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Dialoghi n. 2009/3-4 (luglio-dicembre 2009)

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CEDA<br />

del DIRITTO<br />

dell’AVVOCATURA<br />

della GIURISDIZIONE<br />

RIVISTA TRIMESTRALE<br />

N. 3-4 LUGLIO-DICEMBRE <strong>2009</strong>


Hanno collaborato a questo numero:<br />

Giulia Cerionesi, foro di venezia<br />

Fulvio Cortese, ricercatore Istituzioni di diritto pubblico Università Trento<br />

Vittorio Fedato, avvocato del foro di Venezia<br />

Aurora Fracassi, avvocato del foro di Venezia<br />

Matteo Garbisi, avvocato del foro di Venezia<br />

Silvia Mirate, ricercatore Istituzioni di diritto amministrativo Università Torino<br />

Alessandro Rampinelli, avvocato del foro di Venezia<br />

Mario Scopinich, avvocato del foro di venezia<br />

Marco Zanotti, ordinario diritto penale Università di Udine


RIVISTA TRIMESTRALE<br />

N. 3-4 LUGLIO-DICEMBRE <strong>2009</strong>


INDICE<br />

Editoriale di Giorgio Orsoni ............................ Pag. VII<br />

GIURISPRUDENZA<br />

Diritto civile<br />

Rassegna giurisprudenziale (a cura di Mario Scopinich)<br />

Una sentenza della Corte di Giustizia Europea e una sentenza della Corte<br />

Costituzionale destinate ad avere effetti radicali in ambito giuslavoristico............................................<br />

Del danno all’integrità morale (nota a Tribunale Venezia – Sez. III sezione<br />

Pag. 201<br />

civile – Sentenza 13 gennaio <strong>2009</strong> – Est. Simone) di Giulia Cerionesi .<br />

Diritto penale<br />

» 217<br />

Derive sicurtarie del diritto penale di Marco Zanotti .............<br />

Nuove professioni sanitarie e «vecchio» art. 348 c.p. (nota a Tribunale Venezia<br />

– Ufficio del Giudice Monocratico Penale – Sent. n. 1572 del 30/<br />

» 227<br />

10/2008 [13/12/2008]), Est. Valeggia, Imp. XY) di Matteo Garbisi . » 241<br />

Il curatore fallimentare non è un poliziotto... di Alessandro Rampinelli .<br />

Diritto amministrativo<br />

La CEDU e il crocifisso: prodromi, motivi e conseguenze di una pronuncia<br />

» 253<br />

tanto discussa di Fulvio Cortese e Silvia Mirate ............<br />

Azione di responsabilità erariale per danno all’immagine della p.a.: prime<br />

pronunce, e primi «sussulti», in merito all’applicazione della nuova disciplina<br />

dell’art. 17 comma 30 ter del d.l. n. 78/09, convertito in legge<br />

n. 102/09, come modificato dal d.l. n. 103/09, convertito in legge n.<br />

141/<strong>2009</strong> (nota a Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per il Ve-<br />

» 269<br />

neto – Sentenza n. 673/09 del 14 ottobre <strong>2009</strong>) di Vittorio Fedato . » 287<br />

Piano - Casa: le leggi regionali del Triveneto a confronto di Aurora Fracassi<br />

.......................................... » 303


EDITORIALE<br />

La costituzionalizzazione della figura dell’Avvocato<br />

Quando mi venne prospettata l’idea di inserire nella Costituzione delle norme<br />

che disciplinassero il ruolo dell’«Avvocatura» nell’ambito della «giurisdizione»,<br />

accanto a quello della «magistratura», essa mi apparve subito inopportuna, se non<br />

radicalmente sbagliata.<br />

Inopportuna perché l’Avvocatura, in tutte le sue componenti era (ed è) impegnata<br />

a portare avanti una riforma dell’ordinamento forense da troppi anni attesa<br />

e mai sufficientemente presa in considerazione dal mondo politico, sostanzialmente<br />

sospettoso del ceto avvocatorio, se non apertamente avverso, interpretando un<br />

diffuso malessere della società civile nei confronti degli avvocati, passati in breve<br />

tempo ad essere da classe stimata e privilegiata a consorteria vista con sospetto<br />

dalla maggioranza dei cittadini.<br />

Una riforma assolutamente necessaria per porre rimedio ai maggiori nodi critici<br />

della professione, l’accesso, le tariffe, l’aggiornamento, la disciplina, le specializzazioni<br />

ecc., per affrontare i quali finalmente il Ministro si è detto disponibile ad<br />

impegnarsi.<br />

Sbagliata perché la funzione dell’Avvocato, in quanto difensore dei diritti, è caratterizzata<br />

non solo dalla indipendenza che è tipica dei magistrati come titolari<br />

della giurisdizione e come tali «soggetti soltanto alla legge», ma soprattutto dalla<br />

libertà, pur dovendo alla legge quel rispetto che incombe su tutti i cittadini?<br />

Mera «indipendenza» da un lato, assoluta «libertà di ministero» dall’altra.<br />

Perché, mi sono chiesto, sottoporre ad una disciplina costituzionale, e perciò<br />

altamente vincolante, una professione che ha già un riconoscimento costituzionale<br />

sia pure indiretto nell’art. 24, laddove la si pone come tutrice dei diritti dei cittadini.<br />

Il rischio evidente è quello di una «pubblicizzazione» dell’avvocatura tipico di<br />

paesi non democratici, ove ad esso viene sì riconosciuta una rilevanza pubblicistica,<br />

ma nell’ambito della struttura statuale.<br />

Senonché l’osservazione del faticoso percorso della riforma della legge professionale<br />

mi ha indotto a riflettere, al di là delle pur fondate e condivisibili osservazioni<br />

circa il ruolo dell’Avvocatura come elemento essenziale della giurisdizione,<br />

sul ruolo processuale dell’avvocato e sulla necessità del contraddittorio altrimenti<br />

inesistente, senza la presenza del difensore tecnico.<br />

Non intendo entrare nel merito dei singoli aspetti della legge di riforma, alcuni


VIII EDITORIALE<br />

ottimi, altri meno, ma nel complesso rappresentanti il massimo dell’impegno da<br />

parte dei soggetti dell’avvocatura che l’hanno proposta.<br />

Ciò che tuttavia non viene sufficientemente considerato è il fatto che la riforma<br />

si impone non tanto perché la legge professionale è vecchia di 80 anni, oppure<br />

perché essa è necessaria agli avvocati, come singoli o in associazione.<br />

Essa si impone perché è necessaria ad una società che è cambiata; che è radicalmente<br />

cambiata non solo rispetto al 1930, ma soprattutto dopo la Costituzione.<br />

E dopo la Costituzione vuol dire grazie alla Costituzione, ma anche grazie ad un<br />

sistema istituzionale, ad una forma di stato che si è andata progressivamente evolvendo<br />

da una struttura statalistica, accentrata, in cui ogni potere è riferibile solo allo<br />

Stato, in una struttura pluralistica nella quale sono esaltate, non solo le autonomie<br />

locali, ma anche le formazioni sociali in tutte le loro componenti, sino ad arrivare alle<br />

più recenti affermazioni della sussidiarietà, non solo verticale, ma anche orizzontale.<br />

Quante volte abbiamo parlato di professione e mercato nei nostri vari convegni?<br />

Proprio perché è diffusa la consapevolezza che la professione deve fare i conti<br />

con una società in profonda trasformazione, nella quale le regole del mercato e<br />

della concorrenza, altro non sono se non l’aspetto estremo di quel pluralismo degli<br />

ordinamenti che caratterizza le nostre democrazie più moderne.<br />

Ma pluralismo delle istituzioni significa anche abbandono dell’idea del monopolio<br />

del potere da parte dello Stato; abbandono reso più evidente con la riforma<br />

costituzionale del 2001, ma già presente negli artt. 2e5Cost., laddove sono affermati<br />

sia i principi di autonomia delle formazioni sociali private e pubbliche, sia<br />

quelli di sussidiarietà orizzontale anche tra soggetti titolari di pubbliche funzioni.<br />

È evidente allora come una riforma dell’avvocatura che non parta da questi<br />

presupposti, rischi di rimanere un qualcosa di sterile, perché concentrato alla ridefinizione<br />

dei soli meccanismi interni all’esercizio dell’attività professionale.<br />

Se vogliamo elevarci rispetto alla ormai annosa diatriba sull’inquadramento<br />

dell’attività dell’avvocato in quella imprenditoriale non vi è altra strada di una riaffermazione<br />

alta, e perciò a livello costituzionale, della professione come partecipe<br />

all’esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto esso non può essere, in una<br />

moderna società pluralistica, monopolio esclusivo dello Stato.<br />

È questa un’applicazione di quel principio di sussidiarietà orizzontale nell’esercizio<br />

delle funzioni pubbliche, che si esprime nel giusto riconoscimento agli<br />

organi dell’avvocatura anche di poteri normativi, in ossequio al pluralismo delle<br />

fonti ormai accettato a tutti i livelli.<br />

È, o meglio, dovrà essere, il primo passo per un pieno riconoscimento di una<br />

giurisdizione non più solo statale, ma declinata anche in senso federale.<br />

Giorgio Orsoni


RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE<br />

(a cura di Mario Scopinich)<br />

UNA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA E<br />

UNA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE DESTINATE<br />

AD AVERE EFFETTI RADICALI IN AMBITO GIUSLAVORISTICO<br />

Corte di Giustizia Europea – Sentenza 11 giugno <strong>2009</strong> (C-561/07)<br />

Crisi aziendale - Trasferimento di azienda - Diritti dei lavoratori<br />

La Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza<br />

della direttiva del Consiglio 12 marzo 2001, 2001/23/CE, in quanto, mantenendo in<br />

vigore le disposizioni di cui all’art. 47, commi5e6,della legge 29 <strong>dicembre</strong> 1990, n.<br />

428, in caso di trasferimento di un’azienda il cui stato di crisi sia stato accertato, i diritti<br />

riconosciuti ai lavoratori dall’art. 3, nn. 1,3e4,nonché dall’art. 4 della direttiva<br />

del Consiglio 12 marzo 2001, 2001/23/CE, non sono garantiti.<br />

Fatto e diritto.<br />

1. Con il suo ricorso la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare<br />

che, mantenendo in vigore le disposizioni dell’art. 47, commi 5e6,della legge 29 <strong>dicembre</strong> 1990, n.<br />

428 (Supplemento ordinario alla GURI n. 10 del 12 gennaio 1991; in prosieguo: la «legge n. 428/<br />

1990») in caso di «crisi aziendale» ai sensi dell’art. 2, quinto comma, lett. c), della legge 12 agosto<br />

1977, n. 675 (GURI n. 243 del 7 settembre 1977; in prosieguo: la «legge n. 675/1977»), in modo tale<br />

che i diritti riconosciuti ai lavoratori dagli artt. 3e4della direttiva del Consiglio 12 marzo 2001,<br />

2001/23/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento<br />

dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese<br />

o di stabilimenti (GU L 82, pag. 16), non sono garantiti nel caso di trasferimento di un’azienda il<br />

cui stato di crisi sia stato accertato, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti<br />

in forza di tale direttiva.<br />

Contesto normativo. Il diritto comunitario.<br />

2. L’art. 3 della direttiva 2001/23 dispone quanto segue:<br />

«1. I diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto


202 GIURISPRUDENZA<br />

di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al<br />

cessionario.<br />

Gli Stati membri possono prevedere che il cedente, anche dopo la data del trasferimento, sia responsabile,<br />

accanto al cessionario, degli obblighi risultanti prima della data del trasferimento da un<br />

contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento.<br />

2. Gli Stati membri possono adottare i provvedimenti necessari per garantire che il cedente notifichi<br />

al cessionario tutti i diritti e gli obblighi che saranno trasferiti al cessionario a norma del presente<br />

articolo, nella misura in cui tali diritti e obblighi siano o avessero dovuto essere noti al cedente al<br />

momento del trasferimento. (...)<br />

3. Dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante<br />

contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione<br />

o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto<br />

collettivo.<br />

Gli Stati membri possono limitare il periodo del mantenimento delle condizioni di lavoro, purché<br />

esso non sia inferiore ad un anno.<br />

4. a) A meno che gli Stati membri dispongano diversamente, i paragrafi1e3nonsiapplicano ai<br />

diritti dei lavoratori a prestazioni di vecchiaia, di invalidità o per i superstiti dei regimi complementari<br />

di previdenza professionali o interprofessionali, esistenti al di fuori dei regimi legali di sicurezza<br />

sociale degli Stati membri.<br />

b) Anche quando essi non prevedono, a norma della lettera a), che i paragrafi1e3siapplichino<br />

a tali diritti, gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari per tutelare gli interessi dei lavoratori<br />

e di coloro che hanno già lasciato lo stabilimento del cedente al momento del trasferimento per<br />

quanto riguarda i diritti da essi maturati o in corso di maturazione, a prestazioni di vecchiaia, comprese<br />

quelle per i superstiti, dei regimi complementari di cui alla lettera a) del presente paragrafo».<br />

3. Ai sensi dell’art. 4 della direttiva 2001/23:<br />

«1. Il trasferimento di un’impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento<br />

non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Tale dispositivo<br />

non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione<br />

che comportano variazioni sul piano dell’occupazione.<br />

(...)».<br />

4. In conformità all’art. 5 della direttiva 2001/23:<br />

«1. A meno che gli Stati membri dispongano diversamente, gli articoli 3e4nonsiapplicano ad<br />

alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente<br />

sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in<br />

vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un’autorità<br />

pubblica competente (che può essere il curatore fallimentare autorizzato da un’autorità pubblica<br />

competente).<br />

2. Quando gli articoli3e4siapplicano ad un trasferimento nel corso di una procedura di insolvenza<br />

aperta nei confronti del cedente (indipendentemente dal fatto che la procedura sia stata aperta<br />

in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso) e a condizione che tali procedure siano sotto il<br />

controllo di un’autorità pubblica competente (che può essere un curatore fallimentare determinato<br />

dal diritto nazionale), uno Stato membro può disporre che:<br />

a) nonostante l’articolo 3, paragrafo 1, gli obblighi del cedente risultanti da un contratto di<br />

lavoro o da un rapporto di lavoro e pagabili prima del trasferimento o prima dell’apertura della procedura<br />

di insolvenza non siano trasferiti al cessionario, a condizione che tali procedure diano adito,<br />

in virtù della legislazione dello Stato membro, ad una protezione almeno equivalente a quella prevista<br />

nelle situazioni contemplate dalla direttiva 80/987/CEE del Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente<br />

il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati<br />

in caso di insolvenza del datore di lavoro [(GU L 283, pag. 23), come modificata dall’atto<br />

relativo alle condizioni di adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del


RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE 203<br />

Regno di Svezia e agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda l’Unione europea (GU 1994, C 241,<br />

pag. 21, e GU 1995, L 1, pag. 1)]; e/o<br />

b) il cessionario, il cedente o la persona o le persone che esercitano le funzioni del cedente, da<br />

un lato, e i rappresentanti dei lavoratori, dall’altro, possano convenire, nella misura in cui la legislazione<br />

o le prassi in vigore lo consentano, modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a<br />

salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento<br />

o di parti di imprese o di stabilimenti.<br />

3. Uno Stato membro ha facoltà di applicare il paragrafo 2, lettera b), a trasferimenti in cui il cedente<br />

sia in una situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purché tale<br />

situazione sia dichiarata da un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario, a<br />

condizione che tali disposizioni fossero già vigenti nel diritto nazionale il 17 <strong>luglio</strong> 1998.<br />

(...)».<br />

La legislazione nazionale.<br />

5. L’art. 47 della legge n. 428/1990 stabilisce, ai commi5e6,quanto segue:<br />

«5. Qualora il trasferimento riguardi aziende o unità produttive delle quali il CIPI [comitato interministeriale<br />

per il coordinamento della politica industriale] abbia accertato lo stato di crisi aziendale<br />

a norma dell’art. 2, quinto comma, lett. c), della legge 12 agosto 1977, n. 675 (...) ai lavoratori il<br />

cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile,<br />

salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere<br />

che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere,<br />

in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante.<br />

6. I lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante<br />

hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro un anno dalla data del<br />

trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori<br />

predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante in un momento<br />

successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile».<br />

6. In conformità alla legge n. 675/1977, l’accertamento dello stato di crisi aziendale ai sensi dell’art.<br />

2, quinto comma, lett. c), di tale legge consente all’impresa di beneficiare temporaneamente<br />

della presa a carico, ad opera della Cassa integrazione guadagni straordinaria (in prosieguo: la «CI-<br />

GS»), della retribuzione di tutti o di parte dei suoi dipendenti.<br />

7. L’art. 2112 del codice civile, come modificato dal decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 18<br />

(GURI n. 43 del 21 febbraio 2001; in prosieguo: il «codice civile»), prevede quanto segue:<br />

«1. In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore<br />

conserva tutti i diritti che ne derivano.<br />

2. Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al<br />

tempo del trasferimento. (...)<br />

3. Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti<br />

collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza,<br />

salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di<br />

sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.<br />

4. Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti,<br />

il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. (...)<br />

(...)».<br />

Fase precontenziosa del procedimento.<br />

8. Con lettera di diffida del 10 aprile 2006 la Commissione richiamava l’attenzione delle autorità<br />

italiane sul fatto che l’art. 47, commi5e6,della legge n. 428/1990 può costituire una violazione della<br />

direttiva 2001/23 in quanto i lavoratori dell’impresa ammessi al regime della CIGS trasferiti all’acquirente<br />

non beneficiano dei diritti tutelati dall’art. 2112 del codice civile, fatte salve le eventuali garanzie<br />

previste da un accordo sindacale.


204 GIURISPRUDENZA<br />

9. Con lettera dell’8 agosto 2006 la Repubblica italiana contestava di essere stata inadempiente ai<br />

propri obblighi sostenendo la conformità dell’art. 47, commi5e6,della legge n. 428/1990 alla direttiva<br />

2001/23.<br />

10. La Commissione, con lettera del 23 marzo 2007, inviava alla Repubblica italiana un parere<br />

motivato ove concludeva che tale Stato membro non aveva ottemperato agli obblighi derivanti dalla<br />

direttiva 2001/23 e lo invitava ad assumere i provvedimenti necessari per conformarsi a tale parere<br />

entro un termine di due mesi a partire dal ricevimento dello stesso. La Repubblica italiana rispondeva<br />

a tale parere con lettera del 29 maggio 2007 ribadendo, in sostanza, i propri precedenti argomenti.<br />

11. Ciò premesso, la Commissione decideva di proporre il ricorso in esame.<br />

Sul ricorso.<br />

12. Si deve preliminarmente rilevare che, nel suo ricorso, la Commissione sostiene che l’art. 47,<br />

commi 5e6,della legge n. 428/1990 non è conforme alla direttiva 2001/23, laddove non garantisce<br />

ai lavoratori l’applicazione dell’art. 2112 del codice civile, il quale traspone le garanzie previste dagli<br />

artt. 3e4della direttiva 2001/23 in caso di trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo<br />

stato di crisi.<br />

13. A seguito di talune precisazioni fornite dalla Repubblica italiana e di un quesito posto dalla<br />

Corte, la Commissione ha rinunciato, nella sua replica e all’udienza, alla censura basata sulla difformità<br />

del citato art. 47, commi 5e6,rispetto all’art. 3, nn. 1, secondo comma, e 2, della direttiva<br />

2001/23.<br />

Argomenti delle parti.<br />

14. La Commissione afferma che, escludendo l’applicazione dell’art. 2112 del codice civile al<br />

trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi, i lavoratori la cui impresa è oggetto<br />

di un trasferimento perdono il diritto al riconoscimento della loro anzianità, del loro trattamento<br />

economico e delle loro qualifiche professionali, nonché il diritto a prestazioni di vecchiaia derivanti<br />

dal regime di sicurezza sociale legale di cui all’art. 3, n. 1, prima frase, della direttiva 2001/23.<br />

Essi perderebbero altresì il beneficio del mantenimento, per un periodo minimo di un anno, delle<br />

condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo, come previsto dall’art. 3, n. 3, di tale<br />

direttiva.<br />

15. La Commissione rileva che l’art. 3, n. 4, della direttiva 2001/23 consente di non applicare i<br />

nn.1e3ditale articolo alle prestazioni di vecchiaia, di invalidità o per i superstiti concesse al di fuori<br />

dei regimi legali di sicurezza sociale, ma che, in tal caso, gli Stati membri devono adottare i provvedimenti<br />

necessari per tutelare gli interessi dei lavoratori. Orbene, ciò non avverrebbe nel caso della legislazione<br />

italiana in questione.<br />

16. L’art. 47, commi5e6,della legge n. 428/1990 non sarebbe neppure conforme all’art. 4 della<br />

direttiva 2001/23, dal momento che tale disposizione, pur vietando il licenziamento giustificato dal<br />

solo motivo del trasferimento, non pregiudica i licenziamenti giustificati da motivi economici, tecnici<br />

o d’organizzazione che comportano variazioni sul piano dell’occupazione. Così, la Commissione rileva<br />

che il fatto che un’impresa sia dichiarata in stato di crisi non implicherebbe automaticamente e sistematicamente<br />

variazioni sul piano dell’occupazione ai sensi dell’art. 4 della direttiva 2001/23. Inoltre,<br />

la dichiarazione di crisi aziendale coinvolgerebbe unicamente il cedente, mentre gli obblighi che<br />

discendono dall’art. 4 della direttiva 2001/23 si applicherebbero anche al cessionario.<br />

17. Secondo la Commissione, il trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo stato di<br />

crisi non rappresenta un trasferimento d’impresa che è oggetto di una procedura aperta in vista della<br />

liquidazione dei beni del cedente e che si trova sotto il controllo di un’autorità pubblica competente.<br />

Orbene, quest’ultima ipotesi sarebbe l’unica prevista dalla direttiva 2001/23 al suo art. 5, n. 1, il quale<br />

consente di non applicare gli artt.3e4diquest’ultima.<br />

18. Neppure l’art. 5, n. 2, della direttiva 2001/23 sarebbe applicabile alla procedura volta a constatare<br />

lo stato di crisi in quanto, per un verso, il presupposto da cui muove tale disposizione sarebbe<br />

l’applicazione degli artt.3e4della direttiva 2001/23 e in quanto, per altro verso, il citato art. 5, n. 2,<br />

sarebbe applicabile solamente nell’ipotesi di un trasferimento d’impresa realizzato nel corso di una


RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE 205<br />

procedura di insolvenza, procedura a cui non potrebbe assimilarsi quella in esame, tenuto conto di<br />

quanto dichiarato dalla Corte nella sentenza 7 <strong>dicembre</strong> 1995, causa C-472/93, Spano e a. (Racc.<br />

pag. I-4321).<br />

19. Del pari, non potrebbe neppure applicarsi l’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23, che consente<br />

l’applicazione del n. 2, lett. b), dello stesso art. 5 in caso di trasferimento in una situazione di grave<br />

crisi economica, dal momento che l’art. 5, n. 2, lett. b), della direttiva 2001/23 abilita gli Stati membri<br />

unicamente a consentire all’alienante e ai rappresentanti dei lavoratori di modificare di comune accordo<br />

le condizioni di lavoro in talune circostanze e non consentirebbe loro quindi di escludere, come<br />

previsto dall’art. 47, commi5e6,della legge n. 428/90, l’applicazione degli artt.3e4della direttiva<br />

2001/23.<br />

20. La Repubblica italiana nega l’inadempimento contestatole sostenendo, in primo luogo, che,<br />

laddove la direttiva 2001/23 prevede una garanzia facoltativa, non le si può addebitare di non applicare<br />

l’art. 2112 del codice civile. Ciò si verificherebbe, ad esempio, per quanto riguarda le prestazioni<br />

di vecchiaia, di invalidità o per i superstiti concesse in base ai regimi complementari di previdenza<br />

professionali o interprofessionali il cui trasferimento è escluso dall’art. 3, n. 4, lett. a), della direttiva<br />

2001/23, e ciò salvo che gli Stati membri non dispongano diversamente.<br />

21. In secondo luogo, tale Stato membro sostiene che, laddove la direttiva 2001/23 prevede garanzie<br />

obbligatorie, vale a dire quelle di cui al suo art. 3, nn. 1, primo comma, e 3, nonché al suo art.<br />

4, essa prevede altresì espressamente la possibilità di derogarvi in ragione di circostanze specifiche.<br />

