Giulio Goggi Ragione e fede. Studio sul ... - Home Page FTTR
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ALBERTO PERATONER<br />
PREFAZIONE<br />
a<br />
<strong>Giulio</strong> <strong>Goggi</strong><br />
<strong>Ragione</strong> e <strong>fede</strong>. <strong>Studio</strong> <strong>sul</strong> rapporto tra la ragione epistemica e l’esperienza credente<br />
Venezia, Marcianum Press, 2008, pp. 7-18<br />
Fides quaerens intellectum. Così il pensiero cristiano ha per secoli concepito il<br />
rapporto tra ragione e <strong>fede</strong>: la <strong>fede</strong> incentrata in Cristo Gesù che, nel presentarsi con il<br />
suo contenuto inaudito – il novum, l’eccedente, l’essere costitutivamente eujaggevlion<br />
oltre la stessa gittata dell’immaginazione umana – nondimeno non si astiene dal<br />
rivolgersi alla ragione, non si trattiene da un quaerere che è un chiedere e cercare,<br />
interrogare e interpellare, un sollecitare l’intelletto ad una qualche risposta, ad<br />
un’integrazione prospettica che consolidi quanto acquisito rilevandone la tenuta di<br />
senso anche nella luce di una riflessione critica condotta nel rispetto delle esigenze del<br />
logos e delle sue pertinenze.<br />
La nota espressione risale a S. Anselmo d’Aosta, ma reinterpreta una ben più antica<br />
tradizione, giacché, alla sua comparsa nel Proslogion – essa ne sarebbe stata addirittura<br />
il titolo originario 1 –, sembra riecheggiare le parole del De Trinitate di S. Agostino,<br />
laddove questi afferma che fides quaerit, intellectus invenit 2 . A ciò l’Ipponense<br />
aggiungeva che a sua volta l’intelletto quaerit, in rapporto a quanto percorso: et rursus<br />
intellectus eum quem invenit adhuc quaerit. L’espressione anselmiana passerà allora<br />
alla storia seguita dalla reciproca: Intellectus quaerens fidem, a significare che a sua<br />
volta la ragione sollecita la <strong>fede</strong> a porgersi all’indagine razionale e delle scienze, a<br />
fornire contenuti per sostanziare la ricerca, offrire elementi, indicare direzioni<br />
percorribili. Tale rapporto di reciprocità, o di circolarità, trova una delle più ferme<br />
asserzioni in Antonio Rosmini, con il riconoscimento alla ragione di un ruolo<br />
imprescindibile, come di ciò che precede, accompagna, e segue la <strong>fede</strong>: «l’intelligenza<br />
nell’uomo cattolico precede, accompagna, e sussegue la <strong>fede</strong>, dimanieraché la <strong>fede</strong><br />
cattolica non va giammai scompagnata dalla luce dell’intelligenza, quando, se più<br />
addentro è dato di penetrare, la <strong>fede</strong> stessa è una parte, la parte migliore di questa<br />
luce» 3 .<br />
1<br />
Cfr. Anselmo, Proslogion, Prooemium.<br />
2<br />
Agostino, De Trinitate, XV, 2, 2.<br />
3<br />
A. Rosmini, Introduzione alla Filosofia - Degli studi dell’autore, II, I, 30, Roma, Città Nuova, 1979, p.<br />
61.<br />
1
Il presente studio di <strong>Giulio</strong> <strong>Goggi</strong> assume il primo lato di questa circolarità,<br />
ponendosi dalla prospettiva della ragione che, sollecitata dalla <strong>fede</strong>, è chiamata a<br />
percorrere, iuxta propria principia, i sentieri della verità, rapportandosi a quanto<br />
proposto dalla Rivelazione, sin là dove può inoltrarsi.<br />
La prospettiva assunta si dà però un’ulteriore restrizione: l’indagine è infatti<br />
condotta quanto alla pura ragione epistemica, cioè a quel sapere capace di costituirsi<br />
come scienza (epistéme), a quel sapere dell’incontrovertibile che pone l’oggetto nella<br />
massima trasparenza dell’evidenza del logos.<br />
L’esperimento è rilevante, poiché, con la suddetta restrizione, l’autore concentra<br />
l’analisi <strong>sul</strong>la relazione di ragione e <strong>fede</strong> quanto all’evidenza assoluta dell’apparire che<br />
solo nella ragione epistemica si presenta all’intelletto.<br />
Va pur detto che non è qui in questione la semplice esistenza di Dio come Assoluto<br />
o Fondamento ultimo dell’essere, acquisibile quale verità di ragione nella sua forma<br />
epistemica, ma il dato centrale e fondante della <strong>fede</strong> cristiana, ovvero che Gesù Cristo,<br />
persona concreta il cui evento storico è stato trasmesso da testimoni oculari e fissato nei<br />
Vangeli, sia Dio.<br />
