo tutto quello che vale la pena<br />

<strong>di</strong> leggere, si sono sentiti in dovere <strong>di</strong> entrare nel merito <strong>di</strong> tutto (110)<br />

l’armamentario filosofico. Jean Paul parla <strong>di</strong> una totalità dell’umorismo,<br />

<strong>di</strong> un finito applicato all’infinito, e con tutta la sua arguzia non ha reso<br />

teoricamente comprensibile l’umorismo come ha fatto attraverso alcune<br />

figure umoristiche dei suoi romanzi. Vischer, che ha fatto seguire<br />

abbastanza tar<strong>di</strong> alla sua teoria l’esempio del suo delizioso romanzo<br />

umoristico 12 , si è affaticato invano ad applicare il modello <strong>di</strong> Hegel<br />

al concetto <strong>di</strong> umorismo; egli stesso deve essere scoppiato in una risata<br />

umoristica liberatoria, quando da vecchio signore, ha riaperto la<br />

sua Aesthetik ai paragrafi 205-22. Mi è sempre sembrato che Vischer<br />

abbia costruito con le sue astrazioni esangui una definizione piuttosto<br />

<strong>di</strong> filosofia che <strong>di</strong> umorismo. Mi sono molto sforzato <strong>di</strong> tradurre la<br />

metafisica <strong>di</strong> Vischer nella lingua <strong>di</strong> un uomo non del tutto incapace<br />

<strong>di</strong> apprezzare i componimenti umoristici; ho anche cercato <strong>di</strong> tradurre<br />

i tre gra<strong>di</strong> dell’umorismo in ricor<strong>di</strong> artistici: il primo grado o l’umorismo<br />

ingenuo non è ancora proprio umorismo; il secondo o l’umorismo<br />

sguaiato corrisponde pressappoco a quello che possiamo gustare proprio<br />

come umorismo in Shakespeare e Swift, in minor misura in Sterne, in<br />

Jean Paul e Vischer. Ma cos’è l’umorismo del terzo grado, l’umorismo<br />

in senso proprio, quello grande e libero? Temo davvero che l’umorismo<br />

libero non sia niente altro che la concezione del mondo del tutto libera<br />

<strong>della</strong> mente veramente filosofica, il sacro riso del filosofo, la superiorità<br />

rispetto a tutto l’affannarsi e il pensare dell’uomo, la rassegnazione <strong>di</strong><br />

un grande cuore; e tutta (111) questa grandezza la possiamo sentire e<br />

apprezzare come umorismo solo quando il filosofo è per caso anche<br />

uno scrittore umoristico e utilizza a tal fine l’umorismo del primo e del<br />

secondo grado (Witz, <strong>La</strong>une, ironia, baldanza, malinconia) per rappresentare<br />

la sua concezione del mondo in un personaggio umoristico. Non<br />

si può definire l’umorismo, perché non esiste umorismo nel mondo sostantivo,<br />

né come cosa reale, né come astrazione; c’è umorismo solo nel<br />

mondo aggettivo; ci sono pensatori con humour (anche tra uomini del<br />

tutto sobri; umoristi lo <strong>di</strong>ventano solo quando scrivono libri); ci sono<br />

figure umoristiche, umoristiche per l’osservatore o per il lettore. Trovo<br />

una involontaria confessione <strong>di</strong> questo fatto, che cioè la definizione <strong>di</strong><br />

umorismo proprio non esista, nello stesso Vischer (ivi, p. 472 13 ): «il<br />

concetto <strong>di</strong> questo umorismo (dell’umorismo libero, dell’umorismo al<br />

136


più alto grado) è necessario, la sua realizzazione rimane un compito».<br />

Si potrebbe <strong>di</strong>re la stessa cosa per molti bei concetti. Dio, libertà, felicità<br />

sono necessari; la loro realizzazione rimane un compito; il che non<br />

esclude che esistano uomini (relativamente) santi, felici, liberi. Anche<br />

l’umorismo del più alto grado è solo un postulato <strong>della</strong> teoria.<br />

Ho altre eresie sul cuore.<br />

Non è vero che i Greci abbiano già conosciuto qualcosa come l’umorismo.<br />

A questo proposito si cita sempre Aristofane, a suo modo certo<br />

insuperabile. Ma tutti i suoi talenti – arguzia (Witz), satira e ironia –<br />

non cambiano il fatto che egli non ha mai creato una figura umoristica;<br />

il significato più profondo rende più pregevole il Witz, ma non lo<br />

trasforma in umorismo. Ci fu forse una volta un greco che possedeva<br />

umorismo: Socrate; ma i Greci non compresero l’umorismo e uccisero<br />

il loro unico umorista.<br />

Non è vero che il grande umorismo sia una scoperta dello spirito<br />

germanico. Shakespeare fu certamente un pensatore con dello humour;<br />

ma egli solo occasionalmente ha prestato alle sue figure tratti umoristici;<br />

umoristico al grado più alto (112) era Amleto, eppure il suo poeta volle<br />

chiaramente creare una figura tragica; e anche Amleto <strong>di</strong>venta umoristico<br />

solo dove egli, il <strong>di</strong>sperato, rimane fedele in maniera ri<strong>di</strong>cola (witzig)<br />

al suo ruolo. Swift nel suo Gulliver è sempre witzig; umoristico soltanto<br />

dove come narratore esce dal ruolo. C’è un’unica figura umoristica che<br />

corrisponde interamente alla definizione del grande umorismo, e questa<br />

figura non è germanica: don Chisciotte; Cervantes voleva scrivere<br />

un’allegra paro<strong>di</strong>a; ma don Chisciotte, il suo eroe comico, era buono,<br />

nobile, valoroso, saggio, era un uomo eccellente; lo scrittore si affezionò<br />

al suo eroe comico, e solo allora il Don Chisciotte <strong>di</strong>venne il capolavoro<br />

dell’umorismo (soprattutto nella seconda parte, nell’ira consapevole<br />

contro la comicità del meschino prosecutore, Avellaneda). L’umorismo<br />

non è mai un’astrazione. Non credo <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>rmi se ciononostante<br />

ora cerco un’altra <strong>parola</strong> per umorismo, se cerco <strong>di</strong> trovare un nome<br />

per quello che i Tedeschi pressappoco intendono quando, dal tempo<br />

dei loro romantici, parlano <strong>di</strong> umorismo. Intendono la maniera migliore<br />

del ridere, il sacro riso, il riso <strong>di</strong> chi ha superato il mondo e che<br />

ridendo ha superato anche sé stesso. Si sente spesso <strong>di</strong>re che l’uomo<br />

si <strong>di</strong>stingue dall’animale per il ridere, che l’uomo è l’animale che ride;<br />

e Schopenhauer ha costruito su questo la sua teoria del ri<strong>di</strong>colo: ne<br />

sarebbe l’origine la sussunzione inaspettata <strong>di</strong> un oggetto sotto un concetto<br />

eterogeneo. Io vorrei sapere dove si nasconde questa sussunzione<br />

quando un intero circo ride del volto stupido <strong>di</strong> Hanswurst preso a<br />

schiaffi. C’è un ridere così comune che si avrebbe quasi la voglia <strong>di</strong><br />

chiamarlo un ridere animale. Il ridere può raffinarsi in un ridere su<br />

scherzi via via sempre migliori dell’arguzia spiritosa, dei motti <strong>di</strong> spirito<br />

artistici. Il ridere su una sorpresa musicale <strong>di</strong> Haydn è già molto vicino<br />

al ridere che io ho in mente, ma è ancora felicità. Il sentimento che è<br />

137


stato chiamato in modo così stucchevole dolore cosmico (Weltschmerz)<br />

quando è <strong>di</strong>ventato una maniera (113) e una smorfia, per il suo sacro<br />

riso il sentimento del superamento del mondo non ha nemmeno bisogno<br />

<strong>di</strong> una pausa, come Haydn; il sentimento del superamento del<br />

mondo ride nel modo più sacro <strong>della</strong> quoti<strong>di</strong>anità alla quale appartiene<br />

consapevolmente anche colui che ride. Chi non sa <strong>di</strong> appartenervi, chi<br />

si ritiene un oltreuomo, non conosce ancora il sacro riso, non è ancora<br />

un filosofo, è forse una figura tragico-umoristica del più alto grado, il<br />

nuovo Don Chisciotte.<br />

<strong>La</strong> <strong>parola</strong> umorismo con la quale si è in<strong>di</strong>cato questo sacro riso si<br />

è ridotta molto male. Non solo ai nostri tempi, in cui gli e<strong>di</strong>tori <strong>di</strong><br />

piatto ciarpame possono definire sé stessi umoristi e definire racconti<br />

umoristici le loro merci, proprio il piatto ciarpame. Già Jean Paul ha<br />

parlato dei cosiddetti umoristi che non saprebbero che rivelare il loro<br />

<strong>di</strong>vertito sentirsi a proprio agio. E con questo Jean Paul non pensava<br />

ancora agli scarabocchi <strong>della</strong> comicità più volgare che oggigiorno ci<br />

viene imban<strong>di</strong>ta sotto il titolo <strong>di</strong> racconti umoristici; egli pensava a<br />

scritti comici <strong>di</strong> me<strong>di</strong>o valore che al suo tempo erano molto stimati e<br />

che ancor oggi sono citati con onore nella storia <strong>della</strong> letteratura.<br />

Jean Paul, che come critico, non sempre come scrittore, possedeva<br />

un gusto straor<strong>di</strong>nariamente fine, aveva dovuto <strong>di</strong>fendersi da una<br />

concezione dell’umorismo <strong>di</strong>ventata dominante tra i romantici: dalla<br />

confusione tra umorismo e ironia. Jean Paul, il più soggettivista <strong>di</strong> tutti<br />

i narratori, dovette fare una fatica particolare per liberarsi dal soggettivismo<br />

dogmatico <strong>di</strong> Fichte; altrettanta fatica per superare il romanticismo<br />

dogmatico. Jean Paul fu davvero quello <strong>di</strong> cui i leader romantici si<br />

vantavano solo con parole forbite, un educatore alla vita; l’educazione<br />

romantica all’arte non gli bastava. Che il più alto punto <strong>di</strong> vista <strong>della</strong><br />

considerazione del mondo si chiamasse umorismo o ironia, in ogni caso<br />

egli mirava alla cosa in sé: seriamente, non per gioco. «Critici e cani<br />

non fiutano rose e fiori puzzolenti, (114) ma amici e nemici» (Vorschule<br />

der Aesthetik, p. 307 14 ). Egli vide la <strong>di</strong>stanza tra il modello dell’ironia<br />

romantica e il genio ironico. «Il Gulliver <strong>di</strong> Swift – nello stile meno,<br />

nello spirito più umoristico <strong>della</strong> sua favola – sta alto sulla rupe Tarpea<br />

dalla quale questo spirito fa precipitare il genere umano» (cit., p.<br />

240 15 ). Chi apprezzava così tanto uno Swift, non poteva accontentarsi<br />

del giochetto romantico dell’ironia.<br />

Ironia (eijrwneiva = finzione) è notoriamente il nome <strong>di</strong> una figura<br />

retorica; questa figura consiste nel fatto che il parlante chiede con<br />

particolare insistenza il giu<strong>di</strong>zio all’ascoltatore affermando il contrario;<br />

l’ascoltatore deve trovare da sé ciò che si intende e in questo modo<br />

viene reso più attento che non me<strong>di</strong>ante l’esposizione <strong>di</strong>retta <strong>della</strong> verità.<br />

È chiaro, anche senza la mia pedante spiegazione, che la figura<br />

dell’ironia designa solo la forma <strong>di</strong> un pensiero, non il pensiero stesso.<br />

Il più saggio dei Greci, Socrate, aveva esercitato l’ironia per educare<br />

138


al pensiero i suoi giovani amici; ma qualsiasi sciocco è ironico quando<br />

con un tempo da lupi parla <strong>di</strong> bel tempo, quando chiama bella ragazza<br />

una prostituta brutta e ripugnante. È chiaro allora che i romantici<br />

scambiarono la forma con la cosa, il gioco dell’ironia con la serietà<br />

<strong>della</strong> riflessione, quando identificarono schematicamente la loro ironia<br />

con l’umorismo, quando (Friedrich Schlegel) definirono l’ironia lo stato<br />

d’animo «che guarda al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> tutto, si innalza infinitamente sopra<br />

tutto ciò che è con<strong>di</strong>zionato, anche al <strong>di</strong> sopra <strong>della</strong> propria arte, virtù<br />

o genialità». Nei protoromantici non si trova nemmeno un barlume <strong>di</strong><br />

quello che chiamiamo umorismo; nemmeno negli attuali neoromantici.<br />

Per questo uno spirito così penetrante come Novalis potè identificare<br />

in un unico e medesimo respiro l’ironia romantica e l’umorismo. Per<br />

<strong>di</strong>mostrarlo mi basta riportare due frasi <strong>di</strong> un frammento dal Blütenstaub<br />

(115) (Schriften, ed. da Minor, ii, p. 117 16 ), da lui stesso pubblicato.<br />

«Quello che Friedrich Schlegel caratterizza in modo così acuto<br />

come ironia, a mio parere, non è niente altro che la conseguenza, il<br />

carattere dell’accortezza, la vera presenza <strong>di</strong> spirito. L’ironia <strong>di</strong> Schlegel<br />

mi sembra essere l’umorismo autentico […] L’umorismo è un atteggiamento<br />

<strong>di</strong> maniera assunto arbitrariamente. L’arbitrario è quello che vi<br />

è <strong>di</strong> piccante». Si potrebbe ridere: il superamento del mondo, il superamento<br />

del proprio pensiero e del proprio sentimento, l’oltrefilosofia,<br />

è <strong>di</strong>ventata una maniera <strong>di</strong> scuola.<br />

Ho creduto <strong>di</strong> dover mostrare l’illusione dei Romantici, la loro confusione<br />

tra umorismo e ironia, per far ora comprendere i motti <strong>di</strong> GoeGoethe sull’umorismo, che raramente sono stati citati. Goethe aveva a suo<br />

tempo mantenuto la <strong>parola</strong> tramandata nell’antico significato inglese, nel<br />

senso <strong>di</strong> meraviglia; così usa il termine ancora in Dichtung und Wahrheit,<br />

quando racconta dello Humor audace delle sue ragazzate. Poi l’uomo<br />

maturo conobbe il concetto nel travisamento dei romantici. E vanno<br />

contro questo travisamento frasi come (Sprüche in Prosa, 108 17 ): «non<br />

c’è nulla <strong>di</strong> volgare in ciò che, espresso nella <strong>di</strong>storsione <strong>di</strong> una smorfia,<br />

sembri umoristico»; poi: «l’umorismo è uno degli elementi del genio, ma<br />

appena prevale, ne è solo un surrogato; accompagna l’arte decadente, la<br />

<strong>di</strong>strugge, infine la annienta» (701 18 ). Si confronti anche quello che egli<br />

(456) adduce contro i tormenti psicologici degli «ipocondriaci, umoristi<br />

e Heautontimorumenoi» 19 .<br />

E Goethe, che si è liberato dei propri tormenti ipocondriaci con<br />

la creazione del Werther, ha tuttavia creato anche Mefistofele, che si<br />

avvicina abbastanza all’ideale <strong>di</strong> una figura umoristica. Quel poco che<br />

ancora ci manca non può essere la superiorità spirituale, dato che<br />

Goethe era saggio. Non può essere la bontà d’animo, che non deve<br />

mancare nel poeta umoristico, dato che Goethe era buono. Ma la proprietà<br />

dell’umorismo, il riso dell’umorismo lo può possedere soltanto<br />

un uomo; e Mefistofele non è un uomo, (116) è soltanto l’ironia personificata.<br />

È l’apice dell’ironia, quello che i romantici una generazione<br />

139


dopo esigevano come qualcosa <strong>di</strong> nuovo. Inoltre Goethe era troppo<br />

concreto per spendersi nel soggettivismo dell’umorismo; infine, troppo<br />

egoista per amare una delle sue figure fino all’umorismo.<br />

Ridere (<strong>La</strong>chen)<br />

(269) Il muscolo che provoca nel volto umano segnatamente l’espressione<br />

mimica del ridere con il sollevare il labbro superiore è lo zygomaticus<br />

major e non il risorius; ciononostante quest’ultimo muscolo ha<br />

mantenuto il suo simpatico nome e può continuare a portarlo, perché<br />

è bene se il nome antico viene mantenuto a ricordo <strong>di</strong> antiche rappresentazioni.<br />

Ricordo il particolare anche solo perché questo termine<br />

sbagliato mi sembra essere un analogo degli sforzi senza fine <strong>di</strong> trarre<br />

conclusioni dalla somiglianza dei movimenti espressivi che denominiamo<br />

ridere e sorridere, <strong>di</strong> connettere in<strong>di</strong>ssolubilmente l’umorismo con<br />

il ri<strong>di</strong>colo (das Lächerliche, geloi'on). In genere il sorriso viene spiegato<br />

come un riso indebolito anche da quei ricercatori che (come Hecker)<br />

hanno spiegato molto bene il riso come l’effetto <strong>di</strong> un solletico interiore,<br />

per così <strong>di</strong>re <strong>di</strong> un solletico dovuto allo scambio veloce <strong>di</strong> rappresentazioni<br />

messe a confronto. Certo, il sorriso può anche essere un riso<br />

indebolito; nel malato che è troppo debole per attivare con sufficiente<br />

vivacità il gioco dei muscoli; in chi è triste, se ad esempio la giovane<br />

madre, nel dolore che prova subito dopo la morte dello sposo, riesce<br />

appena a sorridere allo scherzo del bimbo, scherzo per il quale avrebbe<br />

altrimenti riso forte.<br />

Ma c’è anche un sorridere <strong>di</strong>verso da quello che può essere provocato<br />

in ogni uomo da un oggetto adeguato, ma soltanto in un soggetto<br />

particolare, e che può essere provocato quasi da ogni osservazione,<br />

non solo da un’arguzia: penso al sorriso <strong>di</strong> superiorità dell’umorismo<br />

filosofico. Forse si imparerà a riconoscere che i movimenti espressivi<br />

mimici hanno anche questa somiglianza con le parole del linguaggio<br />

umano: non si possono tradurre sempre in modo univoco. Si sa che le<br />

combinazioni non sono così semplici, come credeva la mimica antica.<br />

Lo sguardo penetrante, il pianto e la stessa espressione del <strong>di</strong>sprezzo<br />

e dell’amarezza possono mettere in gioco i muscoli che provocano il<br />

sorriso. Amarezza e <strong>di</strong>sprezzo devono essere superati se si (270) deve<br />

poter parlare <strong>della</strong> concezione del mondo dell’umorismo più libero;<br />

ma riso, amarezza, <strong>di</strong>sprezzo possono giocare in qualche modo agli<br />

angoli <strong>della</strong> bocca, se il volto mostra un’espressione umoristica. Con<br />

il ri<strong>di</strong>colo, il geloi'on, non ha molto a che vedere né la storia <strong>della</strong><br />

<strong>parola</strong> Humor né il concetto troppo <strong>di</strong>latato che ora (invero solo in<br />

Germania) viene collegato alla <strong>parola</strong>; non più che il musculus risorius<br />

con il risus.<br />

Bello (Schön)<br />

(W iii, 75) Omero e Sofocle, Fi<strong>di</strong>a e Raffaello, Dante e Shakespe-<br />

140


are, Leonardo da Vinci e Sebastian Bach hanno creato opere che ancor<br />

oggi troviamo belle; hanno creato senza l’estetica, senza nemmeno<br />

sapere che un giorno ci sarebbe stata una scienza del bello; molto<br />

prima <strong>della</strong> scoperta dell’estetica Greci e Romani, Inglesi e Tedeschi<br />

avevano nella loro lingua parole che esprimevano la sensazione (76):<br />

questo mi piace. Omero <strong>di</strong>ceva kalov" <strong>di</strong> uomini e volentieri <strong>di</strong> donne,<br />

