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Tempo amico ok - Catania per te

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<strong>Tempo</strong> <strong>amico</strong>/nemico, <strong>te</strong>mpo ancora (e sempre) <strong>amico</strong><br />

Saggio sul lavoro creativo di Franco Arcidiacono<br />

di Giuseppe Vazzana<br />

I. Un poeta, una città.<br />

Se in una delle sue accezioni fondamentali la poesia è<br />

<strong>per</strong>cezione del panta rei <strong>te</strong>mporale, se consis<strong>te</strong> in un’ispirata<br />

in<strong>te</strong>llezione di istanti passati e futuri, come vedere in una<br />

rosa ciò che essa è qui e ora ma anche il bocciolo che è stata<br />

ieri e la regina matura di domani, inevitabilmen<strong>te</strong> avviata al<br />

declino, in una sovrade<strong>te</strong>rminazione di dimensioni che la<br />

Fisica non può condensare in equazioni ma<strong>te</strong>matiche, se<br />

dunque la poesia è collisione e neoformazione di <strong>te</strong>mpi, i<br />

Canti metropolitani del poeta, autore <strong>te</strong>atrale e attore<br />

catanese Franco Arcidiacono ne rappresentano<br />

un’espressione esemplare: i <strong>te</strong>mpi sono gli anni che vanno<br />

dal 1967, in cui fu redatta la prima composizione, all’esta<strong>te</strong><br />

2001, in cui si collocano le poesie scrit<strong>te</strong> in Piazza Currò,<br />

che ospita le suggestive sopravvivenze archeologiche delle<br />

Terme dell’Indirizzo, di epoca romana. La rosa della<br />

metafora è qui rappresentata dalla città natia, <strong>Catania</strong>, in<br />

verità non una rosa, ma la seducen<strong>te</strong> promessa di questa, che<br />

induce bensì ad avvicinarla e sfiorarne lo s<strong>te</strong>lo, ma che<br />

tuttavia fa subito sentire le sue spine, tutt’altro che virtuali.<br />

Come orizzon<strong>te</strong> urbano del lavoro di Franco Arcidiacono<br />

<strong>Catania</strong> ci appare fin dall’inizio, e in ogni momento della<br />

sua presenza, un’in<strong>te</strong>rlocutrice for<strong>te</strong>men<strong>te</strong> desiderata ma<br />

inafferrabile, sempre pronta a giocare crudelmen<strong>te</strong> col suo<br />

trovatore, lasciandosene talvolta avvicinare fino a mostrargli<br />

un’inat<strong>te</strong>sa espressione di <strong>te</strong>nerezza – come di rimpianto <strong>per</strong><br />

I


un’amore che non è fiorito solo <strong>per</strong> un clamoroso e vano<br />

puntiglio – salvo poi mostrarsi sardonica fino alla crudeltà<br />

<strong>per</strong> allontanarlo, scoraggiando ul<strong>te</strong>riori <strong>te</strong>ntativi di<br />

riconciliazione. La città mostra in ogni momento la<br />

compresenza di tutti i suoi aspetti: ma lo fa <strong>per</strong> l’Autore,<br />

benin<strong>te</strong>so, laddove chi non è posseduto dal fato della Poesia<br />

può vedere solo la successione dei modi in cui essa si è<br />

espressa nel <strong>te</strong>mpo, secondo peculiarità storicamen<strong>te</strong><br />

radica<strong>te</strong> o <strong>per</strong> mode di importazione nazionali o es<strong>te</strong>re<br />

ovvero ancora par<strong>te</strong>cipando effettivamen<strong>te</strong> a grandi<br />

mutamenti epocali sovraurbani. Franco Arcidiacono vi<br />

<strong>per</strong>cepisce l’unità del divenire e il reciproco, il divenire<br />

dell’unità, ovvero della città medesima, che si fa sempre più<br />

distan<strong>te</strong> e sfocata, laddove <strong>per</strong> altri la <strong>per</strong>cezione del <strong>te</strong>mpo<br />

si riduce a previsione ma<strong>te</strong>matizzata del futuro prossimo in<br />

forma di progetti, proiezioni, previsioni di <strong>te</strong>ndenza ecc.<br />

Per una più nitida messa a fuoco della <strong>per</strong>sonalità artistica<br />

dell’Autore soffermiamoci sull’anno della prima<br />

composizione, il 1967. Nessun esegeta della storia<br />

occidentale con<strong>te</strong>mporanea può negare l’importanza del ’68<br />

<strong>per</strong> la costruzione dell’orizzon<strong>te</strong> mentale della società del<br />

nostro <strong>te</strong>mpo. Il ’68 è stato anno epocale come lo erano stati<br />

il 1789, il 1848, il 1860 italiano, il 1917 russo e molti altri.<br />

In esso si può riconoscere la fon<strong>te</strong> sorgiva di innumerevoli<br />

movimenti civili: studen<strong>te</strong>schi, sociali, politici, esis<strong>te</strong>nziali,<br />

culturali, musicali e artistici, la cui onda lunga, tra<br />

reviviscenze e riflussi, nuovi exploits e drammatiche<br />

retromarce, dura fino ai giorni nostri. Tuttavia questa pietra<br />

miliare si trova confitta in un <strong>te</strong>rreno storico non di molto<br />

an<strong>te</strong>riore, ma che essa ha totalmen<strong>te</strong> oscurato con la sua<br />

II


lucen<strong>te</strong>zza adamantina. Parlo degli anni dal ’62 al ’67, che<br />

vedono il fiorire di un sentimento collettivo che allora non<br />

fu possibile definire nella sua peculiarità né può esserlo<br />

oggi, ma il cui senso può venir riassunto dal titolo di una<br />

canzone di Bob Dylan del 1964: The times they are a –<br />

changin’. I suoi carat<strong>te</strong>ri principali erano sotto gli occhi di<br />

tutti e possono così riassumersi: <strong>te</strong>nsione spontanea al<br />

cambiamento nei giovani di tutto il mondo occidentale, un<br />

nuovo feeling della vita che trova nella musica beat e rock,<br />

presto nel pop e nel filone cantautoriale nonché nella<br />

diffusione della poesia come espressione diretta di pensieri,<br />

sentimenti, sensazioni non mediata da formule es<strong>te</strong>tiche,<br />

stilistiche e accademiche, veicoli di comunicazione<br />

straordinari. Soprattutto negli Stati Uniti, a quell’epoca<br />

impegnati nella fase più cruenta della guerra nel Vietnam, il<br />

movimento – tale il nome convenzionale con cui fu<br />

bat<strong>te</strong>zzato poco più tardi, se con esso finirono con l’essere<br />

indica<strong>te</strong> anche realtà giovanili diversissime tra loro / ebbe un<br />

carat<strong>te</strong>re pacifista, assolutamen<strong>te</strong> ostile alla guerra in atto, le<br />

cui ragioni venivano indica<strong>te</strong> nell’in<strong>te</strong>resse dell’industria<br />

bellica al suo protrarsi indefinito, nella pro<strong>te</strong>rvia della<br />

su<strong>per</strong>po<strong>te</strong>nza impegnata in una sanguinosa gara <strong>per</strong> la<br />

conquista della leadership mondiale contro l’URSS e<br />

nell’indifferenza della macchina / Stato <strong>per</strong> la vita<br />

individuale, quand’anche fosse quella dei propri giovani<br />

soldati. Riprendersi la vita, proclamare il diritto della<br />

fantasia a insediarsi al po<strong>te</strong>re, con<strong>te</strong>stare il monopolio della<br />

gestione culturale da par<strong>te</strong> degli establishments baronali<br />

nelle Università, lottare <strong>per</strong> il diritto allo studio di tutti<br />

coloro che ambiscono al sa<strong>per</strong>e e alla sua pratica<br />

III


professionale abbat<strong>te</strong>ndo ingiustificati privilegi e barriere di<br />

censo, con<strong>te</strong>stare le ferree convenzioni sociali e la gret<strong>te</strong>zza<br />

dell’ideologia borghese dominan<strong>te</strong>, riscoprire il corpo come<br />

focus primario di sensazioni e emozioni, vedervi altro che il<br />

mero supporto di alienanti attività produttive, tali erano le<br />

principali linee direttrici della nuova concezione del mondo<br />

che picchiava con forza crescen<strong>te</strong> contro il guscio del<br />

silenzio pubblico, il quale sarebbe durato fino alle barrica<strong>te</strong><br />

del maggio ’68 in Francia. Dopo di allora il novum dovet<strong>te</strong><br />

affrontare il mondo nella sua ontologia di forme<br />

cristallizza<strong>te</strong>, nella sua implacabile condizionalità<br />

economico / sociale, nelle sue mai sopi<strong>te</strong> crudezze. Nel<br />

<strong>per</strong>iodo che precedet<strong>te</strong> la sua definitiva venuta alla luce,<br />

consacrata dagli scontri che ebbero luogo a Parigi nel<br />

Quartiere Latino e da altri episodi verificatisi in tutta<br />

Europa, uno dei mezzi che il cambiamento aveva <strong>per</strong> dare<br />

notizia di sé era l’avanguardia <strong>te</strong>atrale, diffusa non solo nei<br />

maggiori centri europei ma anche in mol<strong>te</strong> città minori,<br />

appunto <strong>per</strong>ché l’avanguardia, in via di principio, era<br />

estranea ai canali dell’imprenditorialità del settore<br />

concentrata soprattutto nelle metropoli. Per scelta<br />

proclamata con enfasi (ma spesso, in verità, necessitata dalla<br />

modestia delle risorse disponibili) era costretta a servirsi di<br />

strutture che furono poi defini<strong>te</strong> underground: garages,<br />

cantine, edifici abbandonati, ecc. I loro spettatori erano<br />

rigorosamen<strong>te</strong> non paganti, salvo lasciare qualche spicciolo<br />