In questa prospettiva viene alla luce una certa discontinuità, e non tra <strong>fede</strong> e ragione<br />
tout court, ma tra la datità di quanto rappresenta i contenuti di <strong>fede</strong> – fides quae creditur<br />
– e la pura ragione epistemica, il cui carattere incontrovertibile, insieme alla luminosità<br />
dell’apparire dei propri guadagni speculativi, renderebbe la <strong>fede</strong> un atto di semplice<br />
ammissione di un’evidenza incontestabile.<br />
Va qui pure precisato che la discontinuità rilevata non sussiste a titolo di<br />
opposizione dei guadagni speculativi della ragione epistemica alla menzionata datità del<br />
depositum fidei, ma di un collocarsi di questi oltre quanto è ad essa disponibile. La<br />
discontinuità vale qui dunque come ulteriorità, non come incompossibilità rispetto a<br />
quanto appare alla ragione secondo la nota dell’incontrovertibilità. È precisamente<br />
quanto troviamo espresso da Blaise Pascal, il quale scrive in proposito che «la <strong>fede</strong> dice<br />
ciò che i sensi non dicono, ma non il contrario di ciò che vedono; essa è al di sopra, non<br />
contro» 4 , laddove i “sensi” traducono un criterio di evidenza fenomenologica immediata<br />
rapportabile per analogia all’evidenza della ragione epistemica, tant’è che altrove egli<br />
afferma ancora che «l’ultimo passo della ragione è di riconoscere che vi è un’infinità di<br />
cose che la superano» 5 . È, anzi, interessante notare che l’ammissione di questo<br />
superamento è effettuata, per Pascal, dalla ragione medesima: è un’operazione che il<br />
logos stesso può e deve eseguire, in quanto la sua limitatezza gli appare come contenuto<br />
dell’evidenza e non è, quindi, effetto di un rifiuto extrarazionale della ragione, ma<br />
rappresenta un atto di somma coerenza che la ragione deve a se stessa in quanto tale,<br />
cosicché essa è ricompresa in questo movimento come proprio.<br />
4 B. Pascal, Pensées, 13/185 (ed. Lafuma).<br />
5 Id., Pensées, 13/188 (ed. Lafuma).<br />
2
Come rileva lo stesso <strong>Goggi</strong> nella prima parte del suo studio, la tradizione del<br />
pensiero cristiano ha sostenuto una profonda armonia della <strong>fede</strong> con la ragione ponendo<br />
quale condizione di credibilità della prima l’aderenza assoluta ai primi princìpi della<br />
seconda. Forte di questa tradizione, Antonio Rosmini poté spingersi sino ad affermare<br />
che «il non contraddire alla ragione s’accetta dai cattolici come una condizione<br />
indispensabile e necessaria alla <strong>fede</strong>, e si concede che se questa contraddicesse a’ primi<br />
princìpi della ragione e alle conseguenze da questi logicamente dedotte, non si potrebbe<br />
dagli uomini ammetter per vera» 6 .<br />
Nondimeno, non va dimenticato che tale armonia ha preso consistenza attraverso<br />
un’articolata opera di mediazione condotta grazie alla modulazione o declinazione della<br />
ragione nelle sue diverse possibili forme, fino ad investirsi nella dimensione<br />
propriamente esistenziale della vita umana e nella sfera della pratica.<br />
Laddove la tradizione cristiana ha, dunque, percorso la via di un’ampia e ricca<br />
mediazione attraverso le molteplici esigenze ed evidenze (non epistemiche, ma a<br />
qualche titolo evidenze) del complesso piano della realtà esperita, la ricerca condotta<br />
mediante l’esperimento di accostare gli estremi – vale a dire, come già osservato, la<br />
ragione assunta specificamente nella sua declinazione epistemica e la <strong>fede</strong> nel portato<br />
dei suoi contenuti propri – permette di rilevare la discontinuità nella forma<br />
dell’eccedenza della <strong>fede</strong> <strong>sul</strong>la ragione e non, come si è detto, nella sconfessione della<br />
seconda da parte della prima.<br />
Se il ri<strong>sul</strong>tato dell’indagine può sembrare di primo acchito deludente – sembra,<br />
infatti, che la ragione non possa venire a capo della questione e persino rimanere<br />
esposta alle oscillazioni del dubbio (ma, ripetiamo, della pura ragione epistemica si<br />
tratta) –, di fatto l’esperimento condotto ha il merito di dimostrare una volta per tutte<br />
che il complesso ontologico-esistenziale della <strong>fede</strong> non è assimilabile in toto ad<br />
un’esperienza di pura conoscenza intellettuale (quale, appunto, la ragione epistemica è<br />