<strong>di</strong> manzi e <strong>di</strong> cani, <strong>di</strong> vestiti e <strong>di</strong> armi, ma anche nel senso <strong>di</strong> buono<br />

o <strong>di</strong> appropriato, <strong>di</strong> venti, <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorsi; conosceva anche il sostantivo<br />

kavllo", soltanto che gli interpreti <strong>di</strong>scutono se questo kavllo" fosse<br />

la bellezza personificata, che veniva messa addosso agli uomini come<br />

un vestito, o se fosse semplicemente un mezzo ornamentale. I <strong>La</strong>tini<br />

<strong>di</strong>cevano pulcher <strong>di</strong> giovani e <strong>di</strong> ragazze, <strong>di</strong> case e <strong>di</strong> città, però usavano<br />

la <strong>parola</strong> anche laddove noi <strong>di</strong>ciamo bello, beato, nobile ecc. delle<br />

cose spirituali; pulcher viene fatto derivare da fulgere (risplendere). Ora<br />

però presso i <strong>La</strong>tini era molto popolare anche un’altra <strong>parola</strong>: bellus<br />

(da benulus da bonus), che corrisponde al tedesco hübsch (grazioso),<br />

niedlich (carino) o all’obsoleto artig (garbato). Da bellus e dal volgare<br />

bellitas derivano le parole romanze bello, beau, beauté, belâtre con tutte<br />

le loro famiglie, e gli Inglesi vi ricavarono il loro beautiful (da beauty),<br />

pressappoco come <strong>di</strong>ciamo stilvoll (in perfetto stile) <strong>di</strong> un mobile.<br />

Le lingue germaniche possedevano una <strong>parola</strong> che in inglese è stata<br />

sostituita da beautiful (anche sheen è obsoleto, vale a <strong>di</strong>re è ancora in<br />

uso nella lingua poetica), ma che nell’olandese e nell’alto tedesco è fin<br />

troppo usata: schön (bello). L’etimo è incerto; il gotico skauns traduce<br />

in combinazione il greco morfhv, ma non dobbiamo sorvolare sul fatto<br />

che non sappiamo se i due passi principali (Filippesi, 2,6; 3,21) si riferiscano<br />

alla bellezza del Cristo trasfigurato o già alla successiva figura<br />

teologica. <strong>La</strong> derivazione da schauen (guardare) non è convincente; se<br />

si dovesse accettare nuovamente la derivazione da scheinen (sembrare)<br />

(nonostante Skeat, ii, p. 58 20 rifiuti ogni connessione con to shine),<br />

non si potrebbe pensare a un calco <strong>di</strong> pulcher (da fulgere); rimane<br />

strano che (secondo Bréal) anche kalov" debba aver avuto il significato<br />

fondamentale <strong>di</strong> chiaro. Ed è anche strano che il nostro schon, l’avverbio<br />

antico <strong>di</strong> schön, venisse spesso usato in passato e venga usato oggi<br />

come il latino belle e bene nel senso <strong>di</strong> recte, gut, wohl (bene).<br />

L’aggettivo bello (e naturalmente i suoi corrispondenti) (77) esprime<br />

in tutte le lingue una sensazione che conosciamo bene; e anche<br />

se non è riferito in primo luogo al piacere sessuale, come più volte è<br />

stato ammesso (da Erasmus Darwin, da Charles Darwin, da Wilhelm<br />

Scherer), come pure era costume in Grecia intagliare il nome dell’amato<br />

sul tronco <strong>di</strong> un albero e scriverci sotto oJ kalov" oppure hJ kalhv,<br />

poté designare tra gli uomini più semplici un’impressione piacevole.<br />

Il pre<strong>di</strong>cato bello appartenne da sempre ai giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> valore naturali;<br />

nel mondo dell’esperienza umana, nel mondo aggettivo, ci sono stati<br />

fenomeni belli: uomini belli, animali belli, suppellettili belle, e alla fine<br />

141


si fece la scoperta che anche il paesaggio poteva essere definito bello.<br />

Ma gli uomini impararono con il tempo a trasferire i fenomeni belli nel<br />

mondo verbale, nel mondo dell’agire, dal momento in cui essi produssero<br />

qualcosa <strong>di</strong> bello. Essi scoprirono le arti. Ultimamente gli artisti<br />

amano definirsi i creatori par excellence. E le arti si ostinano da secoli,<br />

senza che ve ne sia bisogno, a cercare la bellezza anche nel mondo<br />

sostantivo e in quello metafisico. <strong>La</strong> Germania può vantarsi <strong>di</strong> aver<br />

indagato e definito per prima l’essenza <strong>della</strong> bellezza. Scientificamente.<br />

Come se le parole kavllo", pulchritudo, bellezza, beauty, Schönheit non<br />

fossero già in uso prima. Si attribuì il termine astratto “bellezza” a<br />

donne e anche a uomini, animali, piante; si scrissero trattati sulla bellezza<br />

e si cominciò persino a riflettere sul concetto. Il vecchio Walch<br />

(Philosophisches Lexicon 21 ) già richiamava l’attenzione sui «<strong>di</strong>fferenti»<br />

mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> usare la <strong>parola</strong>; la si può applicare alle sensazioni, in cui «il<br />

concetto e il gusto degli uomini sono così <strong>di</strong>fferenti l’uno dall’altro»;<br />

[…] «posti davanti all’altro, bisogna contemplare la bellezza come essa<br />

sia effettivamente in una cosa»; la bellezza non sarebbe una chimera,<br />

una cosa che consiste soltanto nell’immaginazione, ma qualcosa <strong>di</strong><br />

reale, un or<strong>di</strong>ne e un’armonia composta <strong>di</strong> pezzi molteplici. Questa<br />

annotazione precede (78) una <strong>di</strong>ssertazione nella quale il famoso Baumgarten<br />

formulò l’esigenza <strong>di</strong> una scienza specifica, <strong>di</strong> una scienza<br />

del bello (1735), e la pubblicazione «<strong>di</strong> valore epocale» <strong>della</strong> prima<br />

parte dell’opera stessa, l’Aesthetica <strong>di</strong> Baumgarten, che non ha ancora<br />

smesso <strong>di</strong> provocare conseguenze fatali.<br />

L’onesta Aesthetica <strong>di</strong> Baumgarten, per il contenuto, non va essenzialmente<br />

oltre il suo tempo; Gottsched e Bülfinger avevano trattato il<br />

bello in maniera già sufficientemente razionalistica e Breitinger aveva<br />

tentato <strong>di</strong> istituire una dottrina del buon gusto come “logica <strong>della</strong><br />

facoltà dell’immaginazione”; nuovo in Baumgarten è davvero soltanto<br />

il nome che egli dà alla dottrina del gusto: aijsqavnomai = percepire<br />

(wahrnehmen), appercepire (apperzepieren), aijsqhtav" = percepibile,<br />

sensibile, ta; aijsqhtikav = ciò che è percepibile, il mondo sensibile. Così<br />

con aijsqhtikhv potè essere definita la dottrina <strong>della</strong> percezione sensibile.<br />

<strong>La</strong> bellezza però è perfectio cognitionis sensitivae qua talis; il gusto<br />

è ju<strong>di</strong>cium sensuum; così aijsqhtikhv potrebbe chiamarsi la dottrina del<br />

bello par excellence. Per noi il padre o meglio il padrino dell’estetica<br />

moderna è semplicemente in<strong>di</strong>geribile per lo sforzo <strong>di</strong> istituire il bello<br />

in parallelo con il vero e <strong>di</strong> ricondurre le verità estetiche sotto il concetto<br />

<strong>di</strong> probabilità, perché esse non sono né interamente vere né interamente<br />

false: «est ergo veritas aesthetica, a potiori <strong>di</strong>cta verisimilitudo,<br />

ille veritatis gradus, qui, etiamsi non evectus sit ad completam certitu<strong>di</strong>nem<br />

tamen nihil contineat falsitatis observabilis» (Aesth. § 483 22 ).<br />

Baumgarten non si è liberato dalla paura che gli si potesse obiettare,<br />

a lui professore <strong>di</strong> filosofia teoretica e morale, <strong>di</strong> aver consigliato, con<br />

l’elogio del bello, la menzogna.<br />

142


Ma la forma conchiusa <strong>della</strong> nuova <strong>di</strong>sciplina la dobbiamo allo<br />

spirito sistematico tedesco e Kant – che in genere nei suoi scritti precritici<br />

spesso ha preso come fondamento delle sue lezioni i libri <strong>di</strong><br />

Baumgarten – dopo alcune oscillazioni, ha ripreso il concetto <strong>di</strong> estetica<br />

e lo ha introdotto con tutto il suo cre<strong>di</strong>to nelle scienze filosofiche.<br />

(79) Conviene sottolineare che Kant in un primo momento rifiutò con<br />

energia il nome “estetica”. Come è noto, egli chiama la prima parte<br />

<strong>della</strong> sua opera principale “estetica trascendentale”, vale a <strong>di</strong>re «una<br />

scienza <strong>di</strong> tutti i principi a priori <strong>della</strong> sensibilità». E poiché la <strong>parola</strong><br />

era stata limitata erroneamente alla sensibilità del bello proprio con<br />

Baumgarten, aggiunge in una nota tagliente (prima Critica <strong>della</strong> ragion<br />

pura, p. 21 23 ): «i Tedeschi sono i soli, che si servono ora <strong>della</strong> <strong>parola</strong><br />

“estetica”, per designare con essa ciò che gli altri chiamano critica del<br />

gusto. Questa denominazione si fonda sulla falsa speranza, concepita<br />

dall’eccellente pensatore analitico Baumgarten, <strong>di</strong> sottoporre la valutazione<br />

critica del bello a principi <strong>di</strong> ragione e <strong>di</strong> innalzare a scienza<br />

le regole <strong>di</strong> tale valutazione. Questo sforzo tuttavia è vano. Difatti le<br />

regole o i criteri suddetti, riguardo alle loro fonti, sono semplicemente<br />

empirici e non potranno quin<strong>di</strong> mai servire come leggi a priori, secondo<br />

le quali dovrebbe regolarsi il nostro giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> gusto; quest’ultimo,<br />

piuttosto, costituisce la vera e propria pietra <strong>di</strong> paragone per l’esattezza<br />

delle prime. Per questa ragione, è consigliabile lasciar <strong>di</strong> nuovo cadere<br />

questa denominazione e tenerla in serbo per quella dottrina che sia<br />

vera scienza (in tal modo ci si accosterebbe anche più da vicino al<br />

linguaggio e al significato degli antichi, presso i quali la partizione <strong>della</strong><br />

conoscenza in aijsqhta; kai; nohtav era assai famosa)». Così Kant tratta<br />

la sua potente teoria dello spazio e del tempo nel capitolo “estetica”,<br />

che ora si chiamerebbe piuttosto “fenomenologia”. Nella seconda<br />

e<strong>di</strong>zione <strong>della</strong> Critica <strong>della</strong> ragion pura la protesta contro il termine<br />

“estetica”’ è già molto attutita; solo le fonti «principali» si chiamano<br />

ancora empiriche, le regole non possono mai servire a «determinate»<br />

leggi a priori, la denominazione la si dovrebbe o lasciar cadere oppure<br />

prenderla in parte in senso trascendentale, in parte in senso psicologico.<br />

Questa correzione dell’anno 1787 è doppiamente interessante<br />

(cfr. l’e<strong>di</strong>zione dell’Accademia, vol. v, Introduzione <strong>di</strong> Windelband,<br />

p. 515 s. 24 ): Kant si era rappacificato con il termine “estetica”, era<br />

già dell’idea <strong>di</strong> introdurre nel suo sistema trascendentale la dottrina<br />

del bello (il lettore confronti la Lettera a Reinhold del 28 <strong>di</strong>cembre<br />

1787, che è molto umana (80) e <strong>di</strong>mostra chiaramente la <strong>di</strong>pendenza<br />

<strong>di</strong> Kant dall’architettonica del proprio sistema, poiché gli vengono<br />

delle spiegazioni «che non si aspettava» e prevede già per la Pasqua<br />

successiva il suo manoscritto sull’estetica con il titolo <strong>di</strong> Critica del<br />

gusto), ma non aveva ancora aderito all’idea fatale che vi siano anche<br />

giu<strong>di</strong>zi estetici a priori, che l’estetica vada oltre la psicologia. Quando<br />

egli nel 1790 pubblica la sua Kritik der Urteilskraft (le parole del titolo<br />

143


sono scelte palesemente per ricondurre sotto un concetto, senza apparente<br />

violenza, il sentimento soggettivo del bello e la dottrina <strong>di</strong> una<br />

oggettiva finalità <strong>della</strong> natura; qui noi trattiamo propriamente qualche<br />

aspetto <strong>della</strong> prima parte, la Critica del giu<strong>di</strong>zio estetico), usa l’aggettivo<br />

estetico quasi solo come lo usiamo comunemente, parla <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zi<br />

estetici, del valore estetico delle belle arti e <strong>di</strong> idee estetiche. Quasi.<br />

Kant ha definito bene e in maniera rigorosa tutti questi concetti. In<br />

Kant il concetto non era così scialbo come viene usato oggi (estetico è<br />

<strong>di</strong>ventato quasi un sinonimo <strong>di</strong> bello e la recente designazione esteta,<br />

<strong>di</strong>venuta internazionale per tramite dell’Inghilterra, vuole estendere la<br />

<strong>parola</strong> perfino all’insieme <strong>della</strong> condotta <strong>di</strong> vita); il concetto dovette<br />

prima <strong>di</strong>ventare una <strong>parola</strong> <strong>di</strong> moda; e lo <strong>di</strong>venne solo con l’allievo<br />

<strong>di</strong> Kant, Schiller.<br />

Almeno per la Germania Schiller ha sulla coscienza l’abuso delle<br />

parole estetica e bellezza. Non sono serviti a salvarlo nemmeno le sue<br />

aspirazioni <strong>di</strong> filosofia dell’arte. Esse cadono nella grande pausa improduttiva<br />

tra i drammi giovanili, geniali e immaturi, e le opere consapevolmente<br />

classicheggianti che hanno dominato il gusto tedesco per due<br />

intere generazioni. Schiller ha presentato tre volte la sua estetica: nelle<br />

conferenze, nelle lettere Über <strong>di</strong>e ästhetische Erziehung des Menschen<br />

e infine nei frammenti che scrisse a Körner per il grande progetto <strong>di</strong><br />

un’estetica, Kallias oder über <strong>di</strong>e Schönheit. Schiller era ancora in tutto<br />

più <strong>di</strong>pendente da Kant <strong>di</strong> quanto egli stesso credesse e ammettesse.<br />

Occasionalmente (81) aveva scherzato (Hempels Schillerausgabe, Bd.<br />

xv, p. 690 25 ) sui «poveri pasticcioni che rimestavano nella filosofia<br />

kantiana»; ma anche lui è un kantiano non in<strong>di</strong>pendente e maneggia i<br />

concetti kantiani in maniera filosoficamente incerta, anche se con un’abilità<br />

così sorprendente che il pubblico letterario del tempo pensò che<br />

Kant fosse stato migliorato da Schiller. «<strong>La</strong> bellezza non è niente altro<br />

che la libertà nel fenomeno. – Un’azione libera è una bella azione se<br />

coincidono autonomia dell’animo e autonomia nel fenomeno. – <strong>La</strong> bellezza<br />

è la natura nel suo essere conforme all’arte». Il grande passo che<br />

Kant aveva fatto oltre Baumgarten consisteva nella liberazione <strong>di</strong> ciò che<br />

è estetico da ciò che è logico, nella liberazione del concetto <strong>di</strong> bellezza<br />

dal concetto <strong>di</strong> perfezione. Kant <strong>di</strong>stingue tra bellezza libera (pulchritudo<br />

vaga) e bellezza puramente aderente (pulchritudo adhaerens); solo<br />

la bellezza libera è del tutto pura e – Schiller formula con irritazione<br />

questo pensiero – un arabesco o qualcosa <strong>di</strong> simile, considerato come<br />

bellezza, è più puro <strong>della</strong> più alta bellezza dell’uomo. Schiller rifiuta<br />

questa feconda osservazione <strong>di</strong> Kant: «in realtà mi pare che essa fallisca<br />

completamente il concetto <strong>della</strong> bellezza» (p. 683). Schiller non ha certo<br />

criticato il fatto che Kant, in fondo un estraneo all’arte, abbia scelto tra<br />

gli altri un esempio mostruoso a sostegno <strong>della</strong> sua tesi, il fatto che egli<br />

annoveri «l’intera musica senza testo» in questi arabeschi. <strong>La</strong> violenta<br />

lotta <strong>di</strong> Kant per incorporare la dottrina del bello nel suo sistema tra-<br />

144


scendentale è rimasta per Schiller un qualcosa <strong>di</strong> estraneo. Ancora nel<br />

1792 Schiller vede Kant fermo al 1787, quando voleva ripartire il termine<br />

“estetica” tra la metafisica e la psicologia. Molto inferiore rispetto<br />

a Kant, Schiller vuole andare al <strong>di</strong> là <strong>della</strong> psicologia, non dal punto<br />

<strong>di</strong> vista <strong>della</strong> teoria del conoscere, ma solo in modo fuorviante; vuole<br />

scoprire la bellezza sostantiva <strong>di</strong>etro il sentimento aggettivo del bello.<br />

Egli scrive a Körner (xv, p. 646): «io credo <strong>di</strong> aver scoperto il concetto<br />

oggettivo del bello, che si qualifica eo ipso anche come principio del<br />

gusto e che Kant <strong>di</strong>spera <strong>di</strong> trovare». (82) Ebbene sì: «la bellezza è la<br />

libertà nel fenomeno».<br />

<strong>La</strong> <strong>di</strong>fferenza essenziale tra Schiller e Goethe si manifesta in modo<br />

chiaro nel fatto che Goethe, che invece ha riflettuto veramente sull’arte,<br />

non è mai <strong>di</strong>ventato uno scrittore <strong>di</strong> filosofia dell’arte; le sue innumerevoli<br />

esternazioni occasionali non passano mai dal mondo aggettivo<br />

del bello al mondo sostantivo e metafisico <strong>della</strong> bellezza astratta. Per<br />

questo Goethe non aveva alcuna considerazione per l’attività artistica<br />

in quanto tale, egli vedeva la «nullità» nelle opere dei piccoli talenti.<br />

«Il gusto non lo si può proprio formare nella me<strong>di</strong>ocrità, ma solo<br />

nell’eccellenza» (Gespräche v, p. 35 26 ). Goethe era superiore a Kant<br />

e a Schiller nel fatto che, senza limitarsi alla poesia, aveva stu<strong>di</strong>ato a<br />

fondo le arti figurative e l’architettura ed era pervenuto con passione<br />

ad alcune «opinioni» anche nella musica, che gli era estranea.<br />

Kant si era occupato molto <strong>della</strong> poesia più antica, mentre ebbe<br />

a mala pena l’occasione <strong>di</strong> lasciar agire su <strong>di</strong> sé la grande musica o<br />

ad<strong>di</strong>rittura le opere delle arti figurative. Così egli creò la sua estetica<br />

dal profondo dell’animo e dai libri e non fu per niente cosciente <strong>della</strong><br />

mancanza <strong>di</strong> esperienza. Tuttavia, senza uscire da Königsberg, ha anche<br />

tenuto spesso lezioni sull’antropologia e, in questo caso, in maniera<br />

del tutto ingenua, ha detto <strong>della</strong> sua città natale che la sua grandezza e<br />

la sua posizione privilegiata potevano sostituire tutte le altre fonti antropologiche:<br />

«Una grande città, centro <strong>di</strong> uno Stato, dove si trovano<br />

i consigli locali <strong>di</strong> governo, che possiede un’università (per la cultura<br />

scientifica) ed è anche sede <strong>di</strong> commercio marittimo, che per mezzo<br />