22. Per quanto concerne la garanzia prevista all’art. 4 della direttiva 2001/23, la Repubblica italiana<br />

rileva che la procedura volta all’accertamento dello stato di crisi riguarda sempre specifici casi<br />

di crisi aziendale che presentino particolare rilevanza sociale, in relazione alla situazione occupazionale<br />

locale e alla situazione produttiva nel settore economico di riferimento, casi che costituirebbero<br />

circostanze giustificative del licenziamento.<br />

23. L’art. 5, nn.2e3,della direttiva 2001/23 rappresenterebbe una deroga alle garanzie previste<br />

dall’art. 3, nn. 1e3,ditale direttiva, applicabile in una situazione di crisi aziendale quale quella prevista<br />

dalla legge n. 675/77, dal momento che l’accertamento della crisi aziendale ai sensi di tale legge<br />

presuppone lo stato d’insolvenza dell’impresa.<br />

24. Infatti, l’art. 5, n. 2, lett. a), della direttiva 2001/23, che ha ad oggetto una procedura di insolvenza<br />

aperta nei confronti del cedente, «indipendentemente dal fatto che la procedura sia stata aperta<br />

in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso», si applicherebbe alla procedura di accertamento<br />

dello stato di crisi. In un’ipotesi siffatta, ancorché trovino applicazione gli artt. 3e4della direttiva<br />

2001/23, la suddetta disposizione prevedrebbe una sostanziale deroga consentendo, nonostante<br />

le disposizioni dell’art. 3, n. 1, della direttiva 2001/23, di non trasferire al cessionario gli obblighi<br />

del cedente nei confronti dei lavoratori, a condizione che tale procedura dia adito ad una<br />

protezione almeno equivalente a quella prevista per le situazioni contemplate nella direttiva 80/987,<br />

come modificata dall’atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica<br />

di Finlandia e del Regno di Svezia e agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda l’Unione<br />

europea. Il meccanismo della CIGS avrebbe una durata più estesa e, in conformità all’art. 47, sesto<br />

comma, della legge n. 428/1990, sarebbe finalizzato all’assunzione del personale in esubero da parte<br />

del cessionario con priorità rispetto alle eventuali altre assunzioni che quest’ultimo intendesse effettuare<br />

entro un anno dal trasferimento d’azienda.<br />

25. Del pari, l’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23, che, mediante un rinvio al n. 2, lett. b) del citato<br />

art. 5, consentirebbe di apportare modifiche alle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare<br />

le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa in caso di grave crisi<br />

economica, rappresenterebbe una specifica deroga alla garanzia di cui all’art. 3, n. 3, della direttiva<br />

2001/23, che prevede il mantenimento, almeno per un anno, delle condizioni di lavoro. L’art. 47,<br />

quinto comma, della legge n. 428/90 contemplerebbe una procedura compatibile, sotto tutti i punti<br />

di vista, con quella richiesta per l’applicazione della deroga di cui all’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/<br />

23. La situazione di grave crisi economica, infatti, sarebbe dichiarata da un’autorità pubblica, sareb-


206 GIURISPRUDENZA<br />

be prevista l’esigenza di salvaguardia delle opportunità occupazionali, sarebbe necessario un accordo<br />

tra cessionario, cedente e rappresentanti dei lavoratori e sussisterebbe l’apertura al controllo giudiziario<br />

in quanto, nell’ipotesi di mancato rispetto della procedura prevista per quanto concerne in<br />

particolare la conclusione dell’accordo, le parti sono legittimate a ricorrere all’autorità giudiziaria<br />

competente.<br />

26. La Repubblica italiana sostiene, infine, che un’interpretazione della direttiva 2001/23 che si<br />

risolva nell’impedire che i lavoratori in soprannumero dell’impresa restino alle dipendenze del cedente<br />

potrebbe risultare meno favorevole ai lavoratori medesimi, sia perché il potenziale cessionario<br />

potrebbe essere dissuaso dall’acquistare l’impresa dalla prospettiva di dover mantenere in servizio il<br />

personale eccedente dell’impresa trasferita, sia perché il personale verrebbe licenziato e perderebbe<br />

quindi i vantaggi che avrebbe eventualmente potuto trarre dalla continuazione del rapporto di lavoro<br />

con il cedente.<br />

Giudizio della corte.<br />

27. Si deve anzitutto rilevare che la Repubblica italiana non contesta il fatto che l’art. 47, commi<br />

5 e 6, della legge n. 428/1990, escludendo l’applicazione dell’art. 2112 del codice civile, priva i lavoratori<br />

trasferiti ammessi al regime della CIGS, in caso di accertamento dello stato di crisi dell’impresa,<br />

delle garanzie su cui verte il presente ricorso. Tale Stato membro sostiene tuttavia che tale esclusione<br />

è conforme alla direttiva 2001/23 in quanto, in primo luogo, tale direttiva prevedrebbe, al suo<br />

art. 3, n. 4, una garanzia facoltativa e in quanto, in secondo luogo, essa consentirebbe espressamente<br />

di derogare alle garanzie obbligatorie di cui al suo art. 3, nn. 1, primo comma, e 3, nonché al suo art.<br />

4.<br />

28. Occorre di conseguenza verificare, in primo luogo, se l’art. 3, n. 4, della direttiva 2001/23 introduca<br />

una garanzia facoltativa, la cui esclusione sia giustificata dall’art. 47, commi5e6,della legge<br />

n. 428/1990.<br />

29. A tal proposito, si deve rilevare che l’art. 3, n. 4, della direttiva 2001/23 prevede un’eccezione<br />

all’applicazione dei nn.1e3delmedesimo art. 3, che impongono al cessionario di mantenere i diritti<br />

e gli obblighi che risultano per il cedente dal contratto di lavoro o dal rapporto di lavoro, nonché<br />

le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo, fino alla data della risoluzione o<br />

della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto<br />

collettivo, per un periodo minimo di un anno.<br />

30. Tale eccezione riguarda i diritti dei lavoratori a prestazioni di vecchiaia, di invalidità o per i<br />

superstiti dei regimi complementari di previdenza professionali o interprofessionali, esistenti al di<br />

fuori dei regimi legali di sicurezza sociale. Inoltre, in considerazione dell’obiettivo generale di tutela<br />

dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese perseguito dalla citata direttiva, tale eccezione<br />

deve essere interpretata restrittivamente (v., per analogia, sentenza 4 giugno 2002, causa<br />

C-164/00, Beckmann, Racc. pag. I-4893, punto 29).<br />

31. Si deve inoltre rilevare che, ai sensi dell’art. 3, n. 4, lett. b), della direttiva 2001/23, gli Stati<br />

membri, anche qualora applichino tale eccezione, sono tenuti ad adottare i provvedimenti necessari<br />

per tutelare gli interessi dei lavoratori per quanto riguarda i diritti da essi maturati o in corso di maturazione<br />

a prestazioni di vecchiaia, comprese quelle per i superstiti, dei regimi complementari di cui<br />

alla lett. a) della medesima disposizione.<br />

32. Ne discende che, anche ammesso che l’obbligo di trasferimento delle prestazioni di vecchiaia,<br />

di invalidità o per i superstiti dei regimi complementari risultante dall’art. 47, commi 5e6,<br />

della legge n. 428/1990 sia conforme all’art. 3, n. 4, lett. a), della direttiva 2001/23, si deve tuttavia rilevare<br />

che l’argomento della Repubblica italiana, inteso a sostenere che l’esclusione, in caso di crisi<br />

dell’impresa, dell’applicazione ai lavoratori trasferiti dell’art. 2112 del codice civile sarebbe conforme<br />

all’art. 3, n. 4, della direttiva 2001/23, si fonda su una lettura erronea ed incompleta di detto art.<br />

3, n. 4. Infatti, per un verso, solo le prestazioni concesse al di fuori dei regimi legali di sicurezza sociale<br />

tassativamente elencate dall’art. 3, n. 4, lett. a), della direttiva 2001/23 possono essere sottratte<br />

all’obbligo di trasferimento dei diritti dei lavoratori. Per altro verso, tale esclusione di un obbligo di


RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE 207<br />

trasferimento deve essere accompagnata dall’adozione, da parte dello Stato membro, dei provvedimenti<br />

necessari per tutelare gli interessi dei lavoratori in conformità all’art. 3, n. 4, lett. b), della citata<br />

direttiva con riferimento ai loro diritti a prestazioni di vecchiaia dei regimi complementari di cui alla<br />

lett. a) del citato art. 3, n. 4, ciò che la Repubblica italiana non dimostra in alcun modo.<br />

33. Di conseguenza, non possono essere accolti gli argomenti della Repubblica italiana intesi a<br />

sostenere che l’art. 47, commi5e6,della legge n. 428/1990 è conforme all’art. 3, n. 4, della direttiva<br />

2001/23.<br />

34. In secondo luogo, si deve verificare se la mancata applicazione, ad opera dell’art. 47, commi<br />

5 e 6, della legge n. 428/1990, dell’art. 3, nn. 1e3,nonché dell’art. 4 della direttiva 2001/23 sia conforme<br />

alle disposizioni della direttiva stessa, in quanto quest’ultima prevedrebbe espressamente deroghe<br />

alle garanzie obbligatorie ivi previste.<br />

35. Per quanto concerne, anzitutto, l’argomento della Repubblica italiana secondo cui le ragioni<br />

che giustificano il licenziamento in caso di trasferimento indicate dall’art. 4, n. 1, della direttiva<br />

2001/23 risultano soddisfatte in casi specifici di crisi aziendale ai sensi dell’art. 2, quinto comma, lett.<br />

c), della legge n. 675/1977, si deve rammentare che l’art. 4, n. 1, della direttiva 2001/23 garantisce la<br />

tutela dei diritti dei lavoratori contro un licenziamento giustificato esclusivamente dal trasferimento,<br />

sia nei confronti del cedente sia nei confronti del cessionario, pur non pregiudicando i licenziamenti<br />

che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione che comportino variazioni<br />

sul piano dell’occupazione.<br />

36. Orbene, si deve necessariamente rilevare che il fatto che un’impresa sia dichiarata in situazione<br />

di crisi ai sensi della legge n. 675/1977 non può implicare necessariamente e sistematicamente variazioni<br />

sul piano dell’occupazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva 2001/23. Inoltre, deve rilevarsi<br />

che le ragioni giustificative del licenziamento possono trovare applicazione, conformemente alle disposizioni<br />

italiane di cui trattasi, solamente in casi specifici di crisi aziendale, come ammesso dalla stessa<br />

Repubblica italiana. Pertanto, la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale non può<br />

necessariamente e sistematicamente rappresentare un motivo economico, tecnico o d’organizzazione<br />

che comporti variazioni sul piano dell’occupazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva 2001/23.<br />

37. Per quanto riguarda, inoltre, l’argomento della Repubblica italiana in merito alla pretesa applicabilità<br />

della deroga prevista dall’art. 5, n. 2, lett. a), della direttiva 2001/23 alla procedura di accertamento<br />

dello stato di crisi, come prevista dall’art. 47, sesto comma, della legge n. 428/1990,<br />

emerge dal tenore letterale di tale prima disposizione che gli Stati membri, quando gli artt.3e4della<br />

direttiva 2001/23 si applicano ad un trasferimento nel corso di una procedura di insolvenza aperta<br />

nei confronti del cedente e a condizione che tale procedura sia sotto il controllo di un’autorità pubblica<br />

competente, possono disporre che, nonostante l’art. 3, n. 1, di tale direttiva, taluni obblighi del<br />

cedente non siano trasferiti alle condizioni stabilite alla lett. a) del medesimo art. 5, n. 2.<br />

38. L’art. 5, n. 2, lett. a), della direttiva 2001/23 consente quindi agli Stati membri, a determinate<br />

condizioni, di non applicare talune garanzie di cui agli artt. 3e4della direttiva stessa a un trasferimento<br />

di impresa laddove sia aperta una procedura di insolvenza e laddove questa si trovi sotto il<br />

controllo di un’autorità pubblica competente. Orbene, nell’ambito di un procedimento pregiudiziale<br />

vertente sulla questione se la direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il<br />

ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori<br />

in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti (GU L 61, pag. 26), che<br />

precedeva la direttiva 2001/23, fosse applicabile al trasferimento di un’impresa oggetto della procedura<br />

di accertamento dello stato di crisi, la Corte ha stabilito che tale procedura mira a favorire la<br />

prosecuzione dell’attività dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa, non implica alcun controllo<br />

giudiziario o provvedimento di amministrazione del patrimonio dell’impresa e non prevede<br />

nessuna sospensione dei pagamenti (sentenza Spano e a., cit., punti 28 e 29). Si deve inoltre rilevare<br />

che il CIPI si limita a dichiarare lo stato di crisi di un’impresa e che tale dichiarazione consente all’impresa<br />

di cui trattasi di beneficiare temporaneamente del fatto che la CIGS si faccia carico della<br />

retribuzione di tutti o di parte dei suoi dipendenti.


208 GIURISPRUDENZA<br />

39. Ne discende che, alla luce di tali elementi, non può ritenersi che la procedura di accertamento<br />

dello stato di crisi aziendale sia tesa ad un fine analogo a quello perseguito nell’ambito di una procedura<br />

di insolvenza quale quella di cui all’art. 5, n. 2, lett. a), della direttiva 2001/23, né che essa si<br />

trovi sotto il controllo di un’autorità pubblica competente, come previsto dal medesimo articolo.<br />

40. Di conseguenza, i presupposti d’applicazione dell’art. 5, n. 2, lett. a), della direttiva 2001/23<br />

non ricorrono nella procedura su cui verte l’inadempimento in esame e gli argomenti formulati in tal<br />

senso dalla Repubblica italiana non possono, pertanto, essere accolti.<br />

41. Oltretutto, anche ammesso che l’art. 5, n. 2, lett. a), della direttiva 2001/23 sia applicabile alla<br />

procedura di accertamento dello stato di crisi, come sostenuto dalla Repubblica italiana, è pur vero<br />

che il presupposto fondamentale di tale disposizione è l’applicazione degli artt. 3e4della direttiva<br />

2001/23. Orbene, l’art. 47, sesto comma, della legge n. 428/1990 prevede, al contrario, la loro<br />

esclusione.<br />

42. Tale interpretazione è peraltro avvalorata da una lettura sistematica del citato art. 5 della direttiva<br />

2001/23. Infatti, quando il legislatore comunitario ha voluto escludere l’applicazione degli<br />

artt. 3e4della direttiva 2001/23, lo ha espressamente previsto, come emerge dalla lettera stessa dell’art.<br />

5, n. 1, della direttiva citata, secondo cui tali artt. 3 e 4 non si applicano al trasferimento di<br />

un’impresa che sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga<br />

aperta in vista della liquidazione dei beni, a meno che gli Stati membri dispongano diversamente.<br />

43. Per quanto concerne, infine, l’argomento della Repubblica italiana basato sull’asserita conformità<br />

dell’art. 47, quinto comma, della legge n. 428/1990 con l’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23,<br />

si deve rilevare che tale disposizione consente agli Stati membri di prevedere che le condizioni di lavoro<br />

possano essere modificate, in conformità al n. 2, lett. b), di questa stessa disposizione, in caso di<br />

trasferimento di impresa qualora il cedente sia in una situazione di grave crisi economica, purché tale<br />

situazione sia dichiarata da un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario.<br />

44. Ne consegue che, ammesso che la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di<br />

crisi possa essere considerata come costituente una situazione di grave crisi economica, l’art. 5, n. 3,<br />

della direttiva 2001/23 autorizza gli Stati membri a prevedere che le condizioni di lavoro possano essere<br />

modificate per salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa,<br />

senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3e4della direttiva 2001/<br />

23.<br />

45. Orbene, è pacifico che l’art. 47, quinto comma, della legge n. 428/1990 priva puramente e<br />

semplicemente i lavoratori, in caso di trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo stato di<br />

crisi, delle garanzie previste dagli artt.3e4della direttiva 2001/23 e non si limita, di conseguenza, ad<br />

una modifica delle condizioni di lavoro quale è autorizzata dall’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23.<br />

46. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Repubblica italiana, la modifica delle condizioni di<br />

lavoro ai sensi dell’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23 non può rappresentare una deroga specifica alla<br />

garanzia prevista dall’art. 3, n. 3, della direttiva stessa, che garantisce il mantenimento delle condizioni<br />

di lavoro convenute mediante contratto collettivo per un periodo non inferiore ad un anno dopo<br />

il trasferimento. Infatti, poiché le norme della direttiva 2001/23 vanno ritenute imperative nel<br />

senso che non è consentito derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori, i diritti e gli obblighi in capo<br />

al cedente risultanti da un contratto collettivo in essere alla data del trasferimento si trasmettono ipso<br />

iure al cessionario per il solo fatto del trasferimento (v. sentenza 9 marzo 2006, causa C-499/04, Werhof,<br />

Racc. pag. I-2397, punti 26 e 27). Ne discende che la modifica delle condizioni di lavoro autorizzata<br />

dall’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23 presuppone che il trasferimento al cessionario dei diritti<br />

dei lavoratori abbia già avuto luogo.<br />

47. Inoltre, l’applicazione dell’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23 è subordinata alla possibilità<br />

del controllo giudiziario della procedura in questione. La Repubblica italiana ha precisato in proposito<br />

che le parti hanno il diritto di adire l’autorità giudiziaria competente nell’ipotesi di mancato rispetto<br />

della procedura prevista. Tale diritto non può essere considerato come costitutivo del controllo<br />

giudiziario previsto dall’articolo citato, dal momento che quest’ultimo presuppone un controllo


RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE 209<br />

costante dell’impresa dichiarata in situazione di grave crisi economica da parte del giudice competente.<br />

48. Peraltro, con riferimento all’argomento della Repubblica italiana secondo cui l’interpretazione<br />

della direttiva 2001/23 nel senso di impedire ai lavoratori in soprannumero dell’impresa di restare<br />

alle dipendenze del cedente potrebbe risultare meno favorevole ai lavoratori medesimi, si deve necessariamente<br />

rammentare che la Corte ha dichiarato, a tal proposito, che non si può ritenere che<br />

una disposizione quale l’art. 47, quinto comma, della legge n. 428/1990, che ha l’effetto di privare i<br />

lavoratori di un’impresa delle garanzie loro offerte dalla direttiva 2001/23, costituisca una disposizione<br />

più favorevole per i lavoratori ai sensi dell’art. 8 della direttiva stessa (sentenza Spano e a., cit.,<br />

punto 33).<br />

49. Ne discende che non può essere accolto l’argomento della Repubblica italiana secondo cui<br />

l’esclusione, ad opera dell’art. 47, commi 5e6,della legge n. 428/1990, delle garanzie previste dall’art.<br />

3, nn. 1e3,nonché dall’art. 4 della direttiva 2001/23 sarebbe conforme a quest’ultima.<br />

50. Alla luce delle precedenti considerazioni, il ricorso della Commissione deve essere considerato<br />

fondato.<br />

51. Si deve di conseguenza rilevare che, mantenendo in vigore le disposizioni di cui all’art. 47,<br />

commi 5e6,della legge n. 428/1990, in caso di «crisi aziendale» a norma dell’art. 2, quinto comma,<br />

lett. c), della legge n. 675/1977, in modo tale che i diritti riconosciuti ai lavoratori dall’art. 3, nn. 1, 3<br />

e 4, nonché dall’art. 4 della direttiva 2001/23 non sono garantiti nel caso di trasferimento di<br />

un’azienda il cui stato di crisi sia stato accertato, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi<br />

ad essa incombenti in forza di tale direttiva.<br />

Sulle spese.<br />

52. Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata<br />

alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica<br />

italiana, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese.<br />

P.Q.M.<br />

Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce:<br />

1) Mantenendo in vigore le disposizioni di cui all’art. 47, commi 5e6,della legge 29 <strong>dicembre</strong><br />

1990, n. 428, in caso di “crisi aziendale” a norma dell’art. 2, quinto comma, lett. c), della legge 12<br />

agosto 1977, n. 675, in modo tale che i diritti riconosciuti ai lavoratori dall’art. 3, nn. 1,3e4,nonché<br />

dall’art. 4 della direttiva del Consiglio 12 marzo 2001, 2001/23/CE, concernente il ravvicinamento<br />

delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento<br />

di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, non sono garantiti nel<br />

caso di trasferimento di un’azienda il cui stato di crisi sia stato accertato, la Repubblica italiana è venuta<br />

meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tale direttiva.<br />

2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.<br />

Con la sentenza sopra integralmente riportata la Corte di Giustizia Europea ha<br />

dichiarato che la Repubblica Italiana ha violato la direttiva europea 2001/23 nel<br />

mantenere in vigore l’art. 47 commi5e6della legge n. 428/90.<br />

Secondo la Corte di Giustizia non vi sono motivi per legittimare nelle fattispecie<br />

previste dai commi precedenti la disapplicazione dell’art. 2112 cod. civ., cosicché<br />

anche nel caso di trasferimento di azienda in crisi ai lavoratori trasferiti deve<br />

essere garantito quanto previsto dal suddetto articolo del codice civile, dando da<br />

un lato un’interpretazione restrittiva alla eccezione prevista dall’art. 3 n. 4 della direttiva<br />

2001/23 (così da disconoscere ad essa la qualifica di «garanzia facoltativa»)<br />

negando dall’altro che la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale


210 GIURISPRUDENZA<br />

prevista dall’art. 47 commi 5e6della legge 428/90 possa considerarsi tesa ad un<br />

fine analogo a quello perseguito nell’ambito di una procedura di insolvenza quale<br />

quella di cui all’art. 5 n. 2 lettera a) della direttiva 2001/23 né che tale procedura si<br />

trovi sotto il controllo di una autorità pubblica competente.<br />

* * *<br />

Corte Costituzionale – Sentenza n. 214/<strong>2009</strong> – Massima n. 33583 – Pres. Amirante<br />

– Redattore Mazzella<br />

Lavoro e occupazione - Apposizione di termini alla durata dei contratti di lavoro<br />

subordinato, in violazione delle norme in materia di apposizione e proroga del<br />

termine - Previsione, per i soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della<br />

norma censurata, di un indennizzo a favore del prestatore di lavoro e a carico del<br />

datore di lavoro - Irragionevole disparità di trattamento tra situazioni di fatto<br />

identiche - Illegittimità costituzionale - Assorbimento degli ulteriori profili di<br />

censura.<br />

È costituzionalmente illegittimo, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 4-bis del<br />

d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge<br />

25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008,<br />

n. 133. L’art. 4-bis, nello stabilire che, in caso di violazione delle norme in materia di<br />

apposizione e proroga del termine del contratto di lavoro, il datore di lavoro deve corrispondere<br />

al lavoratore un indennizzo, ma solo per i giudizi già in corso alla data<br />

della sua entrata in vigore, determina una irragionevole discriminazione fra situazioni<br />

di fatto identiche: infatti, per effetto di tale disposizione, contratti di lavoro a tempo<br />

determinato, stipulati nello stesso periodo, per la stessa durata e per le medesime<br />

ragioni ed affetti dai medesimi vizi, risultano destinatari di discipline diverse per la<br />

mera e del tutto casuale circostanza della pendenza di un giudizio all’entrata in vigore<br />

della novella. Tale discriminazione non è neppure collegata alla necessità di accompagnare<br />

il passaggio da un regime normativo ad un altro, poiché la nuova disciplina<br />

ha solo mutato le conseguenze della violazione delle previgenti regole limitatamente<br />

ad un gruppo di fattispecie selezionate in base alla circostanza, del tutto accidentale,<br />

della pendenza di una lite giudiziaria.<br />

La Corte Costituzionale<br />

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo<br />

MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZEL-


RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE 211<br />

LA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo<br />

Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,<br />

ha pronunciato la seguente<br />

Sentenza<br />

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto legislativo 6 settembre<br />

2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo<br />

determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), degli artt. 1, comma 1, e 11 del decreto<br />

legislativo 6 settembre 2001, n. 368 e dell’art. 4-bis, del medesimo decreto legislativo, introdotto dall’art.<br />

21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo<br />

economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione<br />

tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, promossi dal<br />

Tribunale di Roma con ordinanze del 26 febbraio 2008 e del 26 settembre 2008, dalla Corte d’appello<br />

di Torino con ordinanza del 2 ottobre 2008, dal Tribunale di Trani con ordinanza del 21 aprile<br />

2008, dalla Corte d’appello di Genova con ordinanza del 26 settembre 2008, dal Tribunale di Ascoli<br />

Piceno con due ordinanze del 30 settembre 2008, dal Tribunale di Trieste con ordinanza del 16 ottobre<br />

2008, dalla Corte d’appello di Bari con ordinanza del 22 settembre 2008, dal Tribunale di Viterbo<br />

con ordinanza del 10 ottobre 2008, dal Tribunale di Milano con quattro ordinanze del 19 novembre<br />

2008, dalla Corte d’appello di Caltanissetta con ordinanza del 12 novembre 2008, dal Tribunale<br />

di Teramo con ordinanza del 17 ottobre 2008, dal Tribunale di Milano con due ordinanze del 24 <strong>dicembre</strong><br />