in grado di dar luogo), rispetto alla quale alla coscienza non resterebbe che prendere<br />
atto, ammettendone l’evidenza – visa non habent fidem sed agnitionem, afferma S.<br />
Gregorio Magno, ripreso da S. Tommaso 7 –, trattandosi dell’apparire di un dato che si<br />
impone da sé, senza implicare il concorso della libertà e responsabilità personale.<br />
Non va neppure dimenticato che la <strong>fede</strong> è una virtù teologale, e come tale<br />
essenzialmente un fatto di grazia. Ciò significa che il punto di vista teologico <strong>sul</strong>la <strong>fede</strong><br />
la riconosce come una dimensione dell’esperienza non del tutto disponibile alla<br />
coscienza individuale. Non del tutto, perché la coscienza vi concorre consapevolmente<br />
con la volontà e, nell’accoglimento della grazia, la attiva nella forma della virtù,<br />
laddove per virtù intendiamo una dimensione dell’esperienza che si nutre di una<br />
6 A. Rosmini, Introduzione alla Filosofia, cit., II, I, 39, ed. cit., p. 75.<br />
7 Cfr. Tommaso, Q. d. De Veritate, q. 14, a. 2, ad 15.<br />
3
pluralità di atti nel continuo misurarsi con il reale da parte della coscienza, la quale<br />
instaura così la costante esistenziale di una disposizione permanente.<br />
Ora, nella <strong>fede</strong> possiamo distinguere due momenti: una dimensione fiduciale, per<br />
cui la <strong>fede</strong> assume la forma di affidamento, in relazione all’esperienza dell’affidamento<br />
come struttura intimamente costitutiva del pensiero pratico umano, e un momento<br />
conoscitivo, dove la <strong>fede</strong> si determina come assenso in rapporto a contenuti determinati<br />
che si presentano alla coscienza attraverso la mediazione della Rivelazione e<br />
dell’annuncio (fides ex auditu).<br />
Fede nei Vangeli compare con la maggior frequenza in rapporto ai miracoli di Gesù:<br />
“avere <strong>fede</strong>” comporta l’ottenimento della grazia del miracolo, cosicché più volte<br />
incontriamo, a sigillo di quanto avvenuto, l’affermazione di Gesù: “la tua <strong>fede</strong> ti ha<br />
salvato”, o “la tua <strong>fede</strong> ti ha guarito”. Di fronte al centurione, richiesto della guarigione<br />
di un servo di questi, Gesù afferma: «presso nessuno in Israele ho trovato una <strong>fede</strong> così<br />
grande» (Mt 8, 10).<br />
In uno di questi episodi, precisamente alla notizia della morte della figlia di Giairo,<br />
dal quale era stato pressantemente implorato, Gesù invita a perseverare nella <strong>fede</strong>,<br />
nonostante l’evento sembri aver chiuso ogni possibilità: «Non temere, continua solo ad<br />
aver <strong>fede</strong>!» (Mc 5, 35s).<br />
La <strong>fede</strong> è dunque continuità, come del resto si addice ad ogni virtù, che di continuità<br />
o, per così dire, di costanza, vive, e senza la quale decade dallo statuto stesso di virtù.<br />
Gesù invita alla continuità nell’atteggiamento di <strong>fede</strong>, con l’esito della risurrezione della<br />
figlia di Giairo, giacché in quella permanenza la virtù teologale si è mostrata realmente<br />
tale.<br />
In Lc 17 i discepoli richiedono al Maestro un incremento della loro <strong>fede</strong>: «Gli<br />
apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra <strong>fede</strong>!”. Il Signore rispose: “Se aveste<br />
<strong>fede</strong> quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e<br />
trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”». (Lc 17, 5s). Dalla risposta di Gesù<br />
possiamo trarre che la <strong>fede</strong> non conta in senso quantitativo ma in intensità: è un punto<br />
fermo, un cardine, un punto di ancoraggio, una sorgente puntiforme per un’esistenza<br />
credente.<br />
In Rm 10, 7 S. Paolo afferma che la <strong>fede</strong> dipende dalla predicazione, mettendone a<br />
fuoco il momento cognitivo di cui sopra; in 2Cor 5, 7, col dire che «camminiamo nella<br />
<strong>fede</strong> e non ancora in visione» è sottolineato ancora il carattere di tensione escatologica a<br />
quanto non appare nell’orizzonte dell’esperienza che troverà nella Lettera agli Ebrei la<br />
definizione di argumentum non apparentium (Eb 11, 1) ricordata nella trattazione dallo<br />
stesso <strong>Goggi</strong>.<br />
Ora, quanto a questo non apparire, è necessario stabilire se sia da intendere come un<br />