<strong>di</strong> fiumi favorisce il traffico dall’interno e coi paesi finitimi e lontani <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>verse lingue e costumi, una tal città, come è per esempio Königsberg<br />

sul Pregel, può esser presa come sede adatta per l’ampliamento <strong>della</strong><br />

conoscenza dell’uomo e per la conoscenza del mondo, la quale vi può<br />

essere acquistata anche senza viaggiare» (83) (Anthropologie, Vorrede,<br />

p. vii 27 ). Allo stesso modo Königsberg dovette ben sostituire in lui<br />

anche l’esperienza estetica.<br />

Le cose non andarono <strong>di</strong>versamente per Schiller, nel momento in<br />

cui prese a scrivere la sua grande estetica. Burke, Sulzer, Webb, Mengs,<br />

Winckelmann, Home, Batteux, Wood, Mendelssohn accanto a cinque o<br />

sei cattivi compen<strong>di</strong> li possiede già; ma egli desidera da Körner (lettera<br />

dell’11 gennaio 1793) ancora più libri, sempre soltanto libri. Anche i<br />

145


pittori italiani li vuole conoscere dalle incisioni. Anche sull’architettura<br />

desiderava persino troppo volentieri un buon libro. «Dubito <strong>di</strong> potermi<br />

fare delle idee sulla musica, poiché il mio orecchio è troppo vecchio;<br />

tuttavia non temo che la mia teoria <strong>della</strong> bellezza possa far naufragio<br />

nell’arte musicale».<br />

Non si obietti che non si può pretendere da nessuno che vivesse<br />

alla fine del Settecento la competenza che oggi si pretende con <strong>di</strong>ritto<br />

da ogni professore <strong>di</strong> storia dell’arte e da ogni miglior critico d’arte.<br />

Qui non si tratta certo <strong>della</strong> storia dell’arte, ma dell’estetica, <strong>della</strong><br />

teoria del bello. Si dovevano indagare i sentimenti estetici e a questo<br />

ufficio si de<strong>di</strong>carono uomini che confrontarono le gran<strong>di</strong> opere strumentali<br />

<strong>di</strong> Bach e <strong>di</strong> Mozart con gli arabeschi, che non avevano mai<br />

visto un quadro originale <strong>di</strong> Raffaello o <strong>di</strong> Rembrandt e che affrontavano<br />

perfino la poesia con le vecchie regole. Non è strano che da questo<br />

stu<strong>di</strong>o concettuale dell’arte scaturisse il nuovo dogma: l’essenziale<br />

dell’oggetto artistico è <strong>di</strong> non suscitare interesse.<br />

Questa dottrina, che io sappia, è stata elaborata per la prima volta<br />

da Burke, l’originale inglese, che aveva chiaramente ricavato dai quadri<br />

dei pittori suoi contemporanei il suo grazioso ideale <strong>di</strong> bellezza.<br />

Non si <strong>di</strong>mentichi che poco prima (1745) Hogarth aveva sbalor<strong>di</strong>to il<br />

mondo con la scoperta <strong>della</strong> curva <strong>della</strong> bellezza. Anche Burke aveva<br />

la sua morbida curva <strong>della</strong> bellezza; secondo lui le proprietà naturali<br />

<strong>di</strong> un bell’oggetto sono: (1) proporzionata piccolezza; (2) levigatezza;<br />

(3) <strong>di</strong>versa <strong>di</strong>rezione delle parti; […] (5) fine costruzione, (6) colori<br />

vivaci (84), che però non devono essere troppo stridenti; (7) se tuttavia<br />

ci dev’essere un colore stridente, deve venir mitigato da altri. Burke<br />

ora <strong>di</strong>ce – Schiller rende così la frase: «la bellezza suscita inclinazione<br />

senza desiderio <strong>di</strong> possesso».<br />

A questo pensiero è già stata data la forma da Kant e poi in modo<br />

molto più brillante da Schopenhauer; il pieno go<strong>di</strong>mento del bene e<br />

del piacevole sarebbe connesso all’interesse; invece il pieno go<strong>di</strong>mento<br />

che definisce il giu<strong>di</strong>zio estetico sarebbe privo <strong>di</strong> ogni interesse; il giu<strong>di</strong>zio<br />

estetico sarebbe del tutto <strong>di</strong>sinteressato, mentre l’oggetto <strong>di</strong> un<br />

simile giu<strong>di</strong>zio sarebbe molto interessante. Già questo modo <strong>di</strong> parlare,<br />

che ancora domina l’estetica delle nostre scuole, contiene l’esagerazione,<br />

la menzogna, alla quale dovette portare la nuova <strong>di</strong>sciplina, perché<br />

essa aveva sostantivato l’oggetto <strong>di</strong> tutte le sue ricerche, la bellezza.<br />

Finché la bellezza era una qualità nei fenomeni, una qualità in certa<br />

misura obiettiva, una forza delle opere belle che desta in noi il compiacimento<br />

estetico, si poteva almeno <strong>di</strong>re <strong>di</strong> questa cosa inesistente che<br />

essa non avesse alcuna relazione con il nostro interesse o con la nostra<br />

volontà. Prima però che ci fosse una scienza estetica – invero anche<br />

da quando c’è – c’era solo un sentimento che determinati fenomeni<br />

suscitano in noi e che <strong>di</strong>pende proprio dal nostro interesse. Anche se<br />

bello non deve aver designato originariamente e da principio ciò che<br />

146


appare piacevole nell’altro sesso (dove certo non è del tutto da escludere<br />

presso i non-esteti il desiderio del possesso brutale), certo però<br />

l’aggettivo bello è stato esteso progressivamente dai fenomeni corporei<br />

alle opere d’arte, e queste opere d’arte le vogliamo sentire o vedere,<br />

facendo del tutto astrazione dal fatto che non siamo sempre dei barbari<br />

che vorrebbero anche possedere queste opere d’arte. L’errore nella<br />

famosa mancanza <strong>di</strong> interesse del piacere umano mi sembra stare nel<br />

fatto che nell’interesse si sia pensato a un interesse dei cinque sensi,<br />

all’utilità per il singolo uomo o per l’umanità, al fatto che (85) non si<br />

sia considerato quanto profondamente <strong>di</strong>pendano dalla volontà umana<br />

tutti i giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> valore, ai quali appartengono anche i giu<strong>di</strong>zi estetici.<br />

<strong>La</strong> menzogna <strong>della</strong> mancanza <strong>di</strong> interesse nell’interesse artistico – <strong>di</strong><br />

cui si chiacchiera – <strong>di</strong>venta chiarissima quando si pensa ai filosofi che<br />

hanno fatto un ulteriore passo avanti e, in modo del tutto conseguente,<br />

hanno chiamato il go<strong>di</strong>mento estetico privo <strong>di</strong> passione. Solo uno scrittore<br />

d’arte che non avesse mai esperito la sensazione del bello, potrebbe<br />

spingersi così lontano. Possono esserci delle persone che proprio non<br />

conoscono un’eccitazione più forte e passionale <strong>di</strong> quella che è connessa<br />

all’u<strong>di</strong>re una sinfonia <strong>di</strong> Beethoven, l’ottava per esempio, al primo<br />

sguardo sulla Madonna Sistina, alla prima lettura del Faust. Tutto viene<br />

sconvolto, le fondamenta <strong>della</strong> volontà che la coscienza non raggiunge.<br />

O<strong>di</strong>o e amore sono eccitati, si è spinti all’azione e questo gli scrittori<br />

d’arte lo chiamano mancanza <strong>di</strong> interesse, mancanza d’affetto.<br />

Tra i miei esempi <strong>della</strong> forza eccitatrice delle arti può far eccezione<br />

la musica, poiché la musica agisce in modo imme<strong>di</strong>ato sul sentimento.<br />

Allora però la musica dovrebbe essere esclusa dall’ambito dell’arte “<strong>di</strong>sinteressata”,<br />

il che non si può tuttavia pensare seriamente. Lo stesso<br />

Hanslick, famoso estetico musicale, del quale ora piace negare i meriti a<br />

causa del suo o<strong>di</strong>o contro Wagner, lo si intende male se si ritiene la sua<br />

teoria del “bello musicale” come una estetica formale pura. Anch’egli<br />

dà contenuto alla musica, solo che il contenuto ha da essere musicale.<br />

«In confronto all’arabesco la musica è in realtà un’immagine, tale che il<br />

suo oggetto non può essere racchiuso in parole ed esaurito dai concetti.<br />

In musica c’è senso e continuità, ma intesi in senso musicale; essa è<br />

un linguaggio che noi parliamo e compren<strong>di</strong>amo, ma che non siamo<br />

in grado <strong>di</strong> tradurre» (p. 79 28 ). Non c’è nella musica alcuna contrapposizione<br />

tra forma e contenuto. «A che cosa si vuole dare il nome <strong>di</strong><br />

contenuto? Ai suoni stessi? Certo, ma essi hanno già una forma. Che<br />

cosa chiameremo forma? (86) Ancora una volta i suoni stessi, ma in<br />

quanto sono una forma compiuta» (p. 213 29 ). All’esercizio <strong>di</strong> un secolo<br />

<strong>di</strong> estetica scientifica che, non contento <strong>di</strong> indagare il sentimento<br />

aggettivo del bello, ha voluto scoprire nelle opere d’arte e persino nella<br />

natura la bellezza obiettiva, sostantiva, a questo esercizio, ufficioso e<br />

quin<strong>di</strong> spesso ipocrita, è riuscito <strong>di</strong> degradare il bello. L’arte o la bellezza<br />

obiettiva venne sopravvalutata e considerata una <strong>di</strong>vinità; tutti gli<br />

147


artisti “creatori” (avrei quasi detto alla berlinese Künstlehr) <strong>di</strong>vennero<br />

sacerdoti dell’arte. Nessuna meraviglia che questa gente proveniente<br />

dal mondo verbale (pittore, scultore, poeta, compositore sono nomina<br />

agentis) si sia subito messa insieme in una casta <strong>di</strong> sacerdoti che salvaguarda<br />

gli interessi <strong>di</strong> casta al servizio <strong>della</strong> sua arte <strong>di</strong>sinteressata! Che<br />

miracolo che, dopo le chiacchiere <strong>di</strong> maniera sul significato dell’arte,<br />

ogni Künstlehr si ritenga o si <strong>di</strong>chiari un superuomo e pretenda decime,<br />

da omuncoli e donnine! E il bello aggettivo, l’unico vero in questo<br />

mondo, è <strong>di</strong>ventato allora una merce, una merce <strong>di</strong> scambio dei sacerdoti<br />

dell’arte. Anche qui il sacerdote <strong>di</strong>gerisce il cibo che i fedeli hanno<br />

portato da mangiare al <strong>di</strong>o.<br />

Verità (Wahrheit)<br />

(409) <strong>La</strong> scepsi è dubbio. Chi crede, crede a una verità. <strong>La</strong> verità<br />

personificata, la verità eterna, la stabilis veritas, perché è già <strong>di</strong> per sé<br />

Dio, sta davanti al credente (410) Agostino in modo quasi grottesco.<br />

Erit veritas etiamsi mundus intereat. Se la verità attenga alle cose o<br />

al pensiero umano, alle nostre rappresentazioni o ai nostri giu<strong>di</strong>zi, su<br />

questo si è filosofato all’infinito. Tutti i logici hanno limitato il concetto<br />

<strong>di</strong> verità al pensiero o al giu<strong>di</strong>zio: Aristotele, Tommaso, Descartes, ma<br />

anche Hobbes.<br />

Ora che ci avviciniamo alla fine <strong>della</strong> ricerca e che la <strong>parola</strong> verità<br />

non costituisce più per noi un feticcio, possiamo entrare con serenità nel<br />

merito <strong>della</strong> <strong>di</strong>sputa antica. Chi colloca la verità nelle cose, presta fede ai<br />

suoi sensi; nel momento in cui crede due volte alle sue impressioni sensoriali,<br />

le pone due volte, una volta dal lato del soggetto e una volta da<br />

quello dell’oggetto, ne deduce l’accordo tra apparenza e realtà e chiama<br />

verità il fatto che cose identiche siano identiche. Chi pone la verità nel<br />

suo giu<strong>di</strong>zio, conferisce al concetto <strong>di</strong> verità un contenuto, se possibile,<br />

ancora minore: in primo luogo egli giu<strong>di</strong>ca (ovviamente in modo corretto,<br />

vale a <strong>di</strong>re: secondo la sua miglior consapevolezza logica), poi crede<br />

alla correttezza dei suoi corretti giu<strong>di</strong>zi e chiama questa sua credenza<br />

verità. Hobbes, che io ho collocato tra i pensatori che ponevano la verità<br />

soltanto nel giu<strong>di</strong>zio, ha già tratto le conseguenze <strong>di</strong> questa posizione.<br />

Noi non conosciamo altri giu<strong>di</strong>zi che quelli linguistici; quin<strong>di</strong> vero e<br />

falso sono attributi del <strong>di</strong>scorso, delle parole, <strong>di</strong> una proposizione. E<br />

una proposizione è vera, se il pre<strong>di</strong>cato contiene in sé il soggetto. Non<br />

credo <strong>di</strong> travisare la posizione del potente Hobbes, se la espongo nel<br />

modo seguente: solo le proposizioni tautologiche sono vere.<br />

Ci sono sempre stati dei dogmatici, uomini che credettero solo al<br />

Dio onnisciente e infinitamente buono che non avrebbe potuto ingannarci<br />

nella fede nella sua verità, oppure uomini che credettero in<br />

un sistema rigido. Ci sono sempre stati gli spiriti liberi, gli eretici in<br />

religione e in filosofia, gli scettici, che applicarono l’idea che tutta la<br />

nostra conoscenza è relativa anche al concetto del conoscere più alto,<br />

148


alla verità. Herbart («noi (411) viviamo nelle relazioni e non abbiamo<br />

bisogno <strong>di</strong> altro»), Spencer («noi pensiamo nelle relazioni») si sono<br />

spaventati proprio <strong>della</strong> <strong>parola</strong> eretica relatività; essi non negano affatto<br />

l’assoluto, il reale, esso è per noi semplicemente unknowable. Non<br />

sappiamo proprio niente altro che relazioni, perché il nostro sapere è<br />

esso stesso solo una relazione, un rapporto dell’io con l’altro. Solo un<br />

logico logicista (Stocklogiker) come Husserl può volerlo negare: «ciò<br />

che è vero, è assoluto, è vero in sé». In fondo del tutto corretto: si<br />

dovrebbe solo chiamare vero il vero assoluto, quin<strong>di</strong> non usare proprio<br />

la <strong>parola</strong> vero.<br />

Questo relativismo del concetto <strong>di</strong> verità lo ha espresso bene Goe- Goe-<br />

the in tutta la sua saggezza: «se io conosco il mio rapporto con me<br />

stesso e con il mondo esterno, lo chiamo verità. E così ciascuno può<br />

avere la sua verità ed è comunque sempre la stessa». Oltre a questo<br />

Goethe ha anche affermato chiaramente che il concetto <strong>di</strong> verità aderisce<br />

alle parole (Spr. i. Pr. 51 30 ): «l’errore si ripete continuamente<br />

nell’azione, per questo non ci si deve stancare <strong>di</strong> ripetere il vero nelle<br />

parole». Sarebbe utile se il più saggio dei Tedeschi venisse citato più<br />

spesso <strong>di</strong> quanto accade nelle <strong>di</strong>atribe filosofiche.<br />

Il timore del relativismo deriva propriamente dal fatto che i dogmatici<br />

assumono verità eterne, assolute non solo nell’ambito del conoscere,<br />

ma anche all’interno del santuario <strong>della</strong> morale. Se anche le<br />

verità morali venivano <strong>di</strong>chiarate relative, allora anche il mondo doveva<br />

cadere a pezzi. Allora la menzogna e il <strong>di</strong>avolo non erano più neri.<br />

Allora la menzogna non era più peccato, e all’umanità veniva strappato<br />

via ogni valore. Il giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> valore sul concetto <strong>di</strong> verità, la mescolanza<br />

internazionale <strong>di</strong> verità e <strong>di</strong> veri<strong>di</strong>cità agivano <strong>di</strong> comune accordo,<br />

quando ci si spaventava <strong>di</strong> fronte alla <strong>di</strong>fesa antimorale <strong>della</strong> menzogna<br />

<strong>di</strong> Nietzsche. Di fronte alla dottrina <strong>di</strong> Nietzsche: che l’errore sia il<br />

principio che mantiene in vita.<br />

Le declamazioni contro la menzogna come vero e proprio vizio<br />

<strong>di</strong>abolico sono state da sempre comuni ai teologi cristiani (nonostante<br />

il Vangelo <strong>di</strong> Giovanni, 7, 8 ss.); in ambito filosofico Kant (412) ha<br />

cercato per primo <strong>di</strong> fondare questa ripugnanza <strong>di</strong> fronte alla menzogna<br />

nella facoltà del linguaggio dell’uomo «in modo piatto, infantile e<br />

senza gusto» (secondo le parole <strong>di</strong> Schopenhauer); questa ripugnanza<br />

incon<strong>di</strong>zionata si baserebbe però «sull’affezione o sul pregiu<strong>di</strong>zio»; è<br />

noto che Schopenhauer approva la menzogna almeno laddove sarebbe<br />

permessa come legittima <strong>di</strong>fesa. Anche Bacone, il fine conoscitore degli<br />

uomini, è un <strong>di</strong>fensore <strong>della</strong> menzogna; nel suo saggio Della verità egli<br />

paragona la verità a una perla cha fa la sua miglior figura <strong>di</strong> giorno, ma<br />

non raggiunge mai il prezzo <strong>di</strong> un <strong>di</strong>amante che si lascia osservare al<br />

meglio al bagliore <strong>di</strong> una candela; la mendace mascherata del mondo;<br />

la mescolanza con la menzogna e l’inganno sarebbe simile all’aggiunta<br />

<strong>di</strong> metallo comune nelle monete d’oro e d’argento, aggiunta che<br />

149


solo rende il metallo adatto alla lavorazione. Spessissimo la menzogna<br />

viene giustificata o ad<strong>di</strong>rittura lodata dai poeti che certo a essa sono<br />

i più vicini; non è mai stato detto qualcosa <strong>di</strong> più benigno <strong>di</strong> quello<br />

che viene detto da Grillparzer alla fine <strong>della</strong> sua comme<strong>di</strong>a satirica,<br />

condensato <strong>di</strong> umanità e saggezza, Weh dem, der lügt: «<strong>La</strong> mala erba<br />

(la menzogna), a quel che vedo, non si estirpa. | Ed è fortuna se poi<br />

vi cresce sopra il grano» 31 .<br />

Non è mai stato detto qualcosa <strong>di</strong> più terribile <strong>di</strong> quello che viene<br />

detto da Ibsen nell’Anatra selvatica: il me<strong>di</strong>co Relling salva le persone<br />

che gli sono care conservando in loro la menzogna vitale, il principio<br />

stimolante, il cauterio che mette loro sulla nuca. Così una menzogna<br />

vitale è lo scherzo che egli ha escogitato per mantenere l’uomo in vita:<br />

«se all’uomo me<strong>di</strong>o si toglie la menzogna vitale, gli si toglie contemporaneamente<br />

anche la felicità. [...] Non usi la <strong>parola</strong> straniera ideali;<br />

poiché l’abbiamo già la nostra buona <strong>parola</strong> menzogne» 32 .<br />

Ibsen conservò la <strong>parola</strong>, e la menzogna vitale che la conservava<br />

corrisponde sorprendentemente bene al pensiero <strong>di</strong> Nietzsche sull’utilità<br />

biologica dell’errore. È <strong>di</strong>fficile, come sempre in Nietzsche, far funzionare<br />

questo pensiero in modo netto e chiaro. Non perché Nietzsche<br />

non abbia lasciato un sistema, nemmeno perché sia stato uno scrittore<br />

<strong>di</strong> aforismi. È proprio <strong>di</strong> Nietzsche la splen<strong>di</strong>da affermazione: «la volontà<br />

<strong>di</strong> sistema è una mancanza <strong>di</strong> onestà» 33 . Gli aforismi sono sempre<br />

mezze verità; poiché (413) però non abbiamo mai la verità intera, la<br />

metà <strong>di</strong>venta più dell’intero. Anche la mania, spinta fino al patologico,<br />