2008, dalla Corte d’appello di Venezia con ordinanza del 10 <strong>dicembre</strong> 2008, dalla Corte<br />

d’appello di L’Aquila con ordinanza del 14 gennaio <strong>2009</strong> e dalla Corte d’appello di Roma con ordinanza<br />

del 21 ottobre 2008, ordinanze rispettivamente iscritte ai nn. 217, 413, 427, 434, 441, 442 e<br />

443 del registro ordinanze 2008 ed ai nn. 4, 12, 22, 25, 26, 27, 28, 43, 70, 86, 87, 93, 95 e 102 del registro<br />

ordinanze <strong>2009</strong> e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 29 e 53, prima serie<br />

speciale, dell’anno 2008 e nn. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 11, 13, 14 e 15, prima serie speciale, dell’anno <strong>2009</strong>.<br />

Visti gli atti di costituzione di Gennaro Rizzo, fuori termine, di Savino Digiorgio, di Zitouni<br />

Chalouach, di Antonio Di Giuseppe, di Anita Rosati, di Salvatore Giallombardo, di Sonia Pirri, di<br />

Rizzo Gennaro, fuori termine, di Simona Bulla, di Ignazio Marra, di Antonio Passavanti, di Veronica<br />

De Mitri, di Greco Giuseppe, di Poste Italiane S.p.A., nonché gli atti di intervento della Associazione<br />

«Articolo 21 Liberi di» e del Presidente del Consiglio dei ministri;<br />

udito nella udienza pubblica del 23 giugno <strong>2009</strong> e nella camera di consiglio del 24 giugno <strong>2009</strong> il<br />

Giudice relatore Luigi Mazzella;<br />

uditi gli avvocati Domenico Carpagnano per Savino Digiorgio, Vittorio Angiolini e Gloria Pieri<br />

per Zitouni Chalouach, Franco Berti per Antonio Di Giuseppe, Vittorio Angiolini e Domenico Carpagnano<br />

per Anita Rosati, Sergio Galleano per Sonia Pirri, di Greco Giuseppe, di Rizzo Gennaro,<br />

fuori termine, Paolo Molteni e Fabio Fabbrini per Simona Bulla, Domenico D’Amati per Ignazio<br />

Marra, Sergio Galleano e Sergio Vacirca per Antonio Passavanti, Vincenzo de Michele e Sergio Galleano<br />

per Veronica De Mitri, Luigi Fiorillo, Arturo Maresca e Roberto Pessi per Poste Italiane S.p.A.<br />

e gli avvocati dello Stato Fabio Tortora, Paolo Gentili e Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio<br />

dei ministri.<br />

Ritenuto in fatto<br />

Omissis<br />

5. – Con diciannove distinte ordinanze, le Corti di appello di Torino (r.o. n. 427 del 2008), Genova<br />

(r.o. n. 441 del 2008), Bari (r.o. n. 12 del <strong>2009</strong>), Caltanissetta (r.o. n. 43 del <strong>2009</strong>), Venezia (r.o.<br />

n. 93 del <strong>2009</strong>), L’Aquila (r.o. n. 95 del <strong>2009</strong>) e Roma (r.o. n. 102 del <strong>2009</strong>), ed i Tribunali di Roma<br />

(r.o. n. 413 del 2008), Ascoli Piceno (r.o. nn. 442 e 443 del 2008), Trieste (r.o. n. 4 del <strong>2009</strong>), Viterbo<br />

(r.o. n. 22 del <strong>2009</strong>), Milano (r.o. nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del <strong>2009</strong>) e Teramo (r.o. n. 70 del <strong>2009</strong>),<br />

hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto<br />

dall’art. 21, comma 1-bis, del d.l. n. 112 del 2008.<br />

La norma censurata dispone che «Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in


212 GIURISPRUDENZA<br />

vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione<br />

delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2e4,ildatore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare<br />

il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di<br />

sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8<br />

della legge 15 <strong>luglio</strong> 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), e successive modificazioni».<br />

I giudici rimettenti, premettendo che, secondo il «diritto vivente», in caso di violazione delle<br />

prescrizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, può essere disposta la conversione del<br />

contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e riconosciuta al lavoratore una tutela risarcitoria<br />

piena, affermano che l’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 violerebbe: l’art. 3 Cost., poiché è<br />

fonte di irragionevole disparità di trattamento, collegata al solo dato temporale del momento di proposizione<br />

del ricorso giudiziale, tra lavoratori che si trovano nella identica situazione di fatto (r.o. nn.<br />

413, 427, 441, 442 e 443 del 2008; 4, 12, 25, 26, 27, 28, 43, 86, 87 e 93 del <strong>2009</strong>); l’art. 3 Cost., in<br />

quanto introduce una disciplina priva di ragionevolezza, perché: a) interviene nei rapporti di diritto<br />

privato sacrificando arbitrariamente il diritto del lavoratore assunto illegittimamente a tempo determinato<br />

a godere della tutela garantita dalla legge vigente all’epoca dell’instaurazione del rapporto e<br />

favorendo contemporaneamente il datore di lavoro che ha dato luogo all’illegittimità (r.o. nn. 442 e<br />

443 del 2008); b) non è ravvisabile alcuna giustificazione razionale nel fatto che la disposizione modifichi<br />

la regola sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti, riducendo la tutela mentre pendono i<br />

giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso (r.o n. 102 del <strong>2009</strong>); c) la delimitazione<br />

temporale del trattamento discriminatorio si riferisce alla mera pendenza del processo, e quindi ad<br />

una circostanza assolutamente accidentale (r.o. nn. 22, 70 e 95 del <strong>2009</strong>); gli artt. 3, primo comma, e<br />

24 Cost., perché vìola il generale principio dell’affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla<br />

certezza dell’ordinamento giuridico (r.o. nn. 413 del 2008; 12, 22 e 70 del <strong>2009</strong>); l’art. 10 Cost., poiché<br />

lede il principio di parità di trattamento che è principio generale del diritto internazionale e comunitario<br />

che l’Italia si è impegnata a rispettare (r.o. nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del <strong>2009</strong>); gli artt. 11,<br />

secondo periodo, e 117, primo comma, Cost., perché, riducendo la tutela accordata in precedenza<br />

dall’ordinamento ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato, vìola la clausola 8, punto<br />

3, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE e, conseguentemente,<br />

l’obbligo del legislatore interno di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario<br />

ed internazionale (r.o. nn. 442 e 443 del 2008); l’art. 24 Cost., perché compromette il diritto<br />

di difesa dei lavoratori ricorrenti, sottraendo loro la possibilità di ottenere il vantaggio della conversione<br />

del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la cui prospettiva aveva direttamente<br />

condizionato l’esercizio del loro diritto di azione (r.o. nn. 427 del 2008; 24, 25, 26, 27, 28, 43,<br />

86, 87, 93 e 102 del <strong>2009</strong>); l’art. 111 Cost., con riferimento al principio del giusto processo, perché la<br />

norma censurata modifica, nel corso dei procedimenti giudiziali, la tutela sostanziale accordabile al<br />

diritto azionato, senza che ricorrano idonee ragioni oggettive o generali (r.o. nn. 93 e 102 del <strong>2009</strong>);<br />

gli artt. 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., poiché un intervento legislativo che<br />

riguardi solamente alcuni giudizi in corso ad una certa data è privo del requisito di astrattezza proprio<br />

delle norme giuridiche ed assume un carattere provvedimentale generale invasivo dell’àmbito riservato<br />

alla giurisdizione (r.o. nn. 413 del 2008 e 22 del <strong>2009</strong>); l’art. 117, primo comma, Cost., in<br />

connessione con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà<br />

fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata dalla legge 4 agosto 1955, n. 848), il quale<br />

impedisce al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la risoluzione di controversie in corso<br />

(r.o. nn. 413 e 441 del 2008; 4, 12, 22, 43, 25, 26, 27, 28, 70, 86, 87, 93, 95 e 102 del <strong>2009</strong>); l’art. 117,<br />

primo comma, Cost., poiché la norma censurata costituisce un completamento o una modifica del<br />

d.lgs. n. 368 del 2001 e dunque un’applicazione della direttiva 1999/70/CE e avrebbe pertanto dovuto<br />

rispettare la clausola di non regresso enunciata nella clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro<br />

recepito dalla medesima direttiva (r.o. nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del <strong>2009</strong>).<br />

5.1. – Nel giudizio introdotto dall’ordinanza n. 4 del <strong>2009</strong> è intervenuta l’associazione «Articolo<br />

21 Liberi di», che non era parte nel relativo giudizio a quo.


RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE 213<br />

Per costante giurisprudenza di questa Corte, possono partecipare al giudizio incidentale di legittimità<br />

costituzionale le sole parti del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse qualificato,<br />

immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (da ultimo, sentenza n. 47 del<br />

2008). L’associazione «Articolo 21 Liberi di» motiva il proprio intervento con la necessità di rappresentare<br />

alla Corte che il lavoro precario è largamente diffuso anche nel settore dell’editoria e della radiotelevisione.<br />

L’interesse dell’associazione è, quindi, privo di correlazione con le specifiche e peculiari<br />

posizioni soggettive dedotte nel giudizio principale ed il suo intervento deve essere dichiarato<br />

inammissibile.<br />

5.2. – Le questioni sollevate dalle Corti di appello di Torino, Caltanissetta, Venezia e L’Aquila e<br />

dal Tribunale di Teramo sono inammissibili per insufficiente motivazione sulla rilevanza.<br />

Infatti gli atti di rimessione nulla dicono circa la legittimità o meno del termine apposto ai contratti<br />

di lavoro oggetto dei relativi giudizi a quibus. Pertanto questa Corte non è posta in condizione<br />

di verificare la sussistenza, nelle singole fattispecie, del requisito della rilevanza, perché ben potrebbe<br />

darsi che, in quelle ipotesi, non sussista violazione né dell’art. 1, né dell’art. 2, né dell’art. 4 del d.lgs.<br />

n. 368 del 2001, con conseguente inapplicabilità dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 nei giudizi<br />

principali.<br />

5.3. – La questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari è inammissibile per un’analoga ragione.<br />

Infatti, il giudice a quo si esprime in termini meramente possibilistici circa la fondatezza della tesi<br />

– sostenuta dal lavoratore – della nullità del termine apposto al contratto per cui è causa e, quindi,<br />

neppure in tal caso questa Corte può essere certa della rilevanza della questione.<br />

5.4. – Le questioni sollevate dal Tribunale di Milano sono inammissibili per difetto di rilevanza,<br />

perché nella motivazione di ciascun atto di rimessione si legge che il relativo giudizio a quo è stato<br />

promosso dopo l’entrata in vigore della norma censurata, mentre l’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001<br />

si applica solamente alle controversie in corso alla data della sua entrata in vigore.<br />

5.5. – Residuano, pertanto, le questioni sollevate dalle Corti d’appello di Genova e di Roma e dai<br />

Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo.<br />

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità di tali questioni (ad eccezione<br />

di quella sollevata dal Tribunale di Roma), perché i rimettenti non hanno spiegato per quale ragione,<br />

nella fattispecie concreta oggetto del loro giudizio, pur ammettendo che il termine sia stato illegittimamente<br />

apposto, non si dovrebbe dichiarare l’estinzione del rapporto per mutuo consenso.<br />

L’eccezione non è fondata.<br />

In effetti, l’ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 442 del 2008 espressamente dà atto dell’infondatezza<br />

dell’eccezione di estinzione del rapporto per mutuo consenso sollevata dal datore di<br />

lavoro nel giudizio principale.<br />

Nelle ordinanze delle Corti di appello di Genova e di Roma sono indicate le eccezioni sollevate<br />

in secondo grado dalle parti datoriali e tra esse non figura quella di estinzione del rapporto per mutuo<br />

consenso; ciò è sufficiente al fine di ritenere rilevante la questione di legittimità dell’art. 4-bis del<br />

d.lgs. n. 368 del 2001 nei relativi giudizi principali, poiché questi ultimi sono giudizi di secondo grado<br />

nei quali, in difetto di una specifica eccezione sollevata dalla parte interessata, il giudice non può<br />

affermare l’estinzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.<br />

Analogamente, nell’ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 443 del 2008 sono riportate tutte<br />

le difese del datore di lavoro e, tra queste, non v’è l’eccezione di estinzione per mutuo consenso,<br />

non rilevabile d’ufficio.<br />

Nella propria ordinanza di rimessione il Tribunale di Trieste lascia impregiudicata l’eccezione di<br />

estinzione per mutuo consenso formalmente eccepita dal datore di lavoro e tuttavia aggiunge che, in<br />

ogni caso, nella fattispecie oggetto del giudizio a quo, vi sarebbero gli estremi per la dichiarazione<br />

della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dalla data di sottoscrizione del<br />

primo contratto di lavoro a tempo determinato tra le parti alla scadenza dell’ultimo; conseguentemente,<br />

l’art. 4-bis impedirebbe anche tale, sia pure ridotta, declaratoria di conversione del rapporto.<br />

L’ordinanza del Tribunale di Viterbo è stata pronunciata nel corso di un giudizio cautelare pro-


214 GIURISPRUDENZA<br />

mosso poco dopo la scadenza del contratto a termine, onde – avendo il lavoratore immediatamente<br />

reagito in sede giudiziale – non sussiste la circostanza del consistente lasso di tempo intercorso tra la<br />

scadenza del termine e la proposizione del ricorso giudiziale richiesta dalla giurisprudenza di legittimità<br />

per poter affermare che si sia formato un mutuo consenso per l’estinzione del rapporto.<br />

5.6. – Con riferimento alle questioni sollevate proprio dal Tribunale di Viterbo, il Presidente del<br />

Consiglio dei ministri eccepisce, inoltre, la loro inammissibilità perché, dalla motivazione dell’ordinanza<br />

di rimessione, apparirebbe che la fattispecie dedotta nel giudizio principale sia da ricondurre<br />

all’ambito di operatività dell’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001 (che disciplina l’ipotesi della successione<br />

dei contratti a termine), fattispecie cui non si applica l’art. 4-bis dello stesso d.lgs. n. 368.<br />

L’eccezione non è fondata.<br />

Infatti il Tribunale di Viterbo afferma espressamente che l’ordine di riammissione in servizio<br />

della lavoratrice – contenuto nell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. contro la<br />

quale è stato proposto il reclamo che il rimettente deve decidere – è stato pronunciato perché il giudice<br />

di prime cure aveva ritenuto la violazione dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 per omessa indicazione<br />

delle causali dell’assunzione a tempo determinato, fattispecie che rientra pacificamente nell’àmbito<br />

di operatività dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368.<br />

5.7. – Nel merito le questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost. dalle Corti d’appello di Genova<br />

e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo sono fondate.<br />

In effetti, situazioni di fatto identiche (contratti di lavoro a tempo determinato stipulati nello<br />

stesso periodo, per la stessa durata, per le medesime ragioni ed affetti dai medesimi vizi) risultano<br />

destinatarie di discipline sostanziali diverse (da un lato, secondo il diritto vivente, conversione del<br />

rapporto in rapporto a tempo indeterminato e risarcimento del danno; dall’altro, erogazione di una<br />

modesta indennità economica), per la mera e del tutto casuale circostanza della pendenza di un giudizio<br />

alla data (anch’essa sganciata da qualsiasi ragione giustificatrice) del 22 agosto 2008 (giorno di<br />

entrata in vigore dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge<br />

25 giugno 2008, n. 112).<br />

Siffatta discriminazione è priva di ragionevolezza, né è collegata alla necessità di accompagnare<br />

il passaggio da un certo regime normativo ad un altro. Infatti l’intervento del legislatore non ha toccato<br />

la disciplina relativa alle condizioni per l’apposizione del termine o per la proroga dei contratti a<br />

tempo determinato, ma ha semplicemente mutato le conseguenze della violazione delle previgenti regole<br />

limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base alla circostanza, del tutto accidentale,<br />

della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro.<br />

Deve pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del<br />

2001, con assorbimento delle questioni sollevate in riferimento ad altri parametri costituzionali dalle<br />

Corti d’appello di Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo.<br />

Per questi motivi<br />

La Corte Costituzionale<br />

riuniti i giudizi,<br />

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001,<br />

n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato<br />

concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge<br />

25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione,<br />

la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito,<br />

con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133;<br />

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 4-bis del<br />

d.lgs. n. 368 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, 11, 24, 111, 117, primo comma, della<br />

Costituzione, dalle Corti di appello di Torino, Bari, Caltanissetta, Venezia e L’Aquila e dai Tribunali<br />

di Milano e Teramo con le ordinanze indicate in epigrafe;<br />

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 11<br />

del d.lgs. n. 368 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 76, 77 e 117, primo comma, della Costi-


RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE 215<br />

tuzione, dal Tribunale di Roma con l’ordinanza n. 413 del 2008 e dal Tribunale di Trani con l’ordinanza<br />

indicata in epigrafe;<br />

4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del<br />

d.lgs. n. 368 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, 102 e 104 della Costituzione,<br />

dal Tribunale di Roma con l’ordinanza n. 217 del 2008.<br />

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 <strong>luglio</strong><br />

<strong>2009</strong>.<br />

La sentenza della Corte Costituzionale sopra riportata si attendeva ormai da<br />

tempo e molti giudizi in corso aventi ad oggetto contratti a termine rientranti nell’ambito<br />

temporale di interesse della norma ora dichiarata incostituzionale erano<br />

stati sospesi da oltre un anno a questa parte da tutti i Tribunali d’Italia.<br />

Pertanto, notevole è e sarà l’effetto che tale pronuncia avrà nei confronti di tali<br />

giudizi sospesi, negando essa, nel caso di illegittimità dei contratti a termine oggetto<br />

delle vertenze, quell’effetto simile ai licenziamenti sotto tutela obbligatoria che<br />

era stato garantito loro dall’art. 4-bis del D.Lgs n. 368, introdotto dall’art. 21,<br />

comma 1-bis, del d.l. n. 112 del 2008 (dichiarato ora incostituzionale per violazione<br />

dell’art. 3, dell’art. 10, dell’art. 24, dell’art. 111 e dell’art. 117 della Costituzione)<br />

in luogo della tutela risarcitoria piena (conversione del rapporto a tempo indeterminato).


Tribunale di Venezia – III sezione civile – Sentenza 13 gennaio <strong>2009</strong> – Est. Simone<br />

Diritti della personalità - Pubblicazione diffamatoria - Lesione dell’integrità morale<br />

- Danno non patrimoniale - Risarcibilità<br />

Costituisce lesione dell’onore e del decoro, cagionando nel caso un danno non patrimoniale,<br />

il raffigurare una persona in una fotografia qualificandola erroneamente<br />

come coniuge di un personaggio noto, quale indagato, alle cronache giudiziarie.<br />

La scriminante del diritto di cronaca non ricorre nel caso di pubblicazione di una<br />

notizia erronea.<br />

(Omissis)<br />

Svolgimento del processo<br />

Con l’atto di citazione in epigrafe indicato M.M. conveniva dinanzi al Tribunale di Venezia la<br />

Società Editrice Padana S.E.P. S.p.A. (d’ora in avanti indicata come S.E.P. s.p.a.) per sentir pronunciare<br />

sentenza di condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali ed al versamento<br />

della riparazione pecuniaria ex art. 12 l. 47/1948 nella misura di P 30.000 o quella diversa di giustizia.<br />

Esponeva l’attrice, premesso che era una giovane ed apprezzata professionista del Foro di Milano,<br />

che, dopo aver collaborato proficuamente con diversi studi legali operanti nel campo del diritto<br />

penale, da due anni svolgeva in proprio la sua attività; nel 2001 aveva assistito in un procedimento<br />

penale il noto ciclista D.F., ma successivamente a tale episodio, non aveva più avuto alcun rapporto<br />

né professionale, né tanto meno personale con il suddetto ciclista; nell’edizione del 14 <strong>luglio</strong> 2005 de<br />

Il Gazzettino, sulla prima pagina, era stata pubblicata con ampio risalto tipografico un’immagine fotografica<br />

a colori che la ritraeva in compagnia dell’ex cliente sig. D.F., posta a corredo di un articolo<br />

titolato «D.F. e la moglie arrestati per doping»; detto articolo riguardava una spiacevole vicenda di<br />

cronaca in cui il ciclista e la moglie risultavano implicati: in particolare, in pieno svolgimento del<br />

Tour de France, la polizia francese, dopo aver ritrovato nell’automobile della sig.ra D.F. numerosi<br />

medicinali dagli acclarati effetti dopanti e come tali proibiti, aveva proceduto immediatamente al fermo<br />

del corridore e della moglie; allo stupore iniziale era seguito lo sconcerto, poiché nell’articolo era<br />

stata indicata come la moglie di D.F. (nella specie la didascalia che accompagnava la fotografia recitava<br />

«D.F. con la moglie in una foto del 13 giugno 2001»); peraltro, la medesima fotografia contenente<br />

l’erronea individuazione di essa quale «moglie» del ciclista D.F. era stata pubblicata anche su altri<br />

quotidiani, nei confronti dei quali aveva promosso autonoma e separata azione legale; la falsa individuazione<br />

nella moglie del D.F. e quindi nella protagonista di una vicenda di rilievo penale aveva causato<br />

una grave lesione dell’immagine, della reputazione e del suo diritto all’identità personale; aveva<br />

provveduto a contestare alla SEP, editrice de Il Gazzettino l’illecito occorso, invitandola contestual-


218 GIURISPRUDENZA<br />

mente a risarcire i danni ingiustamente subiti, che venivano quantificati in considerazione anche della<br />

diffusione del quotidiano, nonché del risalto dato all’erronea notizia, nella somma complessiva di<br />

P 30.000,00; detta richiesta era stata tuttavia disattesa.<br />

Esponeva ancora l’attrice che l’indebita pubblicazione della fotografia unitamente all’erronea indicazione<br />

come la moglie del D.F., segno evidente che nessun controllo, pur facilmente eseguibile,<br />

era stato tentato, oltre che fonte di un rilevante danno non patrimoniale per la lesione della sua integrità<br />

morale, aveva comportato un significativo pregiudizio di natura patrimoniale, minandone la<br />

credibilità sul piano professionale. Attentato tanto più odioso se si considera che la sua figura era stata<br />

indicata come legata ad una vicenda penalmente rilevante, a causa della quale sarebbe stata tratta<br />

in arresto. In merito al patito danno morale, da intendersi in re ipsa, tenuto conto dei parametri indicati<br />

dall’art. 12 l. 47/1948, ossia la diffusione dello stampato e della gravità dell’offesa addebitata,<br />

nonché del risalto dato al ritratto ed all’erronea identificazione, la quantificazione poteva essere rapportata<br />

alla somma richiesta a titolo di riparazione pecuniaria.<br />

Si costituiva la SEP s.p.a. e resisteva alla domanda svolta. Deduceva in primo luogo la convenuta<br />

che la richiesta di pubblicazione di una rettifica avanzata il 20.7.2005 dai legali dell’attrice non aveva<br />

avuto seguito, poiché mancava l’indicazione del testo da pubblicare come richiesto dalla legge sulla<br />

stampa. Ad ogni modo, nell’edizione del 27.7.2005 dell’edizione nazionale de Il Gazzettino era stata<br />

pubblicata una rettifica con le scuse da parte dell’editore per l’errore commesso, unitamente alla fotografia<br />

cui l’attrice si riferiva. Anche l’Ansa il 28.7.2005 pubblicava sul proprio sito la rettifica relativamente<br />

alla fotografia erroneamente fornita ai diversi quotidiani.<br />

Tanto premesso, notava la convenuta che la ridetta pubblicazione era avvenuta sulla base di un<br />

errore non evitabile: La pubblicazione della fotografia era avvenuta sulla base di una indicazione derivante<br />

da una prestigiosa agenzia di stampa, sì che rispetto al duplice illecito prospettato difettava<br />

l’imprescindibile elemento della colpevolezza, ossia il dolo, quanto al prospettato reato di diffamazione,<br />

la colpa, quanto alla prospettata lesione del diritto al nome ed all’immagine. Errore, quest’ultimo,<br />

pienamente scusabile, tant’è che altri importanti quotidiani nazionali erano incorsi in esso sulla<br />

base della stessa segnalazione fatta dall’Ansa.<br />

Contestava da ultimo la convenuta che la riparazione pecuniaria ex art. 12 l. 47/1948 potesse valere<br />

nei confronti della società editrice e che, in relazione alle prospettate voci di danno, si sarebbe<br />

dovuto tenere conto delle analoghe pretese azionate nei confronti delle case editrici dei quotidiani su<br />

cui era stata pubblicata la fotografia in questione.<br />

Motivi della decisione<br />

1) Non è contestato che la fotografia apparsa sulla prima pagina dell’edizione del 14.7.2005 de Il<br />

Gazzettino a corredo dell’articolo dal titolo «D.F. e la moglie arrestati per doping» ritrae l’odierna attrice,<br />

ma le attribuisce falsamente la qualifica di consorte del sig. D.F. in un contesto diretto ad evidenziare<br />

l’intervenuto arresto della coppia per il preteso possesso di eritropoietina.<br />

Detta circostanza, frutto per ammissione da parte della convenuta, della meccanica riproduzione<br />

di un lancio di qualificata agenzia giornalistica e, quindi, senza alcuna verifica sulla effettiva identità<br />

della donna riprodotta nella ridetta fotografia (accompagnata dalla didascalia «D.F. con la moglie<br />

in una foto del 13 giugno 2001»), non è in alcun modo revocabile in dubbio. Come del resto non pare<br />

dubitale l’idoneità della ridetta riproduzione fotografica, unitamente alla indicata didascalia, al titolo<br />

ed al contenuto dell’articolo pubblicato sulla prima pagina del giornale a ledere pesantemente l’integrità<br />

morale della M.M., compromettendone la reputazione all’interno della compagine sociale di<br />

appartenenza e non solo professionale.<br />

La gravità dell’errore commesso, senza per questo permettere di fondare alcun profilo di scusabilità,<br />

è stata rilevata dalla stessa testata giornalistica, che ha ritenuto di potervi ovviare mediante la<br />

pubblicazione, ma a pagina 15 in un riquadro in basso a sinistra nell’edizione del 27.7.2005, di una<br />

rettifica nella quale si dava atto che la donna presente nella fotografia (riprodotta unitamente al testo)<br />

in fianco al corridore D.F. non era la moglie, ma l’avv. M.M. «... ovviamente estranea alla vicenda,<br />

con la quale ci scusiamo dell’involontario errore».