apparire di nulla, vale a dire un non apparire assoluto, o un non apparire di qualcosa,<br />
che ammette, anzi, richiede come proposizione complementare l’apparire di qualcosa.<br />
4
L’apparire di nulla, in senso stretto, comporterebbe la non riconoscibilità dei<br />
contenuti di <strong>fede</strong> come orizzonte di senso, e ciò renderebbe evidentemente impossibile<br />
la <strong>fede</strong>, giacché un tale apparire di nulla è nulla d’apparire di contenuti determinati, e<br />
laddove nulla appare, la relazione intenzionale non è in grado neppure di instaurarsi e<br />
sussistere. Ciò, evidentemente, renderebbe la <strong>fede</strong> non soltanto del tutto arbitraria, ma<br />
addirittura impossibile come atto della coscienza: su quali elementi dovrebbe mai<br />
appoggiarsi? A cosa dovrebbe riferirsi? A quali dati rapportarsi?<br />
Il non apparire di qualcosa come ciò che ammette un qualche apparire è l’unica<br />
modalità nella quale resta possibile concepire la <strong>fede</strong>, che come forma di relazione<br />
intenzionale necessita pur sempre di un referente reale.<br />
Lo attesta quanto accade nella comune esperienza conoscitiva come nelle relazioni<br />
di amicizia e nel mondo affettivo, dove molti dei contenuti intenzionati non appaiono<br />
come tali, ma con ciò nessuno oserebbe affermare che non ne appare nulla. Ciò accade<br />
non per distrazione o sottovalutazione dei requisiti di veridicità di un sapere certo, ma<br />
grazie alla possibilità di ricomprendere alcune costanti dei fenomeni come garanzia di<br />
veridicità di ciò che, nella sua immediatezza, non appare, e viene pertanto mediato<br />
dall’intelletto nel suo darsi come esperienza fondamentalmente unitaria.<br />
Ad esempio, un’informazione somministrata da persona amica e in tutto affidabile,<br />
in assenza totale di elementi in forza dei quali questa potrebbe essere condizionata o<br />
spinta a distorcerla, seppure non appaia nella sua immediatezza (non viene direttamente<br />
esperita), si presenta alla coscienza con qualche titolo di evidenza, tale da essere assunta<br />
per certa. Tali sono, ad esempio, tutte le informazioni pertinenti alla datità della<br />
fattualità storica, mediate dai documenti e dal lavoro critico di ricostruzione: esse non si<br />
impongono all’intelletto nella loro evidenza immediata, non essendo più disponibili alla<br />
coscienza, ma di esse qualcosa pur sempre appare, e se resta una sfocatura dovuta al<br />
margine di interpretazione cui le fonti documentarie sono soggette, il nucleo del “dato”<br />
trasmesso può, a certe condizioni, presentarsi nella forza di un contenuto incontestabile.<br />
Parimenti, nelle “evidenze” dell’universo affettivo, se della persona amata non appare<br />
l’affetto in sé e come tale – cioè come evidenza immediata e di valore epistemico – ne<br />
appare comunque una qualche notizia (ne appaiono le attestazioni, nella loro costanza e<br />
continuità, negli atti quotidiani, nell’assetto assiologico del profilo esistenziale della<br />
persona, nella coerenza delle scelte centrali e periferiche dell’esistenza, fin negli stessi<br />
sguardi e nelle gestualità di cui tutti nutriamo e vediamo nutrire le relazioni) <strong>sul</strong>la quale<br />
la relazione sosta e riposa come permanentemente garantita. All’inverso, è possibile<br />
constatare come proprio il venir meno degli elementi di continuità e coerente<br />
attestazione di univocità affettiva nelle relazioni familiari, in particolare laddove il ruolo<br />
genitoriale si presenta scostante nell’attestazione delle garanzie fondamentali e fondanti<br />
la stabilità affettiva, provochi, in chi ne subisce l’impatto formativo, una generalizzata<br />
5
incapacità di assumere a luogo di garanzia o “riposo” della coscienza alcun termine di<br />
alcuna relazione affettiva, fino a decretarne sistematicamente il fallimento.<br />
La <strong>fede</strong>, dunque, necessita, per instaurarsi come relazione intenzionale, del<br />
presentarsi alla coscienza di una qualche notizia della realtà intenzionata 8 .<br />
Una qualche notizia non significa la realtà intenzionata nella sua piena luminosità e<br />
trasparenza, altrimenti la relazione non si darebbe più come “<strong>fede</strong>”, ma si costituirebbe<br />
quale puro sapere – scientia / ejpisthvmh – garantito dalla piena manifestazione della<br />