<strong>per</strong> lo sviluppo dell’ar<strong>te</strong> al<strong>te</strong>rnativa mentre gli attori si<br />

mostravano puristicamen<strong>te</strong> alieni da qualsiasi contatto col<br />

denaro, espressione della vitu<strong>per</strong>ata egemonia culturale<br />

borghese sulla società. Le istituzioni pubbliche e i<br />

IV


commissariati rimanevano <strong>per</strong> lo più indifferenti agli strali<br />

di registi e giovani attori anche <strong>per</strong>ché gli episodi davvero<br />

clamorosi erano rari. In generale l’establishment era più<br />

incline al laissez faire che all’in<strong>te</strong>rventismo repressivo, ma<br />

anche molto at<strong>te</strong>nto a non aprire la borsa dei pubblici<br />

finanziamenti. Insomma da due concezioni del mondo due<br />

mondi <strong>te</strong>atrali opposti, l’uno, quello del novum<br />

presessantot<strong>te</strong>sco, che si ribellava con ardore contro<br />

l’ufficialità e questa che semplicemen<strong>te</strong> non si curava dei<br />

suoi con<strong>te</strong>statori e si mostrava altrettanto indifferen<strong>te</strong> verso<br />

le impostazioni dell’avanguardia nel suo insieme, puntando<br />

sulla riproposizione di re<strong>per</strong>tori classici, dal gradimento<br />

sicuro da par<strong>te</strong> di un ceto borghese che era ben lontano dal<br />

prestare orecchio alle appassiona<strong>te</strong> mozioni di principio dei<br />

gruppi undergroud, fin quando almeno tale disponibilità<br />

all’ascolto non fosse diventata un fenomeno di <strong>te</strong>ndenza,<br />

quasi un rito pubblico a carat<strong>te</strong>re catartico, come mostrò la<br />

rapida ascesa di Carmelo Bene, alle cui bizzarrie sceniche il<br />

pubblico di Shakespeare, Goldoni, Molière, Balzac a un<br />

certo punto non seppe rinunciare, quasi sollecitando le<br />

violenze psicologiche e la gogna morale a cui l’attore /<br />

regista lo sottoponeva.<br />

Nel 1967 Franco Arcidiacono era tra gli iscritti della Facoltà<br />

di Let<strong>te</strong>re Classiche dell’Università di <strong>Catania</strong>, corso di<br />

laurea in Archeologia, disciplina in cui eccelleva e in cui<br />

avrebbe dovuto conseguire il massimo titolo del cursus<br />

studiorum italiano con una <strong>te</strong>si sugli Insediamenti abitativi<br />

sulla riva destra del Simeto dal Paleolitico all’Età<br />

Ellenistica. Ma nel campo dei suoi in<strong>te</strong>ressi culturali già<br />

prendeva forma con forza crescen<strong>te</strong> una grande passione <strong>per</strong><br />

V


la poesia e la let<strong>te</strong>ratura che si era sviluppata negli Stati<br />

Uniti dagli anni ’50 in poi e i cui <strong>per</strong>sonaggi più conosciuti<br />

erano Jack Kerouac, l’autore di On the road, insieme ai<br />

componenti del movimento beat vero e proprio: Allen<br />

Ginsberg, Gregory Corso, il poeta / editore Lawrence<br />

Ferlinghetti (ed. City lights) e numerosi altri. L’in<strong>te</strong>resse<br />

dell’Autore <strong>per</strong> questa fioritura di versi e pensieri, sotto la<br />

spinta del novum che cresceva ovunque in Europa e negli<br />

Stati Uniti nel ’67, divenne così for<strong>te</strong> da indurlo ad<br />

accantonare i preparativi <strong>per</strong> il conseguimento della laurea<br />

in Archeologia e a dedicarsi totalmen<strong>te</strong> al <strong>te</strong>atro come<br />

ricerca e impegno civile, (anche se più tardi nel 1977 – quasi<br />

presen<strong>te</strong>ndo le insidie e gli ostacoli che il mondo dello<br />

spettacolo da lì a poco gli avrebbe causato – aveva<br />

intrapreso la <strong>te</strong>si <strong>per</strong> una seconda laurea in Let<strong>te</strong>ratura<br />

anglo-americana, incentrata sul Living Theatre di New York,<br />

al fine di garantirsi una possibilità di ricerca meno<br />

accidentata. Ma la sua naturale paura di essere inscatolato in<br />

schemi prefissati gli fece ben presto abbandonare questa<br />

nuova avventura).<br />

Finora lo studen<strong>te</strong> Franco Arcidiacono aveva soprattutto<br />

letto il <strong>te</strong>atro con<strong>te</strong>mporaneo. Aveva apprezzato il vibran<strong>te</strong><br />

espressionismo s<strong>per</strong>imentalistico di Vladimir Majakovskij, il<br />

<strong>te</strong>atro di denuncia politico / sociale di Bertolt Brecht,<br />

soprattutto l’anti<strong>te</strong>atro di Antonin Artaud, di cui l’avevano<br />

colpito le es<strong>per</strong>ienze di studio e riflessione sulle finalità<br />

della rappresentazione <strong>te</strong>atrale e sulla possibilità di<br />

abbandonare le tradizionali forme di mimesi attoriale<br />

fonda<strong>te</strong> sulla sacralità del <strong>te</strong>sto pre/scenico, in vista di una<br />

concezione dell’evento <strong>te</strong>atrale che avesse quale centro<br />

VI


focale il gruppo degli attori in<strong>te</strong>ragenti tra loro e con il<br />

pubblico e dove il <strong>te</strong>sto diventava un irripetibile prodotto in<br />

fieri, concezione derivan<strong>te</strong> dalle sue ascendenze dadaisticosurrealis<strong>te</strong><br />

e corrobora<strong>te</strong> da un’es<strong>per</strong>ienza di soggiorno<br />

durata un anno presso gli indios Tarahumaras della Sierra<br />

Maestra in Messico (1936). In verità la spinta decisiva a<br />

ques<strong>te</strong> letture era avvenuta nel 1966, quando aveva avuto<br />

modo di assis<strong>te</strong>re, in un <strong>te</strong>atro catanese, a uno spettacolo del<br />

Living Theatre, che in alcuni luoghi del suo <strong>per</strong>corso<br />

complessivo si rifaceva espressamen<strong>te</strong> ad Artaud. Ciò che<br />

soprattutto l’aveva colpito duran<strong>te</strong> l’esibizione era<br />

l’indipendenza degli attori dal <strong>te</strong>sto-to<strong>te</strong>m e da ogni<br />

sudditanza nei confronti di ciò che precede l’atto espressivo<br />

pubblico, il darsi dell’evento sulla scena. Questa era<br />

un’assoluta prescrizione di Julian Beck e Judith Malina, che<br />

avevano fondato il gruppo nel 1946 nel con<strong>te</strong>sto del<br />

movimento off-Broadway, di ispirazione anticommerciale e<br />

filosurrealista, nella città sacra del <strong>te</strong>atro tradizionale<br />

statuni<strong>te</strong>nse. Con assoluta libertà – corroborata da quella<br />

spontanea sintonia che solo una grande fede negli ideali<br />

collettivi e molti anni di pratica <strong>te</strong>atrale, a vol<strong>te</strong> di vita<br />

quotidiana comune, possono far fiorire – gli attori<br />

in<strong>te</strong>ragivano psichicamen<strong>te</strong> e fisicamen<strong>te</strong> tra loro e tutti<br />

insieme col pubblico, in un’excalation di sensazioni e<br />

coinvolgimenti reciproci che rendevano assolutamen<strong>te</strong><br />

uniche le <strong>per</strong>formances del gruppo, che res<strong>te</strong>rà il venerato<br />

modello ideale dell’Autore. Più tardi, nell’esta<strong>te</strong> del 1969<br />

ebbe modo di rivedere il gruppo newyorkese al Teatro Greco<br />

di Taormina e di ritrarre fotograficamen<strong>te</strong> alcuni momenti<br />

dell’esibizione. Di quell’improvvisato reportage l’autore sta<br />

VII


meditando la realizzazione di un libro che potrà costituire<br />

una futura pubblicazione della Città delle arti<br />

sull’argomento.<br />

II. Lo stile di lavoro <strong>te</strong>atrale dell’Autore<br />

Carico di letture e sensibilissimo alle spin<strong>te</strong> che urgono nel<br />

proprio ego creativo in simbiosi e sinergia col mondo che<br />

cambia sempre più rapidamen<strong>te</strong>, l’Autore fonda a <strong>Catania</strong><br />

nel 1967 il primo gruppo s<strong>per</strong>imentale della città con il<br />

nome Gruppo Manifesto Teatro Ricerca, che agisce in<br />

correlazione con gli altri gruppi s<strong>per</strong>imentali nati in Italia<br />

nello s<strong>te</strong>sso <strong>per</strong>iodo, in un momento in cui “le avanguardie<br />