DEL DANNO ALL’INTEGRITÀ MORALE 219<br />

Considerato che l’attrice ha chiesto, quantomeno rispetto alla lesione dell’onore, l’accertamento<br />

incidentale del reato di diffamazione, pacifica deve ritenersi l’idoneità lesiva del bene invocato, non<br />

venendo in rilievo solamente l’attribuzione di un fatto tale da alterarne l’immagine all’interno della<br />

cerchia di appartenenza, quanto il collegamento con una vicenda penalmente rilevante, della quale la<br />

stessa attrice sarebbe stata protagonista tanto da essere stata arrestata.<br />

In breve, l’attrice è stata additata come persona dedita al traffico, penalmente sanzionato, di sostanze<br />

dopanti in affiancamento al marito, tanto da essere stata arrestata. È evidente che, anche a<br />

prescindere dalla specifica professione dell’attrice, l’essere stata additata come soggetto pesantemente<br />

coinvolto in una vicenda penalmente rilevante sia un fatto lesivo dell’integrità morale dell’individuo,<br />

non solo nella dimensione interna dell’onore, ma soprattutto in quella esterna/relazionale della<br />

reputazione.<br />

In questo contesto, non è possibile invocare in via diretta la scriminante del privilegio costituzionale<br />

del diritto di cronaca, al rispetto dei cui limiti è ammessa la propalazione di una notizia lesiva<br />

dell’altrui reputazione, per essere quest’ultimo ancorato, tra gli altri, al requisito della verità della notizia.<br />

Nel caso di specie, non è in discussione la verità della notizia se il D.F. e la moglie siano stati arrestati,<br />

ma è certo che la giovane donna riprodotta nella fotografia pubblicata a pagina 1 dell’edizione<br />

del 14.7.20005 non è la moglie del D.F., ma l’attrice.<br />

Assume la convenuta che la pubblicazione è avvenuta fidando nell’autorevolezza del lancio dell’agenzia<br />

Ansa e, quindi, senza alcuna verifica anche in ordine all’identità della donna riprodotta nella<br />

fotografia (cfr. doc. 1 del fascicolo di parte convenuta). In questo contesto, mancherebbe l’imprescindibile<br />

elemento psichico, ossia il dolo, del reato di diffamazione.<br />

L’assunto non è fondato, poiché il reato di diffamazione è connotato da dolo generico, per la cui<br />

integrazione è sufficiente che il soggetto si rappresenti l’idoneità offensiva delle espressioni usate sulla<br />

base del significato sociale di esse, non occorrendo, invece, una specifica volontà di offesa (cfr.<br />

Cass., sez. V, 16-12-1998, Ferrara). Orbene, non è revocabile in dubbio che l’articolista e più in generale<br />

il capo redattore (e non si stenta a credere lo stesso direttore responsabile, data la collocazione<br />

in prima pagina dell’articolo) si siano rappresentati che il riferire le circostanze dell’arresto e del possesso<br />

della sostanza dopante potesse ledere l’onore e la reputazione dei soggetti indicati. Lesione,<br />

quest’ultima, astrattamente ammessa perché supportata dall’esercizio del diritto di cronaca, ma a<br />

condizione del rispetto del requisito della verità, ma nella specie la donna riprodotta in foto nulla<br />

aveva a che fare con la vicenda narrata.<br />

L’essere incorsa in un errore fidando nella bontà dell’operato dell’agenzia Ansa di per sé non<br />

permette di mandare esente da responsabilità la convenuta, posto che la dimensione imprenditoriale<br />

dell’attività di editore di un quotidiano non permette di operare alcuna graduazione in ordine al dovere<br />

di verifica delle fonti, escludendosi l’esistenza di una fonte attendibile a priori tale da esimere<br />

dalla doverosa verifica, potendosi porre solo a valle la valorizzazione di un possibile errore (cfr. Cass.<br />

30.6.1984, Ansaloni; 11.11.1987, Barbieri).<br />

Problema affatto diverso, ma estraneo al tema del contendere, è l’asserito inadempimento commesso<br />

dall’agenzia giornalistica a cui la convenuta era contrattualmente legata. In altri termini, l’uso<br />

per fini commerciali di un prodotto difettoso non esime da responsabilità chi lo utilizza, ma legittima<br />

eventualmente un’azione verso il produttore, ma questo non consente di ritenere che il danno debba<br />

rimanere lì dove cade.<br />

2) L’attrice nella sua allegazione ha prospettato, ma questa volta nell’ambito di una fattispecie rilevante<br />

solo dal punto di vista civilistico, anche la lesione del diritto all’immagine, del diritto al nome<br />

e dell’identità personale.<br />

Per la maggiore affinità con la problematica della tutela della reputazione mette conto partire<br />

dalla posizione soggettiva da ultima menzionata. È ai più noto che per identità personale, si intende<br />

il diritto a non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio patrimonio intellettuale,<br />

politico, sociale, religioso, ideologico e professionale (cfr. Cass. 22-6-1985, n. 3769; Trib.<br />

Verona 26-2-1996). Si tratta di un segmento della personalità che rinviene il suo fondamento norma-


220 GIURISPRUDENZA<br />

tivo già nell’art. 2 cost. e più di recente, con riferimento alla normativa in vigore all’epoca dei fatti,<br />

nell’art. 2 D.Lgs 196/2003.<br />

Tuttavia, la lesione del diritto all’identità personale, quale recente gemmazione nell’ambito della<br />

tutela della personalità, si pensi al risalente dibattito in merito alla riservatezza poi approdata in territorio<br />

di tutela dei dati personali, è apprezzabile al cospetto di attribuzione di condotte o dichiarazioni<br />

per se stesse prive di offensività, ma che tuttavia sono in grado di stravolgere il patrimonio intellettuale,<br />

professionale, politico o religioso dell’individuo (si pensi appunto al caso trattato da Cass.<br />

3769/85, nel quale dal testo di un’intervista resa ad un settimanale dal direttore dell’istituto tumori<br />

di Milano, era stata estrapolata, per poi esser riprodotta in un inserto di pubblicità redazionale,<br />

un’affermazione circa la minor nocività di sigarette leggere; così in Trib. Verona 26-2-1996 l’immagine<br />

di un prete era stata riprodotta su un volantino politico; nello stesso senso App. Milano, 21-5-<br />

2002; App. Genova, 11-6-2002; in Trib. Roma, 18-6-1997 si discuteva a proposito della qualificazione<br />

come sarto di scena di un costumista all’interno di una pubblicazione enciclopedica; in Trib. Roma,<br />

11-12-2002 si discuteva della deformazione del significato delle dichiarazioni rilasciate da un intervistato,<br />

attribuendogli affermazioni mai rilasciate e addirittura contrarie a quelle da lui fatte).<br />

In questo contesto, assunto il carattere diffamatorio della pubblicazione della ridetta fotografia<br />

nel contesto dell’articolo in questione, ritenere altresì la lesione anche del diritto all’identità personale,<br />

equivale ad operare una duplicazione di lesioni rispetto alla dimensione unitaria della sfera dell’integrità<br />

morale dell’individuo. In altri termini, a voler operare una parcellizzazione della vicenda<br />

in esame, ossia prendendo in esame partitamene il nome, l’immagine e l’identità personale, si finirebbe<br />

per operare una indebita duplicazione di fattispecie risarcitorie, tanto più che, anche a seguito<br />

della rilettura in chiave costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., vige nel nostro ordinamento un principio<br />

di tipicità dei beni, la cui lesione legittima il risarcimento del danno non patrimoniale.<br />

Ancora, gli artt. 7e10cod. civ., rispettivamente, in tema di tutela del diritto al nome e dell’immagine<br />

mirano a preservare l’individuo rispetto ad indebite utilizzazioni che possano essere effettuate.<br />

Sennonché, nel caso di specie, venendo in rilievo l’esercizio di attività giornalistica il trattamento<br />

dei dati personali era consentito anche senza il consenso dell’interessato, fermo il rispetto dei limiti<br />

del diritto di cronaca e del canone dell’essenzialità dell’informazione (cfr. l’art. 137 D.Lgs. 196/<br />

2003). In questo contesto, proprio il carattere diffamatorio della vicenda in esame per il superamento<br />

del limite del diritto di cronaca non consente di prendere in esame la lesione degli altri beni/<br />

interessi menzionati dall’attrice, perché assorbiti nella più grave lesione della reputazione.<br />

In relazione al fatto penalmente rilevante sopra indicato deve essere chiamato ai rispondere in<br />

questa sede l’editore ai sensi dell’art. 11 l. 47/1948. Il presupposto applicativo dell’art. 11 l. 47/48,<br />

ossia della responsabilità civile solidale dell’editore (o del proprietario della testata), è l’esistenza di<br />

un fatto di reato in capo ai soggetti, del cui operato è chiamato a rispondere. È stato osservato da<br />

un’autorevole dottrina che se non esistesse la norma speciale dell’art. 11, l’unico referente normativo<br />

sarebbe dato dalla disciplina codicistica in tema di responsabilità civile ex art. 2049 cod. civ. per fatto<br />

degli ausiliari. Infatti, entrambe le norme sono governate dalla stessa ratio: nel caso di un illecito e di<br />

un danno riconducibili ad attività organizzate, specialmente se in forma d’impresa, alla responsabilità<br />

dell’operatore, che ha posto in essere la condotta generatrice del danno, si affianca quella del soggetto,<br />

cui fa capo l’organizzazione imprenditoriale da dove si è generata l’esternalità. È questa la ratio<br />

alla base dell’art. 11 della legge sulla stampa, che chiama a rispondere insieme al giornalista ed al<br />

direttore responsabile ex art. 2 s.l. l’editore e lo stesso proprietario della testata. Come è stato rilevato,<br />

si tratta allora della stessa ratio alla base dell’art. 2049 cod. civ., che delinea una responsabilità oggettiva<br />

a carico del datore di lavoro-imprenditore per gli illeciti commessi dai dipendenti dell’impresa.<br />

In altri termini, perché possa essere affermata la responsabilità civile dell’editore ai sensi dell’art.<br />

11 l. 47/1948 è sufficiente che si sia al cospetto di un fatto di reato commesso con il mezzo della<br />

stampa, tanto più che l’accertamento del fatto di reato, nell’ambito della valutazione incidentale in<br />

sede civile, deve essere fatta in astratto e non in concreto, a nulla rilevando il fatto che il presente giu-


DEL DANNO ALL’INTEGRITÀ MORALE 221<br />

dizio sia stato promosso soltanto nei confronti della società che edita il quotidiano, prescindendo<br />

dall’evocazione in giudizio dei soggetti autori del fatto di reato.<br />

3) In ordine alle poste di danno reclamate, sicuramente è da escludere l’esistenza di alcun danno<br />

patrimoniale, perché nessuna allegazione è stata svolta, dovendo quest’ultimo essere apprezzato nelle<br />

notorie categorie del danno emergente e del lucro cessante in nesso di causalità (giuridica) con il<br />

fatto illecito.<br />

Per converso, l’argomentazione dell’attrice, proprio perché imperniata sulla prospettazione di<br />

un fatto di reato, porta in esponente quale bene-interesse protetto l’onore e la reputazione e, quindi,<br />

in questa sede è possibile occuparsi solo del c.d. danno non patrimoniale (morale soggettivo) derivante<br />

dalla lesione di un bene costituzionalmente tutelato: l’integrità morale della vittima nella duplice<br />

dimensione interna (decoro, autostima) ed esterna (reputazione). In presenza di un siffatto pregiudizio,<br />

considerato che a essere leso è il «patrimonio» morale dell’individuo, non solo nella percezione<br />

interna, ma anche nella dimensione critica connessa all’ambiente sociale di appartenenza, il<br />

danno deve ancora oggi ritenersi in re ipsa.<br />

A meno di non voler riaccreditare una concezione fattuale dell’onore, sì che la lesione è meno intensa<br />

se l’offesa è diretta ad una persona dalla reputazione compromessa (il discorso ovviamente prescinde<br />

dallo specifico dell’attrice), dovendosi invece propendere verso una concezione normativa, da<br />

cui deriva un diritto soggettivo assoluto spettante ad ogni individuo (si pensi all’art. 2 della costituzione,<br />

all’art. 12 della CEDU, all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; all’art.<br />

1 della Carta di Nizza resa vincolante dal Trattato di Lisbona), al cospetto di un fatto lesivo dell’onore<br />

e della reputazione di un individuo il danno non patrimoniale, o meglio quello che un tempo<br />

era definito come morale soggettivo da reato, deve ancora oggi ritenersi in re ipsa.<br />

In merito alla quantificazione di siffatta voce di danno, pur nella diversità ed autonomia dei rimedi<br />

previsti dalla legge sulla stampa, è possibile dar rilievo alla funzione riparatoria della rettifica<br />

(cfr. 24.4.2008, n. 10690), quale strumento che, in origine deputato a dare risalto al pluralismo informativo<br />

e, quindi, non suscettibile di valutazione nel merito da parte dell’editore, possa in qualche<br />

modo ovviare alla distorsione del patrimonio morale dell’individuo. Nel caso di specie, tuttavia, la<br />

rettifica effettuata spontaneamente dall’editore, non potendosi dar corso alla precedente richiesta<br />

fatta dal legale dell’attrice per assenza del testo destinato alla pubblicazione così come previsto dall’art.<br />

8 l. 47/1948, è avvenuta solo in un riquadro in basso a sinistra ed a pagina 15 dell’edizione del<br />

27.7.2005.<br />

È evidente che la collocazione e la stessa veste tipografica data alla rettifica non possano in alcun<br />

modo che aver riparato solo in parte alla lesione della reputazione dell’attrice. Infatti, l’articolo e la<br />

correlativa fotografia sono apparsi sulla prima pagina dell’edizione del 14.7.2005 con un titolo ben<br />

marcato dal punto di vista grafico ed un incipit ben calibrato per attirare l’attenzione dei lettori «Clamoroso<br />

al Tour de France».<br />

Tanto premesso, al fine di pervenire alla quantificazione del pregiudizio lamentato sulla base di<br />

un criterio improntato ad una maggiore oggettività, in data 26.1.2007 è stata ordinata alla convenuta<br />

l’esibizione in giudizio dei dati Audipress. Produzione, quest’ultima, effettuata in data 26.3.2007.<br />

Infatti, sulla base di tali elementi e facendo tesoro di una lunga pratica giurisprudenziale nello<br />

specifico settore della diffamazione a mezzo stampa, inaugurata da Trib. Roma 27.3.1984, è possibile<br />

far riferimento alla rilevanza del discredito, alla posizione del soggetto leso e, soprattutto, al numero<br />

di possibili lettori attinti dalla notizia, salvo poi fare applicazione di un moltiplicatore costituito da<br />

un valore base sulla base del prezzo del quotidiano.<br />

Già verso la metà degli anni ’90 alcuni studiosi avevano rappresentato in forma sinottica le linee di<br />

tendenza del tribunale capitolino, traendo da questa possibili indicazioni in merito alla possibilità di<br />

stabilire una relazione tra gli importi liquidati a titolo risarcitorio ed il livello di diffusione sulla base<br />

del numero di lettori (l’indagine è stata poi ripresa sul finire degli anni ’90. Entrambe le analisi si leggono<br />

in Dir. Informazione ed informatica, 1995, 701 ss.; 1998, 823 ss.). Si trattava tuttavia di una ricostruzione<br />

ex post, che però dava atto delle somme liquidate sulla base dei criteri individuati dalle corti.


222 GIURISPRUDENZA<br />

In un’ottica di rischio di impresa è possibile ribaltare l’impostazione, sì che dal valore base costruito<br />

secondo i consueti parametri è possibile pervenire ad una liquidazione che non sia di impronta<br />

di tipo puramente equitativo. In altri termini, poiché ogni lettore è disposto a pagare un prezzo<br />

per procurarsi un’informazione, appare logico muovere da una porzione di tale prezzo per procedere<br />

alla riallocazione dell’esternalità prodotta. Tale ricostruzione ha trovato l’avallo della legge 281/<br />

2006, in tema di pubblicazione indebita di intercettazioni, il cui art. 4 prevede che «A titolo di riparazione<br />

può essere richiesta all’autore della pubblicazione degli atti o dei documenti di cui al comma 2 dell’articolo<br />

240 del codice di procedura penale, al direttore responsabile e all’editore, in solido fra loro,<br />

una somma di denaro determinata in ragione di cinquanta centesimi per ogni copia stampata, ovvero da<br />

50.000 a 1.000.000 di euro secondo l’entità del bacino di utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo<br />

radiofonico, televisivo o telematico. In ogni caso, l’entità della riparazione non può essere inferiore a<br />

10.000 euro» (non è possibile fare applicazione in via analogica dei valori indicati, atteso il carattere<br />

eminentemente sanzionatorio della previsione da ultima indicata in relazione all’avvenuta pubblicazioni<br />

di intercettazioni illegali).<br />

Si badi che siffatta ricostruzione è approssimata per difetto, posto che i dati Audipress, ossia il<br />

numero medio di lettori rilevati nel periodo di riferimento rileva per la vendita di spazi pubblicitari.<br />

In altri termini, il prezzo del quotidiano è solo una parte degli introiti dell’editore, potendo a questo<br />

sommarsi quelli connessi alla vendita degli spazi pubblicitari, ma si tratta di un dato ad oggi non disponibile.<br />

Ad ogni modo, considerato che dai dati Audipress relativi al secondo semestre del 2005 emerge<br />

che il numero medio dei lettori de Il Gazzettino per il Veneto era di 677.000 (cfr. pag. 129) e per il<br />

Friuli Venezia Giulia era di 118.000 (cfr. pag. 133), è possibile inferire che il numero di lettori potenzialmente<br />

attinti dall’informazione sia stato di 795.000. Ciò da un lato permette di stabilire in modo<br />

più preciso non solo l’ambito di diffusione della notizia secondo un criterio che guarda alla posizione<br />

del soggetto danneggiante, dall’altro consente di disattendere ogni possibile pretesa duplicazione risarcitoria<br />

prospettata dalla convenuta, la quale ha richiesto l’esibizione degli atti di citazione relativi<br />

ai giudizi radicati nei confronti delle altre testate. Infatti, se la parametrazione del risarcimento è funzione<br />

del livello di contatti realizzabili da ciascuna testata, ogni editore sarebbe chiamato a rispondere<br />

della fetta di pregiudizio arrecato.<br />

Assumendo un valore base pari ad P 0,05 (tale valore tiene conto del prezzo dell’epoca dei quotidiani<br />

in Italia) si arriva all’importo di P 39.750 (P 0,05 * 795.000) ai valori dell’epoca, da ridurre di<br />

1/3 in considerazione del parziale effetto riparatorio connesso alla rettifica, pur nei limiti sopra esposti,<br />

pervenendo all’importo finale di P 26.500 attualizzato in P 28.525,48. Su tale importo, inoltre, saranno<br />

dovuti gli interessi al tasso ex art. 1284 cod. civ. dal momento della decisione al saldo.<br />

Osserva il giudicante come la determinazione all’attualità del danno alla persona sia in grado di<br />

ripristinare, sia pure in forma di equivalente pecuniario, il valore spettante al creditore. Infatti, come<br />

da tempo rilevato dalla Cassazione nell’ambito dei debiti valore non è possibile provvedere al computo<br />

degli interessi sul capitale interamente rivalutato, posto che così facendo si finisce per attribuire<br />

il corrispettivo per la tardiva erogazione del dovuto (evitando che di tale ritardo possa avvantaggiarsi<br />

il debitore lucrando interessi o evitando gli oneri connessi al ricorso al mercato del credito), ossia gli<br />

interessi comunemente denominati compensativi, su un valore affatto diverso da quello da ripristinare,<br />

dovendo per contro farsi riferimento alla somma via via rivalutata di anno in anno (cfr. Cass. 28-<br />

11-1995, n. 12304; sez. un., 17-2-1995, n. 1712; 20-6-1990, n. 6209).<br />

Sta di fatto che negli interventi più recenti la Cassazione, nel rimarcare la distinzione sul piano<br />

funzionale tra rivalutazione ed interessi, ha evidenziato che, in assenza di allegazione e di prova, sia<br />

pure mediante il ricorso ad elementi di carattere presuntivo, in ordine al pregiudizio derivante dalla<br />

tardiva disponibilità del dovuto rispetto al tasso di svalutazione della moneta, non è possibile riconoscere<br />

gli interessi, che costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno da lucro cessante. Da<br />

tanto discende che in assenza di allegazione circa il divario tra redditività media del denaro e tasso di<br />

svalutazione nel periodo in considerazione non sarà possibile riconoscere in via automatica gli inte-


DEL DANNO ALL’INTEGRITÀ MORALE 223<br />

ressi in aggiunta alla già disposta rivalutazione del credito (cfr. Cass. 13.2.2008, n. 3268; 22.10.2004,<br />

n. 20591; 25-8-2003, n. 12452).<br />

La richiesta ex art. 12 l. 47/1948 deve essere disattesa. Trattandosi di una sanzione di natura civilistica<br />

da affiancare al risarcimento del danno ex art. 185 c.p. concedibile anche in questa sede (cfr.<br />

Cass. 23-4-1991, Talamanca; 13-4-1989, Corsi; 11-4-1986, Simeoni), a ciò non ostando la mancata<br />

presentazione della querela, in difetto dell’evocazione in giudizio delle persone cui ascrivere la pubblicazione<br />

ed il fatto reato, il rimedio non può essere irrogato nei confronti dell’editore, chiamato al<br />

più a rispondere ai sensi dell’art. 11 della legge citata.<br />

Accertato il carattere diffamatorio della pubblicazione oggetto di causa, in parziale accoglimento<br />

della domanda attorea la Società Editrice Padana S.E.P. s.p.a., in persona del legale rappresentante<br />

p.t., deve essere condannata al pagamento, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale,<br />

della somma di P 28.525,48 in favore di M.M., oltre gli interessi al tasso ex art. 1284 cod. civ. dal momento<br />

della decisione al saldo.<br />

DEL DANNO ALL’INTEGRITÀ MORALE<br />

Una recente sentenza del Tribunale di Venezia ha fornito l’occasione per riflettere<br />

in ordine al danno non patrimoniale e ai presupposti della sua risarcibilità.<br />

Il Tribunale ha accertato in via incidentale la sussistenza del reato di diffamazione<br />

(art. 595 c.p.) nel comportamento posto in essere da una società editrice,<br />

consistito nell’aver pubblicato sulla prima pagina di un noto quotidiano una fotografia,<br />

identificando erroneamente la persona ivi ritratta con una coinvolta in una<br />

vicenda penale.<br />

In particolare, nonostante la società convenuta abbia giustificato la propria<br />

condotta dichiarando di essersi limitata a riprendere la comunicazione di un’agenzia<br />

di stampa e, dunque, escludendo da parte propria ogni ipotesi dolosa, il Tribunale<br />

ha ritenuto integrato l’elemento soggettivo del reato di diffamazione (dolo generico)<br />

( 1 ). Il Tribunale ha altresì escluso la possibilità di invocare nel caso di specie<br />

la scriminante del diritto di cronaca: quest’ultimo, come noto, non può prescindere<br />

dal requisito della verità della notizia ( 2 ), mentre risultava pacifica l’erroneità<br />

di quella pubblicata dalla convenuta.<br />

( 1 ) Si veda sul punto Cass., sez. V, 17 ottobre 2007: «Ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico<br />

del reato di diffamazione, non è necessaria l’intenzione di offendere la reputazione della persona, ma è sufficiente<br />

il dolo generico, cioè la volontà dell’agente di adoperare espressioni offensive, con la consapevolezza del<br />

discredito che da tale condotta possa derivare per l’altrui reputazione». V. anche G. Fiandaca e E. Musco, I<br />

delitti contro la persona,inDiritto Penale - Parte speciale, II, 1, 90, Bologna, 2006: «Il dolo della diffamazione<br />

è generico: per la sua esistenza è sufficiente che il colpevole abbia tenuto la condotta offensiva con coscienza<br />

e volontà, accompagnate dalla consapevolezza del suo carattere lesivo».<br />

( 2 ) Il diritto di cronaca «può essere esercitato purché sussista la continenza dei fatti narrati, intesa in senso<br />

sostanziale – per cui i fatti debbono corrispondere alla verità, sia pure non assoluta, ma soggettiva – e formale,<br />

con l’esposizione dei fatti in modo misurato, ovvero contenuta negli spazi strettamente necessari»<br />

(Cass., sez. III, 6 agosto 2007, n. 17172).