realtà in oggetto, dal suo puro apparire come tale.<br />
Ma una qualche notizia è comunque un qualche apparire, l’affacciarsi o, per dir<br />
così, il porgersi alla coscienza di uno o più, eventualmente di una rete di dati ed<br />
elementi, afferenti alla cosa stessa che pur non si mostra nella sua pienezza e<br />
immediatezza, i quali si rendono disponibili come certi e incontestabili.<br />
Su questa base si regge l’assunzione della <strong>fede</strong> come rationabile obsequium (Cfr.<br />
Rm 12, 1), dove il rationabile, piuttosto che come depotenziamento della ratio<br />
epistemica nelle sue esigenze di rigore, vige quale sua estensione o modulazione lungo<br />
lo spettro delle forme di sapere disponibili all’esperienza, sorretta dalla garanzia dei<br />
prima principia che da quella procedono.<br />
Va qui ricordato che il patrimonio di conoscenze accessibili dalla sola Rivelazione e<br />
perciò oggetto di <strong>fede</strong> è sempre stato concepito in graduale continuità rispetto ad alcuni<br />
elementi accessibili alla ragione, vale a dire essenzialmente l’esistenza di Dio<br />
trascendente. Significativa a questo proposito la riflessione di S. Tommaso, in rapporto<br />
alla suaccennata questione dell’eccedenza dei contenuti di <strong>fede</strong> rispetto a quanto<br />
disponibile alla ragione: «Una cosa è oggetto di <strong>fede</strong> in un duplice modo: o puramente e<br />
semplicemente, quando cioè eccede la facoltà dell’intelletto di tutti gli uomini esistenti<br />
in statu viae, come ad esempio il fatto che Dio è trino e uno e altre cose del genere; e di<br />
questi oggetti è impossibile che un uomo abbia scienza, ma ogni <strong>fede</strong>le dà l’assenso ad<br />
essi a motivo della testimonianza di Dio a cui tali oggetti sono presenti e da cui sono<br />
conosciuti; oppure una cosa è oggetto di <strong>fede</strong> non puramente e semplicemente, ma<br />
rispetto a qualcuno, quando cioè non eccede la facoltà di tutti gli uomini ma di alcuni<br />
soltanto, come per ciò che di Dio si può conoscere dimostrativamente, ad esempio la<br />
sua esistenza, o la sua unità o incorporeità o altre cose simili; e nulla proibisce che<br />
8 Significative, a tale proposito, le osservazioni di Carmelo Vigna, che in forza della struttura della<br />
relazione intenzionale come ciò che si dispone in rapporto alla realtà come ciò per cui «verità e<br />
nascondimento, in quanto predicati della relazione d’apparire, hanno infiniti gradi intermedi», afferma:<br />
«La <strong>fede</strong> non può esser decifrata come un tener fermo quel che non si vede; cioè, che non si vede<br />
puramente e semplicemente. Si ha <strong>fede</strong> quando si tiene fermo, puramente e semplicemente, qualcosa che<br />
non si vede appieno, sì che l’intelligenza da quel vedere non resta quietata. Ma se non si vede appieno,<br />
non è detto che non si veda per nulla, quando si ha <strong>fede</strong>. Può darsi che si veda poco o anche pochissimo,<br />
[…]. Resta comunque il fatto che non si crede mai un oggetto che sta nella forma della mutevolezza,<br />
perché ciò importerebbe contraddizione. E non si può restare a qualcosa di contraddittorio. Rispetto ad<br />
una situazione di palese contraddizione, l’intelletto che sa della contraddizione, la toglie e basta. Non<br />
crede, sa» (Fides et ratio, in: «Humanitas», 54 (1999), n. 3, p. 370).<br />
6
questi oggetti siano conosciuti per scienza da alcuni, che ne posseggono la<br />
dimostrazione, e creduti da altri, che non ne hanno compreso la dimostrazione. È invece<br />
impossibile che siano conosciuti per scienza e al tempo stesso creduti dalla stessa<br />
persona» 9 . In altri termini, alcune verità fondamentali, pur appartenendo al depositum<br />
fidei, sono accessibili alla ragione, mentre da alcuni – in mancanza di un’adeguata<br />
strumentazione concettuale – sono ritenute, altrettanto fermamente, per <strong>fede</strong>. L’accesso<br />
a quanto disponibile alla ragione è ritenuto dalla riflessione teologica cristiana, in<br />
particolare cattolica, il fondamento di credibilità o la notizia prima <strong>sul</strong>la quale fondare<br />
la certezza degli assunti di <strong>fede</strong>, ovvero il loro presupposto 10 .<br />
In forza di tale avvertita continuità il pensiero cristiano ha tradizionalmente coltivato<br />