<strong>di</strong> passare con le stampelle del linguaggio da antitesi <strong>di</strong> giochi linguistici<br />

a paradossi che eccedono se stessi può solo raramente intorbi<strong>di</strong>re il<br />

piacere limpido per la personalità scettica <strong>di</strong> Nietzsche. Ma l’interesse<br />

passionale <strong>di</strong> Nietzsche per il pensiero in tutte le sue “poesie concettuali”<br />

riguarda la vita, riguarda l’inversione dei valori <strong>della</strong> vita; egli<br />

ha portato avanti ricerche nell’ambito <strong>della</strong> teoria del conoscere solo<br />

accidentalmente, ed era così poco contento <strong>di</strong> queste irruzioni, <strong>di</strong> questi<br />

fuochi d’artificio o <strong>di</strong> questi lampi <strong>di</strong> genio, che quasi non li pubblicò<br />

mai, che non ci mostrò mai l’impalcatura del suo filosofare, abbastanza<br />

non-tedesco, visto che il più grande filosofo tedesco è <strong>di</strong>ventato famoso<br />

soprattutto grazie all’impalcatura con cui schiaccia spesso sé stesso e<br />

noi. L’ideale tedesco dell’intellettuale sarebbe <strong>di</strong> lasciare stare l’impalcatura<br />

attorno a ogni duomo per tempi infiniti. Nietzsche ha pensato solo<br />

<strong>di</strong> rado in modo concluso, ma la profanazione pietosa <strong>di</strong> cadaveri lo ha<br />

buttato sul mercato, e ora si cerca <strong>di</strong> ricostruire la teoria del conoscere<br />

<strong>di</strong> Nietzsche solo dai volumi <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nati del Nachlass.<br />

Errore e menzogna <strong>di</strong>ventano per Nietzsche concetti interscambiabili<br />

perché egli, in questo “non-tedesco” e <strong>di</strong> nuovo il più tedesco dei Tedeschi,<br />

non era un commerciante del negozio del pensiero speculativo,<br />

ma soffriva troppo profondamente per il suo pensiero che egli sentiva<br />

profondamente. Come si può continuare a vivere, se si è penetrati con<br />

150


lo sguardo nella menzogna vitale? Se si sgomitolano le illusioni che mantengono<br />

in vita? Nella risposta a questa domanda faustiana sta tutto il<br />

Nietzsche, malato affascinante. <strong>La</strong> massa crede alle illusioni, quin<strong>di</strong> non<br />

si lascia <strong>di</strong>sturbare. Il pensatore che è giunto <strong>di</strong>etro il segreto dell’errore<br />

vitale o <strong>della</strong> menzogna vitale, affonda, se è un codardo. Solo il<br />

più forte, il povero Nietzsche malato, sopporta la verità che non ci sia<br />

nessuna verità.<br />

«<strong>La</strong> falsità <strong>di</strong> un giu<strong>di</strong>zio non è per noi ancora, per noi, un’obiezione<br />

contro <strong>di</strong> esso […]. <strong>La</strong> questione è fino a che punto questo giu<strong>di</strong>zio<br />

promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse ad<strong>di</strong>rittura<br />

concorra al suo sviluppo; e noi siamo fondamentalmente propensi ad<br />

affermare che i giu<strong>di</strong>zi più falsi (414) […] sono per noi i più in<strong>di</strong>spensabili,<br />

[…] che rinunciare ai giu<strong>di</strong>zi falsi sarebbe un rinunciare<br />

alla vita, una negazione <strong>della</strong> vita» 34 . <strong>La</strong> verità ha un valore morale,<br />

la non-verità ne ha uno biologico. Essere conforme al vero (wahrhaft)<br />

significa «<strong>di</strong>re menzogne in gruppo». Diciamo veri gli errori che sono<br />

<strong>di</strong>ventati carne. Nietzsche chiama vero ciò che ci è utile, come l’umanità<br />

fin dai tempi dell’origine ha chiamato buono ciò che gli era utile.<br />

Con la stessa sequenza <strong>di</strong> parole i pragmatisti intendono qualcosa <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>verso. Nietzsche ha potuto ripetere contro il concetto <strong>di</strong> verità quello<br />

che sempre Spinoza aveva enunciato contro il concetto <strong>di</strong> bene. Basta<br />

una sola considerazione per dargli ragione: l’umanità non ha mai posseduto<br />

la verità fin dal suo esistere e tuttavia ha continuato a vivere.<br />

Solo che è <strong>di</strong> nuovo un gioco con le parole chiamare con il termine<br />

<strong>della</strong> negazione e dell’insulto, errore o menzogna, il positivo, che solo<br />

può essere ciò che mantiene in vita, perché non lo conosciamo 35 . Ciò<br />

che è unknowable, è unknowable, che lo si celebri come l’assoluto o<br />

lo si designi senza rispetto come errore. <strong>La</strong> voce inglese agnosticism<br />

non è poi così male.<br />

In riferimento al linguaggio Richter, invero in modo infelice, nel suo<br />

libro – che peraltro vale la pena <strong>di</strong> leggere per il suo grande valore – ha<br />

classificato l’agnosticismo in<strong>di</strong>vidualistico <strong>di</strong> Nietzsche come scetticismo<br />

biologico; Nietzsche valuta verità ed errore dal punto <strong>di</strong> vista biologico;<br />

“scetticismo biologico” ricorda un po’ la caserma dell’artiglieria a cavallo<br />

(me la ricorda anche lo “scetticismo linguistico” con cui Richter<br />

onora anche le mie idee, Richter, ii, p. 453 36 ). Nietzsche non voleva,<br />

come Hume, essere chiamato scettico. Gli scettici greci che coerentemente<br />

definirono impossibile ogni giu<strong>di</strong>zio, non avrebbero nemmeno<br />

potuto vivere, se fossero stati del tutto coerenti. L’asino <strong>di</strong> Buridano,<br />

che a causa <strong>della</strong> mancanza <strong>di</strong> libertà del volere, del volere umano<br />

(avrei detto io), deve morire <strong>di</strong> fame tra due fascine <strong>di</strong> fieno esattamente<br />

uguali, sembra un asino più intelligente rispetto all’asino scettico che<br />

non può mangiare la sua unica fascina, perché dubita <strong>della</strong> realtà del<br />

fieno, e non sa nemmeno se sia un asino e se possa davvero mangiare.<br />

Allo stesso modo avrebbe dovuto far morire <strong>di</strong> fame l’umanità questo<br />

151


asino scettico, se essa avesse vissuto secondo la teoria scettica, l’unica<br />

verità. Nietzsche, appassionato <strong>della</strong> vita, non volle essere un tal scettico,<br />

certo nemmeno uno scettico biologico. Si può chiamare la sua teoria<br />

“relativismo in<strong>di</strong>vidualistico”, se proprio la si vuol classificare: «ciò che<br />

mi manda in rovina per me non è vero, cioè è una relazione falsa del<br />

mio essere con altre cose. Infatti c’è solo una verità in<strong>di</strong>viduale – una<br />

relazione assoluta è un non senso». Non posse<strong>di</strong>amo allora nessuna<br />

verità che sia assoluta, dobbiamo accontentarci delle opinioni, <strong>della</strong><br />

credenza (Glauben) che ci viene incontro come surrogato <strong>della</strong> verità<br />

per la terza volta.<br />

Il linguaggio si stanca a forza <strong>di</strong> <strong>di</strong>menarsi pietosamente con tali<br />

concetti. Vero dovrebbe essere ciò che corrisponde alla realtà. Chiamiamo<br />

credenza il nostro rapporto con le rappresentazioni o con i giu<strong>di</strong>zi,<br />

quando li consideriamo veri, cioè quando non sappiamo che sono veri,<br />

quando quin<strong>di</strong> non li consideriamo veri. Sarebbe molto meglio (416)<br />

optare per la rassegnazione, entrare nell’or<strong>di</strong>ne degli Ent-sagenden <strong>di</strong><br />

Goethe.<br />

<strong>La</strong> lingua tedesca ha formulato una volta un Witz pazzesco e ha<br />

tolto la pelle al concetto <strong>di</strong> verità. Un’asserzione <strong>di</strong> verità era nel me<strong>di</strong>o<br />

alto tedesco allwaere (antico alto tedesco alawâr = verissimus).<br />

Quando non si sentì più la sua origine, ne venne fuori per mutamento<br />

fonetico alber, da Gottsched e Gellert albern. Noi sappiamo cosa<br />

significa ora questo antico alwaere. Lutero traduce: ein Alber gläubt<br />

alles (uno sciocco crede a tutto, Spr. Sal. 14, 1537).<br />

Mondo aggettivo<br />

(W i, 17) Il termine grammaticale adjektivum è notoriamente la<br />

traduzione del greco ejpivqeton; è anche noto che Aristotele – che in<br />

ogni caso non era un grammatico – non aveva alcuna idea <strong>della</strong> categoria<br />

dell’aggettivo, che per lui ejpivqeton consisteva nel caso speciale<br />

dell’epitheton ornans poetico. In seguito, con ejpivqeton i grammatici<br />

greci continuavano a pensare in primo luogo a elogio o biasimo, ma<br />

aggiunsero lentamente alle proprietà dell’anima e del corpo altre parole<br />

qualitative.<br />

Se mai i Greci fossero stati portati alla ricerca gnoseologica, come<br />

fondatore <strong>della</strong> logica Aristotele avrebbe comunque dovuto prendere<br />

in considerazione anche il significato grammaticale dell’aggettivo.<br />

Nella mia Kritik der Sprache (B ii, p. 94 s.) ho cercato <strong>di</strong> mostrare<br />

che l’aggettivo nella storia <strong>della</strong> grammatica è la parte del <strong>di</strong>scorso<br />

più giovane, ma nella storia dell’intelletto la più antica. Cosa sia una<br />

cosa me lo <strong>di</strong>cono le sue proprietà, al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> esse la domanda è<br />

metafisica. «<strong>La</strong> costituzione <strong>della</strong> corporeità a partire dalle qualità si<br />

completa a livello prelinguistico; anche la scimmia, quando mangia una<br />

mela, probabilmente mette insieme a partire dalle qualità <strong>di</strong> liscio, dolce,<br />

rosso, pesante, ecc. l’ipotesi <strong>della</strong> cosa-mela» 38 . Il mondo aggettivo<br />

152


è l’unico mondo a noi accessibile me<strong>di</strong>ante le impressioni sensoriali; il<br />

mondo sostantivo è lo stesso mondo dato ancora una volta, concepito<br />

sotto l’ipotesi <strong>della</strong> cosalità.<br />

Non credo <strong>di</strong> avere la tendenza a costringere le mie osservazioni<br />

in un sistema. Ma l’applicazione <strong>di</strong> una concezione del mondo – che<br />

ci terrà occupati ancora per molto – al concetto <strong>di</strong> appercezione mi<br />

trae fuori dall’isolamento nominalistico. Il linguaggio umano, che si<br />

costituisce attraverso l’appercezione ed è costituito dall’appercezione,<br />

ha formato da sempre tre categorie, con l’aiuto delle quali cercava <strong>di</strong><br />

comprendere il mondo: l’aggettivo, il verbo e il sostantivo. Mi sembra<br />

ora possibile (18) ripartire ancora una volta in queste tre categorie, in<br />

modo <strong>di</strong>verso da come è stato fatto finora, il processo interno delle<br />

appercezioni che nel loro insieme costituiscono il pensiero.<br />

C’è un mondo aggettivo, l’unico mondo del quale facciamo esperienza<br />

in modo imme<strong>di</strong>ato attraverso i sensi; tutte le nostre sensazioni,<br />

tutti i nostri dati dei sensi sono aggettivi; aggettive sono inoltre anche<br />

tutte le nostre sensazioni dell’anima, i nostri giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> valore, tutto ciò<br />

che chiamiamo giusto, buono, bello ecc. Questo mondo aggettivo si<br />

frantuma in singole impressioni, non si costituisce in forme unitarie,<br />

lo si potrebbe chiamare un mondo a puntini (pointilliert).<br />

Se vogliamo congiungere i punti in unità, se vogliamo <strong>di</strong>rigere l’attenzione<br />

su delle unità (con questo non bisogna <strong>di</strong>menticare che l’attenzione<br />

viene stimolata da unità o forme misteriose nelle cose), dobbiamo<br />

considerare, cioè pensare, cioè rivolgere la capacità <strong>di</strong> appercepire alle<br />

impressioni dei sensi. <strong>La</strong> congiunzione delle sensazioni in unità me<strong>di</strong>ante<br />

l’attività <strong>della</strong> memoria la si potrebbe chiamare il mondo verbale (un<br />

po’ più audace dell’espressione mondo aggettivo <strong>di</strong> poco fa). Oppure,<br />

mettendo sullo stesso piano attività ed efficacia, il mondo causale. Il<br />

mondo a puntini delle impressioni passive dei sensi si trasforma me<strong>di</strong>ante<br />

l’operare dell’appercezione nel mondo in <strong>di</strong>venire, nella trama<br />

del mondo, in ciò che fluisce.<br />

Le masse delle appercezioni o il pensare non sono in questione prima<br />

che il pensare sia giunto alla <strong>parola</strong>. Abbiamo parole per il mondo<br />

aggettivo (blu, rumoroso, dolce, duro, giusto, bello), ma tutte queste<br />

parole infilzano l’impressione con la punta dell’ago del momento e non<br />

ci lasciano scorgere o ad<strong>di</strong>rittura descrivere la cosiddetta totalità. Il<br />

mondo aggettivo è il mondo dell’animale. Il mondo verbale vi si aggiunge<br />

e ha designazioni per il <strong>di</strong>venire e il trascorrere, per il godere<br />

e il soffrire, per il cambiare e il rimanere, per il causare e l’obbe<strong>di</strong>re.<br />

Il mondo verbale lo si può descrivere. Tuttavia l’impertinente <strong>parola</strong><br />

umana lo vorrebbe anche spiegare. Vorrebbe trovare un’espressione<br />

non solo per le sensazioni del momento e per i mutamenti (19) nello<br />

spazio, ma anche per l’essente, per ciò che permane nel tempo, per le<br />

sostanze. E la <strong>parola</strong> impertinente si crea (solo per sé, la <strong>parola</strong> per la<br />

<strong>parola</strong>) il mondo sostantivo, il mondo delle cose e delle forze, il mondo<br />

153


degli dei e degli spiriti, un mondo del quale la memoria dell’umanità<br />

non sapeva nulla prima che la <strong>parola</strong> se lo fosse procurato. E poiché<br />

il mondo sostantivo gode <strong>della</strong> più alta considerazione tra il popolo<br />

e parimenti da sempre è stato, presso “i muti del cielo”, presso i più<br />

profon<strong>di</strong> pensatori o i mistici, il mondo <strong>della</strong> nostalgia, così non avrei<br />

nulla in contrario se si volesse chiamare il mondo sostantivo del tutto<br />

irreale: il mondo mistico.<br />

Mondo sostantivo<br />

(W ii, 262) Abbiamo conosciuto l’unico mondo <strong>della</strong> nostra esperienza,<br />

il mondo reale, il mondo del sensismo, come quel mondo per<br />

la descrizione del quale il linguaggio ha a <strong>di</strong>sposizione i suoi aggettivi;<br />

abbiamo supposto che l’aggettivo sia davvero la più giovane parte del<br />

<strong>di</strong>scorso <strong>della</strong> grammatica, ma la più antica parte del <strong>di</strong>scorso nella<br />

storia dell’intelletto. Abbiamo già spiegato là che il linguaggio ha creato<br />

a suo uso e consumo il mondo sostantivo, il mondo degli dei e degli<br />

spiriti, il mondo delle cose e delle forze. Il mondo sostantivo è il mondo<br />

mitologico.<br />

Questa rappresentazione sarebbe una banalità se si pensasse soltanto<br />

che i sostantivi astratti, con cui una ragione sincera non sa pensare<br />

nulla, appartengono a un mondo mitologico. No. Non solo gli dei e<br />

gli spiriti sono mitologici, ma anche le forze apparentemente ben conosciute<br />

<strong>della</strong> fisica e <strong>della</strong> biologia sono cause mitologiche; anche le<br />

cose stesse, le cose singole <strong>della</strong> nostra esperienza aggettiva sono solo<br />

simboli nei quali riassumiamo le cause mitologiche dei loro effetti aggettivi.<br />

Per i sostantivi astratti la spiegazione è ancora più semplice.<br />

Le lingue germaniche hanno più delle altre la tendenza a designare<br />

le cose astratte, quelle cose delle quali sappiamo ancor meno rispetto<br />

alle cose corporee, con parole doppie che, per il mio senso <strong>della</strong> lingua,<br />

hanno in sé qualcosa <strong>di</strong> pleonastico. Freundschaft (amicizia) non <strong>di</strong>ce,<br />

nella mia relazione con N., niente (263) <strong>di</strong> più del fatto che noi siamo<br />

Freunde (amici); l’attuale suffisso -schaft era originariamente lo stesso<br />

che “stato” e venne poi a designare un concetto collettivo. Bürgerschaft<br />

(citta<strong>di</strong>ni), Judenschaft (ebrei) non <strong>di</strong>cono niente <strong>di</strong> più che Bürger (citta<strong>di</strong>ni),<br />

Juden (ebrei); Wissenschaft (scienza), lo zainetto pieno <strong>di</strong> sapere,<br />

niente <strong>di</strong> più <strong>di</strong> wissen (sapere). Anche il suffisso -heit era una <strong>parola</strong><br />

autonoma e designava una con<strong>di</strong>zione; Freiheit (libertà), Gleichheit<br />

(uguaglianza) non <strong>di</strong>cono niente <strong>di</strong> più <strong>di</strong> frei (libero), gleich (uguale);<br />

-heit però, come -schaft, ha assunto il significato <strong>di</strong> un collettivo, e Christenheit<br />

(cristianità) non <strong>di</strong>ce niente <strong>di</strong> più <strong>di</strong> Christen (cristiani); certamente<br />

solo un turco che parla tedesco <strong>di</strong>rebbe Christenschaft; infine si<br />

mette -heit in modo del tutto pleonastico in Gottheit (<strong>di</strong>vinità), Schönheit<br />

(bellezza). Anche -tum era una <strong>parola</strong> autonoma; se <strong>di</strong>ciamo Eigentum<br />

(proprietà), non pensiamo niente <strong>di</strong> più che con l’aggettivo eigen (proprio),<br />

che è propriamente il participio <strong>di</strong> un antico verbo <strong>di</strong>menticato<br />

154


eigan, che significa besessen (posseduto), in contrapposizione a una cosa<br />

senza padrone; soltanto il capriccio dell’uso linguistico <strong>di</strong>stingue tra<br />

Eigentum, Eigenheit e Eigenschaft; un tempo si <strong>di</strong>ceva mein Eigen dove<br />

ora <strong>di</strong>ciamo mein Eigentum.<br />

È poi solo un caso <strong>della</strong> storia <strong>della</strong> lingua che le cose concrete non<br />

abbiano forme così forzate delle parole. Che non <strong>di</strong>ciamo Pferde<strong>di</strong>ng<br />

(cosa-cavallo), Apfel<strong>di</strong>ng (cosa-mela) per Pferd, per Apfel o forse Pferdetum,<br />

Apfelheit; il francese maison è derivato dall’altrettanto astratto<br />

latino mansio, luogo nel quale si rimane. In un certo senso i sostantivi<br />

più concreti sono pseudoconcetti proprio come i mostri concettuali<br />

più astratti <strong>della</strong> scolastica.<br />

Se per una temeraria formazione analogica non ci fossimo abituati<br />

ad attribuire quasi a ogni sostantivo le stesse categorie del caso, del<br />

numero e persino del genere, riconosceremmo subito in queste categorie<br />

l’artificiosità, l’irrealtà <strong>della</strong> formazione del sostantivo. Avvertiremmo<br />

subito che i sostantivi astratti non possono avere alcun rapporto<br />

<strong>di</strong> declinazione tra loro, alcun rapporto numerico in relazione a noi e<br />

davvero nessuna somiglianza con le <strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> genere degli animali.<br />