<strong>te</strong>atrali americane portavano fermenti nuovi e vitalizzanti<br />

sulle scene europee”. Dopo aver messo in scena una sin<strong>te</strong>si<br />

de La cimice e Il bagno di Majakovskij, nel 1968 questo<br />

primo gruppo par<strong>te</strong>cipa al XVI Festival In<strong>te</strong>rnazionale del<br />

Teatro Universitario di Parma con Dutchman (L’Olandese)<br />

del poeta e drammaturgo nero americano Le Roi Jones. Nel<br />

1969 il nucleo <strong>te</strong>atrale originario si scioglie e Arcidiacono<br />

comincia a vivere l’es<strong>per</strong>ienza beat romana.<br />

Tornato nella sua città <strong>per</strong> pochi mesi, par<strong>te</strong>cipa con un suo<br />

secondo piccolo gruppo, l’Ashram Alfaomega – Teatro del<br />

Doppio alla Rassegna Aspetti di Nuovo Teatro – Anno I<br />

svoltasi al Teatro Club di <strong>Catania</strong>, presentando Il viaggio di<br />

Orfeo, spettacolo visionario – rituale. Per due anni sospende<br />

l’attività e compie quel lungo viaggio di ricerca in alcuni<br />

paesi europei e in Orien<strong>te</strong> che più avanti chiamerò il Viaggio<br />

in senso antonomastico. Egli possedeva già una cultura<br />

VIII


con<strong>te</strong>sta di a<strong>per</strong>ture in<strong>te</strong>rnazionali: l’Europa era<br />

rappresentata dai citati maestri <strong>te</strong>atrali ma i beats e il Living<br />

Theatre erano americani e una grandissima importanza<br />

avrebbero avuto ben presto anche i maestri Yogi orientali, da<br />

cui doveva apprendere duran<strong>te</strong> la sua <strong>per</strong>manenza di un anno<br />

- il 1970 - in India e in Nepal, le <strong>te</strong>cniche di emissione della<br />

voce basa<strong>te</strong> su quel <strong>per</strong>fetto stato di controllo delle emozioni<br />

e del ritmo del respiro che origina dalla concentrazione a cui<br />

si <strong>per</strong>viene attraverso la pratica dell’om.<br />

L’uomo era e appare ancora così: passionale, generoso,<br />

esuberan<strong>te</strong>, a vol<strong>te</strong> collerico ma sempre fra<strong>te</strong>rnamen<strong>te</strong><br />

<strong>te</strong>nero, acutissimo sul piano in<strong>te</strong>llettuale, talora sarcastico e<br />

mordace, ma sempre pronto ad abbandonare le cer<strong>te</strong>zze del<br />

presen<strong>te</strong> <strong>per</strong> lanciarsi in ardi<strong>te</strong> avventure culturali. Insomma<br />

il Pianeta è in fermento e Franco Arcidiacono vive la felice e<br />

irripetibile condizione di trovarsi in diverse occasioni al<br />

posto giusto nel momento giusto e di vivere in prima <strong>per</strong>sona<br />

una delle es<strong>per</strong>ienze più vitali del ‘900, in una situazione che<br />

intanto lo isolava dal con<strong>te</strong>sto originario in quanto lo faceva<br />

par<strong>te</strong>cipe di un’Ecumene mentale che contava infini<strong>te</strong> corde<br />

di risonanza, a partire da quell’Allen Ginsberg che l’Autore<br />

non ebbe mai modo di conoscere <strong>per</strong>sonalmen<strong>te</strong> ma che<br />

venerò sempre come il più caro <strong>amico</strong>.<br />

Del <strong>per</strong>iodo del Viaggio oltre i moltissimi ricordi e le<br />

impressioni che saranno pubblica<strong>te</strong> dalla Città delle Arti<br />

appena l’Autore ultimerà la loro redazione, restano<br />

fondamentali le acquisizioni di metodo <strong>te</strong>atrale, dove<br />

massima importanza ebbero le <strong>te</strong>cniche mantriche apprese in<br />

Nepal e che riferisco con le sue s<strong>te</strong>sse parole: “Il nucleo del<br />

[mio] lavoro è incentrato nella ricerca sull’ar<strong>te</strong> bio-<br />

IX


psicodinamica dell’attore, con particolare riferimento all’uso<br />

della voce e del movimento del corpo in <strong>te</strong>atro. L’attività dei<br />

recitals poetici rientra nell’ambito della ricerca sulla ritmica<br />

della voce e sui <strong>te</strong>mpi, il respiro e la musicalità in<strong>te</strong>rna dei<br />

versi”. Come ogni Autore au<strong>te</strong>nticamen<strong>te</strong> creativo, Franco<br />

Arcidiacono ha la necessità di ideare ex novo ca<strong>te</strong>gorie<br />

concettuali che esprimano in modo appropriato il senso del<br />

proprio o<strong>per</strong>ari. Il risultato artistico delle complesse<br />

<strong>te</strong>cniche da lui elabora<strong>te</strong> <strong>per</strong> portare al massimo livello<br />

qualitativo l’emissione della voce è l’eufonica, felicità e<br />

bellezza tonale della parola pronunciata. Posso assicurare il<br />

lettore che tale risultato viene raggiunto dall’Autore, non più<br />

giovanissimo, <strong>per</strong>manen<strong>te</strong>men<strong>te</strong>: un’e<strong>te</strong>rna bellezza vocale,<br />

risultato di giovinezza in<strong>te</strong>llettuale fusa con la piena<br />

maturità della vocalizzazione poetica, discenden<strong>te</strong> bensì da<br />

un dono naturale ma anche da una mai incrinata fiducia nel<br />

verso recitato e nel suo carat<strong>te</strong>re taumaturgico. A ciò si<br />

aggiunga la continua pratica di esercizi mantrici e la capacità<br />

di accompagnare l’espressione verbale con gesti dalle<br />

indecifrabili suggestioni simboliche e con pause altamen<strong>te</strong><br />

espressive che la in<strong>te</strong>grano sul piano della semantica<br />

scenica. Attraverso la produzione eufonica in vivo e<br />

l’elaborazione bio/psicodinamica dell’attore, la <strong>per</strong>formance<br />

<strong>te</strong>atrale consen<strong>te</strong> quelle in<strong>te</strong>rsecazioni e in<strong>te</strong>razioni col<br />

pubblico che <strong>per</strong>mettono la riproduzione illimitata<br />

dell’impulso creativo originario. Quest’ultimo in<strong>te</strong>rpreta la<br />

condizione umana e la rappresenta in tutti i suoi livelli, dalla<br />

gioia alla sofferenza individuale e collettiva, e tuttavia<br />

su<strong>per</strong>a la mimesis attraverso la pìetas, non escludendo la<br />

possibilità del sorriso, del godimento dell’istan<strong>te</strong> psicofisico,<br />

X


dell’ebbrezza di un momento di liberazione fugace, ma<br />

indimenticabile, dal severo statuto della quotidianità. I<br />

monologhi che talora precedono l’azione scenica nella loro<br />

apparen<strong>te</strong> svaga<strong>te</strong>zza e es<strong>te</strong>mporaneità hanno la funzione di<br />

preparare il pubblico al rapporto di in<strong>te</strong>rsecazione e<br />

in<strong>te</strong>razione che sarà essenziale <strong>per</strong> lo svolgimento del<br />

programma. Ciò che risulta come sin<strong>te</strong>si dell’eufonia vocale<br />

e della bio / psicodinamica in<strong>te</strong>rattiva è un <strong>te</strong>atro di poesia<br />

es<strong>te</strong>nsiva, un novum modale che non è la poesia/<strong>te</strong>sto e<br />

neppure il <strong>te</strong>atro / evento ma un continuum che va dall’una<br />

all’altro e incessan<strong>te</strong>men<strong>te</strong> ne fa ritorno. La poesia di Franco<br />

Arcidiacono ha bisogno dell’azione, della fisicità. Questa<br />

tuttavia non si conchiude nel gesto esemplare e scultoreo,<br />

<strong>te</strong>atrale appunto, ma si riporta incessan<strong>te</strong>men<strong>te</strong> all’alone<br />

delle sensazioni e possibilità che è l’humus donde nascono i<br />

suoi versi. Da qui l’in<strong>te</strong>rscambio incessan<strong>te</strong> di poesia e<br />