l’idea che il prolungamento del percorso oltre la ragione, <strong>sul</strong>la scorta delle verità di<br />
<strong>fede</strong>, anziché sovrapporsi alla ragione, ne abbia piuttosto esaltato le potenzialità,<br />
persuasione così espressa da Antonio Rosmini: «mai la <strong>fede</strong>, o la Cattolica Chiesa che la<br />
propone, ha messo limiti al pensiero, ma solo ne ha proscritto l’abuso, che non è altro<br />
che un impedimento del pensiero medesimo. Anzi, i Padri della Chiesa hanno trovato<br />
nella <strong>fede</strong> cristiana uno stimolo, dirò di più, un’obbligazione di svolgere più<br />
ampiamente, che non sia stato mai fatto prima di essi, l’intelligenza; non già temendo le<br />
conclusioni che ne potessero uscire, quasi alla <strong>fede</strong> potessero esser contrarie, certi anzi<br />
di trovarle sempre alla medesima <strong>fede</strong> consonanti, di scoprire testimonianze nuove a<br />
favore di essa, luce aggiunta a luce, da rendere il giorno più chiaro. […] La <strong>fede</strong> dunque<br />
non può stare senza la ragione, di cui è la luce completiva, come il perfetto non può<br />
stare senza il suo rudimento, quantunque la ragione naturale, appunto perché rispetto<br />
alla <strong>fede</strong> è un cotal rudimento, può stare senza la <strong>fede</strong>. E però l’effetto della <strong>fede</strong><br />
cristiana introdotta nel mondo fu quello di dare uno inaspettato, meraviglioso, infinito<br />
sviluppo alla ragione umana, e di mutar faccia alle nazioni che l’abbracciarono, […]» 11 .<br />
Posta in grado di concepire i contenuti di <strong>fede</strong> come ciò che implementa<br />
coerentemente i dati accessibili alla ragione, la coscienza, nel portarsi al piano della<br />
<strong>fede</strong>, può far intervenire legittimamente la volontà a garantire l’assenso nei confronti di<br />
ciò che all’intelletto non appare 12 . La legittimità qui è data dalla non arbitrarietà<br />
9 S. Tommaso, Q. d. De Veritate, q. 14, a. 9, Resp.<br />
10 «Che Dio sia uno, in quanto è dimostrato, non viene posto come articolo di <strong>fede</strong>, ma come presupposto<br />
agli articoli: infatti la conoscenza di <strong>fede</strong> presuppone la conoscenza naturale come la grazia la natura;<br />
però l’unità dell’essenza divina come viene concepita dai <strong>fede</strong>li, cioè insieme con l’onnipotenza e la<br />
provvidenza di tutte le creature e altre cose del genere che non si possono provare, costituisce un articolo<br />
di <strong>fede</strong>» (Ivi, ad 8).<br />
11 A. Rosmini, Introduzione alla Filosofia - Degli studi dell’autore, II, 39, ed. cit., pp. 71-72.<br />
12 «La <strong>fede</strong>, in quanto è in noi un certo inizio della vita eterna che speriamo dalla promessa divina, si dice<br />
sostanza delle cose che si sperano; e così viene menzionato il rapporto della <strong>fede</strong> con il bene che muove la<br />
volontà determinante l’intelletto. Ma la volontà, mossa dal predetto bene, propone all’intelletto naturale<br />
qualcosa di non apparente come degno di assenso, e in tal modo lo determina a quella realtà non<br />
apparente, in modo cioè che dia ad essa il suo assenso» (S. Tommaso, Q. d. De Veritate, q. 14, a. 2,<br />
Resp.).<br />
7
dell’operazione che salda intelletto e volontà il cui concorso è richiesto nel costituirsi<br />
della <strong>fede</strong>.<br />
Ora, l’intervento della volontà vale a tener fermo non il mutevole come oggetto, ma<br />
come la relazione intenzionale stessa: in sé l’oggetto di <strong>fede</strong>, come ha avuto modo di<br />
affermare Carmelo Vigna, può essere tale solo se è concepito come stabile, e «il sapere<br />
che ne abbiamo sta prima della <strong>fede</strong> che possiamo averne, perché appunto la <strong>fede</strong>, in<br />
ultima istanza, presuppone la stabilità dell’oggetto e solo aggiunge la stabilità della<br />
relazione con esso» 13 . Ci ritroviamo con ciò all’intendimento rosminiano della ragione<br />
come ciò che precede, oltreché accompagnare e seguire, la <strong>fede</strong>, precedentemente<br />
riscontrato.<br />
Detto questo, per riprendere con diverso ordine e ripercorrere in progressione<br />
argomentativa le riflessioni sin qui condotte, delineiamo sinteticamente i seguenti punti:<br />
1. La ragione in questione, che ri<strong>sul</strong>ta non poter venire a capo del problema<br />