224 GIURISPRUDENZA<br />

L’accertato carattere diffamatorio della pubblicazione in oggetto è stato riconosciuto<br />

lesivo della personalità di parte attrice, vittima della falsa individuazione.<br />

Tuttavia il Tribunale, contrariamente a quanto prospettato nelle allegazioni attoree,<br />

non ha ritenuto che ad essere lesi siano stati il diritto al nome, all’immagine e<br />

all’identità personale dell’attrice singolarmente presi, bensì l’integrità morale della<br />

stessa, cui tutti i diritti precedentemente menzionati possono essere unitariamente<br />

ricondotti. Diversamente si sarebbe giunti non solo ad una moltiplicazione delle<br />

lesioni, ma anche ad una indebita moltiplicazione delle fattispecie risarcitorie, in<br />

palese contrasto con il principio di tipicità sancito dall’art. 2059 cod. civ.<br />

L’integrità morale è un diritto inviolabile della persona, ad essa spettante in<br />

quanto tale e desumibile dall’art. 2 Cost., nonché dall’art. 1 della Carta di Nizza<br />

( 3 ), contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n.<br />

130.<br />

L’integrità morale si esplica in due dimensioni: una prettamente interna riconnessa<br />

al concetto di onore e decoro personale, una esterna, riconducibile al concetto<br />

di reputazione e di stima sociale ( 4 ).<br />

In caso di diffamazione a mezzo stampa è riconosciuta una funzione riparatoria<br />

anche a rimedi diversi da quello risarcitorio, individuati dalla legge sulla stampa<br />

( 5 ), quali la rettifica. Ai sensi dell’art. 8 infatti: «Il direttore o, comunque, il responsabile<br />

è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia<br />

di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate<br />

immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi<br />

ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche<br />

non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale».<br />

Tuttavia, nel caso de quo, il Tribunale non ha ritenuto la rettifica cui la società<br />

editrice convenuta ha dato corso idonea ad «ovviare alla distorsione del patrimonio<br />

morale» subita dall’attrice a causa dello scarso risalto datole nel quotidiano, soprattutto<br />

se paragonato alla collocazione in prima pagina della notizia rivelàtasi<br />

poi erronea.<br />

Acclarata la sussistenza del reato e della lesione dell’integrità morale, il Tribunale<br />

ha riconosciuto il diritto dell’attrice al risarcimento del danno non patrimoniale,<br />

in ovvia applicazione del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 2059 cod. civ.<br />

Non si è quindi nemmeno posto, in questa sede, il problema della risarcibilità<br />

( 3 ) «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata».<br />

( 4 )V.ex multis A. Guarneri, Il diritto soggettivo, inTrattato di diritto civile, a cura di R. Sacco, Torino,<br />

1998, 467 ss.; A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2001, 100 ss.; F. Galgano, Trattato<br />

di diritto civile, Padova, <strong>2009</strong>, I, 154 ss.<br />

( 5 ) Legge 8 febbraio 1948, n. 47.


DEL DANNO ALL’INTEGRITÀ MORALE 225<br />

del danno non patrimoniale, diversamente da quanto è invece avvenuto in fattispecie<br />

che hanno portato al recente ripensamento della disciplina della materia.<br />

Due importanti pronunce della Cassazione del 2003 ( 6 ) hanno infatti ridefinito i<br />

presupposti in presenza dei quali è possibile configurare la sussistenza di un danno<br />

non patrimoniale, estendendo la configurabilità del risarcimento anche a tutti quei<br />

casi in cui è stata riscontrata una lesione di un interesse della persona costituzionalmente<br />

garantito. Si è notato che il limite formale contenuto nell’art. 2059 cod. civ. al<br />

risarcimento del danno non patrimoniale non appare più giustificabile. Infatti: «All’epoca<br />

dell’emanazione del codice civile (1942) l’unica previsione espressa del risarcimento<br />

del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 c.p. del 1930.<br />

Ritiene il Collegio che la tradizionale restrittiva lettura dell’art. 2059 c.c., in relazione<br />

all’art. 185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo,<br />

alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati<br />

da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del<br />

codice del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza), non può essere ulteriormente<br />

condivisa. Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione<br />

preminente la Costituzione – che, all’art. 2 Cost., riconosce e garantisce i diritti inviolabili<br />

dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria<br />

ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona».<br />

La Cassazione, dunque, ha dato vita ad un nuovo orientamento, accantonando<br />

la precedente lettura restrittiva dell’art. 2059 cod. civ., ora reinterpretato in chiave<br />

costituzionale: non occorre più una previsione espressa perché il danno non patrimoniale<br />

sia risarcibile, essendo sufficiente che sia stato colpito un bene costituzionalmente<br />

protetto. Tale nuovo orientamento si è poi ulteriormente esteso allorché<br />

la Cassazione ha di recente chiarito che il danno non patrimoniale può derivare<br />

anche da violazioni di obblighi contrattuali ( 7 ).<br />

Tornando alla sentenza in esame preme evidenziare che, trattandosi di lesioni<br />

alla personalità, il Tribunale ha considerato il danno di cui sopra in re ipsa, dispensando<br />

l’attrice dall’onere probatorio e determinandone il quantum sulla base di<br />

parametri, quali il numero dei lettori del quotidiano e dunque l’ambito di diffusione<br />

della notizia ( 8 ).<br />

( 6 ) Cass., civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827 e n. 8828. V. di recente F. Galgano, Danno non patrimoniale<br />

e diritti dell’uomo, inContratto e impresa, <strong>2009</strong>, 885: «È il più profondo sconvolgimento provocato<br />

in questa materia dalla giurisprudenza della Cassazione, sulla base di una interpretazione evolutiva dell’art.<br />

2059 c.c., adeguatrice di questa norma ai principi fondamentali della Costituzione e, in particolare,<br />

all’art. 2, che protegge i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge<br />

la sua personalità. (...) si statuisce che il danno non patrimoniale, derivante dalla lesione di un diritto<br />

della persona, è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato».<br />

( 7 ) Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972.<br />

( 8 )V.P.G. Monateri, La responsabilità civile, inTrattato di diritto civile, a cura di R. Sacco, Torino,


226 GIURISPRUDENZA<br />

Con riferimento a quest’ultimo punto è interessante sottolineare come il Tribunale<br />

abbia disatteso un orientamento giurisprudenziale che può dirsi ormai<br />

consolidato: la Cassazione, dapprima nelle già citate sentenze del 2003 e, più di recente<br />

nel novembre 2008, si è espressa nel senso opposto e cioè escludendo il riconoscimento<br />

del danno in re ipsa anche nel caso di lesione a valori della persona e<br />

ritenendo necessarie prove ed allegazioni da parte del danneggiato ( 9 ).<br />

Sul punto è chiaro che l’esistenza del danno deve essere dimostrata in concreto<br />

(art. 2697 cod. civ.), anche se tra i mezzi di prova le presunzioni hanno la stessa dignità<br />

delle altre prove ( 10 ). Pertanto, allorché risultino elementi gravi, precisi e<br />

concordanti, il giudice potrà ritenere provata l’esistenza del danno e laddove questo<br />

sia di difficile quantificazione, com’è sempre per il danno non patrimoniale, la<br />

determinazione avverrà necessariamente in via equitativa ai sensi dell’art. 1226<br />

cod. civ.<br />

Giulia Cerionesi<br />

1998, 307; G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, 662 ss.; G. Alpa, La responsabilità<br />

civile, inTrattato di diritto civile, IV, Milano, 1999.<br />

( 9 ) Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972, cit.: «Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato<br />

dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n.<br />

8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il<br />

danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con<br />

la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa<br />

Corte con le sentenze gemelle del 2003. E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione<br />

che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione<br />

del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma<br />

quale pena privata per un comportamento lesivo. Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico<br />

la vigente normativa (artt. 138 e 139 d. lgs. n. 209/2005) richiede l’accertamento medico-legale. (...)<br />

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.<br />

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato<br />

ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento<br />

del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n.<br />

9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano<br />

idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto».<br />

( 10 ) Cass., 5 giugno 2007, n. 13082: «(...) si osserva che la prova per presunzioni costituisce prova “completa”<br />

alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, nell’esercizio del potere<br />

discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, di controllarne l’attendibilità,<br />

di scegliere, tra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti<br />

costitutivi della domanda o dell’eccezione, senza che possa, per converso, legittimamente predicarsi l’esistenza,<br />

nel complessivo sistema processualcivilistico, di una gerarchia delle fonti di prova, salvo il limite della motivazione<br />

del proprio convincimento da parte del giudicante (Cass. 4 marzo 2005, n. 4743). In altri termini, in<br />

tema di valutazione delle prove nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del<br />

giudice, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove nel senso che (fuori dai casi di prova legale) esse, anche<br />

se hanno carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento<br />

del suo convincimento, del quale il giudice deve dare conto con motivazione il cui unico requisito è<br />

l’immunità da vizi logici (Cass. 6 febbraio 2003, n. 1747)».


DERIVE SICURTARIE DEL DIRITTO PENALE<br />

Ho ascoltato con vero interesse le dense relazioni circa le novità sostanziali e<br />

processuali introdotte dalla L. 125 del 2008, e sinceramente mi pare di non avere<br />

nulla da dire.<br />

Per la verità, anch’io avevo preparato qualche osservazione (molto schematica,<br />

peraltro) sulla tecnica normativa che caratterizza le nuove fattispecie, tanto incriminatrici<br />

quanto circostanziali, ma, a questo punto, non mi sembrano nemmeno<br />

interessanti.<br />

Penso, invece, che sia più stimolante una riflessione che prenda spunto dal linguaggio.<br />

La legge che qui stiamo considerando, usualmente quanto atecnicamente, viene<br />

denominata «pacchetto sicurezza», e, ad essere onesti,la denominazione non è<br />

un’invenzione arbitraria dei media: valorizza proprio la manifesta ratio legis, quale<br />

traspare dalla Relazione che accompagna il Disegno di legge di iniziativa governativa<br />

del 26 maggio 2008. Ivi si può leggere che «l’emanazione delle nuove disposizioni<br />

ha lo scopo di introdurre norme volte ad apprestare un quadro normativo<br />

più efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione<br />

illegale ed alla criminalità organizzata che incidono direttamente sulla sicurezza<br />

dei cittadini. Del resto, l’intitolato è proprio: misure urgenti in materia di sicurezza<br />

pubblica.<br />

È persino troppo ovvio rilevare che l’idea-guida su cui si basa la riforma è che<br />

lo scopo di rassicurazione sociale è raggiungibile attraverso l’effettività della pena<br />

criminale. In altri termini, soltanto l’effettività della sanzione potrebbe porsi come<br />

garanzia dell’efficacia della prevenzione che può pretendersi dal penale, che oggi<br />

si orienta, non sempre ma sempre più frequentemente, verso la costruzione di fattispecie<br />

di tutela anticipata, sostanzialmente prodomiche, utili in chiave preventiva.<br />

Che il diritto penale si occupi dei bisogni di sicurezza di una collettività non è<br />

una novità, è nuovo il modo di porsi dello jus terribile nei confronti della sicurezza,<br />

così come è diverso il concetto stesso di sicurezza.


228 GIURISPRUDENZA<br />

Il diritto penale moderno, quello che origina dalla riflessione illuministica e<br />

dalle sottostanti, pur diversificate concezioni contrattualistiche dello Stato, ha fin<br />

da subito avuto a che fare con una particolare nozione di sicurezza collettiva. Il<br />

patto di scambio prevedeva appunto il potere dello stato di disporre dei diritti dei<br />

singoli (o di limitarli) in cambio della garanzia di sicurezza contro uno stato di<br />

guerra permanente.<br />

Solo per questo il cittadino cede una parte dei suoi diritti naturali, per avere sicurezza.<br />

Ma è bene ricordare che in tutte le varianti del giusnaturalismo classico il bene<br />

sicurezza era sempre considerato non già alla stregua di uno dei diritti fondamentali<br />

della persona (come la vita, la libertà, la salute, la proprietà e via dicendo) bensì<br />

come l’obiettivo del contratto sociale.<br />

Un obiettivo che era compito dello Stato conseguire, ma non a qualsiasi prezzo,<br />

e soprattutto non in contrasto con alcuni diritti primari dei singoli, che mantengono<br />

pur sempre un diritto di revoca del potere legislativo quando ciò sia assolutamente<br />

necessario per tutelare quella legge di autoconservazione in nome della<br />

quale i singoli conferiscono alo Stato il potere legislativo.<br />

Ma in due secoli abbandonati molta acqua è passata sotto i ponti, come è logico<br />

che sia: alla fine del ’900, o per essere più precisi, negli ultimi vent’anni del secolo<br />

passato, il bisogno di sicurezza ha assunto un diverso statuto: da obiettivo politico<br />

si è trasformato in diritto fondamentale a sua volta, è divenuto un diritto fondamentale<br />

e collettivo dei singoli, ma allo stesso tempo dovere dello Stato. Trasformazione,<br />

come è intuibile, densa di conseguenze, perché una volta che la sicurezza<br />

la si equipari ai diritti dei singoli, non ha più una valenza politica<br />

contingente, anzi lo Stato è legittimato a gestire le esigenze sicuritarie bilanciandole<br />

con i beni vita, libertà, etc., come se fossero equiordinati, e non invece trovando<br />

in questi un limite alla gestione della sicurezza.<br />

D’altra parte, se è legittima l’idea che il diritto alla sicurezza sia sullo stesso piano<br />

dei tradizionali diritti fondamentali dell’individuo, la pretesa sicuritaria si indirizza<br />

in primo luogo allo Stato, che se non la soddisfa, non ha ragion d’essere. Ed<br />

anche questo è evidente: essendo la sicurezza una pre-condizione indispensabile<br />

per l’esercizio o la conservazione di quasi tutti gli altri diritti, essa non può che assumere<br />

la veste, la dimensione di una pretesa verso lo Stato.<br />

Cambia, così, l’idea stessa di sicurezza, ma cambia anche, o tende a cambiare,<br />

anche il carattere dello Stato che si presenta ancora come Stato di diritto, ma, in<br />

modo più o meno appariscente, manifesta l’ulteriore connotazione di Stato di prevenzione.<br />

Il fenomeno è di tutta evidenza, e peraltro, comune a molteplici ordinamenti<br />

nelle discipline antiterrorismo.


DERIVE SICURTARIE DEL DIRITTO PENALE 229<br />

Su questo terreno si capisce come il moderno Stato della prevenzione non abbia<br />

alcuna parentela con i vetusti modelli dello Stato di polizia. È la natura del rischio<br />

da fronteggiare che marca la differenza, perché il rischio terroristico da un<br />

lato non è identificabile con un pericolo selezionato nello spazio ed in condotte<br />

circoscritte, e dall’altro, si avvicina di più ai grandi disastri o alle lesioni di massa<br />

alla salute pubblica.<br />

Questi nuovi fenomeni portano alla ribalta una esigenza del tutto diversa e<br />

nuova, quella di una risposta preventiva accentuata in grado di controllare alla radice<br />

le fonti di rischio anziché situazioni di concreto pericolo.<br />

Siamo alle radici della paura collettiva, che sta alla base della pretesa di sicurezza:<br />

la finalità dell’atto terroristico si traduce appunto nell’obiettivo di generare<br />

un senso profondo di insicurezza, perché punta a suscitare paure e angosce il cui<br />

primo effetto è proprio quello di minare l’aspettativa (e la fiducia) circa la possibilità<br />

di reazione da parte delle istituzioni.<br />

Ma la paura collettiva non origina soltanto da fenomeni di indiscussa pericolosità<br />

(che nessuno può sensatamente sottovalutare), si situa e si sviluppa anche nel<br />

quotidiano per i fenomeni sociali più svariati, e quando il governo (qualsiasi governo)<br />

decide che è il momento di soddisfare una bisogno impellente di rassicurazione<br />

espresso dal corpo sociale, la parola d’ordine è, attualmente, la sicurezza.<br />

Qui discutiamo della risposta normativa all’insicurezza determinata dall’immigrazione<br />

clandestina, e quindi di una disciplina fortemente caratterizzata in senso<br />

sicuritario, ma non è inopportuno ricordare che i settori bisognosi sono vari. Il lavoro<br />

è bisognoso di sicurezza, la circolazione stradale lo è, gli alimenti e l’ambiente<br />

pure, così come il mercato mobiliare.<br />

In sé considerata, questa attenzione al diritto alla sicurezza non presenta nulla<br />

di anomalo: traducendosi nel diritto di tutti i consociati alla effettiva protezione<br />

dei diritti, esso può porsi effettivamente (e non solo apparentemente) come un’esigenza<br />

così fondamentale da sopravanzare i problemi di garanzia liberale. È, come<br />

al solito, un problema di misura: quanto è possibile mettere in secondo piano il<br />

piano delle garanzie?<br />

Qui entra in campo la seconda parola-chiave, che si salda al tema sicurezza in<br />

modo indisgiungibile.<br />

È l’effettività, intesa come effettività della pena.<br />

Non intendo riprendere il linguaggio degli slogans correnti nell’informazione<br />

giornalistica.<br />

Noto soltanto che la nozione attuale di effettività non coincide più con l’indefettibilità<br />

di cui parlavano gli illuministi, nel senso che essa deve seguire al reato<br />

senza possibilità di remissione. Piuttosto, oggi, suona come l’esatto contrario di<br />

uno dei vizi contemporanei della sanzione criminale, ossia la sua precarietà: quan-


230 GIURISPRUDENZA<br />

do c’è, la pena si disperde in un labirinto di alternative giudiziali ed esecutive che<br />

ritraducono la condanna giudiziale in pena soltanto teorica, rispetto alla quale la<br />

pena reale è una frazione soggetta a variabili di vario genere.<br />

Per vero, effettività della pena implica in pari tempo due obiettivi alquanto<br />

ambiziosi, da un lato la sua certezza (sia quella comminata dal giudice con la condanna<br />

e non un’altra) ma dall’altro la sua efficacia. Su questo secondo versante, le<br />

cose cominciano a complicarsi, perché definendo efficace la pena che, superando<br />

il vantaggio del reato, rappresenti una controspinta adeguata alla spinta criminosa,<br />

si va toccare un punto assai delicato, che è quello dell’esigenza di proporzionalità<br />

delle pene minacciate rispetto ai reati ipotizzati. Ciò che ancora nessuno è riuscito<br />

a dimostrare è, appunto, che una pena efficace sia anche una pena proporzionata.<br />

Quindi, una china particolarmente scivolosa, perché se si rinuncia più o meno<br />

consapevolmente all’idea della proporzione, la prevenzione generale si trova ad<br />

operare in una situazione priva di limiti, senza i quali può trovare spazio ed insediarsi<br />

(di solito è così) la non regola del terrorismo punitivo.<br />

La pena, cioè, rinuncia a qualsiasi finalità rieducativa per mettere in mostra solo<br />

la sua dimensione escludente la persona del criminale.<br />

Che non è più un soggetto deviante con il quale lo Stato, comunque, dialoga,<br />

bensì un nemico che va trattato come tale.<br />

Il dibattito penalistico contemporaneo è arrivato proprio a questo crocevia:<br />

come valutare le tesi di Jakobs circa il diritto penale del nemico?<br />

Sono assai note le articolazioni del suo pensiero al riguardo, e non le riprendo,<br />

ma mi interessa segnalare un solo profilo, che ha a che fare con il mio discorso.<br />

Jakobs segnala che qualsiasi norma deve essere dotata di vigenza sociale (talvolta<br />

parla di effettività sociale), carattere che non viene meno per il solo fatto di essere<br />

violata: in tal caso, è la sua riaffermazione controfattuale a confermare la perdurante<br />

vigenza – (in termini più semplici, riaffermazione controfattuale sta’ a significare<br />

inflizione della sanzione per la violazione della norma). Ma questa riaffermazione<br />

della norma non può durare all’infinito: se alle violazioni non seguono le pene<br />

la vigenza della norma viene erosa tanto dalla parte del reo quanto dalla parte<br />

della vittima, la norma perde la sua capacità di orientamento. C’è bisogno di stabilizzazione,<br />

di consolidamento: la norma ha bisogno di poggiare su un livello sufficiente<br />

di effettività. Ma chi rifiuta di riconoscersi parte del patto sociale, e non offra<br />

sufficiente lealtà al diritto, non ha diritto (secondo Jakobs, naturalmente) ad<br />

essere trattato come persona, perché non sarebbe cittadino della comunità bensì<br />

nemico, e come tale deve essere combattuto.<br />

Di qui una duplicità di percorsi punitivi, uno destinato al cittadino, magari deviante<br />

ma non permanentemente sleale, l’altro riservato invece ai nemici, cioè coloro<br />

che si sono allontanati in maniera presumibilmente duratura dal diritto.