<strong>te</strong>atro nell’uomo e nell’o<strong>per</strong>a. Per tale ragione anticipo qui<br />

uno spunto in<strong>te</strong>rpretativo che svilup<strong>per</strong>ò più avanti, cioè che<br />

i Canti metropolitani rappresentano l’espressione di<br />

momenti di vita in<strong>te</strong>riore di un Attore uscito dal Teatro e in<br />

cammino <strong>per</strong> le strade della città a cui si rivolge in poesia. Il<br />

Teatro è naturalmen<strong>te</strong>, oltre l’insieme delle sedi sceniche<br />

dove effettivamen<strong>te</strong> si è svolta la sua carriera, l’orizzon<strong>te</strong> del<br />

pensiero, della riflessione, delle in<strong>te</strong>nzionalità progettuali e<br />

creative, il luogo in cui la psichicità si sovraordina a se<br />

s<strong>te</strong>ssa e diventa <strong>per</strong>sonalità in<strong>te</strong>llettuale, creazione, visione<br />

del possibile. Naturalmen<strong>te</strong> non è dato <strong>per</strong>manervi a <strong>te</strong>mpo<br />

inde<strong>te</strong>rminato, pena la scissione dal concreto, dall’elemento<br />

fisico e condizionan<strong>te</strong> che insieme al pensiero rappresenta la<br />

XI


polarità onnipresen<strong>te</strong> della vita, la quale è dunque<br />

inscindibilmen<strong>te</strong> dualistica e bipolare.<br />

Il canto poetico richiede comunque un tipo di es<strong>te</strong>nsività<br />

verso il corporeo diversa da quella della <strong>per</strong>fomance <strong>te</strong>atrale.<br />

In scena è l’Autore con i suoi toni blu (v. più avanti sul<br />

blues) e l’in<strong>te</strong>razione col pubblico è realizzata attraverso<br />

quel momento di armonia espressiva e di emozioni a<br />

chiaroscuri costituito dal recital – concerto, la seconda<br />

forma, dopo il <strong>te</strong>atro, in cui si s<strong>per</strong>imenta la <strong>te</strong>nsione<br />

creativa dell’Autore, dove la musica, registrata o eseguita<br />

dal vivo, soprattutto da chitarristi, contribuisce in modo<br />

de<strong>te</strong>rminan<strong>te</strong> a creare i presupposti di una comunicazione<br />

dagli esiti a vol<strong>te</strong> eccezionalmen<strong>te</strong> felici.<br />

III. Momenti del lavoro <strong>te</strong>atrale dell’Autore tra il 1971 e il<br />

2000<br />

Tornato dall’India nel 1971 Franco Arcidiacono riprende<br />

l’es<strong>per</strong>ienza romana ed europea – con sporadiche paren<strong>te</strong>si<br />

nella sua città e a Palermo che ama moltissimo e con la<br />

quale ha avuto un rapporto tren<strong>te</strong>nnale di scambio e<br />

in<strong>te</strong>razione – fino al 1977, anno del suo definitivo ritorno a<br />

<strong>Catania</strong>.<br />

Immesso totalmen<strong>te</strong> in quel movimento di sco<strong>per</strong>ta di nuovi<br />

valori e modi di vita che migliaia di giovani italiani e<br />

europei fecero propri dietro la spinta vitale del movimento<br />

beat americano, l’Autore realizza in questi anni poche ma<br />

fondamentali o<strong>per</strong>e <strong>per</strong> la definizione del suo metodo<br />

sull’ar<strong>te</strong> biodinamica dell’attore e molti recitals poetici <strong>per</strong><br />

la sua ricerca sulla musicalità del ritmo recitativo,<br />

XII


particolarmen<strong>te</strong> lavorando sul ritmo poetico di Allen<br />

Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, Bob Dylan e in<br />

generale di tutti i poeti beat. Tra le o<strong>per</strong>e <strong>te</strong>atrali più<br />

importanti di questo <strong>per</strong>iodo Artaud tê<strong>te</strong>-a-tê<strong>te</strong>, Kaliuga, il<br />

recital concerto dei Canti metropolitani e Sicilia Provenzale.<br />

1973 - ARTAUD TÊTE-A-TÊTE<br />

Lo spettacolo viene rappresentato prima a <strong>Catania</strong>, al Teatro<br />

Club, poi al Festival In<strong>te</strong>rnazionale Incontrazione ’73 al<br />

Teatro Libero di Palermo e quindi ripresentato nel ’88 al<br />

Centro Culturale Voltaire di Palermo insieme a due altre<br />

<strong>per</strong>formances.<br />

Il lavoro viene presentato così:<br />

“Lo spettacolo è im<strong>per</strong>niato sul pensiero e gli scritti di<br />

Antonin Artaud, attore, regista e <strong>te</strong>orico vissuto ai primi del<br />

‘900 e morto nel 1948.<br />

Vissuto tra i fermenti delle avanguardie artistiche del primo<br />

‘900, in particolare quella surrealista, Artaud scelse ed<br />

elaborò una sua visione dell’ar<strong>te</strong> <strong>te</strong>atrale e dell’uomo<br />

assolutamen<strong>te</strong> originale.<br />

La figura e l’o<strong>per</strong>a di Artaud sono sta<strong>te</strong> fondamentali <strong>per</strong> le<br />

ricerche di tutta l’avanguardia <strong>te</strong>atrale s<strong>per</strong>imentale<br />

americana ed europea sviluppatasi a partire dagli anni ‘60,<br />

tanto dal punto di vista <strong>te</strong>orico quanto <strong>per</strong> una nuova visione<br />

dell’attore e del <strong>te</strong>atro.<br />

Il lavoro <strong>te</strong>atrale è basato sui suoi scritti <strong>te</strong>orici, filosofici e<br />

di viaggio: in un susseguirsi serrato di azioni, visioni e<br />

lucide argomentazioni si dipana il cammino spirituale -<br />

spesso sofferto e tormentato - del grande attore e <strong>te</strong>orico<br />

francese”.<br />

XIII


Questo spettacolo, cui seguì nella s<strong>te</strong>ssa serata<br />

un’improvvisata e inat<strong>te</strong>sa <strong>per</strong>formance in<strong>te</strong>rattiva col<br />

pubblico del Teatro Libero, rappresentò <strong>per</strong> l’autore la<br />

cer<strong>te</strong>zza di aver raggiunto la possibilità di po<strong>te</strong>r cominciare a<br />

codificare il suo metodo sull’ar<strong>te</strong> biodinamica dell’attore.<br />

1977 – L’Autore si ristabilisce a <strong>Catania</strong>.<br />

In quell’anno dopo una paren<strong>te</strong>si fiorentina e la conduzione<br />

di laboratorio <strong>te</strong>atrale a Bellinzona, in Svizzera, Franco<br />

Arcidiacono, ritornato <strong>per</strong> un breve <strong>per</strong>iodo di riflessione a<br />

<strong>Catania</strong>, è invitato dalla Professoressa Marisa Bulgheroni<br />

(titolare in quel <strong>per</strong>iodo della Cat<strong>te</strong>dra di Let<strong>te</strong>ratura Anglo<br />

– Americana all’Università di <strong>Catania</strong>) a <strong>te</strong>nere <strong>per</strong> i suoi<br />

studenti una conferenza <strong>per</strong>formance sul Living Theatre di<br />

New York.<br />

Sollecitato dalla medesima viene <strong>te</strong>ntato di ufficializzare la<br />

sua condizione di studioso – dopo otto anni di abbandono<br />

dell’Università – con una nuova <strong>te</strong>si di laurea proprio sul<br />

Living Theatre. L’onestà in<strong>te</strong>llettuale della Bulgheroni e la<br />

sensazione che il mondo della “cultura <strong>te</strong>atrale al<strong>te</strong>rnativa”<br />

cominciava ad essere inglobato e vanificato dal sis<strong>te</strong>ma lo<br />

indussero a intraprendere di nuovo la strada della laurea.<br />

Il mondo dello “spettacolo” cominciava ad appiattirsi, ad<br />

uniformarsi e ad essere dominato e indirizzato dalle lobby<br />

politiche; la ricerca scientifica cui l’autore ormai si era<br />

avviato – realizzando le parole profetiche di Artaud “in<br />

<strong>te</strong>atro scienza ed ar<strong>te</strong> debbono ormai identificarsi” – cozzava<br />

contro i nuovi s<strong>per</strong>imentalismi usa e getta dei nuovi <strong>te</strong>atranti<br />

pronti a qualsiasi compromesso e servilismo pur di<br />

accaparrarsi spazi, denaro e pro<strong>te</strong>zioni che la società degli<br />