sollecitato dalla <strong>fede</strong> quaerens intellectum, non è la ragione assunta in tutta l’ampiezza<br />
di spettro delle sue forme e declinazioni, ma soltanto una sua parte, un suo segmento,<br />
ancorché il primo e fondamentale. Non è, in altri termini, l’intelletto nella sua pienezza<br />
ed estensione, ma una sua ben precisa individuazione.<br />
2. Questa individuazione della ragione è il lume del logos nella sua massima purezza<br />
e potenza chiarificatrice, sotto la cui presa la realtà si dispone per opposizione di<br />
contraddizione, per cui tra un’affermazione e la sua negazione non si danno possibili<br />
posizioni intermedie. È la ragione epistemica, capace di cogliere la realtà secondo la<br />
nota dell’incontrovertibilità, per cui ciò che giunge a riconoscere sta, in modo che la sua<br />
negazione si autodeponga, ovvero sia impossibile.<br />
3. Per questa sua configurazione, la ragione epistemica si pone a fondamento<br />
dell’intero spettro della ragione, strutturando l’intero campo semantico nell’opposizione<br />
di positivo e negativo. Questo significa che la ragione può sfumare e variare le sue<br />
forme di relazione alla realtà presa in esame, ma nel far ciò non può mai mancare al<br />
principio di non contraddizione, per cui le è precluso affermare e negare al tempo stesso<br />
e sotto lo stesso rispetto i contenuti ai quali si porta.<br />
4. La possibilità di modulare la ragione in diverse forme, oltre il nucleo luminoso e<br />
puro del sapere epistemico, permette l’estensione del sapere, attraverso i vari gradi di<br />
“ragionevolezza”, fino agli incerti territori del “verisimile” e del “probabile”.<br />
5. In questa estensione del sapere, la relazione intenzionale secondo “<strong>fede</strong>” trova il<br />
suo luogo di compossibilità con il sapere della ragione epistemica: quale sapere che si<br />
dà in “ulteriorità” rispetto a quanto alla ratio è trasparente nella forma<br />
dell’immediatezza, il patrimonio di conoscenza assunto per <strong>fede</strong> – il depositum fidei –<br />
non può venir meno alle acquisizioni fondamentali della prima; non può, cioè,<br />
13 C. Vigna, Fides et ratio, cit., p. 372.<br />
8
presentarsi in ultima istanza nella forma della contraddizione. Può procedere sopra, non<br />
mai contro, per riprendere i termini della già citata espressione pascaliana e,<br />
richiamandoci a quanto già affermato da S. Tommaso <strong>sul</strong> retto modo di intendere la<br />
collocazione della <strong>fede</strong> come uno star “sopra”, «Dicitur autem fides esse supra<br />
rationem, non quod nullus actus rationis sit in fide, sed quia ratio non potest perducere<br />
ad videndum ea quae sunt fidei» 14 . L’annunciato superamento non potrà dunque mai<br />
tradursi in una sconfessione della ragione e delle sue esigenze di rigore e di evidenza,<br />
per cui va pensato nei termini di un rapporto di inclusività: la ragione nella <strong>fede</strong>, dove<br />
ciò che è incluso sono le esigenze elementari di non contraddizione, che struttura<br />
l’intero campo semantico e riporta al fondamento dell’essere, e di evidenza<br />
fenomenologica, in rapporto all’unità dell’esperienza.<br />
6. La discontinuità ravvisabile tra la pura ragione epistemica, strutturalmente<br />
caratterizzata dalla nota dell’incontrovertibilità, e la datità di quanto costituisce il<br />
complesso dei contenuti di <strong>fede</strong>, è così rappresentabile come uno scarto qualitativo<br />
ascrivibile alle condizioni nelle quali all’intelletto è possibile istruire la relazione<br />
intenzionale ai contenuti di <strong>fede</strong> e non ad una eventuale pretesa instabilità o<br />
inconsistenza della realtà intenzionata.<br />
7. La relazione intenzionale comporta un’approssimazione alla verità dell’essere che<br />
ammette, tra il puro vedere della ragione epistemica e l’assoluta assenza di contenuto (il<br />
non apparire assoluto) – giacché di termini contrari si tratta, anziché di contraddittori –,<br />
infiniti gradi intermedi, per cui tra il (non) vedere determinati contenuti da parte della<br />
ragione epistemica e il vederne a qualche titolo da parte dell’intelletto che vi presta<br />
l’assenso si danno infinite gradazioni di luminosità o evidenze, che si dispiegano in un<br />