L’artificiosità <strong>della</strong> <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> genere (264) è evidente anche nella<br />

maggior parte dei sostantivi concreti; la declinazione dei sostantivi concreti<br />

– come da tempo ha <strong>di</strong>mostrato la linguistica – si è però formata<br />

solo metaforicamente secondo l’immagine <strong>di</strong> alcuni rapporti spaziali e<br />

simula soltanto una conoscenza <strong>di</strong> relazioni delle quali possiamo asserire<br />

qualcosa sempre soltanto in immagine; anche il numero dei sostantivi<br />

concreti non è nel mondo dell’esperienza, non è nella singola cosa reale,<br />

non è mai un effetto delle cose su <strong>di</strong> noi, ma è solo nel mondo verbale,<br />

nel bisogno <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne dell’uomo. I numeri infatti non sono percezioni,<br />

non sono mo<strong>di</strong> aggettivi.<br />

L’intelletto umano che, seguendo un istinto remoto, certamento ere<strong>di</strong>tato<br />

dall’animale, concepisce le cause comuni delle impressioni aggettive<br />

come sostantivi, simula quin<strong>di</strong> un mondo sostantivo proprio con<br />

gli stessi mezzi con i quali lo scherzo ottico dei fisici simula per noi la<br />

presenza <strong>di</strong> un corpo me<strong>di</strong>ante specchi <strong>di</strong>sposti abilmente e lenti scelte<br />

in modo appropriato. Ho già detto da qualche parte che potremmo<br />

credere a ragione <strong>di</strong> percepire una mela se un un giocoliere sovrumano<br />

potesse simulare per noi la forma, il colore, la consistenza, il gusto e il<br />

profumo <strong>di</strong> una mela. Solo che noi ci saziamo con la cosiddetta mela<br />

reale che possiamo <strong>di</strong>gerire; ma anche questo <strong>di</strong>pende <strong>di</strong> nuovo dagli<br />

effetti aggettivi <strong>della</strong> mela reale, effetti che un giocoliere ancor più<br />

sovrumano potrebbe simulare.<br />

Mondo verbale<br />

(W iii, 359) i. Nel nostro pensiero o nel nostro linguaggio, accanto<br />

al mondo aggettivo, l’unico vero mondo dell’esperienza o del sensismo,<br />

c’è anche un mondo sostantivo (360) dell’essere o dello spazio, che<br />

155


abbiamo conosciuto come il mondo mitologico e (a un livello più alto)<br />

come il mondo <strong>della</strong> mistica; c’è poi però anche un mondo verbale, il<br />

mondo del <strong>di</strong>venire. Lo spazio è la con<strong>di</strong>zione del mondo sostantivo,<br />

il tempo è la con<strong>di</strong>zione del mondo verbale. Spazio e tempo si <strong>di</strong>stinguono<br />

essenzialmente per il fatto che lo spazio viene consumato solo<br />

in relazione a un determinato tempo, il tempo invece viene sempre<br />

consumato quasi come una forza, appena accade qualcosa. Nell’abisso<br />

del concetto <strong>di</strong> causa mi sembra <strong>di</strong> intravedere la possibilità <strong>di</strong> <strong>di</strong>re<br />

che spazio e tempo siano le con<strong>di</strong>zioni dell’esperienza, che lo spazio<br />

sia la con<strong>di</strong>zione dell’essere, il tempo la con<strong>di</strong>zione del <strong>di</strong>venire, ma<br />

che in nessuno <strong>di</strong> questi casi si possano chiamare cause lo spazio e il<br />

tempo.<br />

Kant ha aggirato la <strong>di</strong>fficoltà, che Hume non aveva proprio notato,<br />

assegnando al soggetto lo spazio e il tempo come forme dell’intuizione,<br />

togliendoli alle cose in sé, che egli riteneva proprio le cose-cause originarie<br />

(Ur-sachen). Ma almeno il tempo, come con<strong>di</strong>zione del <strong>di</strong>venire,<br />

non lo si può staccare né dal soggetto né dall’oggetto, a meno che non<br />

lo si pensi misticamente del tutto inesistente. Il mondo verbale non<br />

vede altro che il modo dell’interazione, quello che noi chiamiamo le relazioni<br />

delle cose con noi e le relazioni delle cose tra <strong>di</strong> loro. Il <strong>di</strong>venire<br />

e il trascorrere, cioè il mondo oggettivo, liberato dalla superstizione del<br />

realismo ingenuo, è oggetto del mondo verbale: l’aver effetto; ma anche<br />

l’aver effetto su <strong>di</strong> noi, che viene imme<strong>di</strong>atamente colto come mondo<br />

aggettivo, appartiene anch’esso – appena lo abbiamo riconosciuto come<br />

un aver effetto – al mondo verbale. Il sapere <strong>di</strong> un mondo aggettivo, il<br />

formare dei concetti, il pensare o il parlare sono verbali.<br />

Il concetto più generale per questo <strong>di</strong>venire, per questo flusso delle<br />

cose, sarebbe il concetto <strong>di</strong> movimento. E qui l’espressione mondo<br />

verbale non sembra del tutto appropriata, perché i verbi non designano<br />

sempre attività o movimenti o mutamenti in generale, ma spesso<br />

(almeno ora) (361) stati <strong>di</strong> quiete. Ho detto: “almeno ora”, perché non<br />

si può del tutto escludere la supposizione che originariamente i nostri<br />

termini che in<strong>di</strong>cano tempo e attività designassero <strong>di</strong> regola un’attività<br />

<strong>di</strong> carattere sensibile, anche se non posso ammettere l’assunzione<br />

ulteriore <strong>di</strong> tutti i sanscritisti che tutte le cosiddette ra<strong>di</strong>ci linguistiche<br />

siano sempre state all’origine concetti <strong>di</strong> attività.<br />

Non voglio nemmeno negare che nell’espressione mondo verbale<br />

(per il mondo del <strong>di</strong>venire e del nostro sapere del <strong>di</strong>venire) siano contenuti<br />

alcuni errori minimali. I termini che designano propriamente delle<br />

attività a cui ho pensato in un primo tempo nella teoria dello scopo<br />

nel verbo (B iii, p. 59), non hanno, nella psicologia del linguaggio,<br />

esattamente lo stesso carattere dei verbi che designano un’attività <strong>della</strong><br />

natura fisica: un movimento per es. dell’acqua, del suono, <strong>della</strong> luce<br />

o del calore; dal suo punto <strong>di</strong> vista, la grammatica <strong>di</strong>stingue poi verbi<br />

transitivi e intransitivi, oggettivi e soggettivi. Tuttavia alla fine credo<br />

156


che in tutte le nostre lingue i verbi, che esprimono attività spirituali o<br />

persino stati <strong>di</strong> quiete, siano solo creazioni analogiche secondo la forma<br />

e la forma linguistica interna dei verbi; le desinenze verbali ricordavano<br />

che il soggetto faceva qualcosa, che combinava qualcosa. E questa<br />

rappresentazione confusa noi la colleghiamo ancor sempre con tutti i<br />

verbi (Zeitwörter).<br />

Non la colleghiamo però con il verbo più generale, quin<strong>di</strong> quello<br />

più vuoto <strong>di</strong> tutti i verbi, con il concetto <strong>di</strong> essere. Ancora una volta<br />

non posso negare che mi provoca un imbarazzo linguistico il fatto che<br />

questo verbo generalissimo non possa essere inserito nel mondo verbale<br />

e sia invece proprio un sinonimo del mondo sostantivo. Posso solo<br />

ricorrere all’uso linguistico: noi trasferiamo le cause del mondo aggettivo<br />

nei sostantivi <strong>di</strong> cui esprimiamo la realtà o l’essere solo quando<br />

cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> sapere qualcosa delle relazioni <strong>di</strong> queste ipostasi cosali.<br />

(362) ii. Naturalmente la <strong>di</strong>visione dei tre mon<strong>di</strong> secondo le parti<br />

del <strong>di</strong>scorso più importanti <strong>della</strong> grammatica la si deve intendere solo<br />

cum grano salis. L’indeterminatezza del senso grammaticale (cfr. B iii,<br />

p. 1 s.) si rivela chiaramente soprattutto nel fatto che non possiamo<br />

<strong>di</strong>re esattamente cosa siano un aggettivo, un sostantivo, un verbo; la<br />

logica, vale a <strong>di</strong>re la logica scolastica, è certo derivata dalla grammatica<br />

attraverso una non chiarezza <strong>di</strong> Aristotele, <strong>di</strong>ventata storica, ma con<br />

questo la grammatica non è <strong>di</strong>ventata logica. All’ideale dei concetti<br />

logici corrispondono solo i sostantivi, in quanto designano in<strong>di</strong>vidui e<br />

poi concetti <strong>di</strong> genere più generali e sempre più generali. Gli aggettivi<br />

sono da sempre determinazioni <strong>di</strong> impressioni sensibili o <strong>di</strong> sensazioni,<br />

ma nella logica scolastica si devono usare ancor sempre come pre<strong>di</strong>cati<br />

<strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zi e <strong>di</strong> conclusioni <strong>di</strong> implicazione. Nel senso <strong>della</strong> logica <strong>di</strong><br />

implicazione i verbi non sono poi per nulla concetti, essi non designano<br />

concettualmente, come abbiamo visto (B iii, p. 59), la somma <strong>di</strong><br />

percezioni uguali o simili, essi piuttosto riuniscono insieme una somma<br />

<strong>di</strong> mo<strong>di</strong>ficazioni progressive sotto un concetto <strong>di</strong> fine. Nella dottrina<br />

<strong>della</strong> deduzione <strong>della</strong> logica scolastica si può usare in modo preciso<br />

come copula propriamente solo il concetto <strong>di</strong> essere; e questo concetto<br />

conviene, come abbiamo appena visto, piuttosto al mondo sostantivo<br />

che a quello verbale.<br />

Così ho anche ammesso l’errore <strong>di</strong> forma <strong>della</strong> mia <strong>di</strong>visione in tre<br />

del mondo del linguaggio: che cioè si possa percepire in modo imme<strong>di</strong>ato<br />

uno scopo nel verbo solo nelle parole che in<strong>di</strong>cano attività sensibili,<br />

in maniera più chiara in assoluto nei verbi oggettivi, il cui oggetto<br />

sostantivo è soltanto una ripetizione tautologica dello scopo nel verbo,<br />

ad esempio: scavare uno scavo, costruire una costruzione, ecc.<br />

Non nascondo che nella mia teoria dello scopo nel verbo ci sia l’errore<br />

<strong>di</strong> una generalizzazione. Questo stesso errore però lo hanno fatto<br />

prima <strong>di</strong> me le nostre lingue, formando, per l’analogia con i verbi <strong>di</strong><br />

sensazione, una quantità (363) <strong>di</strong> verbi, nei quali un tale fine evidente<br />

157


non lo si poteva sentire imme<strong>di</strong>atamente o non lo si poteva sentire per<br />

nulla. Voglio tentare <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendere il concetto <strong>di</strong> scopo nel verbo per<br />

alcuni gran<strong>di</strong> gruppi. Le attività sensibili dell’uomo sono espresse da<br />

verbi che riassumono in uno scopo innumerevoli mutamenti microscopici<br />

parziali oppure deducono l’insieme dei mutamenti da una cosiddetta<br />

causa finale; secondo l’uso scientifico del linguaggio i mutamenti nella<br />

natura extraumana, dei quali sappiamo qualcosa in quanto relazioni<br />

reciproche tra le cose, non ritornano a cause finali, ma a cosiddette<br />

cause efficienti. Cre<strong>di</strong>amo però <strong>di</strong> aver imparato dalla nostra critica<br />

del linguaggio che tutte le forze, anche quelle <strong>della</strong> natura inorganica,<br />

sono forze che hanno una <strong>di</strong>rezione, che esse si sottraggono al concetto<br />

<strong>di</strong> causalità, che il concetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>rezione sarebbe utilizzabile in questo<br />

senso, utilizzabile provvisoriamente, come il concetto più generale, a<br />

lungo cercato, per le antiche cause originarie e per le antiche cause<br />

finali. <strong>La</strong> nostalgia del nostro tempo, che è stanco <strong>della</strong> concezione<br />

meccanicistica del mondo, scivola volentieri – senza aver rielaborato<br />

il concetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>rezione – verso la concezione del panpsichismo che<br />

non vorrebbe più considerare teleologia e causalità come termini in<br />

contrasto. Per una simile concezione non mi sembra assurdo, anzi mi<br />

sembra necessario, nel verbo, trasferire lo scopo, dai verbi che in<strong>di</strong>cano<br />

attività sensibili anche a quelli, innumerevoli, che designano un qualche<br />

effetto reciproco delle cose, che designano le relazioni reciproche dei<br />

sostantivi. Avrei potuto parlare, in maniera più pregnante e più corrispondente<br />

a questa spiegazione, piuttosto che <strong>di</strong> uno scopo nel verbo,<br />

<strong>di</strong> una <strong>di</strong>rezione nel verbo; ma è una buona prova per le nuove idee se<br />

esse si possono esprimere in parole semplici; e poi do<strong>di</strong>ci anni fa non<br />

ero ancora venuto a capo del concetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>rezione.<br />

Si può interpretare un altro grande gruppo <strong>di</strong> verbi estendendo a<br />

essi il concetto <strong>di</strong> iterativo; essi sono molto più <strong>di</strong>ffusi che da noi nelle<br />

lingue antiche, poi nel turco e in molte (364) lingue africane. Qui molte<br />

o moltissime azioni parziali vengono riunite in un concetto verbale che<br />

certo non sempre esprime una azione complessiva conforme a scopo,<br />

ma spesso un’attività biologica dell’organismo, quin<strong>di</strong> teleologicamente<br />

utile (respirare, <strong>di</strong>gerire). In moltissimi casi i verbi <strong>di</strong> stato che non<br />

designano alcun movimento hanno un senso imparentato con quello dei<br />

verbi iterativi. Certo a molti verbi <strong>di</strong> stato sta alla base unico e solo il<br />

concetto <strong>di</strong> tempo; una connessione con gli iterativi non sarebbe quasi<br />

applicabile senza costruzione. Ma in questo contesto mi posso accontentare<br />

del fatto che i verbi si chiamano tutti in tedesco Zeitwörter e<br />

non ho bisogno <strong>di</strong> arrabbattarmi a mettere or<strong>di</strong>ne nella confusione che<br />

la formazione analogica e la grammatica ha portato nella classificazione<br />

dei verbi delle nostre lingue più conosciute – i verbi dei “selvaggi” non<br />

si possono spesso classificare “all’indoeuropea”.<br />

158


1 [Niemeyer, Halle 1898.]<br />

2 [Michel Bréal, Essai de sémantique. Science des significations, Hachette, Paris 1897, p.<br />

1 (Saggio <strong>di</strong> semantica, trad. it. <strong>di</strong> Arturo Martone, Liguori, Napoli 1990, p. 3).]<br />

3 [Jacob Grimm, Wilhelm Grimm, Deutsches Wörterbuch, Hirzel, Leipzig 1854-1960,<br />

i, Sp. 1227.]<br />

4 [Barth, Leipzig 1906 (p. 16).]<br />

5 [Industrie-Comptoir, Weimar.]<br />

6 [Johann Christoph Adelung, Grammatisch-kritisches Wörterbuch der Hochdeutschen<br />

Mundart, Breitkopf und Compagnie, Leipzig 1793-1801.]<br />

7 [Blaise Pascal, De l’esprit géométrique, é<strong>di</strong>tions eBook France, p. 13.]<br />

8 Non ho dubbi che il significato <strong>di</strong> copulare sia un calco limitato al linguaggio biblico,<br />

forse in ebraico un eufemismo castigato. <strong>La</strong> <strong>parola</strong> ebraica jada è interessante anche da un<br />

altro punto <strong>di</strong> vista. Gli antichi ebrei possedevano tre parole <strong>di</strong>stinte per il percepire con<br />

la vista, con l’u<strong>di</strong>to e con il gusto; tutte e tre le parole potevano designare metaforicamente<br />

una conoscenza (Erkennen) spirituale; ma solo “jada”, la percezione me<strong>di</strong>ante la vista, venne<br />

trasferita al coito.<br />

9 L’esempio <strong>di</strong> Socrate, come Aristofane lo portò in scena, non mi sembra scelto felicemente;<br />

egli e Cleone corrispondevano secondo l’idea degli ateniesi proprio all’umorismo<br />

come lo intese Dryden e come ancora lo concepì Lessing.<br />

10 [Gotthold Ephraim Lessing, Von Johann Dryden und dessen dramatischen Werken,<br />

Thetralische Bibliothek, 4. Stück, in Werke und Briefe, hg. von Wilfried Barner et al., v, hg.<br />

von Gunter E. Grimm, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a. M., 1997, pp. 175-77.]<br />

11 [Gotthold Ephraim Lessing, Hamburgische Dramaturgie, in Werke und Briefe, hg. von<br />

Wilfried Barner et al., vi, hg. von Klaus Bohnen, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am<br />

Main, 1985, p. 643.]<br />

12 Auch Einer è un modello esemplare per una nuova teoria (i, p. 448). Dall’Aesthetik<br />

<strong>di</strong> Vischer: «<strong>La</strong> personalità umoristica non ha bisogno […] <strong>di</strong> essere un Falstaff del tutto<br />

sregolato. Catarro e occhi <strong>di</strong> gallina gli bastano per rendere una natura infinitamente infelice,<br />

come richiede l’umorismo; infatti essa deve sentire l’organizzazione spirituale, il che vuol <strong>di</strong>re:<br />

essere impe<strong>di</strong>ta nell’adempimento dei fini più puri, <strong>di</strong>sturbata nei momenti più belli, dal tossire,<br />

soffiarsi il naso, sputare, starnutire e zoppicare. Essa è in questo così sensibile come carne<br />

nuda in una ferita, è un uovo sgusciato» [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des<br />

Schönen, cit. (Georg Olms Verlag, Hildesheim - Zürich - New York 1996, i, pp. 486-87)].<br />

13 [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, cit., i, pp. 486-87.]<br />

14 [Jean Paul Richter, Vorschule der Aesthetik, cit., p. 153.]<br />

15 [Ivi, p. 126.]<br />

16 [Novalis, Blüthenstaub, in Schriften, hg. von Paul Kluckhohn u. Richard Samuel, Kohlhammer,<br />

Stuttgart 1981, ii, pp. 425-27.]<br />

17 [Johann Wolfgang von Goethe, Sprüche in Prosa, hg. von Harald Fricke, in Sämtliche<br />

Werke, Briefe, Tagebücher und Gespräche, hg. von Friedmar Apel et al., Deutsche Klassiker<br />

Verlag, Frankfurt am Main 1993, xiii, p. 13.]<br />

18 [Ivi, p. 334.]<br />

19 [Ivi, pp. 157-58.]<br />

20 [Walter W. Skeat, An Etymological Dictionary of the English <strong>La</strong>nguage, 1835-1912, The<br />

Clarendon Press, Oxford.]<br />

21 [Johann Georg Walch, Philosophisches Lexicon, Gle<strong>di</strong>tsch, Leipzig 1726.]<br />

22 [Alexander Gottlieb Baumgarten, Aesthetica, Frankfurt am Oder 1750-1758 (L’Estetica,<br />

trad. it a cura <strong>di</strong> Salvatore Tedesco, Aesthetica, <strong>Palermo</strong>, 2000).]<br />

23 [Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft (1. Aufl.), in Kant’s gesammelte Werke, hg.<br />

von der Königlich Preussischen Akademie, Georg Reimer, Bd. iv, Berlin 1903, p. 30 (Critica<br />

<strong>della</strong> ragion pura, trad. it. a cura <strong>di</strong> Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1995, pp. 76-77).]<br />

24 [Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft (2. Aufl.), in Kant’s gesammelte Werke,<br />

cit., Bd. v, Berlin 1911 (Critica <strong>della</strong> ragion pura, trad. it. cit. pp. 775-77).]<br />