DERIVE SICURTARIE DEL DIRITTO PENALE 231<br />

Per questi «nemici» non si deve più parlare di una pena proporzionata alla colpevolezza,<br />

bensì si deve procedere prima del fatto delittuoso, oppure in aggiunta<br />

rispetto alle pena predisponendo un apparato di sicurezza.<br />

Questo secondo percorso si caratterizza, quindi, per una marcata anticipazione<br />

dell’operare dei meccanismi penali, passaggio necessario per fronteggiare la minaccia<br />

di pericoli. Se volessimo tradurre il fascinoso, ma anche criptico linguaggio<br />

di Jakobs con le nostre sperimentate categorie, potremmo dire che il diritto penale<br />

del cittadino di cui parla altro non è che il diritto penale della responsabilità, mentre<br />

il diritto penale del nemico è semplicemente un diritto penale della pericolosità.<br />

Due facce della stessa medaglia, ben conosciute dal penalista italiano, che da<br />

quasi un secolo ha consuetudine con il sistema del «doppio binario», non già due<br />

percorsi che devono essere mantenuti rigidamente distinti.<br />

Personalmente, sono dell’idea che questi aspetti siano rispettivamente anime<br />

compresenti dello jus criminale, che a secondo delle contingenze tendono ad assumere<br />

un ruolo prevalente, ma mai esclusivo.<br />

Se si volesse valutare la più recente produzione normativa (quella che caratterizza<br />

l’inizio del secolo), non sarebbe né esagerato né improprio sottolineare i caratteri<br />

di affinità con un diritto penale della pericolosità. La «riscoperta» delle potenzialità<br />

delle misure di sicurezza (e non parlo solo della confisca, che esigerebbe<br />

un discorso a parte, estremamente complesso, giacché oggi mi pare abbia perso gli<br />

originali connotati di misura di sicurezza per assumere i tratti di vera e propria pena<br />

patrimoniale) è qui testimoniato dalla modifica degli artt. 235 C.P. e 312 C.P.<br />

Di per sé, non mi pare uno scandalo sul piano della civiltà del diritto. Mi pare,<br />

invece, che essa sia portatrice di una contraddizione involontaria.<br />

Le norme, usando l’indicativo «ordina» l’espulsione o l’allontanamento (rispettivamente<br />

dell’extracomunicatario e del cittadino comunitario non italiano),<br />

parrebbero alludere ad un’improbabile obbligatorietà della misura qualora se ne<br />

verifichino i presupposti.<br />

Che così però non possa essere è attestato da un cospicua giurisprudenza della<br />

Corte costituzionale, che ripetutamente ha ribadito l’esigenza che le misure di sicurezza<br />

non possono mai prescindere da un accertamento in concreto della pericolosità<br />

sociale. Stando così le cose, un tale doveroso accertamento sarà chiamato<br />

a svolgere la funzione di filtro selettivo per determinare l’espulsione. Quindi, ancora<br />

una volta, siamo di fronte ad una delega assai ampia alla magistratura, dalle<br />

cui scelte più o meno rigorose dipenderà in concreto l’effettività della misura. In<br />

passato si è notato una specie di rifiuto giudiziale a trattare il tema della pericolosità<br />

(il che è alla base della obsolescenza operativa dell’apparato delle misure di sicurezza<br />

dopo la scomparsa della pericolosità presunta). Forse il futuro potrebbe<br />

registrare un fenomeno per certi aspetti inverso, ma egualmente censurabile: quel-


232 GIURISPRUDENZA<br />

lo della comparsa di una logica presuntiva in virtù della quale dichiarare ipso facto<br />

pericolosi gli stranieri irregolari, perché l’irregolarità sarebbe assunta a fattore<br />

criminogeno sulla base del mero dato statistico.<br />

Con una metamorfosi innegabile, però: l’espulsione cesserebbe di essere una<br />

misura di sicurezza per diventare una pena accessoria.<br />

Ma la contraddizione involontaria di cui facevo cenno è un’altra. Non c’è dubbio<br />

che il trend normativo contemporaneo si indirizzi verso una diminuzione degli<br />

spazi di discrezionalità giudiziale, e anche la legge che qui commentiamo non si<br />

pone in termini divergenti.<br />

Se si volesse schematizzare, si potrebbe parlare di una fase ulteriore delle rivendicazioni<br />

del politico rispetto al giudiziario. Il che immiserisce di molto il tono delle<br />

riforme così orientate. Cosa diversa, si capisce, se in sede legislativa si prendessero<br />

finalmente sul serio le indicazioni fornite dalla dottrina, per cui è abbastanza insensato<br />

addossare al giudice la colpa di indulgenza o immotivato clemenzialismo.<br />

Il Giudice non ha bussola adeguata per esercitare razionalmente il potere discrezionale<br />

demandatogli, anzi, non ne ha nessuna visto che l’art. 133 C.P. è caratterizzato<br />

dal ben noto vuoto dei fini nel senso che non gli fornisce alcun parametro<br />

teleologico di commisurazione della pena.<br />

Eppure, gli si chiedono prognosi in termini di pericolosità – non pericolosità<br />

per gli scopi più eterogenei (dalla sospensione condizionale alle misure di sicurezza)<br />

senza fornirgli parametri sicuri per definire la prognosi, e spesso anche degli<br />

strumenti su cui formarla.<br />

Qualcuno ebbe persino a rilevare, con grande finezza, che in un quadro del genere,<br />

quel che si esige dal giudice non è tanto una prognosi, bensì un’autentica<br />

profezia. Di fronte a richieste del genere, l’unico atteggiamento razionale è non<br />

formularla per nulla: quello che accade, appunto, quanto il giudice indulge nell’automatismo<br />

applicativo (v. sospensione condizionale) o disapplicativa (v. misure<br />

di sicurezza).<br />

Nel nostro caso, invece, l’espulsione è consegnata ancora una volta alla discrezionalità<br />

giudiziale. Può darsi che la necessità di verificare l’esistenza di controinteressi<br />

prevalenti rispetto di quello statuale all’espulsione, abbia parlato in favore<br />

di questa soluzione, ma ciò non toglie che appaia vagamente asimmetrica rispetto<br />

all’orientamento complessivo di questa come di altre recenti riforme.<br />

Orientamento che, viceversa, ricompare quando si affrontano altri nodi nevralgici<br />

della vicenda punitiva, più precisamente la gerarchia che deve intercorrere tra<br />

comminatoria edittale e commisurazione giudiziale della pena.<br />

La riforma dell’art. 69 C.P. aveva consegnato al potere giudiziario, attraverso<br />

la generalizzazione di un meccanismo sostanzialmente arbitrario, la scelta stessa<br />

della cornice di pena, quindi aspetti rilevantissimi della politica sanzionatoria.


DERIVE SICURTARIE DEL DIRITTO PENALE 233<br />

Oggi, per singoli settori, si tende ad un ritorno all’antico: il nuovo art. 590 bis<br />

C.P. circoscrive il potere di bilanciamento con le circostanze aggravanti ad effetto<br />

speciale di cui al 3 o comma dell’art. 589 C.P. e del 3 o comma, ultima parte, dell’art.<br />

590 C.P. limitando la comparazione alle sole attenuanti previste dall’art. 98<br />

C.P. e 114 C.P. Deroghe del genere alla disciplina generale sono qua e là dissiminate<br />

nel sistema (aggravante delle finalità di terrorismo, o di eversione, utilizzazione<br />

del metodo mafioso, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ed altre<br />

ipotesi ancora), ma, salvo errore, è la prima volta che le circostanze attenuanti nominate<br />

che possono essere valutate nella comparazione sono associate ad ipotesi<br />

colpose. Delle due, credo che solo la prima potrà svolgere un ruolo di qualche apprezzabilità,<br />

mentre quella relativa al contributo di minima importanza è destinata<br />

ad un impatto pratico assai modesto, se non addirittura inesistente.<br />

Ma volendo prescindere da questi argomenti puramente esegetici, ciò che mi<br />

sembra importante ribadire è che la lunga marcia contro l’art. 69 C.P. riformato<br />

continua, settorialmente è vero, ma senza soste.<br />

Il potere legislativo comunica che la politica delle sanzioni, aspetto fondamentale<br />

della politica criminale, deve ritornare ad essere questione di sua esclusiva<br />

competenza.<br />

Con il che io concorderei senz’altro, a patto che ci si trovi in presenza di un Legislatore,<br />

come auspicava Carrara, «educato alla scuola della ragione».<br />

Il che, oggi e non solo oggi, mi pare una pretesa eccessiva.<br />

Non tanto e non solo per la presenza, in quell’alto consesso, di personalità deplorevolmente<br />

ancorché folcloristicamente incolte, più aduse (almeno così mi<br />

sembra) ad una quotidiana e sempre vittoriosa battaglia contro grammatica e sintassi,<br />

quanto piuttosto per una manifesta ignoranza di sistema.<br />

Quando si introduce una circostanza aggravante quale quella del novellato art.<br />

589, 3 o comma C.P., che esprime un impegno sanzionatorio così elevato (da tre a<br />

dieci anni), non ha molto senso collegarla ai parametri rilevanti previsti dalla norma<br />

del Codice della strada (art. 186, 2 o lett. C). E non l’ha perché il ripenalizzato<br />

rifiuto di sottoporsi ad accertamenti per rilevare lo stato di ebbrezza alcolica o di<br />

alterazione per uso di stupefacenti (art. 186, 7 o comma C.d.S.) ha un’efficacia dissuasiva<br />

assai modesta rispetto al rischio penale costituito dall’aggravante dell’art.<br />

589, 3 o comma C.P.<br />

Siccome si esige una prova oltre ogni ragionevole dubbio del superamento dei<br />

valori soglia (oltre 1,5 grammi per litro), la mancanza di un accertamento tecnico<br />

in proposito preclude in radice la possibilità di applicare la circostanza aggravante.<br />

O meglio, ci si affida ad una scelta dell’autore, incongruamente libero di evitare<br />

una pesantissima contestazione circostanziale affrontando costi penali incomparabilmente<br />

più modesti.


234 GIURISPRUDENZA<br />

L’effetto deterrente della riforma torna così a condensarsi sull’aumento della<br />

pena edittale, che in ragione della aggravante comune (quindi, bilanciabile con attenuanti)<br />

parte da un minimo di due anni per arrivare ad una massimo di sette.<br />

Non è poco, soprattutto se la si considera in una prospettiva comparativa con altre<br />

ipotesi colpose. Il confronto con l’art. 452 C.P. fa emergere uno squilibrio sanzionatorio<br />

a vantaggio dell’omicidio colposo da circolazione stradale che non si comprende<br />

agevolmente, o meglio, si lascia spiegare soltanto nella logica di rassicurazione<br />

di un corpo sociale sicuramente scosso dalla frequenza del fenomeno.<br />

Non so, però, se con le pene così aumentate gli incidenti mortali diminuiranno.<br />

Bisogna fare i conti con il fatto che l’astratto rigore sanzionatorio di per sé serve<br />

a poco se non trova una prassi applicativa disposta ad assecondarlo. Ma, a parte<br />

questo preliminare rilievo (che, comunque, non può far dimenticare che la prevenzione<br />

generale non deve mai oltrepassare la colpevolezza per privilegiare<br />

un’inammissibile ed illimitata pedagogia sociale), il punto è un altro.<br />

La linea di politica criminale che percorre questa riforma si caratterizza per un<br />

generalizzato inasprimento repressivo. Ora, quando i rimedi esistenti hanno rivelato<br />

la loro inefficacia per sanzioni percepite come irrisorie, e quindi non dissuasive,<br />

una scelta nel senso del rigore può essere razionalmente sostenibile. Quello che<br />

non si può invece condividere è una identificazione automatica tra maggiore severità<br />

punitiva da un lato e maggiore efficacia dall’altro. Su questo piano, è per la verità<br />

sorprendente che ciò che ogni sociologo criminale sa, sia invece perfettamente<br />

ignorato dal legislatore. Quello che è decisivo per l’orientamento sociale non è<br />

tanto la severità della sanzione minacciata, quanto la sua certezza. Intendiamoci,<br />

anche la severità ha una sua influenza, ma ce l’ha solo a parità di effettività, e comunque<br />

non ne ha più alcuna quando si supera una certa soglia quantitativa. Sono<br />

noti ormai da vent’anni, se non ricordo male, i risultati di un’articolata indagine<br />

empirica condotta in Germania da Vilsmeier: tale indagine ha dimostrato che l’efficacia<br />

della pena detentiva si apprezza entro un ambito quantitativo molto contenuto.<br />

In pratica, un reale effetto intimidatorio si produce tra i tre mesi e i due anni<br />

per il deviante primario, e fra i sei mesi e i tre anni per i pregiudicati.<br />

Ma il dato interessante è che esso cessa definitivamente oltre i tre e i cinque anni<br />

rispettivamente.<br />

Vale a dire che, superate tali soglie, è del tutto indifferente che la pena sia di<br />

dieci, quindici o vent’anni, perché per i destinatari l’effetto, in termini di deterrenza,<br />

non cambia più.<br />

Chissà, forse un legislatore educato alla Scuola della ragione prima o poi avrà<br />

la saggezza di rinunciare all’autorappresentazione del rigore, perché altrove già si


DERIVE SICURTARIE DEL DIRITTO PENALE 235<br />

sa che ciò no significa effettività del contrasto ai fenomeni criminali presi di mira,<br />

ma solo il trionfo della fallacia sociologica del paradigma della severità.<br />

Date queste considerazioni, capirete senz’altro perché la mia opinione circa la<br />

reale utilità del generalizzato inasprimento delle sanzioni sia di notevole scetticismo.<br />

Non è servito in passato, non so perché dovrebbe funzionare in futuro.<br />

Spigolando qua e là sulle novità del pacchetto-sicurezza, che, devo confessarvi,<br />

ho cominciato ad esaminare solo in vista di questa chiacchierata con Voi, per me<br />

piacevole, per Voi non so, mi sono imbattuto in una fattispecie singolarmente interessante,<br />

ignota al sistema.<br />

Parlo della nuova ipotesi contemplata dall’art. 495 ter C.P., relativa alle fraudolente<br />

alterazioni per impedire l’identificazione o l’accertamento di qualità personali.<br />

Sì, per la verità ero informato che nella passata legislatura erano state avanzate<br />

due proposte di legge (la n. 1936 e la n. 1937) per introdurre una incriminazione<br />

destinata a colmare il buco nero delle identità dei clandestini, ma solo scorrendo il<br />

pacchetto-sicurezza ho potuto notare che il presidio penale vagheggiato dalla sinistra<br />

aveva poi trovato esito nel governo della destra,<br />

Niente di meglio di un consenso bipartisan circa l’opportunità di una nuova incriminazione.<br />

Incriminazione, questa, che sollecita l’interesse non solo del penalista, ma anche<br />

quello dello storico.<br />

Lo scopo perseguito è, manifestamente, quello di una possibilità di identificazione<br />

permanente dell’individuo da parte dei pubblici poteri, non solo post patratum<br />

crimen, ma anche prima ed indipendentemente dalla commissione od anche<br />

progettazione di qualsiasi illecito penale.<br />

Questa «ansia» identificatoria, espressiva di un progetto complessivo, più o<br />

meno consapevole, di un controllo generalizzato e sottile sulla società intera, disegna<br />

un orizzonte assai dilatato: se si è nella società, si deve essere sempre riconoscibili.<br />

Ansia che ha origini antiche, ma non arcaiche.<br />

Essa prende corpo visibile negli ultimi decenni dell’800, quando si pose il problema<br />

dell’identificazione dei recidivi, che presupponeva la prova tanto di una<br />

precedente condanna, quanto dell’identità del soggetto.<br />

Il primo fu risolto con la creazione dei registri di polizia, il secondo era assai<br />

più difficile.<br />

Ma anche grave: se con le antiche pene (marchio a fuoco, mutilazione) D’Artagnan<br />

poteva riconoscere in Milady un’avvelenatrice già condannata, Edmond<br />

Dantès e Jean Valjean avevano modo di ripresentarsi sulla scena sociale senza tema<br />

di essere riconosciuti. La letteratura qui dimostra sino a che punto la figura del<br />

criminale recidivo incombesse sull’immaginario ottocentesco.


236 GIURISPRUDENZA<br />

Quindi la domanda cui si doveva rispondere era come fare per conseguire lo<br />

scopo.<br />

Molti furono i tentativi vani in tal senso, io ne ricordo solo il più celebre, quello<br />

rappresentato dal metodo antropometrico elaborato da Alphonse Bertillon, basato<br />

su minuziose misurazioni corporee. Pochi millimetri in più o in meno già bastavano<br />

a creare le premesse di un errore giudiziario. Ma il difetto più grave era un<br />

altro, quello cioè di essere puramente negativo: esso consentiva di scartare, all’atto<br />

del riconoscimento, due individui diversi, ma non di affermare con certezza che<br />

due serie identiche di dati erano riferibili allo stesso soggetto.<br />

La soluzione venne proposta da un inglese, Galton, nel 1888, con il metodo<br />

basato sulle impronte digitali.<br />

Si sapeva già dl 1823 che le linee papillari dei polpastrelli delle dita denotavano<br />

un’irripetibile individualità dell’uomo (lo aveva scoperto uno dei fondatori dell’istologia<br />

moderna, il russo Purkynì) quello che ancora non si sospettava erano le<br />

enormi potenzialità applicative della scoperta.<br />

Fu allora Galton il genio che si attendeva? Si, ma anche no. Tra la scoperta<br />

«teorica» di Purkynì e l’adattamento a scopi pratico-applicativi di Galton c’è un<br />

doppio ponte: un sapere empirico millenario di un popolo lontano e l’osservazione<br />

intelligente di un funzionario coloniale inglese, Sir William Herschel.<br />

Questi notò che nel distretto di Hoogly, in Bengala, gli indigeni avevano<br />

l’usanza di imprimere su lettere e documenti un polpastrello sporco di pece o di<br />

inchiostro. Herschel, dopo ripetute prove, introdusse tale metodo di identificazione<br />

nel distretto, annunciando gli ottimi risultati conseguiti. Il suo successo, rapidissimo,<br />

in tutto il mondo non ha bisogno di essere ricordato.<br />

Sin qui l’interesse storico per una vicenda complessa e affascinante. Ma il penalista<br />

ha qualcosa da dire in proposito? Sin qui si è parlato delle creste papillari come<br />

contrassegno forte dell’identità, ma l’incriminazione non si limita a queste, poiché<br />

include anche l’alterazione di altre parti del corpo utili per l’identificazione.<br />

Si introduce una ipotesi di indisponibilità specifica del corpo umano, ben oltre<br />

i limiti disegnati dall’art. 5 c.c.<br />

Prima del 495 ter, gli atti autolesivi, pur vietati dalla norma civilistica, costituivano<br />

illecito giuridico, ma non anche illecito penale, salve le ipotesi, rarissime, in<br />

cui l’automutilazione sia mezzo fraudolento per conseguire un indebito profitto<br />

(v. art. 642, 2 o C.P.), o, nella legislazione militare, per sottrarsi agli obblighi del<br />

servizio militare.<br />

La pena, more solito, è elevatissima: da uno a sei anni di reclusione. Incongrua,<br />

non c’è che dire, soprattutto considerando che l’alterazione non è collegata alla futura<br />

commissione di reati, o all’elusione di indagini relative ad un reato già commesso.


DERIVE SICURTARIE DEL DIRITTO PENALE 237<br />

Ma a parte questo profilo di irrazionalità, il dato più preoccupante risiede nella<br />

complessiva ambiguità delle norma laddove include, a pari titolo di rilevanza, anche<br />

le alterazioni di altre parti utili all’identificazione.<br />

La formula è senza dubbio infelice, per altro non dire, per la latitudine che dischiude.<br />

Qualsiasi alterazione rileva? Ma allora anche il taglio dei capelli e della barba<br />

(è capitato anche a me qualche giorno fa, quando ancora ero ignaro del rischio penale<br />

cui mi esponevo). Ed infatti, puntualmente, commentatori attenti e acuti (come<br />

Bricchetti e Pistorelli) segnalano che anche la tintura dei capelli può non essere<br />

più innocua, perché d’ora in poi sussumibile nell’ampio, troppo ampio contenitore<br />

dell’art. 495 ter. Di qui una prima, ma fondamentale obiezione alla formulazione<br />

adottata, che avrebbe assunto una dimensione più ragionevole ove non avesse<br />

escluso, o magari soltanto dimenticato, l’estremo della permanenza dell’alterazione.<br />

L’incriminazione, in questo modo, si sarebbe coerentemente raccordata all’art.<br />

5 c.c., contenendo in spazi maggiormente accettabili l’ambito punitivo, oggi non<br />

facilmente delimitabile sulla scorta dei pochi indici testuali oppure della rubrica.<br />

Leggo da qualche parte che un utile correttivo potrebbe derivare dalla valorizzazione<br />

del richiamo alla frode operato dalla rubrica. Il tentativo mi pare lodevole<br />

nel fine, ma scarsamente sostenibile dal punto di vista interpretativo: non è dato<br />

capire quali mezzi artificiosi o ingannatori possano effettivamente caratterizzare<br />

un’alterazione, cioè una condotta che rileva ex se ed in quanto tale.<br />

Potrà essere dolosa o fortuita, ma questa è tutt’altra questione, che non ha nulla<br />

a che vedere con la caratterizzazione del fatto sul piano oggettivo, che è il problema<br />

reale. La fragilità del criterio basato sulla necessaria fraudolenza emerge poi<br />

quando si ipotizzi una casistica non irrealistica: alla sua stregua chi lo propone<br />

equipara nell’irrilevanza penale tanto l’eliminazione di barba e baffi quanto la cancellazione<br />

di un tatuaggio.<br />

Altri, viceversa, si pronunciano per la punibilità di entrambe le alterazioni.<br />

A me pare che entrambe le prospettive risentano di un vizio di fondo, derivante<br />

dallo scambio del piano dell’identità personale con quello ben diverso dell’autoria<br />

di un fatto di reato. Non a caso, sia pure con esiti divergenti, le due posizioni<br />

presuppongono che l’alterazione segua un precedente reato, e non, come vuole<br />

l’incriminazione, ne sia viceversa indipendente.<br />

Un conto è l’interesse della pubblica amministrazione in generale (più specificamente,<br />

della polizia di sicurezza) a poter sempre identificare l’individuo, un altro<br />

quello dell’apparato giudiziario ad accertare nell’individuo la qualità di autore<br />

di un reato.<br />

La diversità dei piani non esclude, però, che in concreto possano verificarsi


238 GIURISPRUDENZA<br />

connessioni ed interferenze: certamente l’autore di uno stupro potrà cancellare un<br />

tatuaggio o una cicatrice in grado di farlo riconoscere da parte della vittima così<br />

come l’autore di un omicidio in abitazione, dubitando di aver lasciato le sue impronte<br />

digitali sul luogo, può decidere di cancellare con l’acido le creste papillari.<br />

Ma questo non risolve affatto il problema, anzi, per certi aspetti, lo rende ancor<br />

più indecifrabile.<br />

La casistica impropriamente ipotizzata dalla dottrina che sinora si è occupata<br />

di questo tema, così impostata, non sfugge ad una obiezione a mio parere decisiva:<br />

se si aggancia l’alterazione ad un previo delitto si finisce per criminalizzare obliquamente<br />

quelle che sono autentiche condotte di autofavoreggiamento personale,<br />

per lunga tradizione e per scelta di sistema viceversa da considerarsi penalmente<br />

non punibili.<br />

La contaminazione, così, riguarderebbe un interesse alla corretta amministrazione<br />

della giustizia, che invece non ha posto, e neppure senso, nella nuova fattispecie.<br />

Occorre quindi ritornare al piano dell’interesse alla identificazione dell’identità<br />

personale, che certamente non può dirsi compromesso da interventi, durevoli e<br />

non durevoli, che su essa non hanno capacità di incidere.<br />

Taglio di barba, tintura di capelli, rimozione di tatuaggi o cicatrici, o cose del<br />

genere, vanno esclusi dall’area della tipicità per la loro palese estraneità con una<br />

nozione minimamente condivisa di identità personale.<br />

Meglio sarebbe stato un divieto secco, magari accompagnato da una clausola<br />

di salvaguardia relativa ad altre parti del corpo, concernente le sole creste papillari<br />

delle dita, come nella proposta avanzata nella precedente legislazione, anziché delegare<br />

all’interprete, come al solito, l’ingrato compito di dare razionalità applicativa<br />

ad una norma che di tale razionalità nasce carente.<br />

Essendosi privilegiata una scelta diversa, di sfuggente latitudine, è prevedibile<br />

che nella prassi si profileranno criteri applicativi-interpretativi mutuati dalla logica<br />

del favoreggiamento personale, per cui si evocherà la normalità sociale quale spartiacque<br />

dirimente tra ciò che è illecito e ciò che non lo è.<br />

Con un duplice inconveniente, però, perché da un lato si attrarrà la nuova incriminazione<br />

in un’occulta sistematica ampliata dei reati contro l’amministrazione<br />

della giustizia (e la nuova fattispecie non le appartiene), mentre dall’altro si penserà<br />

di supplire ad un deficit di chiarezza normativa con un parametro, quello della<br />

normalità sociale, per sua natura equivoco e vago.<br />

Certo, sono pensabili dei correttivi sul piano interpretativo, quali l’esigere una<br />

oggettiva idoneità dell’alterazione rispetto al fine, ma è da escludere che di per sé,<br />

il richiesto dolo specifico (qui in funzione costitutiva della rilevanza penale di un<br />

fatto altrimenti penalmente neutro) possa svolgere un effettivo ruolo selettivo,<br />

perché sembra piuttosto disponibile ad essere invariabilmente presunto.