XIV


anni ’80 – ormai priva di idee e ideali – elargiva solo ai<br />

propri figli rampanti.<br />

In tutta Italia chi ancora difendeva la propria indipendenza e<br />

identità creativa veniva emarginato e costretto ad affrontare<br />

enormi difficoltà <strong>per</strong> continuare la propria attività.<br />

Tornato da poco a <strong>Catania</strong>, Arcidiacono – senza più una<br />

generazione creativa con cui identificarsi e condividere idee,<br />

sentimenti e modo di essere “artista” – presentiva la<br />

solitudine che la sua città gli avrebbe riservato.<br />

La Laurea con la Bulgheroni lo avrebbe riportato, dopo<br />

qualche anno, al movimento culturale italiano ed europeo in<br />

cui c’era ancora spazio <strong>per</strong> idee creative genuine (certo non<br />

l’Italia di oggi dopo venti anni di appiattimento<br />

omologan<strong>te</strong>).<br />

Ma il suo innato antiaccademismo e la paura della<br />

s<strong>te</strong>rilizzazione istituzionale prevalsero di nuovo, nonostan<strong>te</strong><br />

la stima profonda che l’artista nutriva e nutre tuttora verso la<br />

Bulgheroni.<br />

Iniziata la nuova <strong>te</strong>si di laurea si fermò e rifiutò <strong>per</strong> la<br />

seconda volta una brillan<strong>te</strong> carriera all’in<strong>te</strong>rno<br />

dell’Università, cominciando da solo nella sua città<br />

un’avventura destinata a divenire ven<strong>te</strong>nnale, intrisa di alti e<br />

bassi, riconoscimenti e incomprensioni, scontri anche non<br />

voluti e non cercati in un mondo culturale e <strong>te</strong>atrale divenuto<br />

sempre più infido e pieno di ostacoli.<br />

È di quest’anno il lungo <strong>per</strong>corso dello spettacolo <strong>te</strong>atrale<br />

Kaliuga, rappresentato in varie edizioni fino alla sua forma<br />

attuale (forse non definitiva) e che rappresenta <strong>per</strong> l’Autore<br />

lo spettacolo base della sua ricerca.<br />

XV


1977 – KALIUGA<br />

Lo spettacolo viene rappresentato <strong>per</strong> la prima volta, ancora<br />

in fase di ricerca, nell’ex Teatro del Magis<strong>te</strong>ro di <strong>Catania</strong> nel<br />

1977; quindi nel corso degli ultimi vent’anni in edizioni<br />

sempre diverse in vari spazi e scuole catanesi (Liceo<br />

artistico 1982; Istituto d’ar<strong>te</strong> 1986; Istituto Garibaldi 1987),<br />

alla Rassegna In<strong>te</strong>rnazionale La Macchina dei sogni di<br />

Palermo (1988) e alla rassegna R-Esta<strong>te</strong> a <strong>Catania</strong> (1994).<br />

Ecco quanto scrive l’Autore medesimo su Kaliuga:<br />

“Nella mitologia vedica la dea Kali è connessa col concetto<br />

di violenza che distrugge se s<strong>te</strong>ssa.<br />

Per gli antichi Veda l’era che viviamo è l'era di Kali.<br />

I motivi dello spettacolo: planetari.<br />

6 miliardi di uomini sul pianeta viviamo in stato di<br />

emergenza.<br />

Nei silos <strong>per</strong> missili dei vari continenti si continuano ad<br />

ammassare decine di migliaia di armi nucleari la cui po<strong>te</strong>nza<br />

distruttiva può già uccidere 24 vol<strong>te</strong> la popolazione del<br />

pianeta.<br />

Il pianeta è già oggetto di una continua distruzione ecologica<br />

e noi uomini di una continua distruzione fisiologica e<br />

psicologica: ritmi di lavoro assurdi, degradazione<br />

dell’ambien<strong>te</strong>, città disumane e intasa<strong>te</strong> mari inquinati,<br />

atmosfera irrespirabile, continue guerre locali in varie parti<br />

del mondo stanno rendendo la nostra vita una corsa folle<br />

verso un suicidio collettivo della razza uomo.<br />

È possibile riportare le larve robot al ritmo di una<br />

dimensione umana?<br />

Questi i moventi e lo spirito di Kaliuga<br />

La realizzazione:<br />

XVI


in una serie di azioni con <strong>te</strong>sti, <strong>te</strong>cniche gestuali, mimodanza<br />

e musiche - uni<strong>te</strong> assieme da un rituale che è la base<br />

costitutiva di tutto il lavoro - lo spettacolo affronta tutti<br />

questi <strong>te</strong>mi:<br />

alla denuncia degli aspetti più disumanizzanti della realtà<br />

dell’uomo 2000 - culminan<strong>te</strong> nella piéce sull'assurdità della<br />

realtà nucleare nel mondo, costituita da una fase preliminare<br />

didattico - rituale e da una visione/mimo-danza sugli effetti<br />

fisici e mor<strong>te</strong> <strong>per</strong> radiazioni atomiche - si susseguono visioni<br />

liberanti e gioiose come proposta-messaggio <strong>per</strong> un’umanità<br />

sempre più alienata, robotizzata e che va <strong>per</strong>dendo i valori<br />

primari di comunicazione e relazione.<br />

Lo spettacolo è un compendio della ricerca di un <strong>te</strong>atro<br />

totale in cui parola, voce, gestualità, musica e mimo-danza<br />

formano un tutt’uno omogeneo che <strong>te</strong>nde a colpire non solo<br />

la sfera in<strong>te</strong>llettivo - concettuale dello spettatore, ma anche il<br />

suo immaginifico e la sua sensorialità.<br />

La <strong>te</strong>cnica recitativa è basata sul metodo di ricerca<br />

psicofisica e biodinamica di cui <strong>te</strong>orico e precursore fu<br />

Antonin Artaud, 1’attore-<strong>te</strong>orico cui s’ispirò tutta<br />

l’avanguardia <strong>te</strong>atrale mondiale degli anni ‘60-‘70”.<br />

1990 – CANTI METROPOLITANI<br />

Una par<strong>te</strong> dei poemi pubblicati in questo libro è stata<br />

presentata nel corso dell’ultimo decennio sotto forma di<br />

recitals – concerti musicati, recitati e cantati in mol<strong>te</strong>plici<br />

club e in festivals di rilievo: citiamo tra tutti la Rassegna<br />

“Voli d’aquilone” (Via Crociferi, <strong>Catania</strong>, 1990), la 12ª<br />

Giornata della Festa del Libro (Antiquarium, Mineo, 2000) e<br />

la Rassegna “Il ritmo della città” (Piazza Umberto, Scordia,<br />

XVII


2000). Per quanto riguarda con<strong>te</strong>nuti e significati dei Canti<br />

metropolitani rimandiamo alle pagine dedica<strong>te</strong> a essi più<br />

avanti.<br />

1994 – SICILIA PROVENZALE<br />

Lo spettacolo è stato rappresentato al Teatro Club di<br />

<strong>Catania</strong>.<br />

Secondo la presentazione dell’Autore si tratta di un “viaggio<br />

di parole e immagini attraverso le composizioni dei poeti<br />

della Scuola siciliana alla Cor<strong>te</strong> di Federico II Im<strong>per</strong>atore, di<br />

una ricostruzione dell'atmosfera morale, filosofica e<br />

in<strong>te</strong>llettuale di quella che fu la prima e più nobile<br />

manifestazione let<strong>te</strong>raria del popolo siciliano, trami<strong>te</strong> i versi<br />

dei poeti raccolti attorno alla Cor<strong>te</strong> di Federico II o<br />

impregnati della cultura siciliana del Duecento pur senza<br />

appar<strong>te</strong>nere alla Cor<strong>te</strong> dell'Im<strong>per</strong>atore, come Cielo<br />

d’Alcamo.<br />

La lettura dei <strong>te</strong>sti vuol ricreare l’atmosfera dei cenacoli<br />

fridericiani che dovevano essere intrisi di giocosità,<br />

sensualità e fantasia raffinata, alla ricerca di un gusto pieno<br />

della vita che si riallacciava alla visione dell’esis<strong>te</strong>nza libera<br />

e dinamica dei poeti vaganti medievali e dei trovatori<br />

provenzali italiani ed europei.<br />

Il recital-spettacolo muovendo appunto dai Carmina<br />

Burana, attraverso un veloce passaggio del primo trovatore<br />

italiano in lingua provenzale, Rambertino Buvalelli, evolve<br />

con alcuni tra i più significativi poemi della Scuola siciliana,<br />

<strong>per</strong> concludersi con il Contrasto di Cielo d'Alcamo.<br />

XVIII


I versi dei poeti sono visualizzati da in<strong>te</strong>rventi mimici e di<br />

danza sulle musiche originali dei Carmina Burana e dei<br />

Trovatori Provenzali”.<br />

IV. Ascendenze poetiche dei Canti metropolitani<br />

Il sottotitolo del libro è Viaggio nella memoria del blues<br />

poetico.<br />

La poesia blues è, com’è noto, una trasposizione del feeling<br />

che <strong>per</strong>vade il <strong>te</strong>sto musicato in un nuovo con<strong>te</strong>sto<br />

espressivo dove l’accento cade sulla parola verbalizzata<br />

piuttosto che su quella cantata. La prima, liberata dalle<br />

regole che la strofa musicale comunque impone nonostan<strong>te</strong><br />

la no<strong>te</strong>vole libertà metrica, si avvicina a quelle espressioni<br />

della poesia europea svincola<strong>te</strong> da rigidi schemi metrici e da<br />

quelle in<strong>te</strong>nzionalità di concisione e universalizzazione<br />

estreme che furono proprie della lirica europea specialmen<strong>te</strong><br />

tra le due guerre. Blues significa umor blu, che non è<br />

propriamen<strong>te</strong> umor nero, malinconia che non è dis<strong>per</strong>azione,<br />

anzi nostalgia che vorrebbe dischiudersi in quella allegria<br />

che la liberi <strong>per</strong> un istan<strong>te</strong> dal peso di se s<strong>te</strong>ssa, facendola<br />

diventare travolgen<strong>te</strong> rythm & blues, felicità di un istan<strong>te</strong>.<br />