25 [Friedrich Schiller, Kallias oder über Schönheit, in Werke, Bd. xv, Hempel, Berlin 1870.]<br />

26 [Si tratta del colloquio con Johann Peter Eckermann del 26 febbraio 1824.]<br />

27 [Immanuel Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, in Kant’s gesammelte Werke,<br />

cit., Bd. vii, Berlin 1917, pp. 120-21 (Antropologia pragmatica, trad. it. <strong>di</strong> Giovanni Vidari e<br />

Augusto Guerra, <strong>La</strong>terza, Roma - Bari 1985, p. 4.]<br />

28 [Eduard Hanslick, Vom Musikalisch-Schön, Barth, Leipzig 1891 (Il Bello musicale, trad.<br />

it. <strong>di</strong> Leonardo Distaso, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2001, p. 65).]<br />

159


29 [Eduard Hanslick, Vom Musikalisch-Schön, cit. (p. 115).] Con non poca sorpresa e<br />

gioia ho trovato nel mio connazionale Hanslick anche la <strong>di</strong>stinzione tra mondo sostantivo e<br />

mondo aggettivo, naturalmente senza le connesse riflessioni critiche.<br />

30 [Johann Wolfgang von Goethe, Sprüche in Prosa, cit., p. 31.]<br />

31 [Franz Grillparzer, Weh dem, der lügt, in Dramatische Werke, Bergland Verlag, Wien<br />

1961, iii, p. 96 (Guai a <strong>di</strong>re bugie!, trad. it. <strong>di</strong> Cesare De Marchi, Greco & Greco e<strong>di</strong>tori,<br />

Milano 1991, p. 146.]<br />

32 [Cfr. Henrik Ibsen, Die Wildente, in Dramen, Artemis & Winkler, Düsseldorf - Zürich,<br />

deutsche Übersetzung von Christian Morgenstern et al., p. 456 (L’anitra selvatica, in Teatro,<br />

trad. it. <strong>di</strong> Alda Castagnoli Manghi e Hanne Coletti Grünbaum, Utet, Torino 1982, pp. 195-<br />

96; ho mo<strong>di</strong>ficato lievemente la traduzione italiana).]<br />

33 [Friedrich Nietzsche, Götzen-Dämmerung, in Sämmtliche Werke, hg. von Giorgio Colli<br />

und Mazzino Montinari, de Gruyter, Berlin, vi, (Crepuscolo degli idoli, trad. it. <strong>di</strong> Ferruccio<br />

Masini, nota introduttiva <strong>di</strong> Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1983, p. 28).]<br />

34 [Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, in Sämmtliche Werke, hg. von Giorgio<br />

Colli und Mazzino Montinari, de Gruyter, Berlin, v, p. 18 (Al <strong>di</strong> là del bene e del male,<br />

trad. it. <strong>di</strong> Ferruccio Masini, nota introduttiva <strong>di</strong> Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1983, pp.<br />

9-10).]<br />

35 Un detto molto citato <strong>di</strong> Schiller va bene qui tutt’al più come ornamento: «Solo l’errore<br />

è la vita, | e il sapere è la morte». Questi versi si trovano nella poesia Kassandra, sono<br />

drammaticamente introiettati nell’anima <strong>della</strong> profetessa e intendono propriamente il sapere<br />

profetico del destino futuro; questo stato d’animo viene espressa dallo scolaro <strong>di</strong> Kant in maniera<br />

ancor più incisiva nei versi: «tu (il <strong>di</strong>o) mi hai dato il futuro, | ma ti prendesti l’attimo».<br />

Certo Schiller generalizza lo stato d’animo <strong>di</strong> Cassandra: ogni sapere rende infelici. «Giova<br />

alzare il velo?» «Chi si rallegra <strong>della</strong> vita se ha guardato nel suo fondo?». Nonostante questo<br />

c’è un’ulteriore <strong>di</strong>stanza tra il paradosso <strong>di</strong> Nietzsche dell’utilità biologica e la poetica antitesi<br />

<strong>di</strong> Schiller. Per un motivo molto semplice. Schiller non intende per nulla l’errore, l’opposizione<br />

alla verità. Egli intende il non-sapere, in contrapposizione al sapere. Egli ha soltanto messo<br />

errore – <strong>di</strong>rei con il cappello in mano – al posto <strong>di</strong> non-sapere per via del ritmo fasti<strong>di</strong>oso. E<br />

come punizione e perché quasi richiede l’opposizione a errore, il passo viene spesso citato in<br />

modo errato, da Fontane, da Raoul Richter: «Solo l’errore è la vita, | e la verità è la morte».<br />

36 [Raoul Richter, Friedrich Nietzsche: sein Leben und sein Werk, 15 Vorlesungen, Dürr,<br />

Leipzig 1903.]<br />

37 [Martin Luther, Sprüche Salomonis.]<br />

38 B ii, p. 94 s.<br />

160


Le tre immagini del mondo<br />

(da Die drei Bilder der Welt)<br />

Le tre nuove categorie<br />

(3BW, 1) Il nostro mondo c’è una volta soltanto, ma noi non possiamo<br />

vederlo in una sola volta. Del resto anche il sole c’è soltanto<br />

una volta nel nostro sistema planetario, ma noi non possiamo proprio<br />

vederlo <strong>di</strong>rettamente e a occhio nudo, ma solo me<strong>di</strong>atamente, nei suoi<br />

effetti, come causa <strong>di</strong> fenomeni del tutto <strong>di</strong>versi, che sono poi stati<br />

classificati nella nostra conoscenza <strong>della</strong> luce, del calore e dell’elettricità.<br />

Inoltre possiamo guardare il sole solo nell’immagine o in immagini.<br />

Quando con un’osservazione eccezionale ve<strong>di</strong>amo un doppio<br />

arcobaleno lunare, abbiamo davanti a noi tre immagini del sole per lo<br />

meno simili nella loro essenza; invece i fenomeni <strong>della</strong> luce, del calore<br />

e dell’elettricità non li designamo volentieri come immagini, simili<br />

nella loro essenza, dell’unico sole; abbiamo avuto bisogno <strong>di</strong> un tempo<br />

infinito per scoprire alcune relazioni tra questi tre fenomeni naturali.<br />

Il “mondo”, <strong>parola</strong> con la quale cerchiamo ora <strong>di</strong> abbracciare il tutto<br />

in una volta – che ne abbiamo o non ne abbiamo ora conoscenza – è<br />

però un complesso <strong>di</strong> fenomeni ancora più grande e più aggrovigliato<br />

rispetto al sole, e allora (2) avremo bisogno <strong>di</strong> un tempo ancora più<br />

lungo per giungere alle relazioni segrete delle immagini che ci si offrono<br />

al posto del mondo stesso.<br />

Non abbiamo altra immagine del mondo che quella del linguaggio;<br />

non sappiamo nulla del mondo, né per noi stessi né per comunicarlo<br />

ad altri, se non ciò che si lascia <strong>di</strong>re in una qualche lingua umana.<br />

Una lingua propria, una sorta <strong>di</strong> lingua sovrumana, la natura non ce<br />

l’ha, la natura è muta, solo l’uomo può <strong>di</strong>re qualcosa su <strong>di</strong> sé e sulla<br />

natura, sul mondo.<br />

Già anni fa, nel mio Wörterbuch der Philosophie, ho tentato <strong>di</strong> mostrare,<br />

brevemente e in modo per me insod<strong>di</strong>sfacente, che vi sono tre<br />

<strong>di</strong>versi punti <strong>di</strong> vista per raggiungere un’immagine dell’unico mondo,<br />

che noi ci <strong>di</strong>segnamo un’immagine aggettiva, una sostantiva e una<br />

verbale del mondo, ciascuna separata dall’altra. Ora voglio tentare la<br />

<strong>di</strong>samina delle con<strong>di</strong>zioni e delle particolarità <strong>di</strong> queste tre immagini.<br />

Innanzi tutto voglio porre la questione – senza promettere <strong>di</strong> riuscire a<br />

dare una risposta univoca – se sarà mai possibile tradurre l’uno nell’altro<br />

i tre linguaggi nei quali queste tre immagini si formeranno davanti<br />

161


a noi; sovrapporre queste tre immagini in modo tale che ne possa scaturire<br />

un’immagine unitaria e corretta <strong>di</strong> un unico mondo. Chiamerò<br />

<strong>di</strong> regola i tre punti <strong>di</strong> vista (3) le tre categorie <strong>della</strong> conoscenza del<br />

mondo, anche se non mi piace il gergo inutile degli eru<strong>di</strong>ti; ho però<br />

motivi sufficienti per usare il concetto ingrigito <strong>di</strong> “categoria” nel suo<br />

significato originario. Ho imparato da Trendelenburg 1 che Aristotele<br />

– <strong>di</strong>ciamo così – prese le mosse dal ricercare una tavola dei più alti<br />

concetti metafisici e, quando enunciò la sua tavola delle categorie, che<br />

ha avuto tanta influenza, trovò soltanto i concetti grammaticali fino<br />

allora sconosciuti. Anche l’uso logico delle categorie in Aristotele è,<br />

più <strong>di</strong> quanto egli supponesse, un’analisi <strong>della</strong> proposizione semplice;<br />

nota bene: <strong>della</strong> proposizione greca. Le categorie <strong>di</strong> Aristotele, al raffinamento<br />

e al miglioramento delle quali hanno de<strong>di</strong>cato molta fatica<br />

le teste migliori fino a Kant, non sono niente <strong>di</strong> più e niente <strong>di</strong> meno<br />

che le più alte determinazioni concettuali che si possono esprimere<br />

come pre<strong>di</strong>cato <strong>di</strong> una qualche cosa. Che proprio Aristotele abbia<br />

scompaginato tutta intera la sua tavola con la sua prima categoria,<br />

che poi le casualità <strong>della</strong> grammatica greca abbiano provocato guasti<br />

ancora peggiori, questo va al <strong>di</strong> là del nostro <strong>di</strong>scorso. Basta <strong>di</strong>re:<br />

kathgorei'n non significa in Aristotele assolutamente nulla <strong>di</strong> più che<br />

“asserire (aussagen)”, kathgorivai e kathgorhvmata (prae<strong>di</strong>camenta) nulla<br />

<strong>di</strong> più che “asserzioni (Aussagen)”, nel migliore dei casi “possibilità <strong>di</strong><br />

asserzione”. (4) Naturalmente i Greci dell’epoca successiva, gli arabi e<br />

gli scolastici non avrebbero potuto mettere assieme intere biblioteche<br />

su questi semplici concetti, se <strong>di</strong>etro alle “asserzioni” non fosse stato<br />

nascosto ogni sorta <strong>di</strong> enigma <strong>della</strong> grammatica, <strong>della</strong> logica e dell’ontologia:<br />

tutti gli enigmi del linguaggio appunto. “Categoria” <strong>di</strong>venne<br />

un terminus technicus – e rimase un’espressione tecnica – da quando la<br />

<strong>parola</strong> non significò più ogni asserzione possibile, ma solo l’asserzione<br />

pre<strong>di</strong>cativa <strong>di</strong> uno dei concetti più alti. In questo senso la “categoria”<br />

appartiene al più antico patrimonio linguistico <strong>della</strong> filosofia. Ora, poiché<br />

non mi aspetto nessun vantaggio per la conoscenza del mondo né<br />

dall’antica tavola delle categorie, né da una qualsiasi nuova tavola, né<br />

dalle categorie grammaticali, né da quelle logiche, poiché credo <strong>di</strong> aver<br />

smascherato l’influsso dannoso <strong>della</strong> grammatica e <strong>della</strong> logica, poiché<br />

inoltre un termine logorato viene reso quanto meno innocuo se gli si<br />

fa compiere un mutamento <strong>di</strong> significato e gli si toglie il significato<br />

logorato, per questo voglio chiamare le tre possibilità <strong>di</strong> asserzione, su<br />

cui si basano le tre sole possibili immagini del mondo, appunto le tre<br />

categorie. Alla fine <strong>della</strong> ricerca sapremo che anche in questo caso si<br />

tratta <strong>di</strong> scoperte o <strong>di</strong> invenzioni linguistiche, che le tre categorie, o<br />

punti <strong>di</strong> vista o possibilità <strong>di</strong> asserzione, (5) conducono all’esigenza <strong>di</strong><br />

costituire per la comprensione del mondo aggettivo, <strong>di</strong> quello sostantivo<br />

e <strong>di</strong> quello verbale ogni volta un nuovo strumento, ogni volta una<br />

nuova lingua. Se fossi un purista <strong>della</strong> lingua, avrei certo potuto <strong>di</strong>re<br />

162


“asseribilità” (Aussäglichkeiten) al posto <strong>di</strong> “categorie”; ma nessuno<br />

protesterà sulla antica cattiva <strong>parola</strong>, mentre <strong>della</strong> nuova buona <strong>parola</strong><br />

si sarebbe inorri<strong>di</strong>ti.<br />

Provvisoriamente voglio tentare <strong>di</strong> mostrare la <strong>di</strong>fferenza <strong>della</strong> mia<br />

nuova dottrina delle categorie da quella antica solo in un unico punto.<br />

Le antiche tavole delle categorie, per quanto fossero <strong>di</strong>verse tra loro,<br />

credevano alla possibilità <strong>di</strong> conoscere il mondo attraverso il linguaggio,<br />

credevano a una logica interna del linguaggio umano, credevano alla<br />

possibilità <strong>di</strong> penetrare con l’aiuto del linguaggio umano (hoministisch)<br />

la natura non umana. Singoli pensatori hanno ben riconosciuto che le<br />

lingue nazionali esistenti non corrispondono all’ideale <strong>di</strong> uno strumento<br />

<strong>di</strong> conoscenza; allora si sperò in una lingua filosofica che dovesse<br />

eliminare le mancanze delle lingue costituitesi storicamente; ma tutti i<br />

filosofi furono invero razionalisti proprio nella speranza <strong>di</strong> istituire, con<br />

lo strumento del linguaggio umano, che l’intelletto umano comune ha<br />

creato, un’immagine assolutamente simile al mondo. So bene <strong>di</strong> aver<br />

apportato ancora una volta un cambiamento <strong>di</strong> significato al termine<br />

“razionalismo” (6); proprio il critico del linguaggio peraltro viene biasimato<br />

o lodato per il dovere o il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> usare in modo un po’ <strong>di</strong>verso<br />

da quello tra<strong>di</strong>zionale ogni concetto del suo linguaggio scientifico; del<br />

resto proprio la necessità <strong>di</strong> esaminare l’accordo <strong>di</strong> ogni <strong>parola</strong> tramandata<br />

con la cosa (con la lingua) <strong>di</strong>mostra a sua volta la necessità <strong>della</strong><br />

critica del linguaggio. Razionalistica mi sembra allora ogni tipo <strong>di</strong> filosofia<br />

– sia che essa ritenga sé stessa teologica, idealistica, materialistica<br />

o critica – che non abbia abbandonato il pregiu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> possedere nella<br />

lingua umana un’immagine <strong>della</strong> natura, <strong>di</strong> poter istituire me<strong>di</strong>ante il<br />

linguaggio umano un’immagine <strong>della</strong> natura; il pregiu<strong>di</strong>zio del linguaggio<br />

può essere superato solo riconoscendo che parlare e pensare sono<br />

un’unica e identica attività dell’uomo e non che il linguaggio – come<br />

si suole <strong>di</strong>re – sia uno strumento del pensiero; riconoscendo che ragione<br />

(ratio) e linguaggio sono concetti intercambiabili. Il seguace <strong>della</strong><br />

critica del linguaggio non si stupirà allora che anche il pregiu<strong>di</strong>zio<br />

religioso, ad esempio la fede nel migliore dei mon<strong>di</strong>, sia soltanto un<br />

caso particolare del pregiu<strong>di</strong>zio generale del linguaggio; (7) si aggiunge<br />

semplicemente al dominio <strong>di</strong>vino, che ha creato il mondo e l’uomo e<br />

il linguaggio, anche la pretesa, propriamente una pretesa etica, che il<br />

linguaggio, un qualsiasi linguaggio preso a caso e contingente, debba<br />

corrispondere alla natura, debba essere utilizzabile come un’immagine<br />

simile alla natura. […]<br />

(11) <strong>La</strong> filosofia ingenua del linguaggio umano – è evidente – ha da<br />

sempre cercato <strong>di</strong> integrare i concetti sensistici o aggettivi con grossolane<br />

rappresentazioni sostantive e verbali; tutte le nostre lingue comuni<br />

formano in questo modo un miscuglio delle mie tre categorie o mon<strong>di</strong>;<br />

la lingua aggettiva comune pullula <strong>di</strong> sostantivi e <strong>di</strong> verbi. Ma anche<br />

le due uniche possibili concezioni del mondo, sovrasensibili e sovraag-<br />

163


gettive, hanno trovato già molto presto il loro unilaterale ritrattista, il<br />

mondo sostantivo in Platone, il mondo verbale, che avrà influenza solo<br />

molto più tar<strong>di</strong>, in Eraclito; non ho qui l’intenzione (12) <strong>di</strong> esporre la<br />

storia <strong>della</strong> filosofia e voglio limitarmi a stabilire una connessione tra<br />

ciascuna delle mie categorie e questi famosi sistemi, non per richiamarmi<br />

all’autorità <strong>di</strong> Platone o <strong>di</strong> Eraclito, ma soltanto per mettere in<br />

guar<strong>di</strong>a dal pericolo <strong>della</strong> parzialità dell’immagine del mondo sostantiva<br />

e <strong>di</strong> quella verbale.<br />

Platone – non importa sotto quali influssi – voleva inoltrarsi al <strong>di</strong><br />

là delle percezioni sensibili, senza oggetto e irreali, inesistenti, verso la<br />

conoscenza dell’essere, e inventò il mondo sostantivo: le idee <strong>di</strong>vennero<br />

per lui le immagini originarie delle cose del mondo sensibile, smascherate<br />

nel loro non essere. Ma per il fatto che queste idee erano allo stesso<br />

tempo una sorta <strong>di</strong> causa delle singole cose percepibili sensibilmente,<br />

egli confuse <strong>di</strong> nuovo, certo senza accorgersene, il mondo sostantivo<br />

con quello verbale. Egli incorse già duemila anni prima nell’errore certo<br />

inevitabile che Kant avrebbe ripetuto nel fare <strong>della</strong> cosa in sé la causa<br />

del fenomeno; ma poiché questo smarrimento del platonismo non ebbe<br />

conseguenze negative e non ne poteva avere prima che ci si de<strong>di</strong>casse<br />

alle nuove scienze <strong>della</strong> natura, mi limito a questo accenno. Più importante<br />

e più istruttivo per il mio scopo può essere richiamare il fatto che<br />

il platonismo (13) venga a coincidere davvero proprio con l’idealismo,<br />

che attribuisce un essere solo alle idee e non alle cose sensibili, ma che<br />

anche l’opposto dell’idealismo, il realismo, imparentato con il sensismo,<br />

possa sorgere dall’idealismo, nel momento in cui vengono assunti vari<br />

livelli e gra<strong>di</strong> <strong>di</strong> idee, nel momento in cui alle specie e alle sottospecie<br />

e infine anche alle singole cose vengono assegnate, pressappoco come<br />

angeli custo<strong>di</strong>, idee particolari, nel momento in cui – e Platone come<br />

tutti i Greci non era uno spirito critico – a ogni concetto <strong>di</strong> genere, e<br />

con ciò a ogni cosa, proprietà e relazione possibili vengano ascritte idee<br />

particolari. Sembra che Platone stesso in tarda età abbia solennemente<br />

celebrato la propria dottrina delle idee e abbia voluto intendere come<br />

idee solo le idee portatrici <strong>di</strong> valore; alle sue riflessioni originarie si<br />

avvicina molto la <strong>di</strong>stinzione tra idee e fenomeni, tra mondo sostantivo<br />

e mondo aggettivo, ma è anche molto vicino il pericolo <strong>di</strong> ravvisare in<br />

ogni singola cosa reale la copia <strong>di</strong> un’immagine originaria, l’ei[dwlon<br />