DERIVE SICURTARIE DEL DIRITTO PENALE 239<br />

Ma il punto che a me pare centrale è la direzione offensiva dell’alterazione, inquadrabile<br />

nel tipo solo se in grado di non dare risposta alla domanda: chi sei?,<br />

mai, se la domanda è: sei stato tu?<br />

Molto altro vi sarebbe da dire su questi innesti sicuritari, è ovvio; ma tanto è<br />

già stato detto, e poi altre occasioni di incontro non mancheranno.<br />

In guisa di conclusione provvisoria, se la cortesia del Presidente mi concede<br />

ancora un minuto, un solo cenno al processo.<br />

Non mi pare dubbio che il novum si esprima, almeno tendenzialmente, verso<br />

un diritto penale che, nei fatti, si pone come un diritto penale della diseguaglianza,<br />

che distingue tra i sommersi e i salvati, fra i normali cittadini destinatari della protezione<br />

legale del crimine e i criminali da neutralizzare ad ogni costo. La severità<br />

punitiva si addensa attorno a stereotipi soggettivi, a categorie di nemici veri o supposti.<br />

Stereotipi che talvolta hanno radici in reali problemi di sicurezza, che chiedono<br />

di essere presi sul serio. Talune torsioni del sistema punitivo riguardano autori<br />

di fatti che, non irragionevolmente, devono ricevere risposte adeguate. Altre<br />

volte il penale si interessa, come nel nostro caso, di soggetti brutti, sporchi e cattivi,<br />

ma non propriamente autori di reati.<br />

Qui il diritto sostanziale si lascia andare alla logica binaria amico-nemico. È un<br />

pericolo, d’accordo, ma ancora fronteggiabile. Non lo sarebbe più se questa stessa<br />

logica si insediasse all’interno del processo penale, facendogli perdere la caratteristica<br />

di terreno neutrale di verifica di un’ipotesi d’accusa.<br />

Se tiene il principio di una giurisdizione imparziale, che rifiuti proprio una logica<br />

del genere, allora possiamo confidare nella tenuta di un diritto penale della<br />

responsabilità e non del nemico.<br />

L’ottica amico-nemico può affiorare in interpretazioni soggettivistiche, o in letture<br />

ideologiche di fatti che invece vanno ricostruiti per quello che sono.<br />

Può affiorare, ancora, nell’assegnazione a priori dei ruoli di buono e di cattivo,<br />

ed in applicazioni conseguenti a tale pregiudizio.<br />

Cosa potrebbe diventare una giustizia penale del nemico lo possiamo in qualche<br />

misura capire da come lo è stata in passato.<br />

Ce la descrive Manzoni nella sua introduzione alla Storia della colonna infame.<br />

Che cosa soggiogò allora le menti ed i cuori di quei giudici? Molte le ipotesi: rabbia<br />

contro pericoli oscuri, acuita da una lunga paura divenuta odio contro gli sventurati<br />

che volevano sfuggire di mano; timore di gravi pubblici disastri. A quei giudici<br />

Manzoni rimproverò «quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere,<br />

e non è una scusa, ma una colpa». Quegli ingredienti di allora possiamo dire<br />

che siano assenti oggi? E possiamo veramente escludere simili eclissi della ragione<br />

nel nostro tempo? Se queste eclissi sciaguratamente avvengono nella aule giudiziarie,<br />

è probabile che dietro vi sia proprio la logica perversa amico-nemico.


240 GIURISPRUDENZA<br />

La tentazione del diritto penale del nemico, cioè di torsioni illegittime del diritto<br />

sostanziale, ma anche della sua applicazione, è un’ombra che accompagna<br />

sempre il diritto penale.<br />

Il non vederla, però, non può e non deve essere invocato a scusa.<br />

Marzo Zanotti


Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice Monocratico Penale – Sent. n. 1572<br />

del 30/10/2008 (13/12/2008) – Est. Valeggia – Imp. XY<br />

Abusivo esercizio di una professione - Infermiere professionale - Svolgimento<br />

delle mansioni tipiche dell’operatore socio sanitario - Mancanza di iscrizione all’albo<br />

professionale - Mero possesso del titolo abilitante all’esercizio della professione<br />

sanitaria - Sussistenza del reato - Esclusione - Ragioni<br />

(art. 348 c.p., DM 739/1994, DPR 394/1999, DM 18/2/2000, Legge Regionale<br />

Veneto 16/8/2001)<br />

Essendo stata introdotta con il DM 18/2/2000 la figura professionale dell’operatore<br />

socio-sanitario, a cui sono riservate alcune mansioni tipiche dell’infermiere professionale,<br />

non ricorre il reato di cui all’art. 348 c.p. nelle ipotesi in cui l’agente, pur<br />

in possesso del titolo di infermiere professionale, non sia iscritto al relativo albo, non<br />

essendo prevista per la nuova qualifica di operatore socio-sanitario una speciale abilitazione<br />

dello Stato, con la conseguenza che le attività da questi poste in essere non risultano<br />

essere tutelate dalla norma che incrimina l’esercizio abusivo della professione.<br />

Abusivo esercizio di una professione - Infermiere professionale - Iscrizione all’albo<br />

- Attività svolta presso strutture sanitarie private - Necessità dell’iscrizione -<br />

Esclusione - Fondamento<br />

(art. 348 c.p., D.lg. 233/1946)<br />

Non commette il reato di esercizio abusivo della professione di infermiere chi,<br />

senza essere iscritto al collegio degli infermieri professionali, esercita tale attività per<br />

soddisfare le esigenze di una struttura privata direttamente o indirettamente accreditata<br />

presso la Pubblica Amministrazione, essendo l’iscrizione all’albo professionale<br />

necessaria solo per gli infermieri che svolgono la loro attività in forma libero professionale.


242 GIURISPRUDENZA<br />

NUOVE PROFESSIONI SANITARIE E «VECCHIO» ART. 348 C.P.<br />

Nella vicenda processuale in cui è stata resa la sentenza che si è massimata, era<br />

contestato il reato di esercizio abusivo della professione sanitaria di infermiere a<br />

socie/dipendenti di una cooperativa (che aveva stipulato un contratto d’appalto<br />

con delle case di riposo per anziani) che erano state adibite all’esecuzione di prestazioni<br />

quali somministrazione di farmaci, affiancamento al personale medico,<br />

cura dei decubiti, compilazione della documentazione relativa ai registri delle terapie<br />

praticate e della movimentazione dei farmaci stupefacenti.<br />

Le imputate – prevalentemente di nazionalità panamense – pur non essendo<br />

iscritte al collegio degli infermieri, erano tuttavia in possesso del titolo abilitante<br />

all’esercizio professionale conseguito all’estero (e per alcune di esse era stato<br />

emesso anche il decreto di riconoscimento del Ministero di Sanità).<br />

Il Tribunale, come risulta dalle due massime riportate, ha escluso che in siffatta<br />

fattispecie potesse configurarsi il reato previsto dall’art. 348 c.p. sotto due distinti<br />

profili.<br />

Da un lato osservando che, dopo l’introduzione nel nostro ordinamento della<br />

figura professionale dell’operatore socio-sanitario (DM 18/2/2000) – qualifica che<br />

assorbe alcune mansioni in origine proprie dell’infermiere professionale – dette<br />

mansioni non risultano più essere tutelate dalla norma penale citata, non essendo<br />

prevista per la figura dell’operatore socio sanitario l’iscrizione ad un albo professionale<br />

( 1 ).<br />

Dall’altro rilevando che l’iscrizione al collegio degli infermieri professionali è<br />

imposta soltanto a coloro che esercitano la libera professione mediante contratti<br />

d’opera direttamente con il pubblico dei clienti e non incombe, viceversa, a chi sia<br />

legato da un rapporto di lavoro dipendente con strutture pubbliche o private.<br />

La sentenza merita di essere segnalata perché costituisce una delle poche pronunce<br />

rinvenibili sui due specifici argomenti.<br />

Infatti sul primo profilo argomentativo sviluppato nella sentenza in rassegna<br />

esiste – a quanto è dato di sapere – un unico precedente specifico nella giurisprudenza<br />

di merito ( 2 ), mentre non si rinvengono sentenze di legittimità.<br />

( 1 ) Nella sentenza in commento il Tribunale ha ulteriormente evidenziato che, essendo state dettagliatamente<br />

disciplinate dalla Legge Regionale del Veneto 16/8/2001 le attività rientranti nelle competenze degli<br />

operatori socio-sanitari, tali ultime attività non sono più riservate alla figura professionale dell’infermiere<br />

anche in ragione del fatto che la disciplina introdotta con la citata legge regionale non è utilizzabile per<br />

integrare il precetto della norma penale in bianco prevista dall’art. 348 c.p. pena la violazione del principio<br />

di riserva di legge statale prevista per la materia penale. Su questo argomento si ritornerà infra.<br />

( 2 ) Ci si riferisce alla sentenza del Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna, n. 200 del<br />

24/10/2005, Est. Vitale in proc. XY, inedita, citata appunto quale unico precedente nella sentenza del Tribunale<br />

lagunare.


NUOVE PROFESSIONI SANITARIE E «VECCHIO» ART. 348 C.P. 243<br />

Quanto al secondo principio di diritto espresso nella sentenza in commento,<br />

merita essere segnalato che il Tribunale di Venezia ha anticipato di pochi giorni le<br />

conclusioni cui è pervenuta la Corte di Cassazione, con l’unica sentenza che sul<br />

punto specifico risulta essere stata resa in sede di legittimità ( 3 ).<br />

Per la sua portata innovativa, la sentenza offre lo spunto per qualche riflessione<br />

sull’ambito di applicazione del delitto di cui all’art. 348 c.p. in relazione alle attività<br />

infermieristiche, «lato sensu» intese, essendo indubitabile che, con l’introduzione<br />

della figura professionale dell’operatore socio-sanitario, alcune delle attività<br />

prima riservate all’infermiere professionale non rientrino più nel fatto tipico del<br />

reato di di cui all’art. 348 c.p.<br />

L’art. 348 c.p. sanziona senz’altro il compimento abusivo di atti tipici delle c.d.<br />

professioni protette, ossia di professioni il cui esercizio sia subordinato al conseguimento,<br />

da parte del soggetto, di un provvedimento amministrativo ad personam,<br />

definito nell’ambito della struttura della fattispecie criminosa come «speciale<br />

abilitazione dello Stato».<br />

È ovvio che la valutazione di un atto come «riservato» o meno ad una determinata<br />

professione protetta (nel senso anzidetto) presuppone l’analisi della disciplina<br />

normativa che regola tale professione, descrivendo il contenuto ed i limiti di esercizio<br />

della attività in cui essa si estrinseca: ciò, del resto, in ossequio alla natura di c.d.<br />

norma penale in bianco che viene pacificamente riconosciuta all’art. 348 c.p.<br />

Si tratta, invero, di un criterio irrinunciabile nell’applicazione di una norma incriminatrice<br />

che tipicizza esclusivamente il compimento di attività professionali<br />

«per le quali è richiesta una speciale abilitazione dello Stato» e, pertanto, non demanda<br />

(né, e tantomeno, consente) all’interprete di formulare regole generali ed<br />

astratte per la definizione dei contenuti dell’attività professionale che viene in considerazione;<br />

impone, bensì, di individuare, se esistente, quella disposizione normativa<br />

che riserva in via esclusiva ad una specifica figura professionale lo svolgimento<br />

di un determinata attività, ovvero il compimento di un determinato atto.<br />

Occorre, inoltre, sottolineare che, secondo un pacifico orientamento della giurisprudenza<br />

di legittimità, la norma incriminatrice in esame tutela esclusivamente<br />

( 3 ) La Sesta Sezione della Suprema Corte, con la sentenza 6491 del 4/12/2008 (depositata il 13/2/<br />

<strong>2009</strong>), ha infatti affermato il medesimo principio di diritto fatto proprio dal Tribunale di Venezia annullando<br />

senza rinvio la sentenza di condanna comminata per il reato di cui all’art. 348 c.p. dal Tribunale di<br />

Alessandria e confermata dalla Corte d’Appello di Torino al legale rappresentante di una cooperativa che<br />

aveva preso in appalto la gestione del servizio infermieristico di una casa di cura privata accreditata presso<br />

il Servizio Sanitario Nazionale, facendo lavorare nella struttura degli infermieri (dipendenti della cooperativa)<br />

non iscritti al relativo albo professionale.<br />

In precedenza siffatto principio era stato sancito dalla Cassazione solo con riferimento ad infermieri<br />

professionali dipendenti di enti pubblici: sul punto si veda Cass. Pen., Sez. VI a , sent. n. 28306 del 1/7/<br />

2003 (ud. 1/4/2003), pubblicata su Rivista Penale, 2003, pagg. 836 e segg.


244 GIURISPRUDENZA<br />

gli atti propri riservati a ciascuna professione, e non anche gli atti che, mancando<br />

di tale tipicità, possono essere compiuti da chiunque, anche se abbiano qualche<br />

connessione con quelli professionali.<br />

Sotto altro profilo, poi, conviene altresì segnalare come l’art. 348 c.p. consideri<br />

abusiva – e, pertanto, penalmente rilevante – non già l’attività professionale svolta<br />

in assenza di un qualsivoglia titolo di legittimazione per essa richiesto, bensì soltanto<br />

quella esercitata in assenza della «speciale abilitazione dello Stato».<br />

Pertanto, anche a voler assumere una nozione assai lata di «abilitazione» – che<br />

ricomprenda non solo il titolo richiesto (quale il diploma o la laurea), ma, altresì,<br />

ogni altro requisito o formalità previsti dalla normativa di riferimento per il pieno<br />

e legittimo esercizio di una specifica attività professionale (come l’abilitazione<br />

stricto sensu, l’iscrizione ad un albo etc.) – sarà pur sempre necessario che si tratti<br />

un abilitazione «dello Stato», ossia di un titolo, inteso in senso lato, che promani<br />

da un’autorità amministrativa statale il cui rilascio sia previsto e regolato da una<br />

fonte normativa statale.<br />

È ovvio, infatti, che, in assenza di una simile specificazione nella descrizione legislativa<br />

del fatto tipico di cui all’art. 348 c.p., si finirebbe per assegnare rilevanza,<br />

ai fini della configurabilità del reato de quo, anche ai titoli abilitativi previsti e regolati<br />

(al limite) addirittura da ordinamenti giuridici di enti privati o corporativi e,<br />

comunque, da provvedimenti normativi non statuali, con la conseguenza che il<br />

precetto penalistico di cui all’art. 348 c.p. verrebbe eterointegrato da norme emanate<br />

da enti territoriali o, più, in generale, da enti pubblici non statali (tipico<br />

l’esempio della legislazione regionale), in palese violazione della riserva (anche se<br />

intesa in senso relativo) di legge statale in materia penale ( 4 ).<br />

( 4 ) I rilievi fin qui esposti, invero, trovano chiara enunciazione nel più autorevole e consolidato insegnamento<br />

della giurisprudenza di legittimità, ove viene osservato come «...l’art. 348 c.p. è una norma penale<br />

in bianco, o meglio a struttura aperta, che presuppone l’esistenza di norme giuridiche diverse, qualificanti<br />

una determinata attività professionale, le quali prescrivano una speciale abilitazione dello Stato ed impongono<br />

l’iscrizione in uno specifico albo, in tal modo configurando le cosiddette professioni protette. Di guisa che<br />

l’eventuale lacuna normativa non può essere colmata dal giudice con norme generali ed astratte. Pertanto<br />

l’identificazione delle attività costituenti esercizio di una data professione non può prescindere dal dato normativo,<br />

pena la violazione del precetto di cui all’art. 25 Cost., come rilevato dalla Corte Costituzionale (ord. n.<br />

169-1983). Se così non fosse, e quindi fosse possibile definire le “materie” di competenza di determinate professioni<br />

per successive aggiunzioni o modificazioni, prive di base normativa, ne discenderebbe la capacità dei<br />

singoli professionisti o della corporazione professionale nel suo insieme non solo di determinare una limitazione<br />

della capacità lavorativa dei terzi, in contrasto con gli artt. 1, 4, 35 e 41 Cost., ma addirittura di determinare,<br />

attraverso l’estensione di fatto dei contenuti dell’attività professionale, la illiceità penale di atti precedentemente<br />

leciti. Ne consegue che il reato di cui all’art. 348 c.p. è integrato solo in relazione agli atti riservati della<br />

professione protetta perché indicati dalla legge come esclusivi, e non in relazione a quelli che, pur non essendo<br />

tali, sono tuttavia caratteristici, o anche tipici» (così Cass. Pen, sez. VI a , 22/4/1997, n. 5672; nello stesso senso,<br />

quanto al divieto per il giudice di colmare eventuali lacune normative con la prescrizione di regole generali<br />

ed astratte, cfr. Cass. Pen, sez. VI a , 29/5/1996, n. 2076).


NUOVE PROFESSIONI SANITARIE E «VECCHIO» ART. 348 C.P. 245<br />

Svolte tali considerazioni, occorre esaminare quali debbano considerarsi realmente<br />

gli atti riservati alla professione di infermiere professionale, alla luce delle<br />

fonti normative che disciplinano tale figura.<br />

La prima – e fondamentale – fonte normativa cui occorre fare riferimento ai fini<br />

dell’individuazione dei contenuti tipici della professione di infermiere è il d.m.<br />

14/9/1994, n. 739, che ha individuato tale figura professionale come quella «dell’operatore<br />

sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione<br />

all’albo professionale, è responsabile dell’assistenza generale infermieristica».<br />

Il terzo comma dell’art. 1 di tale decreto individua i principali compiti dell’infermiere,<br />

prevedendo, tra l’altro, che egli «garantisce la corretta applicazione delle<br />

prescrizioni diagnostico-terapeutiche» e precisando che agisce sia individualmente<br />

sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari, e che «per l’espletamento<br />

delle funzioni si avvale, ove necessario, dell’opera del personale di supporto».<br />

Orbene, il richiamo al precetto normativo citato consente una riflessione su<br />

una delle attività che tipicamente la giurisprudenza ha in passato ritenuto essere riservata<br />

all’infermiere professionale, quella consistente nella somministrazione dei<br />

farmaci ai pazienti ( 5 ): se può ritenersi evidente che la somministrazione di medicinali<br />

su prescrizione medica sia un atto che inerisca ai compiti professionali dell’infermiere,<br />

rientrando nell’«assistenza generale infermieristica» e, in particolare, costituendo<br />

una forma di «applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche»,<br />

ossia un atto caratteristico e, se si vuole, tipico della professione in parola («tipico»<br />

almeno nel senso che rientra nell’esercizio di funzioni più generali attribuite a<br />

tale professione), deve riconoscersi, tuttavia, che nessuna delle disposizioni di tale<br />

fonte normativa riserva in via esclusiva all’infermiere la somministrazione stessa di<br />

farmaci su prescrizione medica.<br />

Sotto altro profilo, poi, è opportuno evidenziare come la stessa normativa in<br />

parola consenta all’infermiere di farsi coadiuvare da «altri operatori sanitari e sociali»<br />

e di avvalersi «dell’opera del personale di supporto» [cfr. art. 1, lett. e) ef)<br />

d.m. cit.], così evidenziando che vi sono atti tipici della professione di infermiere –<br />

od almeno alcuni atti tipici – la cui esecuzione ammette la collaborazione di altri<br />

soggetti in quanto non riservata in via esclusiva all’infermiere stesso.<br />

Per completezza va osservato che il D.P.R. 14/3/1974, n. 225 – che prevedeva<br />

il c.d. «mansionario» dell’infermiere professionale – nel delineare all’art. 2 le attribuzioni<br />

assistenziali dirette ed indirette degli infermieri professionali, contemplava<br />

anche la «somministrazione dei medicinali prescritti». Tuttavia tale regolamen-<br />

( 5 ) La somministrazione dei farmaci, come detto supra, era in effetti una delle condotte contestate nel<br />

capo di imputazione relativo al procedimento in cui è stata emessa la sentenza in commento.


246 GIURISPRUDENZA<br />

to è stato espressamente abrogato dall’art. 1, comma 2 o L. 26 febbraio 1999, n. 42,<br />

che ha riformato la disciplina delle professioni sanitarie; cosicché a partire dall’entrata<br />

in vigore del cennato provvedimento legislativo (17 marzo 1999), non è stato<br />

più possibile riscontrare nell’ordinamento giuridico italiano una disposizione<br />

(quale quella dell’abrogato art. 2 D.P.R. n. 225 del 1994) che «riservi» la somministrazione<br />

di farmaci su prescrizione medica alla professione dell’infermiere professionale<br />

È chiaro che, dal punto di vista della tipicità del fatto ci cui all’art. 348 c.p.,<br />

l’inesistenza di una disposizione normativa che riservi ad una determinata professione<br />

c.d. protetta (nella specie, quella dell’infermiere professionale) un determinato<br />

atto, comporta come conseguenza che la norma incriminatrice in parola non<br />

sia più integrabile da una disciplina extrapenale che subordini la legittimità (o, se<br />

si preferisce dire, la «non abusività») del compimento di quell’atto al possesso di<br />

una speciale abilitazione dello Stato ( 6 ).<br />

È vero, peraltro, che l’abrogazione del D.P.R. n. 225 del 1974 non ha comportato<br />

un vuoto di tutela normativa in ordine alle mansioni degli infermieri, avendo lo stesso<br />

art. 1 L. 26/2/1999, n. 42 demandato la determinazione delle competenze e delle responsabilità<br />

del personale infermieristico ai decreti ministeriali istituivi del relativo<br />

profilo professionale e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di studio.<br />

In attuazione di questo disposto legislativo, è stato emanato il d.m. 2 aprile<br />

2001 («Determinazione delle classi delle lauree universitarie delle professioni “sanitarie”»),<br />

il cui allegato n. 1 disciplina le attribuzioni della «professione sanitaria<br />

di infermiere».<br />

Anche questa nuova normativa, oltre a fare rinvio ai contenuti del d.m. 14/9/<br />

1994 e riprodurne quasi pedissequamente alcune statuizioni, da un lato, non configura<br />

in alcun modo la somministrazione di farmaci su prescrizione medica come<br />

atto riservato della professione di infermiere (anzi, non ne proprio fa menzione alcuna);<br />

dall’altro, ribadisce come la figura professionale dell’infermiere agisca sia<br />

individualmente «che in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali, avvalendosi,<br />

ove necessario, dell’opera del personale di supporto», con ciò nuovamente<br />

riconoscendo (come già era avvenuto nel d.m. n. 739 del 1994) che l’infermiere<br />

può essere coadiuvato da altre figure professionali operanti nell’ambito della<br />

sanità.<br />

( 6 ) Sotto questo profilo non potrebbe replicarsi che, comunque, la somministrazione di farmaci su<br />

prescrizione medica rimane pur sempre attività rientrante nell’«assistenza generale infermieristica» di cui<br />

al d.m. 14/9/1994, n. 739, poiché un siffatto rilievo varrebbe tutt’al più a configurare l’atto in questione<br />

come caratteristico o, se si vuole, «tipico» della professione in discorso, ma non come atto indicato dalle<br />

legge come esclusivo della professione medesima (cfr., sul punto, Cass. Pen., sez. VI a , 22/4/1997, n. 5672,<br />

già citata nella nota 4).