Così il blues, transeun<strong>te</strong> <strong>per</strong> natura e <strong>per</strong> in<strong>te</strong>nzione, non<br />

cura particolarmen<strong>te</strong> l’espressione formale, si serve di<br />

qualche rima casuale e aborre ogni forma metrica<br />

prestabilita. Quanto ai con<strong>te</strong>nuti si mostra alieno dal pensare<br />

e rappresentare in grande e si concentra su eventi del<br />

quotidiano. Il grande protagonista del blues è il <strong>Tempo</strong> che<br />

da’ e che prende, che reca incessan<strong>te</strong>men<strong>te</strong> incontri e<br />

XIX


distacchi, che fa sbocciare petali ma pure coglie corolle in<br />

piena fioritura.<br />

A completamento della descrizione del suo orizzon<strong>te</strong> poetico<br />

va aggiunta la presenza di una sensibile componen<strong>te</strong> beat,<br />

che al di là dell’etimologia ufficiale (beat come battuta<br />

musicale, ritmo, da cui poesia ritmata quale la incontriamo<br />

ad es. nel Kerouac di Mexico City blues) a mio parere può<br />

essere in<strong>te</strong>sa, senza offendere né la forma né il con<strong>te</strong>nuto di<br />

questa forma di espressione creativa, quale abbreviazione di<br />

beatitudine, come in<strong>te</strong>llezione <strong>per</strong>enne della vita alla luce<br />

della vita s<strong>te</strong>ssa, visione di realtà profonde e verità ideali<br />

oltre la fugacità degli eventi d’ogni giorno, accettazione<br />

serena della loro natura <strong>te</strong>mporanea, in maniera siffatta che<br />

le passioni vengano alleggeri<strong>te</strong> a priori di una par<strong>te</strong> del loro<br />

con<strong>te</strong>nuto emozionale e l’a<strong>per</strong>tura agli ul<strong>te</strong>riori eventi della<br />

vita sia più libera e avventurosa. La beat-itudine è la<br />

condizione più o meno stabile delle massime <strong>per</strong>sonalità<br />

creative di ogni <strong>te</strong>mpo allorché riescano a dominare le<br />

condizioni avverse e le contraddizioni che le attagliano e a<br />

guardare da una distanza non sovrumana ma par<strong>te</strong>cipe se<br />

s<strong>te</strong>ssi e il mondo. L’alleggerimento programmatico<br />

dell’anima <strong>per</strong>sonale nel beat feeling rappresenta la<br />

conseguenza dell’applicazione continuativa degli appelli alla<br />

liberazione dell’individuo che veniva dalle profondità dei<br />

primi decenni del Novecento europeo e che trovarono negli<br />

USA, dopo molti anni di la<strong>te</strong>nza, un fertile <strong>te</strong>rreno di<br />

sviluppo. La società industriale mercifica i rapporti umani e<br />

impone limiti severi all’espressione individuale,<br />

constatazione quest’ultima che, con gli opportuni distinguo,<br />

può essere es<strong>te</strong>sa anche alle società non industriali: l’ego<br />

XX


conformato è il mattone costruttivo delle realtà sociali. Se le<br />

valenze nascos<strong>te</strong> del ’30 vengono libera<strong>te</strong> armonicamen<strong>te</strong> –<br />

condizione a cui aspira la poesia beat – può essere risco<strong>per</strong>ta<br />

in pieno la gioia dell’essere nel mondo. Anche i beats<br />

formarono una comunità non organizzata e ispirata a regole<br />

di accettazione e tolleranza a cui si po<strong>te</strong>va aderire<br />

liberamen<strong>te</strong> e da cui ci si po<strong>te</strong>va separare senza traumi. Sono<br />

le premesse del movimento hippye degli anni ’60. Le<br />

aspirazioni alla liberazione dell’individuo nella poesia del<br />

primo Novecento europeo, l’individualismo blues, il<br />

sovraindividualismo beat formano – pur non rappresentando<br />

un <strong>per</strong>corso obbligato giacché a esiti analoghi si può<br />

<strong>per</strong>venire anche <strong>per</strong> altre vie – un continuum di es<strong>per</strong>ienze<br />

espressive che si accentrano sul poeta/cantore liberato da<br />

funzioni sociali impos<strong>te</strong> e riconosciuto come voce di fluide<br />

aggregazioni elettive, cosicché è suo fato dar espressione a<br />

sensazioni comuni. Rispetto al blues – di natura intimo e<br />

<strong>per</strong>sonale prevale nell’anima beat una for<strong>te</strong> <strong>te</strong>ndenza alle<br />

proiezioni emotice e <strong>te</strong>matiche generali. Non singoli<br />

individui i protagonisti poetici, ma società, valori e disvalori,<br />

modi di pensare, la mercificazione dei rapporti individuali,<br />

le condizioni di salu<strong>te</strong>, non solo fisica, del Pianeta. Non rari<br />

i grandi discorsi poetici agli abitanti della Terra, tra cui la<br />

bellissima Ode Plutonia di Ginsberg, spesso magistralmen<strong>te</strong><br />

letta da Franco Arcidiacono nei suoi recitals - concerti.<br />

Quindi se di beatitudine si può parlare <strong>per</strong> quanto concerne<br />

il piano individuale e più immediatamen<strong>te</strong> in<strong>te</strong>rsoggettivo<br />

dell’esis<strong>te</strong>nza, essa va in<strong>te</strong>sa come in<strong>te</strong>llezione e visione<br />

sinottica dell’es<strong>per</strong>ienza umana globale, che non disdegna<br />

l’apostrofe solenne, l’invettiva e l’uso di quelle forme<br />

XXI


graffianti e paradosse che erano sta<strong>te</strong> il prodotto più<br />

consis<strong>te</strong>n<strong>te</strong> e aggressivo dell’avanguardia poetica europea,<br />

che viene risco<strong>per</strong>ta e po<strong>te</strong>nziata dal beat in una chiave che<br />

la esenta dal compito di conseguire verità oracolari,<br />

immet<strong>te</strong>ndo nel suo cuore la possibilità di riflet<strong>te</strong>re sulla<br />

condizione umana anche dal punto di vista ma<strong>te</strong>riale, così<br />

come essa è effettivamen<strong>te</strong> vissuta dai popoli del mondo,<br />

trattando <strong>te</strong>mi come l’alienazione individuale e pubblica, la<br />

fame nel mondo e la paurosa vicinanza del pianeta a una<br />

sequenza di catastrofi di cui la guerra atomica sarebbe<br />

certamen<strong>te</strong> l’estrema. Senza forse esserne del tutto<br />

consapevoli, i beats coprivano una gamma molto ampia di<br />

<strong>te</strong>matiche sociali che erano escluse a priori dalla lirica dotta<br />

e metafisica di ascendenza europea e riportavano<br />

l’at<strong>te</strong>nzione su un altro modo di essere e di darsi della<br />

poesia. Quanto alla specifica modalità d’espressione e di<br />

trasmissione delle loro produzioni rilevo che mentre la<br />

poesia lirica, con le sue modalità scultoree, richiede la<br />

presenza di quell’elemento fisico che è l’analogo del marmo,<br />

ovvero la pagina stampata, che a o<strong>per</strong>a compiuta diventa<br />

libro, nel caso del blues e del beat, che non sembrano<br />

ambire a un’eccezionale longevità let<strong>te</strong>raria ma a esprimere<br />

lievi e fugaci essenze fluide, la ma<strong>te</strong>ria elettiva è la parola<br />

pronunciata dalla voce e la sua mobile custodia la vocalità<br />

individuale. Così la composizione viene sillabata,<br />

pronunciata e, <strong>per</strong>ché no?, cantata. Quando è in<strong>te</strong>ssuta di<br />

elementi ripetitivi, alla maniera di cer<strong>te</strong> forme d’espressione<br />

collettiva di popoli allo stato di natura, è abbastanza<br />

spontaneo che la recitazione sia sottolineata da un ritmo di<br />

bonghetti o altre <strong>per</strong>cussioni (da qui il significato originario<br />

