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La belva è la follia, l’essere fuori da se stessi, spinti fuori da<br />
sé dal desiderio di integrarsi con il proprio Io. La belva è<br />
l’innamorato abbandonato. Nelle società medievali la<br />
perdita di sé è inevitabilmente perdita di un’identità sociale<br />
e culturale (la frase può essere letta anche al contrario),<br />
pensata e resa decodificabile dall’inselvatichimento e<br />
dall’uscita dal consorzio umano. Ecco perché <strong>Tristan</strong>o, nei<br />
suoi sdoppiamenti e travestimenti, è di volta in volta folle,<br />
lebbroso, fantasma, cinghiale (in diverse versioni, diversi<br />
personaggi lo sognano in forma di cinghiale).<br />
E da fondamenti antichi e anche fiabeschi si arriva così a<br />
un’intuizione che annuncia una sensibilità che è già quella<br />
di cui noi siamo impregnati. L'essenza più profonda dell’io,<br />
dell'anima, non è in ciò che il soggetto possiede, ma in ciò<br />
che perennemente si dà come assente. L'anima si riconosce<br />
veramente solo nella presa di coscienza di un vuoto, di una<br />
mancanza. Come ha scritto Edmond Jabès: “Ciò che è in tuo<br />
potere è tuo, ma è a ciò che ti sfugge che davvero<br />
appartieni”.