<strong>di</strong> un’idea.<br />

Quanto anche Platone fosse lontano dal formulare coscientemente<br />

con la sua dottrina delle idee una delle tre possibili categorie <strong>della</strong><br />

comprensione del mondo, <strong>di</strong> comprendere il mondo sostantivo come<br />

una delle tre immagini parziali del mondo, lo si capisce ancor più chiaramente<br />

dal fatto che (14) nel Me<strong>di</strong>oevo la grande contesa tra il realismo<br />

<strong>della</strong> <strong>parola</strong> (da non confondere con il realismo gnoseologico o<br />

ingenuo appena citato) e il nominalismo potevano ricollegarsi alle idee<br />

o ai concetti-genere <strong>di</strong> Platone. So bene che l’intera <strong>di</strong>sputa <strong>di</strong>venne<br />

164


così violenta dapprima per via delle ricerche linguistiche e logiche a<br />

cui posero mano Aristotele e i suoi seguaci e infine solo a causa delle<br />

coercizioni <strong>della</strong> teologia cristiana, ma la <strong>di</strong>sputa ruotava pur sempre<br />

solo attorno alla domanda: le idee o concetti <strong>di</strong> genere hanno una più<br />

alta realtà o non hanno punto realtà?<br />

All’interno <strong>della</strong> Scolastica i nominalisti – considerati dal punto <strong>di</strong><br />

vista dello sviluppo spirituale umano – furono i sostenitori dell’illuminismo<br />

e furono precursori del moderno psicologismo e <strong>della</strong> critica del<br />

linguaggio, i realisti <strong>della</strong> <strong>parola</strong> furono i sostenitori <strong>di</strong> un sapere teologico<br />

apparente, <strong>di</strong> un pregiu<strong>di</strong>zio del sovrannaturale. Così ci siamo abituati<br />

a considerare le parti in lotta, certo non del tutto a torto. Chi ora<br />

però prenda in considerazione la possibilità <strong>di</strong> <strong>di</strong>videre la comprensione<br />

del mondo nelle tre immagini parziali, per poi riunificarle laddove sia<br />

possibile, si pone un’aspettativa più alta persino <strong>di</strong> quella dello sviluppo<br />

spirituale umano, e non può prender partito unilateralmente né per i<br />

realisti <strong>della</strong> <strong>parola</strong> né per i nominalisti. (15) Ogni filosofia, fino a questa<br />

formulazione provvisoriamente ultima <strong>della</strong> domanda da parte <strong>della</strong> critica<br />

del linguaggio, è, come si è detto, razionalismo o <strong>di</strong>pendenza dalla<br />

<strong>parola</strong>. Razionalisti nel senso dell’illuminismo erano naturalmente i nominalisti,<br />

che riconobbero così presto i concetti <strong>di</strong> genere, e con ciò tutti<br />

i sostantivi, come prodotti del cervello umano; razionalisti, pressappoco<br />

nel senso <strong>di</strong> Hegel, erano però anche i realisti <strong>della</strong> <strong>parola</strong> che vollero<br />

ignorare i fenomeni del mondo sensibile o aggettivo e si costruirono al<br />

<strong>di</strong> là del mondo terreno un mondo sostantivo nel quale i concetti o le<br />

idee si muovevano secondo leggi proprie, noncuranti delle proprietà<br />

sensibili dei loro fenomeni corporei. Questi realisti <strong>della</strong> <strong>parola</strong> poterono<br />

ritenersi i veri <strong>di</strong>scepoli <strong>di</strong> Platone, tanto più in buona coscienza perché<br />

l’assunzione <strong>di</strong> un mondo delle idee incorporeo era espressa nello stesso<br />

Platone in modo estremamente confuso; l’identificazione del mondo<br />

delle idee e del mondo dello spirito è un’aggiunta molto posteriore; il<br />

regno delle idee, almeno nella <strong>di</strong>sposizione originaria, non comprende<br />

soltanto le idee più generali, più alte e portatrici <strong>di</strong> valore (del bello, del<br />

buono), ma anche le immagini originarie sostantive <strong>di</strong> ogni fenomeno,<br />

anche se esso sia brutto o volgare; il regno delle idee <strong>di</strong>venne allora<br />

il rifugio degli artisti o degli uomini pii che non volevano sporcarsi le<br />

mani con i fenomeni del mondo sensibile, (16) del mondo aggettivo.<br />

Un cristiano certamente Platone non lo era stato, ma un artista e un<br />

mistico lo fu. A questo proposito è <strong>di</strong> una certa importanza – e non vi<br />

è certo pericolo <strong>di</strong> sopravvalutarlo – il fatto che l’unico grande mistico<br />

tedesco, Meister Eckhart, l’ardente cercatore <strong>di</strong> Dio ed eretico, che<br />

ha fecondato con i suoi pensieri lo sviluppo spirituale <strong>della</strong> teologia<br />

e <strong>della</strong> filosofia, non fosse un illuminista, non un nominalista, ma un<br />

sostenitore del realismo <strong>della</strong> <strong>parola</strong> – come più tar<strong>di</strong> Wiclef e Hus – e<br />

in più un <strong>di</strong>scepolo fedele del maestro dell’or<strong>di</strong>ne, san Tommaso; per<br />

Meister Eckhart il mondo sostantivo era più vero del mondo aggettivo<br />

165


– anche se non lo espresse in questi termini –, la realtà ideale più vera<br />

<strong>della</strong> comune realtà corporea, la conoscenza era il vero essere, tanto<br />

che – non credo <strong>di</strong> giocare con la <strong>parola</strong> – persino la mistica più pura<br />

fu un segreto razionalismo. Infatti i realisti <strong>della</strong> <strong>parola</strong> non potevano<br />

considerare il loro mondo sostantivo come una delle tre immagini che<br />

a pari <strong>di</strong>ritto rappresentano il mondo, perché nella loro litigiosa limitatezza<br />

lo consideravano come il mondo più bello e più vero; perché<br />

persino Meister Eckhart vide nella “natura naturata”, quella che cade<br />

sotto i sensi o aggettiva, quasi uno scarto <strong>della</strong> “natura innaturata”, del<br />

più alto sostantivo, dell’unico essere, <strong>di</strong> Dio. (17) Lo ripeto: non ho scomodato<br />

Platone per cucire una vecchia toppa su un vestito nuovo, ma<br />

davvero per mostrare, accostando la mia categora sostantiva alla dottrina<br />

sorprendentemente longeva delle idee, come persino questo maestro <strong>di</strong><br />

un mondo apparentemente sostantivo non pensasse <strong>di</strong> presentare la sua<br />

inau<strong>di</strong>ta concezione del mondo come una semplice immagine del mondo<br />

o come un’immagine accanto ad altre due immagini del mondo dello<br />

stesso valore, egualmente simili ed egualmente <strong>di</strong>ssimili. […]<br />

Dappertutto tre mon<strong>di</strong>. L’attore<br />

(166) Egli è un artista. Si è calato per settimane in un ruolo. E ora<br />

si trasforma tutte le volte che sta sul palcoscenico, dalle sette alle <strong>di</strong>eci:<br />

egli dà ciò che è più profondo, egli è il meglio. Un povero <strong>di</strong>avolo,<br />

quando non è un <strong>di</strong>o creatore. Inavvicinabile. Uno spirito libero.<br />

Anche se è un <strong>di</strong>o, nelle pause e – scorno e cruccio! – anche in<br />

momenti <strong>di</strong> lavoro <strong>di</strong>sturbanti e <strong>di</strong>sturbati, uno schiavo senza libertà.<br />

Schiavo <strong>della</strong> plebe e <strong>della</strong> sua professione. Gli batteranno le mani?<br />

A lui più che agli altri? O meno? Gli verrà dato il suggerimento come<br />

lo può aspettare? Funziona il trucco come lo voleva lui? Non si nota<br />

che si finge più giovane <strong>di</strong> quello che è? Più giovane? Secondo quale<br />

calendario?<br />

È un pover’uomo. Dopo le <strong>di</strong>eci. Quando arriva a casa. Dai suoi<br />

cari o dalla moglie invecchiata o dai bambini pieni <strong>di</strong> pretese. Conti.<br />

Fatture. Fame. Anche sete. Torna allora a casa? Oppure è il suo ruolo<br />

la sua casa? Oppure è la scena la sua casa?<br />

Quale <strong>di</strong> questi mon<strong>di</strong> è il suo vero mondo?<br />

Epilogo<br />

(167) Mi restano ancora da cercare alcune povere parole a proposito<br />

<strong>di</strong> una nostalgia che non può essere un compito, a proposito <strong>di</strong> un<br />

desiderio che non posso né mettere in dubbio né credere <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare,<br />

a proposito dell’istanza <strong>di</strong> unire in una le tre immagini del mondo.<br />

Nessuna delle tre immagini può essere giusta, perché ciascuna è gravata<br />

dalla <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> del suo specifico linguaggio figurato; forse l’unificazione<br />

non sarà possibile, perché un’unificazione dei tre linguaggi – almeno<br />

finora – non è stata altrimenti possibile che in una delle nostre lingue<br />

166


comuni, che appunto sono ancora più inadeguate alla conoscenza del<br />

mondo rispetto ai linguaggi parziali, da me pensati nello spirito, delle<br />

tre sole possibili visioni del mondo. Un paragone potrebbe aiutarmi a<br />

chiarire l’incapacità del pensiero umano ad affrontare un tale ultimo<br />

compito. Si è tentato <strong>di</strong> inventare fotografie con i cosiddetti colori naturali.<br />

Si sono assunti con strao<strong>di</strong>naria arroganza tre colori fondamentali,<br />

dalla mescolanza dei quali si deve poter ricavare qualsiasi colore<br />

dell’esperienza; poi con l’aiuto <strong>di</strong> filtri colorati si sono realizzate tre <strong>di</strong>verse<br />

fotografie dello stesso oggetto, ciascuna per ognuno dei tre colori<br />

fondamentali; e infine si è cercato <strong>di</strong> ottenere, sovrapponendo le tre immagini<br />

parziali, i colori naturali. Il risultato fu grazioso e sorprendente;<br />

tuttavia non si può parlare seriamente <strong>di</strong> fotografie in colori naturali. In<br />

primo luogo questi signori devono riconoscere spontaneamente <strong>di</strong> non<br />

poter utilizzare nella colorazione nel processo <strong>di</strong> stampa i colori puri<br />

fondamentali dello spettro, ma solo i colori sporchi dei corpi chimici.<br />

Ma l’errore proprio del proce<strong>di</strong>mento sta ancora più a fondo: anche i<br />

filtri colorati che vengono usati per le immagini parziali sono scelti a<br />

seconda del senso accidentale del colore <strong>di</strong> determinati uomini e non<br />

assicurano in nessun modo che le immagini parziali corrispondano ai<br />

colori fondamentali ideati. Non ho bisogno <strong>di</strong> spiegare che parimenti<br />

i filtri dell’intelletto umano non sono sufficientemente sovrumani per<br />

formare in una precisa selezione uno dei tre linguaggi parziali e che<br />

dunque una sovrapposizione dei tre linguaggi figurati non potrebbe<br />

produrre un’immagine naturale unitaria dell’unico mondo.<br />

Nell’impulso invincibile <strong>di</strong> ritornare al <strong>di</strong> là <strong>della</strong> <strong>di</strong>visione necessaria<br />

delle tre immagini al loro congiungimento, all’unica immagine<br />

dell’unico mondo, in un momento favorevole mi sembrò percorribile<br />

un’altra via (169), la cui descrizione, per la breve durata del momento<br />

favorevole, non sembrò un semplice paragone. Quello che io cercai<br />

<strong>di</strong> comprendere in un faticoso lavoro intellettuale, la spaccatura delle<br />

categorie umane e la loro ripartizione nei tre linguaggi delle tre immagini<br />

del mondo sole possibili, questo prima non lo ha visto o avvertito<br />

nessuna ricerca conoscitiva, mentre da sempre è stato gioiosamente<br />

praticato dagli artisti. Voglio subito ammettere che le tre arti, che ora<br />

voglio porre in relazione con le mie tre categorie, sono scelte con un<br />

certo arbitrio, non si <strong>di</strong>stinguono con un rigore così esclusivo e non<br />

si completano come le tre categorie. Ma il confronto può non essere<br />

inutile.<br />

Dappertutto dove regna l’arte vera – forse essa stessa ideale irraggiungibile<br />

al quale i più gran<strong>di</strong> possono solo avvicinarsi – un genio<br />

comprende l’unico mondo senza concetti, senza linguaggio. Forse anche<br />

nel vero pensiero – <strong>della</strong> cosiddetta filosofia – ci sono tali ore solenni<br />

del comprendere senza parole. Ore mattutine del risveglio, quando<br />

improvvisamente cade il velo del giorno e in una notte chiara come il<br />

giorno è aperto l’accesso al segreto dell’Uno-tutto. L’accesso si chiude<br />

167


<strong>di</strong> nuovo appena il ricercatore tenta il primo passo sulla via intravista.<br />

Il chiarore si oscura <strong>di</strong> nuovo appena egli apre gli occhi. (170) <strong>La</strong> comprensione<br />

si <strong>di</strong>sgrega appena egli vuole incantarla per sé o per altri in<br />

concetti o parole.<br />

L’Uno-tutto era annodato soltanto nell’io silente; alle prime parole<br />

ad alta voce precipita ogni unità, anche quella dell’io. Niente si lascia<br />

più <strong>di</strong>re.<br />

1 [Adolf Trendelenburg, Geschichte der Kategorienlehre, Bethge, Berlin 1846, p. 2 ss.]<br />

168


In<strong>di</strong>ce dei nomi<br />

Aarsleff, H., 64.<br />

Abel, G., 62.<br />

Adelung, J. C., 124, 128.<br />

Agrippa von Nettesheim, H. C., 59,<br />

60.<br />

Albertazzi, L., 45, 61.<br />

Alighieri, D., 15, 140.<br />

Amicone, A P., 67.<br />

Andreas-Salomé, L., 9.<br />

Ansell-Pearson, K. J., 61.<br />

Arens, K., 27, 46, 47, 52, 61, 62.<br />

Aristofane, 132, 134, 137, 159.<br />

Aristotele, 29, 34-36, 38, 39, 53- 55,<br />

59, 62, 71, 104, 108-110, 125, 128,<br />

148, 152, 157, 162, 165.<br />

Arnaud, E., 64.<br />

Avellaneda, A. F. de, 137.<br />

Avenarius, R., 11, 38, 47, 62, 123.<br />

Bab, J., 46.<br />

Bach, J. S., 141, 146.<br />

Bachelard, G., 62.<br />

Bachmann, J., 65.<br />

Bachmann M., 65.<br />

Bacone, F., 108, 149.<br />

Bahr, H., 63.<br />

Baldung Grien, H., 54<br />

Baldwin, J. M., 118.<br />

Barth, P., 62.<br />

Barthes, R., 62.<br />

Batteux, C., 145.<br />

Baumgarten, A. G., 142-144, 159.<br />

Bayle, P., 29.<br />

Beckett, S., 14, 48, 69, 72.<br />

Beer-Hofman, R., 9.<br />

Beethoven, L. van, 147.<br />

Behler, E., 62.<br />

Benincà, P., 62.<br />

Ben-Zvi, L., 14, 48, 62, 63.<br />

169<br />

Beradt, M., 63 .<br />

Bergson, H., 44, 47, 56, 63, 72.<br />

Berkeley, G., 19, 30, 102, 122.<br />

Berlage, A., 63.<br />

Berlin, I., 63.<br />

Bertinetto, P. M., 67.<br />

Betz, F., 46, 63.<br />

Biese, A., 34-38, 54, 63, 108.<br />

Bismarck, O. von, 46, 51.<br />

Black, M., 63.<br />

Blackmore, J., 63.<br />

Bloch-Zavfřel, L., 63.<br />

Blumenberg, H., 63.<br />

Boezio, S., 29.<br />

Bohnen, K., 69.<br />

Bois-Reymond, E. du, 27.<br />

Bolzano, B., 68.<br />

Bongioanni, A., 69.<br />

Borges, J. L., 14, 31, 48, 63, 65.<br />

Bornmann, F., 71.<br />

Brahm, O., 45.<br />

Brandes, G., 53.<br />

Bréal, M., 22, 63, 119, 141.<br />

Bredeck, E., 13, 15, 49, 63, 64.<br />

Breitinger, J. J., 142.<br />

Brentano, F., 61.<br />

Briosi, S., 64.<br />

Broch, H., 64.<br />

Bruchmann, K., 34, 38, 55, 64.<br />

Buber, M., 11.<br />

Bülfinger, G. B., 142.<br />

Buridano, G., 151.<br />

Burke, E., 145, 146.<br />

Cambi, F., 56, 64.<br />

Cantelli, M., 64.<br />

Carchia, G., 56, 64.<br />

Carpitella, M., 71.<br />

Carus, P., 28.


Cassirer, E., 64.<br />

Castagnoli Manghi, A., 160.<br />

Castellani, E., 66.<br />

Cervantes, M. de, 137.<br />

Cicero, V., 69.<br />

Cicerone, M. T., 29.<br />

Cleone, 159.<br />

Cloeren, H., 52, 64.<br />

Coletti Grünbaum, H., 160.<br />

Colli, G., 71, 159, 160.<br />

Conte, A. G., 74.<br />

Cossmann, P. N., 64.<br />

Crizia, 55.<br />

Croce, B., 56, 64, 66.<br />

Cubeddu, I., 67.<br />

D’Amico, M. G., 69.<br />

D’Angelo, P., 64.<br />

D’Elia, A., 51, 64.<br />

D’Olivet, P. J. T., 135.<br />

Dapìa, S. G., 48, 65.<br />

Darwin, C., 95, 141.<br />

Darwin E., 141.<br />

De Lorenzo, G., 72.<br />

De Man, P., 65.<br />

De Marchi, C., 160.<br />

Deft, A., 46, 65.<br />

Delbrück, B., 50.<br />

Della Volpe, G., 54, 65.<br />

Demostene, 97.<br />

Deridda, J., 65.<br />

Descartes, R., 13, 47, 148.<br />

Di Cesare, D., 50, 65, 67.<br />

Distaso, L. 159.<br />

Dorati, M., 62.<br />

Dryden, J., 133-135, 159.<br />

Eckermann, J. P.,159.<br />

Eckhart, J., 165, 166.<br />

Eco, U., 48, 65.<br />

Ehrenberg, J., 9.<br />

Eisen, W., 65.<br />

Eisendle, H., 65.<br />

Eisler, R., 118.<br />

Elisabetta <strong>di</strong> Boemia, 47.<br />

Emanuele, P., 69.<br />

Empedocle, 35.<br />

Eraclito, 10, 32, 86, 164.<br />

Eschenbacher, W., 65.<br />

Euclide, 125.<br />

Fabbri, P. 62.<br />

170<br />

Fano, V., 73.<br />

Fechner, G. T., 24.<br />

Fichte, J. G., 138.<br />

Fi<strong>di</strong>a, 140.<br />

Filangieri, G., 49.<br />

Fontane, T., 7, 9, 45, 46, 63, 65, 68,<br />

160.<br />

Forberg, F. K., 32.<br />

Formigari, L., 20, 50, 65, 67.<br />

France, A, 44.<br />

Franceschetti, L., 45.<br />

Franzini, E., 65.<br />

Freud, S., 66.<br />

Fuchs, G., 65.<br />

Füzesi, N., 65.<br />

Gabriel, G., 66.<br />

Galton, F., 28.<br />

Gar<strong>di</strong>ni, N., 63.<br />

Gargani, A., 51, 52, 66, 70.<br />

Garroni, E., 66, 67.<br />

Geiger, L., 28, 52, 66.<br />

Gellert, J. C., 152.<br />

Genette, G., 66.<br />

Gerber, G., 20, 34, 37, 38, 50, 54, 55,<br />

66, 70, 73.<br />

Gessinger, J., 64.<br />

Giacomini, U., 67.<br />

Gigliotti, G., 66.<br />

Giovanni, ev.,13, 149.<br />

Giustino, M. G., 124.<br />

Gloy, K., 65.<br />

Goethe, J. W. von, 19, 39, 43, 47, 49,<br />

66, 90, 93, 107, 120, 128, 139, 140,<br />

145, 149, 159, 160.<br />

Goldwasser, J., 45, 46, 66.<br />

Gombocz, W. L., 74.<br />

Gorgia, 55.<br />

Gottsched, J. C., 142, 152.<br />

Graf, O. M., 9.<br />

Graffi, G., 51, 66.<br />

Grampa, G., 72.<br />

Grillparzer, F., 150, 160.<br />

Grimm, 90, 120, 130.<br />

Gruppe, O. F. , 60.<br />

Grzybowski, W., 66.<br />

Guerra, A., 67, 159.<br />

Guglielmi, G., 66.<br />

Guglielmino, S., 71.<br />

Guglielmo II, 46.<br />

Gustafsson, L.,66.<br />

Guzzar<strong>di</strong>, L., 70.