XXII


di beat). Quando si dilata oltre i confini di moduli espressivi<br />

pur liberamen<strong>te</strong> stabiliti, ecco che più complesse sinergie<br />

armoniche si sviluppano dall’evento della parola recitata,<br />

soprattutto su <strong>te</strong>mi di chitarra, strumento che <strong>per</strong> la sua<br />

meravigliosa es<strong>te</strong>nsione timbrica e insu<strong>per</strong>abile praticità, è<br />

divenuto elettivo dei recitals/concerti o degli happenings<br />

improvvisati, anche se frequenti sono gli accompagnamenti<br />

di pianofor<strong>te</strong> e altri strumenti. Il primo dato acquisito circa i<br />

Canti metropolitani, come il lettore ricorderà, era che essi<br />

rappresentano espressioni monologiche di un attore / regista<br />

che esce dal suo laboratorio e va in giro di not<strong>te</strong> <strong>per</strong> la città,<br />

che ama ma da cui è respinto senza appello. Aggiungo<br />

adesso che si tratta di monologhi cantati, con intonazione<br />

ora blues ora beat, e musiche di sottofondo in entrambi gli<br />

stili, che questa presentazione può solo evocare nella<br />

fantasia del lettore.<br />

V. La città e il poeta<br />

<strong>Catania</strong> sembra essere rimasta sullo sfondo ma in realtà è<br />

sempre ben presen<strong>te</strong> nell’orizzon<strong>te</strong> mentale di Franco<br />

Arcidiacono in quanto suo referen<strong>te</strong> naturale. Eppure la<br />

<strong>Catania</strong> degli anni ’70 e ‘80 è una città dura, ostile,<br />

provinciale, chiusa alla poesia e all’ar<strong>te</strong>, entusiasta solo del<br />

denaro vero o millantato dei suoi magnati. Per l’Autore<br />

comunque res<strong>te</strong>rà la città in cui aspira a realizzarsi, quella<br />

città che deve po<strong>te</strong>r diventar altro da ciò che è <strong>per</strong>ché può<br />

farlo. Perché nonostan<strong>te</strong> la sua apparen<strong>te</strong> povertà<br />

in<strong>te</strong>llettuale da’ i natali ad artisti capaci di grande generosità<br />

e creatività. Perché <strong>Catania</strong> è un vulcano in continua<br />

XXIII


ebollizione, ma con un assurdo tappo di tradizionalismo<br />

sulla bocca del cra<strong>te</strong>re mentale, che ne blocca l’effusività.<br />

Res<strong>te</strong>rà sempre sua convinzione che questo ostacolo possa<br />

saltare grazie a una formidabile iniezione di vangelo beat<br />

che produca una salutare reazione a ca<strong>te</strong>na. È in gioco il<br />

po<strong>te</strong>r essere di <strong>Catania</strong> ovvero il suo po<strong>te</strong>r non essere un<br />

centro culturalmen<strong>te</strong> marginale sempre a un passo dal<br />

dive ntare una metropoli della cultura medi<strong>te</strong>rranea,<br />

concezione che è il motivo comune ai vari <strong>te</strong>mi dei Canti<br />

metropolitani, a cui adesso accennerò brevemen<strong>te</strong>.<br />

La Città è, innanzitutto, quella realtà al maiuscolo che è<br />

l’essenza dei molti luoghi che ha conosciuto: una<br />

città/prigione, che sebbene gli consenta distrattamen<strong>te</strong> una<br />

certa libertà d’espressione artistica, non lo ascolta né vuole<br />

in<strong>te</strong>ndere il senso del suo messaggio poetico<br />

Città prigione<br />

città ti amo<br />

città ti voglio nuda<br />

città ci fai morire<br />

città ti amo<br />

città ti odio<br />

città ti prego<br />

diventa più umana<br />

(1967)<br />

Quella di cui parla è la città concreta, lo spazio fisico<br />

urbano, la città / metropolis affollata di gen<strong>te</strong> “tra suoni<br />

meccanici / lo<strong>ok</strong> e mode varie / di un’identità omologata”,<br />

dove masse confuse “fingono false illusioni / in cui non<br />

credono” in conglomerati “ormai senza sogni / e fantasia / in<br />

XXIV


questa ottusa / inciviltà / fondamentale/di esis<strong>te</strong>re”<br />

(Uomini),tra i “fonemi confusi del 2000” (Vaghezza). Ma<br />

nella città c’è anche una sommessa popolazione di sognatori<br />

che fantasticano una vera città, qualunque nome abbia e che<br />

si riferisca o meno a un’entità urbana realmen<strong>te</strong> esis<strong>te</strong>n<strong>te</strong>.<br />

Nella fantasia poetica di Franco Arcidiacono la prima a<br />

prendere corpo è Atlantide: “Atlantide // isola vestita di<br />

uomini sole / uomini mare, uomini <strong>te</strong>rra // Atlantide // canti<br />

di s<strong>te</strong>lle e respiri uniti / danze di venti e di onde marine […]<br />

isola sprofondata / nella coscienza nera dei <strong>te</strong>mpi”, e subito<br />

dopo Katmandu, nella poesia recan<strong>te</strong> lo s<strong>te</strong>sso titolo,<br />

“…all’alba di un nuovo giorno nella valle felice” e il Nepal<br />

(Verde Nepal): “Namasté / pace del cuore […]/Nudo tra<br />

l’erba / caldo di sole / bevo il cielo”. Ma anche l’ineffabile<br />

Ams<strong>te</strong>rdam di Colori d’Olanda: “… giallo secco di foglia,<br />

blu di mare del Nord / sulle case abbruma<strong>te</strong> / i colori<br />

d’autunno / luce bianca dei canali grigio blu …” o l’irreale<br />

“Eden <strong>per</strong>duto e ritrovato” di Monologo blues. E ancora<br />

l’Istambul di Remember: … “ricordo d’Istambul sottozero /<br />

ristoran<strong>te</strong> antico /e libertà <strong>per</strong>duta […] avventori viaggiatori<br />

/ senza nome / un piatto di riso / e lunghe conversazioni / tra<br />

un the turco / e la città magica intorno”. Città che sono la<br />

quin<strong>te</strong>ssenza di un’inesis<strong>te</strong>n<strong>te</strong> metropoli ideale. Intanto nella<br />

città meccanizzata, tra gli in<strong>te</strong>rstizi dell’ufficialità e di una<br />

quotidianità alienata, prendono corpo inafferrabili dissidenze<br />

esis<strong>te</strong>nziali, i Tu e le figure fuggevoli dell’hic et nunc, che<br />

subito tramontano <strong>per</strong> lasciare di sé nella memoria un rubato<br />

di poesia, un rubato al <strong>Tempo</strong> (il <strong>Tempo</strong> che ruba e che si<br />

lascia derubare solo dalla poesia): “ Era l’alba di una nuova<br />

era, / sognavamo sogni <strong>per</strong>duti, / io sono, tu sei […]”<br />

XXV


(Nostalghia). A vol<strong>te</strong> al tu si abbina un nome, altrettanto<br />

evanescen<strong>te</strong> del tu. È il caso di Sadee, “visione e<strong>te</strong>rea / di<br />

not<strong>te</strong> solitaria / bar strade nozioni astrat<strong>te</strong> / e solitudine /<br />

insonne di desiderio” (Sadee/night). È l’attimo<br />

dell’in<strong>te</strong>rsecazione di due campi esis<strong>te</strong>nziali, pieno e<br />

appagan<strong>te</strong> nella sua brevità, ma duramen<strong>te</strong> sottoposto alle<br />

leggi della cronometria: il <strong>te</strong>mpo cittadino concede flashs a<br />

chi sa catturarli, ma nulla oltre il rubato poetico, furto<br />

ammesso e augurabile ma la cui esecuzione richiede la<br />

<strong>per</strong>izia di un lungo tirocinio di solitudine nonché la fiducia –<br />

non certo facile da conservare costan<strong>te</strong>men<strong>te</strong> – che le<br />

essenze fluide così raccol<strong>te</strong> non siano fole ma poesia, quel<br />

bene preziosissimo di cui l’umanità non fa che <strong>te</strong>mere. C’è<br />

un tu che è anche se s<strong>te</strong>sso: “E vorrei parlarti così / a<br />

quattr’occhi / come fanno gli uomini / quelli che hanno<br />

vissuto …” e una lei fugace: “Questo posto plastificato / e<br />

lei con gli occhi <strong>te</strong>neri / che mi guarda …”. Dissidenze<br />

esis<strong>te</strong>nziali, istanti d’incontro nella città che tritura ogni<br />

au<strong>te</strong>ntica emozione umana. Non solo Sadee, non solo l’altra<br />