ampio e variegato spettro di sfumature chiaroscurali, spettro lungo il quale l’intelletto<br />
medesimo è pure in grado di portarsi su alcuni contenuti con la piena luminosità del<br />
logos nella sua massima trasparenza. Nessun cieco riterrebbe il suo dire “non vedo<br />
l’albero di cui parli” una contraddizione di quanto l’amico, accanto, gli attesta trovarsi<br />
di fronte, né per questo i due amici dovrebbero avvertire alcuna frattura insanabile<br />
rispetto al loro essere solidali. Parimenti, se l’evidenza della ragione epistemica non<br />
presenta all’intelletto tutti i contenuti che questo può ammettere da altre fonti nella sua<br />
unità d’esperienza, non per questo esso avvertirà necessariamente la crisi di una sorta di<br />
schizotimia nella relazione intenzionale, consistente nel vedere e non vedere, assentire e<br />
non assentire al tempo stesso, credere per un verso e non poter credere per un altro.<br />
8. La saldatura dell’assenso di <strong>fede</strong> con quanto disponibile al lume della ragione<br />
epistemica è garantita dall’unità dell’intelletto, cui spetta l’allineamento delle forme di<br />
certezza esperibili ai vari livelli dell’ampio – e, per riguardo all’unità dell’esperienza,<br />
non scomponibile – spettro della coscienza pensante, giacché la relazione intenzionale<br />
14 S. Tommaso, Q. d. De Veritate, q. 14, a. 2, ad 10.<br />
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quale disposizione di <strong>fede</strong> è in grado di costituirsi come atto coerente e solidale<br />
dell’intelletto medesimo rispetto a tutte le sue modalità conoscitive.<br />
Rispetto alla gradazione di tali modalità conoscitive, lo studio di <strong>Giulio</strong> <strong>Goggi</strong><br />
assume, come dicevamo, gli estremi del sapere epistemico e della <strong>fede</strong>, rilevandone la<br />
discontinuità come ulteriorità o eccedenza della seconda <strong>sul</strong>la prima, pur non a<br />
sovvertimento strutturale delle condizioni fondamentali della ragione, come tensione<br />
aperta <strong>sul</strong>la verità dell’essere tra quanto appare in piena luce alla ragione con la nota<br />
dell’incontrovertibilità e quanto non le appare (non apparendole neppure il<br />
contraddittorio) ed è sostenuto dalla <strong>fede</strong>.<br />
Ora, è nello spazio aperto da una tale configurazione tensionale della <strong>fede</strong> che si dà<br />
l’esperienza dell’assenso della coscienza come non predeterminato da un apparire<br />
assoluto e incontestabile, di fronte al quale ad essa non resterebbe che prendere atto<br />
della realtà. Tale configurazione tiene in equilibrio la <strong>fede</strong> cristiana tra il suo ridursi ad<br />
un puro fatto intellettuale (gnosi) e la sua eventuale consegna ad una arbitrarietà<br />
irrazionalistica (fideismo). Tale configurazione della <strong>fede</strong> ne è pure la grandezza, perché<br />
in questo equilibrio è possibile cogliere la misura perfetta per un concorso responsabile<br />
della libertà umana, dove da un lato la coscienza sia nella piena libertà di volgersi<br />
altrove, negando la <strong>fede</strong>, ma al tempo stesso non sia abbandonata a se stessa, senza<br />
alcuna luce o alcun apparire della verità. Come in questo equilibrio agisca la grazia, la<br />
tradizione teologica ha riconosciuto appartenere all’insondabilità del Mistero.<br />
Ci sovviene in proposito una breve quanto intensa nota, ancora di Blaise Pascal,<br />
nella quale egli afferma: «Vi è abbastanza luce per coloro che non desiderano che<br />
vedere e abbastanza oscurità per coloro che hanno una disposizione contraria» 15 .<br />
Così, nella tensione aperta di presenza e non presenza – tensione e non<br />
contraddizione in quanto vigenti a diverso titolo e sotto rispetti diversi – si apre lo<br />
spazio dell’assenso libero e responsabile che investe la pienezza dell’esperienza umana<br />
nella sua complessità teoretico-pratica, si apre la dimensione di un coinvolgimento che<br />
permea l’intera consistenza e configurazione ontologico-esistenziale dell’uomo,<br />
«impegnando tutta la persona e chiamandola a rispondere ad un appello di libertà» 16 ,<br />
come lo studio di <strong>Giulio</strong> <strong>Goggi</strong>, cui invitiamo alla lettura, conclude.<br />
15 Pensées, 11/149 (ed. Lafuma).<br />
16 Infra, p. 120.<br />
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