Haller, R., 49, 51, 52, 66, 74.<br />

Hamann, J. G., 13, 17, 19, 20, 47, 49,<br />

50, 63, 66, 67, 70, 97, 108, 116.<br />

Hanslick, E., 147, 159, 160.<br />

Harden, M., 9, 46.<br />

Härting, P., 60.<br />

Hauptmann, G., 9.<br />

Haydn, J., 137, 138.<br />

Hecker, E., 140.<br />

Hegel, G. W. F., 56, 66, 90, 136, 165.<br />

Hegeler, E. C., 28.<br />

Heine, H, 52.<br />

Helmholtz, H. von, 51.<br />

Henne, H., 67.<br />

Henry, A., 67.<br />

Herbart, J. F., 23, 33, 51, 148.<br />

Herder, J. G., 19, 20, 49, 67, 73, 97.<br />

Hering, E., 52.<br />

Herzog W., 69.<br />

Hesse, H., 9.<br />

Hiller, K., 9.<br />

Hirsch, R., 67.<br />

Hobbes, T., 148.<br />

Hofmannsthal, H. von, 13, 26, 47,<br />

67.<br />

Hogarth, W., 146.<br />

Hohenegger, H., 67.<br />

Home, H., 145.<br />

Humboldt, W. von, 17, 20, 21, 50, 65,<br />

67.<br />

Hume, D., 19, 123, 151, 156.<br />

Husserl, E., 30, 118, 149.<br />

Ibsen, H., 46, 150, 160.<br />

Irmscher, H. D., 67.<br />

Jacobi, F. H., 13, 47.<br />

Jacobs, M., 60.<br />

James, W., 30.<br />

Janik, A, 67.<br />

Johnson, A. B., 66.<br />

Johnson, B., 134, 135.<br />

Johnson, M., 68.<br />

Johnston, W., 67.<br />

Jolly, J., 116.<br />

Joyce, J., 14, 48, 69.<br />

Jung, J., 65.<br />

Kaiser, C., 67, 69.<br />

Kaisersberg, J. G. von, 125.<br />

Kampits, P., 67.<br />

171<br />

Kant, I, 19, 20, 24, 30, 32, 42, 47, 49,<br />

53, 55, 56, 67, 74, 100, 122, 124,<br />

130, 143-146, 149, 156, 159, 162,<br />

164.<br />

Kappstein, T., 68.<br />

Kierkegaard, T., 72.<br />

Kleist, H. von, 13, 47.<br />

Knobloch, C., 68.<br />

Koegel, F., 38.<br />

Kofman, S., 39, 55, 68.<br />

Körner, C. G., 144, 145.<br />

Kraus, K., 73.<br />

Krieg, M., 68.<br />

Kühn, J., 11, 14, 45-47, 53, 55, 56,<br />

68.<br />

Kühtmann, A., 68.<br />

Kurzreiter, M., 68.<br />

Küsgen, F. L., 68.<br />

Kutter, U., 68.<br />

<strong>La</strong>as, E., 32, 53.<br />

<strong>La</strong>coue-<strong>La</strong>barthe, P., 68, 71.<br />

<strong>La</strong>grange, J. L., 51.<br />

<strong>La</strong>koff, G., 68.<br />

<strong>La</strong>ndauer, G., 9, 12, 46, 61, 68.<br />

<strong>La</strong>nge, F. A, 32, 61, 72.<br />

<strong>La</strong>nza, D., 62.<br />

<strong>La</strong>sker-Schüler, E., 9.<br />

Le Rider, J., 45, 68.<br />

Leibniz, G., 50, 86, 124, 125.<br />

Leinfellner, E., 62, 64, 66, 68, 69, 71-<br />

74.<br />

Leonardo, 141.<br />

Lernout, G., 48, 69.<br />

Lessing, G. E., 39, 43, 44, 57, 69, 82,<br />

103, 104, 134, 135, 159.<br />

Levisohn A., 8.<br />

Levisohn C., 47.<br />

Lichtenberg, G. C., 26, 27, 51, 52,<br />

69.<br />

Liede, A., 69.<br />

Lindau, H., 69.<br />

Littré, E., 125.<br />

Lo Piparo, F., 69.<br />

Locke, J., 13, 17, 18, 47, 49, 50, 69,<br />

102, 107.<br />

Lofrida, M., 65.<br />

Longobar<strong>di</strong>, G., 62.<br />

Lorusso, A. M., 65, 69, 70.<br />

Lucentini, F., 63.<br />

Luciano, 52.<br />

Ludwig, O., 51.


Lüktenhaus, L., 20, 47, 50, 61, 69,<br />

116.<br />

Lutero, M., 39, 47, 116, 119, 130, 152,<br />

160.<br />

Macchia R., 63.<br />

Mach, E., 10, 14, 24-29, 31, 32, 47,<br />

49, 51, 52, 60, 62-64, 66, 69, 70,<br />

73, 121-123.<br />

Maeterlink, M., 16.<br />

Magris, C., 47, 67, 70.<br />

Maimon, S., 46, 53, 110, 116.<br />

Manetti, G., 70.<br />

Marco, ev.,130.<br />

Marienberg, S., 49, 70.<br />

Marinelli, M. C., 68.<br />

Marmo, C., 65.<br />

Martone, A., 63, 159.<br />

Masini, F., 160.<br />

Mastrod<strong>di</strong>, M., 45, 70.<br />

McGuiness, B., 74.<br />

Meijers, A., 55, 70.<br />

Meinong, A., 48.<br />

Melandri, E., 63.<br />

Mendelssohn, M.,145.<br />

Mengs, A, R., 145.<br />

Merckels, W. von, 49.<br />

Meschiari, A., 70.<br />

Mill, J. S., 119.<br />

Miller, N., 72.<br />

Mittner, L., 40, 50, 70.<br />

Mommsen, T., 9.<br />

Mongré (Hausdorf F.), 70.<br />

Montanari, F., 62.<br />

Montefusco Calboli, L., 70.<br />

Montinari, M., 71, 160.<br />

Morgenstern, C., 14, 47, 160.<br />

Morpurgo Davies, A., 50, 51, 70.<br />

Morpurgo-Tagliabue, G., 35, 36, 39,<br />

54, 55, 70.<br />

Mortara Garavelli, B., 70.<br />

Mosse, R., 8.<br />

Moszkowski, A., 115.<br />

Mozart, W. A., 146.<br />

Mühsam, E., 9.<br />

Müller M., 70, 85, 107, 116.<br />

Müller-<strong>La</strong>uter, W., 62, 71.<br />

Musil, R., 26.<br />

Nancy, J.-L., 71.<br />

Nautz, J., 68, 71.<br />

Nehrlich, B., 71.<br />

172<br />

Nietzsche, F., 10, 24, 32, 38, 39, 46,<br />

51, 55, 61- 63, 65- 68, 70-73, 149-<br />

152, 160.<br />

Noiré, L., 28, 52, 71.<br />

Novalis, 159.<br />

Nyíri, J. C., 68.<br />

Ogden, C. K., 71.<br />

Omero, 93, 140, 141.<br />

Oppenheimer, F., 9.<br />

Pagliaro, A, 71.<br />

Pascal, B., 125, 159.<br />

Paul, H., 10, 20, 22, 23, 50, 51, 56, 71,<br />

72, 114, 116, 119, 130.<br />

Pautrat, B., 71.<br />

Pavolini, L., 71.<br />

Perissinotto, L., 71.<br />

Pestalozzi, K., 71.<br />

Pinotti, A., 71, 74.<br />

Pirandello, L., 56, 71, 72.<br />

Pizer, J., 71.<br />

Placido, B., 63, 72.<br />

Platone, 24, 32, 46, 93, 97, 164, 165.<br />

Plauto, T. M., 47.<br />

Pniower, O., 65.<br />

Poincaré, H., 44.<br />

Porfirio, 18.<br />

Proust, M., 65.<br />

Pupi, A., 67, 71.<br />

Quintiliano, M. F., 19, 107.<br />

Raffaello Sanzio, 140, 146.<br />

Rahden, W. von, 64.<br />

Rapp, C., 62.<br />

Rathenau, W., 9.<br />

Ravy, G., 45, 71.<br />

Reale, A., 71, 72.<br />

Reinhold, K. L., 124, 143.<br />

Rembrandt, 146.<br />

Richards, I. A., 71, 72.<br />

Richter, J. P., 40-44, 55, 56, 64, 72,<br />

108, 116, 132, 136, 138, 159.<br />

Richter R., 151, 160.<br />

Ricoeur, P., 54, 72.<br />

Rilke, R. M., 65.<br />

Robertson, R., 45, 72.<br />

Rossi, D., 64.<br />

Rousseau, J.-J., 65.<br />

Saccone, E., 65.


Salaquarda, J., 62, 72.<br />

Santulli, F., 72.<br />

Sauerland, K., 66.<br />

Savj-Lopez, P., 72.<br />

Scherer, W., 141.<br />

Schiller, F., 128, 144-146, 159, 160.<br />

Schlegel, F., 41, 56, 133, 139.<br />

Schleichert, H., 64, 66, 68, 69, 72, 74.<br />

Schlenther, P., 65.<br />

Schmidt, J., 30, 60.<br />

Schneider, G., 46, 72.<br />

Schoeller, B., 67.<br />

Schopenhauer, A., 10, 24, 52, 72, 137,<br />

146, 149.<br />

Schulte, J., 74.<br />

Serzisko, F., 72.<br />

Shakespeare, W., 44, 109, 133, 136,<br />

137, 140.<br />

Silvestri Stevan, G., 62.<br />

Skeat, W. W., 141, 159.<br />

Skerl, J., 48, 72.<br />

Socrate, 10, 137, 138, 159.<br />

Sofocle, 140.<br />

Sosio, L., 70.<br />

Spe<strong>di</strong>cato, E., 42, 56, 72.<br />

Spencer, H., 22, 149.<br />

Spinicci, P., 72.<br />

Spinoza, B., 46, 59, 60, 63, 81, 100,<br />

116.<br />

Spitzer, L., 73.<br />

Spörl, U., 47, 55, 56, 73.<br />

Stadler, F., 49, 51, 52, 66.<br />

Steinthal, H., 21, 32, 50, 51.<br />

Stern, M., 47, 60, 73.<br />

Sterne, L., 136.<br />

Stettenheim, J., 115.<br />

Stingelin, M., 55, 70.<br />

Straub, H., 11, 12, 46, 47, 60, 69.<br />

Stumpf, C., 29, 52, 73.<br />

Sulzer, J. G., 145.<br />

Swift, J., 44, 136-138.<br />

Tani, I., 49, 50, 67, 73.<br />

Tavani, E., 56, 73, 74.<br />

Thalken, M., 73.<br />

Thiele, J., 69, 73.<br />

173<br />

Thunecke, J., 46, 62, 63, 66, 68, 69,<br />

71- 73.<br />

Tommaso, 148, 165.<br />

Toulmin, S., 67.<br />

Trendelenburg, F. A, 31, 162, 168.<br />

Trotta, G., 73.<br />

Tylor, E. B., 26.<br />

Ullman, B., 73.<br />

Untersteiner, M., 55, 73.<br />

Vahrenkamp, R., 68, 69, 71.<br />

Vaihinger, H., 11, 32, 33, 53, 73.<br />

Vasoli, C., 72.<br />

Venturelli, A., 72.<br />

Ver<strong>di</strong>no, A., 62.<br />

Vertone, S., 64.<br />

Vico, G., 13, 17-19, 47, 49, 70, 107,<br />

108.<br />

Vidari, G., 67, 159.<br />

Vidusso Feriani, M., 67.<br />

Violi, P., 68.<br />

Virchow, R., 95.<br />

Vischer, F. T., 37, 43, 44, 56, 73, 74,<br />

104, 109, 116, 132, 136, 159.<br />

Vogelweide, W. von, 82.<br />

Voltaggio, F., 73.<br />

Voltaire, 44, 52, 125, 135.<br />

Wagner, R., 147.<br />

Walch, J. G., 142, 1159.<br />

Weber, W. E., 49.<br />

Weiler, G., 14, 17, 46, 47, 49, 74.<br />

Weininger, O., 26.<br />

Whitney, W. D., 85, 116.<br />

Wiener, O., 14, 48, 74.<br />

Winckelmann, J. J., 145.<br />

Windelband, W., 143.<br />

Wittgenstein, L., 13, 14, 25, 52, 67, 68,<br />

70, 71, 74.<br />

Wolff, C., 120, 124.<br />

Wolters, G., 70.<br />

Wundt, W., 51, 108, 120.<br />

Zecchi, L., 66.<br />

Ziehen, G. T., 130.


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Supplementa<br />

1 Breitinger e l’estetica dell’Illuminismo tedesco, <strong>di</strong> S. Tedesco<br />

2 Il corpo dello stile: Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper,<br />

Riegl, Wölfflin, <strong>di</strong> A. Pinotti<br />

3 Georges Bataille e l’estetica del male, <strong>di</strong> M. B. Ponti<br />

4 L’altro sapere: Bello, Arte, Immagine in Leon Battista Alberti, <strong>di</strong> E. Di Stefano<br />

5 Tre saggi <strong>di</strong> estetica, <strong>di</strong> E. Migliorini<br />

6 L’estetica <strong>di</strong> Baumgarten, <strong>di</strong> S. Tedesco<br />

7 Le forme dell’apparire: Estetica, ermeneutica ed umanesimo nel pensiero <strong>di</strong> Ernesto<br />

Grassi, <strong>di</strong> R. Messori<br />

8 Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, <strong>di</strong> R. Lo Bianco<br />

9 <strong>La</strong> nuova estetica italiana, a cura <strong>di</strong> L. Russo<br />

10 Husserl e l’immagine, <strong>di</strong> C. Calì<br />

11 Il Gusto nell’estetica del Settecento, <strong>di</strong> G. Morpurgo-Tagliabue<br />

12 Arte e Idea: Francisco de Hollanda e l’estetica del Cinquecento, <strong>di</strong> E. Di Stefano<br />

13 Pœta quasi creator: Estetica e poesia in Mathias Casimir Sarbiewski, <strong>di</strong> A. Li Vigni<br />

14 Rudolf Arnheim: Arte e percezione visiva, a cura <strong>di</strong> L. Pizzo Russo<br />

15 Jean-Bapiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, a cura <strong>di</strong> L. Russo<br />

16 Il metodo e la storia, <strong>di</strong> S. Tedesco<br />

17 Implexe, fare, vedere: L’estetica nei Cahiers <strong>di</strong> Paul Valéry, <strong>di</strong> E. Crescimanno<br />

18 Arte ed estetica in Nelson Goodman, <strong>di</strong> L. Marchetti<br />

19 Attraverso l’immagine: In ricordo <strong>di</strong> Cesare Bran<strong>di</strong>, a cura <strong>di</strong> L. Russo<br />

20 Prima dell’età dell’arte: Hans Belting e l’immagine me<strong>di</strong>evale, <strong>di</strong> L. Vargiu<br />

21 Esperienza estetica: A partire da John Dewey, a cura <strong>di</strong> L. Russo<br />

22 <strong>La</strong> <strong>male<strong>di</strong>zione</strong> <strong>della</strong> <strong>parola</strong>, <strong>di</strong> F. Mauthner


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Supplementa<br />

Collana e<strong>di</strong>toriale del Centro Internazionale Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Estetica<br />

Presso il Dipartimento fieri dell’<strong>Università</strong> degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>Palermo</strong><br />

Viale delle Scienze, E<strong>di</strong>ficio 12, I-90128 <strong>Palermo</strong><br />

Fono +39 91 6560274 – Fax +39 91 6560287<br />

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Progetto Grafico <strong>di</strong> Ino Chisesi & Associati, Milano<br />

Stampato in <strong>Palermo</strong> dalla Tipolitografia Luxograph s.r.l.<br />

Registrato presso il Tribunale <strong>di</strong> <strong>Palermo</strong> il 27 gennaio 1984, n. 3<br />

Iscritto al Registro degli Operatori <strong>di</strong> Comunicazione il 29 agosto 2001, n. 6868<br />

Associato all’Unione Stampa Perio<strong>di</strong>ca Italiana<br />

issn 0393-8522<br />

Direttore responsabile Luigi Russo


The Curse of the Word<br />

Fritz Mauthner was a German-speaking Jewish-Bohemian writer<br />

and eccentric intellectual active in Berlin between the end of the<br />

nineteenth and the beginning of the twentieth century. His critique<br />

of language is based on the assumption that the word as<br />

such is a metaphor, a transposition of definite terms on indefinite<br />

impressions, and that it is enclosed within an image that can only<br />

refer to other images. This skeptical conclusion finds confirmation<br />

through a comparison with a variety of tra<strong>di</strong>tions of thought.<br />

This volume by Luisa Bertolini (luisa@bertolini.ws) presents, for<br />

the first time in Italian translation, a wide selection of Mauthner’s<br />

work, and reconstructs Mauthner’s sustained critical <strong>di</strong>alogue with<br />

authors who have theorised the metaphorical character of language.<br />

Mauthner’s thesis brings together a variety of philosophical<br />

approaches: Vico’s narration of the origins, the empiricist critique<br />

of abstraction, Herder’s and Hamman’s metacritique of reason,<br />

von Humboldt’s and Steinthal’s dynamic interpretation of Kant’s a<br />

priori, Hermann Paul’s research on semantic change, Ernst Mach’s<br />

functionalist conception of the “I” and the “thing” and his theory<br />

of the concept as a system of operations, as well as Vaihinger’s<br />

philosophy of pretence.<br />

Mauthner’s rea<strong>di</strong>ng of Aristotle’s theory of metaphor through<br />

Biese and Bruchmann, and in ways that parallel the approach of<br />

Gerber and Nietzsche, enables a close examination of the metaphor<br />

based on analogy and of the metaphor-image, while his<br />

analysis of verbal metaphors (accor<strong>di</strong>ng to Morpurgo-Tagliabue’s<br />

classification) intersects with Jean Paul Richter’s and Theodor<br />

Vischer’s. The verbal metaphor is pivotal to Mauthner’s thesis that<br />

semantic change is essentially based on Witz, on the wit that <strong>di</strong>scloses<br />

remote similarities. The critique of language expresses itself<br />

in the humour of the philosopher, who is amused by everything<br />

that is held sacred in daily life but also knows that he belongs to<br />

this daily life without heroes. His expressionist style of writing<br />

reflects, in the circularity of an approach that never grasps the<br />

object in question, his asystematic thought and relativistic results.<br />

It does not come as a surprise, then, that Mauthner’s fame is<br />

greater among writers (for example, Joyce and Borges, to mention<br />

just two) than among philosophers. The exception is Wittgenstein,<br />

who, notwithstan<strong>di</strong>ng his quotation in Tractatus, ends up articulating<br />

a critique of language quite akin to Mauthner’s.<br />

Centro Internazionale Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Estetica, Viale delle Scienze, i-90128 <strong>Palermo</strong>

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