lei di cui si tace il nome, ma anche ragazza negra e Chris<br />

principe sanguemisto, incontrati nella not<strong>te</strong> di Piazza<br />

Navona, che senza sognare vivono in un mondo in<strong>te</strong>rstiziale<br />

dov’è ammessa una quotidianità lontana dalle forme<br />

relazionali dominanti :<br />

“… ragazza negra / entra nella piazza a ritmo di “chiga” /<br />

capelli avvolti in fazzoletto a strisce / - ehi! man, dove si va?<br />

/ - non lo so, ma andiamo. / Chris, principe sanguemisto, ci<br />

fa strada / il selciato silenzioso sotto i nostri passi lenti /sulla<br />

strada <strong>per</strong> il Gianicolo / …e un altro s’avvicina e ci dice / -<br />

hei! dove anda<strong>te</strong>? / - non lo so, ma andiamo” (Monologo<br />

XXVI


lues). Ma è anche il caso del ragazzino di colore Shakid<br />

seduto solo in un angolo, pensieroso, a mangiare un gelato,<br />

guardando in silenzio la “stupida gen<strong>te</strong>” che gli si muove<br />

intorno. Essenze fluide di poesia, ruba<strong>te</strong> al <strong>te</strong>mpo: non<br />

proprio sogni, ma sorelle dei sogni. I sogni vedono come<br />

realtà mondi voluti ma inesis<strong>te</strong>nti, le essenze fluide sono ciò<br />

che resta dell’avventura di sogni e sognatori nella città<br />

meccanica: nulla di solido, ma volatili elisir d’esis<strong>te</strong>nza,<br />

nulla di più prezioso <strong>per</strong> chi li conosce. La poesia non è<br />

filosofia, può usare una parola meno appropriata ma più<br />

chiara di senso <strong>per</strong> ciò che ha in men<strong>te</strong> di comunicare senza<br />

<strong>per</strong>dere in dignità linguistica e espressiva. Così non solo<br />

sogni, ma anche le essenze fluide, cioè rubati poetici, sono<br />

sogni e finché ci sono i sogni d’ogni genere si vive, si è<br />

normali, in un senso molto poetico, cioè si è nella<br />

condizione virtuale di proclamare la norma del vivere non<br />

alienato, che è la ricerca della polis nella metropolis, e in<br />

essa di un’agorà e quindi di una koinè dialektos, dove<br />

pólemos si decanta in phylia, attraverso lo scambio reciproco<br />

della pipa di pace (Calumet). Ma ora “il sogno è finito”, la<br />

“poesia è morta”, la ma<strong>te</strong>ria umana rimane uno “specchio<br />

d’illusioni” e nel vuoto esis<strong>te</strong>nziale, nel lutto che si diffonde<br />

nell’orizzon<strong>te</strong> intorno al poeta invalgono “sentimenti oscuri /<br />

di solitudine / e irrealtà “(Solo). Angoscia che non può<br />

essere redenta ma che la psiche può trasformare in uno stato<br />

mentale più sopportabile, anche se alla fine distruttivo come<br />

quella: la noia (v. poesia omonima), quando “l’anima fruga<br />

nel vuoto del / cervello / sentieri d’azione e sensazioni”. La<br />

sera reca la tris<strong>te</strong>zza di una “fermata dell’autobus / dove non<br />

c’è nessuno […] / solo i fari delle macchine che t’illuminano<br />

XXVII


occhi blasfemi che spiano”. Ma c’è anche un bar (ce ne<br />

sono molti in verità e anche pubs) dove si può incontrare<br />

qualcuno e sognare gli s<strong>te</strong>ssi sogni d’un <strong>te</strong>mpo, consapevoli<br />

che oggi non è possibile viverli se non come inesauribili e<br />

indispensabili sogni (Al bar, Night sensations). Ma se si<br />

sogna, l’abbiamo visto sopra, la vita c’è, la vita della poesia.<br />

La sua anima trova un sollievo, sia pur <strong>te</strong>mporaneo, e <strong>per</strong> un<br />

istan<strong>te</strong> la città non gli mostra un volto da strega, ma di fata<br />

benevola, e gli dona un bellissimo Tramonto Medi<strong>te</strong>rraneo<br />

di fine maggio “tra la palma africana / come fondale di un<br />

arco arcaico / e le rondini che giocano felici / rincorrendosi<br />

tra i palazzi / di pietra nera / istoriati di bianco / su un fondo<br />

blu rosato / di nuvole”. Sì, nella città il poeta è un out-sider<br />

(poesia omonima), ma di quando in quando essa medesima<br />

gli concede il privilegio di <strong>per</strong>cepire” […] “sensazioni<br />

intrise di grecità / turco-medi<strong>te</strong>rranee…” Attraversati gli<br />

inferi della lunga not<strong>te</strong> senza sogni il poeta ritrova la città, la<br />

solita città / madre crudele, che ora gli si addolcisce <strong>per</strong><br />

confortare la sua insopportabile <strong>te</strong>nsione e gli offre la cosa<br />

più bella che possiede, il centro storico barocco, costruito<br />

nel corso del ‘700 con la pietra lavica che abbondava nelle<br />

sue vicinanze, pietra nera resis<strong>te</strong>ntissima ma sollevata nella<br />

sua severità ma<strong>te</strong>riale dall’angelica impronta degli scalpelli<br />

di antichi maestri decoratori, i cui nomi non ci sono<br />

tramandati. È un flirt difficile, che rischia di essere travolto<br />

subito dalla rinnovata pro<strong>te</strong>rvia dell’in<strong>te</strong>rlocutrice. Se non è<br />

possibile con la città, il dialogo appena iniziato può almeno<br />

diventare più continuativo proprio con la pietra nera. La<br />

pietra lavica con cui fu costruito dai Normanni nel XII sec. il<br />

Cas<strong>te</strong>llo di Acicas<strong>te</strong>llo, cittadina sita nelle vicinanze di<br />

XXVIII


<strong>Catania</strong>, gli concede “pensieri estivi calmi / lenti come il<br />

mare sotto / […] / pensieri mitici / di archi diroccati e e<strong>te</strong>rni”<br />

(Pensieri estivi). Vista da un inde<strong>te</strong>rminato paese<br />

dell’hin<strong>te</strong>rland la città non è più metropolis ma città<br />

siciliana: “La pietra lavica degli archi / delle case / ci parla<br />

di storie lontane / tra i vicoli e le piazzet<strong>te</strong> / illumina<strong>te</strong> / di<br />

un piccolo paese etneo // ritorno alle origini / di una madre<br />

<strong>te</strong>rra / dimenticata […] // Come vorrei che questa <strong>te</strong>rra /<br />

producesse storie più belle / di una volta / non paladini<br />

armati / e ingordi di po<strong>te</strong>re e vanagloria / ma esseri umani e<br />

<strong>te</strong>neri / che dalle colline di ginestra / gialla / avvolgano in<br />

una danza / di suoni e armonia / la montagna Etna / che ci ha<br />

generati” (Visione di Sicilia) Sotto la città una Terra Ma<strong>te</strong>r:<br />

“[…] <strong>te</strong>rra madre / <strong>te</strong>rra antica / <strong>te</strong>rra <strong>per</strong>duta / rifiutata /<br />

ritrovata / nei meandri / della creazione”. Ancora sogni,<br />

quindi, <strong>per</strong>duti, ritrovati, recati dal <strong>Tempo</strong> <strong>amico</strong> / nemico,<br />

<strong>te</strong>mpo ancora (e sempre) <strong>amico</strong>, da cui proviene quella<br />

pietas, che reca anch’essa angoscia al poeta che vuole<br />

restare vivo e sensibile nonostan<strong>te</strong> la <strong>te</strong>rribile oscillazione<br />

pendolare dei suoi stati emotivi. Il <strong>Tempo</strong> parla alla pietas il<br />

6 aprile 1997 quando da’ notizia della mor<strong>te</strong> di Allen<br />

Ginsberg, “Addio Allen …mi sei stato maestro nei momenti<br />

tristi / guida solare nei momenti felici // coi tuoi versi ho<br />

attraversato la vita / e a <strong>te</strong> mi sono ispirato / nel buio della<br />

solitudine universale…”Il Lunedì dell’Angelo l999 reca la<br />

nuova che è cominciata la guerra nel Kosovo: “Volti<br />

blasfemi/dalla <strong>te</strong>levisione / fingono frasi di dolore / mentre<br />

fagotti umani / spingono i loro piedi / sul fango della Civiltà/<br />

in cerca di salvezza”.Avviene una catarsi. Sogni, essenze<br />

fluide, pietas tornano tutti nell’ultima poesia dei Canti<br />

XXIX


metropolitani: “Sogno un mondo di / poeti / in un mondo di<br />

/ poesia / e un mondo di / poesia / in un mondo di / poeti //<br />

Così io sto sognando nella mia men<strong>te</strong> / così lontano / io sto<br />

sognando / sempre / così lontano…”<br />

XXX<br />

Giuseppe Vazzana

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