NUOVE PROFESSIONI SANITARIE E «VECCHIO» ART. 348 C.P. 247<br />

L’evoluzione normativa della figura professionale dell’infermiere fin qui descritta<br />

è stata accompagnata da quella dell’«operatore tecnico addetto all’assistenza»,<br />

altro profilo professionale istituito dall’art. 40, co. 3 o D.P.R. 28/11/1990, n.<br />

384 e compiutamente regolato dal d.m. 26/7/1991, n. 295.<br />

Questa diversa figura professionale svolge senz’altro mansioni ausiliarie a quelle<br />

propriamente infermieristiche ed ha una formazione teorica e tecnico-pratica,<br />

per così dire, «contigua» a quella degli infermieri, in quanto i relativi corsi di qualificazione<br />

sono istituiti presso le scuole per infermieri professionali (art. 2, co. 1 o<br />

d.m. n. 295 del 1991), l’ordinamento didattico della stessa prevede anche l’insegnamento<br />

di nozioni di primo soccorso e pronto intervento (cfr. allegato 2 al d.m.<br />

cit.) e tale figura è prioritariamente inserita nelle équipe assistenziali delle unità<br />

operative ospedaliere, tant’è che, a tale fine, è stata prevista anche la necessità di<br />

una revisione dei modelli di organizzazione del lavoro infermieristico (art. 7, co. 1 o<br />

e2 o d.m. cit.).<br />

Quest’ultimo profilo professionale si è poi evoluto in quello dell’«operatore<br />

socio-sanitario», istituito e disciplinato dalla L. Reg. Veneto 16/8/2001, n. 20 («La<br />

“figura professionale dell’operatore socio-sanitario”»), cui come visto si è anche<br />

richiamato il Tribunale di Venezia nella sentenza in commento.<br />

Va, altresì, rammentato come la deliberazione della Giunta Regionale del Veneto<br />

n. 2230 del 9/8/2002 abbia stabilito l’equipollenza tra gli attestati di qualifica<br />

di «operatore addetto all’assistenza», «operatore tecnico addetto all’assistenza» e<br />

«operatore socio sanitario».<br />

Ciò che qui importa soprattutto sottolineare, comunque, è come la cennata<br />

legge regionale abbia espressamente previsto che l’operatore socio-sanitario «realizza<br />

attività semplici di supporto diagnostico e terapeutico» nonché su indicazione<br />

del «personale preposto è in grado di: aiutare per la corretta assunzione dei farmaci<br />

prescritti e per il corretto utilizzo di apparecchi medicali di semplice uso» ( 7 ).<br />

Va, inoltre, evidenziato che nel 2002, con una novella della già citata legge regionale<br />

del Veneto 20/2001, si è ulteriormente ribadito che gli operatori socio sanitari<br />

possano coadiuvare l’infermiere nello svolgimento delle attività assistenziali<br />

e somministrare le terapie prescritte ( 8 ).<br />

( 7 ) La previsione è contenuta nell’allegato B della L. Reg. Veneto n. 20 del 2001.<br />

( 8 ) La L. Reg. Veneto 9 agosto 2002, n. 17 ha previsto un nuovo corso di formazione per il conseguimento<br />

di uno specifico attestato di formazione complementare dell’«operatore socio-sanitario» in assistenza<br />

sanitaria (cfr. art. 2, co. 3-bis ed art. 11, co. 4-bis L. Reg. Veneto n. 20 del 2001 come introdotti dalla L.<br />

Reg. Veneto 9/8/2002, n. 17). In particolare, l’art. 6, co. 1-bis della L. Reg. Veneto n. 20 del 2001 (introdotto<br />

dall’art. 2 L. Reg. Veneto n. 17 del 2002) ha stabilito che le competenze dell’operatore socio-sanitario<br />

che ha conseguito l’attestato di formazione complementare in assistenza sanitaria sono contenute nell’allegata<br />

tabella B bis), che testualmente recita: «l’operatore socio sanitario, che ha seguito con profitto il<br />

“Modulo facoltativo complementare in assistenza sanitaria”, oltre a svolgere i compiti del proprio profilo, coa-


248 GIURISPRUDENZA<br />

Queste previsioni, dunque, dimostrano come, anche a livello normativo, l’atto<br />

della somministrazione di farmaci su prescrizione medica non sia assolutamente<br />

«riservato» alla professione infermieristica (almeno e sicuramente quando non si<br />

inserisca nell’esecuzione di più specifiche mansioni indicate da altra fonte normativa<br />

come realmente esclusive di tale profilo professionale).<br />

Infatti, anche l’operatore socio sanitario – titolo, come detto, ritenuto equipollente<br />

a quello di «operatore addetto all’assistenza» dal Decreto della Giunta Regionale<br />

del Veneto n. 2230 del 9/8/2002 – è legittimato a fornire attività di ausilio,<br />

su indicazione del personale preposto (quindi, degli infermieri professionali), nella<br />

somministrazione di medicinali.<br />

Inoltre l’operatore socio-sanitario, per così dire, «specializzato» è espressamente<br />

abilitato dalla normativa in parola a somministrare per la via naturale i farmaci<br />

prescritti, oltre che a compiere altri atti che, per l’innanzi, erano considerati<br />

tipici della (se non addirittura riservati alla) professione infermieristica, come<br />

l’esecuzione della terapia intramuscolare e sottocutanea o dei bagni terapeutici, di<br />

impacchi medicali, frizioni e bendaggi ( 9 ).<br />

Dunque, può dirsi non solo che sia stato normativamente sancito che la somministrazione<br />

di farmaci prescritti dal medico e molte altre attività non siano<br />

esclusivamente riservate alla professione infermieristica, ma anche che si sia introdotta<br />

una competenza professionale concorrente, entro certi limiti, con quella dell’infermiere,<br />

compatibilmente, del resto, con quelle previsioni dell’ordinamento<br />

professionale dell’infermiere che hanno sempre preveduto e consentito agli stessi<br />

di avvalersi dell’opera di personale di supporto e di espletare le proprie mansioni<br />

in collaborazione con altri operatori sanitari e sociali ( 10 ).<br />

Appare, dunque, pienamente condivisibile l’approdo ermeneutico cui è giunto<br />

il Tribunale di Venezia, poiché le attività di somministrazione di farmaci, di affian-<br />

diuva l’infermiere in tutte le attività assistenziali ed, in base all’organizzazione dell’unità funzionale di appartenenza<br />

e conformemente alle direttive del personale infermieristico, provvede a: somministrare, per via naturale,<br />

la terapia prescritta (...)».<br />

( 9 ) Cfr. ancora l’allegato B bis) alla L. Reg. Veneto n. 20 del 2001. Anche l’Accordo 16/1/2003 stipulato<br />

in seno alla Conferenza Stato Regioni individua molte delle attività in precedenza considerate tipiche<br />

della professione di infermiere nell’alveo delle competenze/mansioni dell’operatore socio sanitario con<br />

formazione complementare in assistenza sanitaria, prevedendo che l’operatore socio-sanitario, che abbia<br />

seguito con profitto il modulo di formazione complementare in assistenza sanitaria, possa – tra l’altro –<br />

somministrare, per via naturale, la terapia prescritta e eseguire la terapia intramuscolare sottocutanea conformemente<br />

alle direttive del responsabile dell’assistenza infermieristica o sotto la sua supervisione, eseguire<br />

bagni terapeutici, impacchi medicali e frizioni, rilevare e annotare alcuni parametri vitali del paziente<br />

quali frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, temperatura, possa eseguire medicazioni semplici e bendaggi,<br />

clisteri raccolta di escrezioni e secrezioni a scopo diagnostico, eseguire la respirazione artificiale e il<br />

massaggio cardiaco esterno, eseguire ancora la sorveglianza delle fleboclisi sempre conformemente alle direttive<br />

del personale infermieristico o sotto la sua supervisione.<br />

( 10 ) Cfr. art. 1, co. 3 o , lett. e) e lett. f) d.m. 14/9/1994, n. 739.


NUOVE PROFESSIONI SANITARIE E «VECCHIO» ART. 348 C.P. 249<br />

camento al personale medico, che erano oggetto di contestazione sub specie dell’art.<br />

348 c.p. non possono ritenersi, alla luce delle citate discipline normative, attività<br />

riservate a chi sia in possesso della abilitazione dello Stato quale infermiere<br />

professionale.<br />

Potrebbe obiettarsi che le dette attività risulterebbero, proprio secondo le normative<br />

di cui si è fatta una rapida ricognizione, pur sempre riservate alla figura<br />

professionale dell’«operatore socio-sanitario» (eventualmente «specializzato») e<br />

che, quindi, non sarebbero consentite a quella dell’«operatore addetto all’assistenza»;<br />

con l’intuibile conseguenza che potrebbe ricadere nella violazione dell’art.<br />

348 c.p. chi ponga in essere dette attività senza possedere né l’abilitazione di infermiere<br />

professionale, né la qualifica di operatore socio-sanitario.<br />

L’obiezione non coglie nel segno.<br />

Anche a voler prescindere dall’equiparazione sancita dalla ricordata delibera<br />

della Giunta regionale veneta tra «operatore addetto all’assistenza» ed «operatore<br />

socio-sanitario», nonché dal rilievo che, comunque, per l’accesso al modulo complementare<br />

in assistenza sanitaria per divenire «operatore socio-sanitario» c.d.<br />

«specializzato» è richiesto, come titolo abilitativo originario, soltanto quello di<br />

«operatore socio-sanitario» ( 11 ), rimane, infatti, indubitabile che quella di «operatore<br />

socio-sanitario», anche se «specializzato», non può ritenersi una professione il<br />

cui legittimo esercizio sia subordinato ad una «speciale abilitazione dello Stato»,<br />

vale a dire una professione protetta ai sensi dell’art. 348 c.p. ( 12 ).<br />

Cosicché sostenere in una siffatta ipotesi la configurabilità del reato di cui all’art.<br />

348 c.p. per l’assenza del titolo autorizzatorio significherebbe, innanzitutto,<br />

disapplicare un elemento costitutivo della fattispecie penale, poiché l’abusività<br />

della condotta deve dipendere dalla mancanza di una «speciale abilitazione dello<br />

Stato».<br />

In secondo luogo, consentirebbe l’eterointegrazione della norma penale in<br />

bianco di cui all’art. 348 c.p. da parte di una fonte legislativa regionale proprio con<br />

riferimento a due aspetti essenziali della condotta normativa tipica, ossia alla definizione<br />

dell’atto che si assume riservato ad una determinata professione ed alla<br />

previsione del titolo abilitante: operazione ermeneutica che deve ritenersi assolu-<br />

( 11 ) Cfr. l’art. 7, comma 1-bis L. Reg. Veneto n. 20 del 2001, così come aggiunto dall’art. 3 L. Reg. Veneto<br />

n. 17 del 2002.<br />

( 12 ) Come si desume chiaramente dal combinato disposto degli artt. 1, comma 2 o , 2, comma 1 o e comma<br />

3-bis e 11, comma 4 o e comma 4-bis L. Reg. Veneto 16/8/2001, n. 75, per l’esercizio delle professioni in<br />

parola sono richiesti appositi attestati di qualifica rilasciati dalla Giunta Regionale all’esito di corsi di formazione<br />

professionale e del superamento di una prova, che sono esclusivamente di competenza della Regione.<br />

È pacifico, quindi, che si tratta di professioni i cui titoli abilitatori non sono assolutamente «dello<br />

Stato», in quanto non promanano né direttamente né indirettamente da alcun organo statale.


250 GIURISPRUDENZA<br />

tamente non consentita per la violazione della riserva di legge statale in materia<br />

penale che ne deriverebbe ( 13 ).<br />

Come si è rilevato la sentenza in commento si segnala anche per aver ritenuto<br />

che l’iscrizione all’albo degli infermieri sia obbligatoria solo per coloro che esercitano<br />

la libera professione retribuita da privati.<br />

La giurisprudenza di legittimità era, invero, già pervenuta ad un simile approdo<br />

ermeneutico ma in relazione all’ipotesi in cui la prestazione «infermieristica»<br />

fosse resa alle dipendenze o nell’interesse e sotto il controllo della Pubblica Amministrazione<br />

e sempre che «...il contratto di impiego del sanitario dipendente dalla<br />

Pubblica Amministrazione...» non consentisse «...l’esercizio della libera professione...»<br />

( 14 ).<br />

Nella pronuncia in rassegna si è applicato lo stesso principio ad un caso in cui,<br />

come visto, l’attività «infermieristica» era stata prestata da socie/dipendenti di una<br />

società cooperativa che aveva stipulato dei contratti di appalto con strutture private,<br />

seppur convenzionate.<br />

E si è evidenziato come l’ermeneusi del Tribunale di Venezia ha trovato di recente<br />

l’avallo della giurisprudenza della Suprema Corte ( 15 ).<br />

La motivazione della recente pronuncia dei Giudici di Legittimità convince<br />

della esattezza della prospettiva già fatta propria dal Tribunale lagunare nella sentenza<br />

massimata.<br />

Ha osservato, anzitutto, la Corte che l’iscrizione all’albo professionale configura<br />

un atto di accertamento costitutivo, operante erga omnes, dello status di professionista<br />

ed è imposta soltanto a coloro che esercitano la «libera professione» mediante<br />

contratti d’opera direttamente con il pubblico dei clienti.<br />

L’obbligo d’iscrizione nell’apposito albo degli esercenti la libera professione di<br />

infermiere (D.Lgs. C.P.S. n. 233 del 1946, art. 8) è, in sostanza secondo la Cassazione,<br />

strettamente connesso alla necessità di portare a conoscenza del pubblico<br />

quali siano le persone autorizzate ad esercitare tale professione e di garantire che<br />

le stesse siano sottoposte alla vigilanza dei competenti Collegi per eventuali aspetti<br />

disciplinari e per l’osservanza delle tariffe predisposte.<br />

( 13 ) Si è già evidenziato nella nota n. 1 che questa osservazione di principio è stata molto opportunamente<br />

e puntualmente fatta propria anche dal Tribunale di Venezia nella motivazione della sentenza massimata.<br />

( 14 ) Cfr., Cass. Pen., Sez. VI a , n. 28306 del 1/7/2003, già citata alla nota 3.<br />

( 15 ) Ci si riferisce alla sentenza n. 6491 del 4/12/2008 (depositata il 13/2/<strong>2009</strong>) della Sesta Sezione della<br />

Cassazione, già citata alla nota 3. In precedenza si rinviene sull’argomento una isolata pronuncia del Tribunale<br />

di Treviso (Sent. n. 968 del 30/9/204 – dep. Il 28/10/2004 – Est. Luca) in cui, per il vero, il Giudicante<br />

si era limitato a richiamare la massima della sentenza della Cassazione n. 8306/2003 già citata e riguardante,<br />

come accennato, la diversa ipotesi di prestazione infermieristica resa alle dipendenze di struttura<br />

ospedaliera pubblica.


NUOVE PROFESSIONI SANITARIE E «VECCHIO» ART. 348 C.P. 251<br />

Esercitare liberamente una professione significa, in effetti, compiere atti caratteristici<br />

della stessa: il che altro non vuol dire se non che il «libero professionista»<br />

deve essere una persona dotata di un corredo particolare di cognizioni tecnicoscientifiche<br />

che pone tale suo bagaglio culturale, in piena autonomia e a fine lucrativo,<br />

a disposizione della potenziale utenza con continuità e sistematicità.Il che lascia<br />

intuire il notevole rilievo etico-sociale della professione medesima e la necessità<br />

che la stessa sia, per così dire, monitorata attraverso l’iscrizione dell’esercente<br />

nell’apposito albo previsto dalla legge.<br />

L’obbligo d’iscrizione non sussiste, invece, ad avviso della Suprema Corte, per<br />

gli infermieri professionali che non svolgono attività autonoma e libera, ma sono<br />

legati da un rapporto di lavoro dipendente anche con una struttura privata, direttamente<br />

o indirettamente accreditata presso la Pubblica Amministrazione, considerato<br />

che in tale caso non esplicano «attività professionale mediante contratti<br />

d’opera direttamente con il pubblico dei clienti», non necessitano di una sorveglianza<br />

sulle tariffe applicate, in quanto percepiscono uno stipendio fisso, rispondono<br />

disciplinarmente al loro datore di lavoro al quale sono legati da rapporto gerarchico,<br />

devono incontrare – nello svolgimento delle loro funzioni – il gradimento<br />

e la piena soddisfazione della struttura sanitaria presso la quale lavorano, anche<br />

se quest’ultima non è pubblica ma è comunque accreditata e convenzionata con il<br />

Servizio Sanitario Nazionale.<br />

Una tale conclusione, secondo i Giudici di legittimità, trova un preciso aggancio<br />

normativo nel D.Lgs. C.P.S. n. 233 del 1946, art. 10 che prevede per gli operatori<br />

sanitari che rivestano la qualifica di dipendenti di enti pubblici la mera possibilità<br />

dell’iscrizione all’albo, con conseguente assoggettamento alla disciplina dell’Ordine<br />

o del Collegio, «limitatamente all’esercizio della libera professione», ove<br />

questo non sia loro vietato dagli ordinamenti dell’ente dal quale dipendono.<br />

Tale previsione normativa deve intendersi estesa, per una coerenza del sistema,<br />

anche agli operatori sanitari che prestano la loro attività in strutture private accreditate,<br />

che per essere tali devono comunque garantire adeguate condizioni di organizzazione<br />

interna, con specifico riferimento alla qualificazione professionale del<br />

personale effettivamente impiegato o alla qualità delle prestazioni erogate.<br />

In effetti in entrambi i casi citati, l’utenza fa affidamento sulla garanzia offerta<br />

dalla struttura sanitaria alla quale si rivolge, sia essa pubblica o privata convenzionata,<br />

e non instaura un rapporto diretto con il singolo operatore sanitario che in<br />

essa lavora; la prestazione di quest’ultimo non è espressione del libero esercizio<br />

professionale ma, piuttosto, adempimento di un dovere connesso al rapporto che<br />

lo lega alla detta struttura, con l’effetto che, per l’esercizio di tale attività, non è richiesta<br />

l’iscrizione al relativo albo ma è sufficiente il possesso del titolo abilitante.<br />

In tali fattispecie non viene, in buona sostanza, in rilievo il tipo di rapporto che


252 GIURISPRUDENZA<br />

lega il professionista alla struttura sanitaria, ma la prestazione di fatto offerta dal<br />

medesimo nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ente.<br />

Anche sotto questo diverso profilo la decisione assunta dal Tribunale di Venezia<br />

appare, pertanto, condivisibile in quanto coerente con la disciplina normativa<br />

vigente in materia e con i più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità<br />

( 16 ).<br />

Matteo Garbisi<br />

( 16 ) La completezza di informazione impone di rendere edotto il lettore del fatto che la sentenza che si<br />

è commentata è stata impugnata dal Procuratore della Repubblica di Venezia e che non è ancora stato celebrato<br />

il giudizio d’appello.


IL CURATORE FALLIMENTARE NON È UN POLIZIOTTO...<br />

1. La necessità di una preliminare indagine sullo status giuridico del curatore fallimentare<br />

Appare ancora oggi diffusa la tendenza a considerare il curatore fallimentare<br />

come una sorta di «cerniera» tra la procedura concorsuale ed il procedimento penale.<br />

Nella prassi giudiziaria questa tendenza si manifesta soprattutto nell’aspettativa<br />

– se non addirittura nella pretesa – del pubblico ministero di ottenere dal curatore<br />

un contributo all’indagine penale di tipo non solo informativo, ma anche investigativo.<br />

La posizione senz’altro privilegiata del curatore nella scoperta e nell’analisi dei<br />

profili penalmente rilevanti del dissesto dell’impresa parrebbe, infatti, legittimare<br />

un suo dovere di collaborazione con l’organo inquirente, di cui, peraltro, non sempre<br />

vengono esattamente chiariti l’effettivo contenuto e, prima ancora, il presunto<br />

fondamento normativo.<br />

Soprattutto in passato questo fondamento era stato individuato da un’autorevole<br />

parte della dottrina fallimentaristica nell’art. 33 R.D. 16/3/1942, n. 267 (d’ora<br />

in avanti: l. fall.), che – nel testo anteriore alla riforma fallimentare – imponeva al<br />

curatore di riferire nella propria relazione al giudice delegato «sulla responsabilità<br />

del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini dell’istruttoria penale»,<br />

nonché, in caso di fallimento di società, «i fatti accertati e le informazioni raccolte<br />

sulla responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo, dei soci e, eventualmente,<br />

di estranei alla società»( 1 ).<br />

Si era, quindi, ritenuto che il curatore fosse titolare di un vero e proprio pote-<br />

( 1 ) In questa parte il D.Lgs. 9/1/2006, n. 5 ed il D. Lgs. 12/9/2007, n. 169 hanno lasciato sostanzialmente<br />

immutata la formulazione dell’art. 33 l. fall., avendo soltanto sostituito nel terzo comma il riferimento<br />

ai sindaci con quello agli «organi di controllo» della società (per un’evidente esigenza di adeguamento<br />

alla nuova disciplina in materia societaria), nonché modificato l’espressione «istruttoria penale» (che apparteneva<br />

al lessico normativo dell’abrogato codice di procedura penale del 1930) con «indagini preliminari<br />

in sede penale».


254 GIURISPRUDENZA<br />

re-dovere di investigazione agli effetti penali, come se, prima ancora di essere semplicemente<br />

tenuto ad informare il giudice delegato dei fatti di reato scoperti nell’esercizio<br />

delle proprie funzioni, egli fosse obbligato a mettersi attivamente alla ricerca<br />

di tali fatti e raccoglierne i relativi elementi di prova.<br />

Così, anziché interpretare la norma fallimentare solo dopo aver verificato se lo<br />

status giuridico dell’organo della procedura concorsuale potesse realmente contemplare<br />

un obbligo di tal genere, si era creduto di poter ricavare direttamente da<br />

essa l’esistenza di tale potere-dovere.<br />

Con una sorta di capovolgimento del metodo ermeneutico seguito da questa<br />

dottrina occorrerà, invece, individuare quali norme definiscano lo status soggettivo<br />

del curatore fallimentare, per poi esaminare se da tale status – vale a dire dal<br />

complesso di funzioni ed obblighi che esso implica – sia realmente consentito ricavare<br />

un dovere di collaborazione investigativa con l’organo inquirente del procedimento<br />

penale.<br />

Conviene subito osservare come le coordinate essenziali di questa problematica<br />

si debbano ricercare all’interno del diritto penale e del diritto processuale penale.<br />

L’esistenza stessa di un obbligo, in capo al curatore fallimentare, di denunciare<br />

i fatti penalmente rilevanti da lui appresi dipende, infatti, dalla possibilità di considerarlo<br />

un «pubblico ufficiale» ovvero un «incaricato di un pubblico servizio» agli<br />

effetti dell’art. 331 c.p.p., che impone a tali soggetti di denunciare per iscritto al<br />

pubblico ministero o ad un ufficiale di polizia giudiziaria i reati procedibili d’ufficio<br />

dei quali abbiano notizia nell’esercizio od a causa delle loro funzioni.<br />

Già sotto questo profilo si può osservare come la sola analisi dell’art. 33 l. fall.<br />

non appaia esaustiva neppure ai fini della ricostruzione del contenuto e delle modalità<br />

di adempimento del semplice obbligo del curatore di portare l’autorità giudiziaria<br />

a conoscenza dei fatti di reato scoperti nell’esercizio delle proprie funzioni.<br />

Ed invero, fermo restando il dovere del curatore di segnalare tali fatti nella relazione<br />

diretta al giudice delegato, qualora l’organo in parola dovesse assumere<br />

una delle qualifiche pubblicistiche indicate dall’art. 331 c.p.p. si porrà l’ulteriore<br />

questione se egli sia comunque tenuto a notiziare anche l’ufficio del pubblico ministero<br />

ovvero un ufficiale di polizia giudiziaria.<br />

Ora, la soluzione della pregiudiziale questione se il curatore fallimentare sia<br />

annoverabile tra i soggetti obbligati alla denuncia ex art. 331 c.p.p. dipende dalla<br />

possibilità o meno di considerarlo un «pubblico ufficiale» ovvero un «incaricato<br />

di un pubblico servizio» alla stregua, rispettivamente, dell’art. 357 o dell’art. 358<br />

c.p. ( 2 ).<br />

( 2 ) La dottrina penalistica sembra concorde nell’affermare che le qualificazioni soggettive previste dal-


IL CURATORE FALLIMENTARE NON È UN POLIZIOTTO... 255<br />

L’eventuale soluzione positiva di tale questione, del resto, comporterebbe<br />

l’astratta applicabilità al curatore fallimentare, in caso di inosservanza dell’obbligo<br />

di denuncia, del delitto di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale<br />

(art. 361 c.p.) ovvero da parte di un incaricato di pubblico servizio (art. 362 c.p.),<br />

con il conseguente problema se tali illeciti penali si possano configurare anche in<br />

caso di presentazione di una denuncia incompleta, ad esempio perché priva di talune<br />

delle indicazioni richieste dal citato art. 332 c.p.p.<br />

Se, dunque, notevoli problematiche già si prospettano in ordine all’esatta ricostruzione<br />

del contenuto di quell’obbligo di comunicazione di fatti penalmente rilevanti<br />

che solo in apparenza parrebbe esaustivamente fissato dall’art. 33 l. fall.,<br />

ancora una volta di natura squisitamente penalistica è, appunto, l’ulteriore questione<br />

se il curatore fallimentare, una volta scoperto il fatto di reato, abbia poi il<br />

dovere di indagare su tale fatto individuandone le fonti di prova, ossia il dovere di<br />

fornire un contributo investigativo (e non solo informativo) all’autorità giudiziaria<br />

penale.<br />

Nuovamente è la lettura dell’art. 331 c.p.p. a suggerire i termini essenziali di<br />

questo problema.<br />

La disposizione in parola, nel prevedere l’obbligo di denuncia gravante sui<br />

pubblici ufficiali e sugli incaricati di un pubblico servizio, fa salva l’applicabilità<br />

dell’art. 347 del medesimo codice.<br />

Quest’ultima disposizione fissa i doveri degli agenti ed ufficiali della polizia<br />

giudiziaria (che costituiscono, dal punto, di vista penalistico, una particolare species<br />

della categoria dei pubblici ufficiali), obbligandoli, una volta acquisita la c.d.<br />

notizia di reato, a riferire al pubblico ministero non solo gli elementi essenziali del<br />

fatto (come l’art. 332 c.p.p. impone indistintamente a tutti i pubblici ufficiali ed<br />

incaricati di un pubblico servizio tenuti alla denuncia), ma, altresì «gli altri elementi<br />

sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute».<br />

Più in generale, l’art. 55 cod. proc. pen. impone alla polizia giudiziaria di acquisire<br />

notizia dei reati «anche di propria iniziativa», di porsi alla ricerca degli autori<br />

degli stessi e di «compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere<br />

quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale».<br />

Diviene allora intuitivo che qualsiasi pretesa di addossare al curatore fallimentare<br />

veri e propri obblighi investigativi o, comunque, obblighi di ricerca delle fonti<br />

di prova dei reati che trascendono il semplice dovere di denuncia, ancorché desumibile<br />

dall’art. 331 c.p.p. (oltre che dall’art. 33 l. fall.), presuppone che si risolva<br />

l’art. 331 c.p.p. debbano essere desunte dalle nozioni di «pubblico ufficiale» e di «incaricato di un pubblico<br />

servizio» previste dal codice penale: cfr. per tutti, P.P. Paulesu, sub art. 331, in Codice di procedura penale<br />

commentato, a cura di A. Giarda e G. Spangher, vol. II, IPSOA, 2001, pag. 32.


256 GIURISPRUDENZA<br />

positivamente la questione se il curatore stesso possa assumere la qualifica soggettiva<br />

non solo di pubblico ufficiale agli effetti della legge penale, ma, altresì, di<br />

agente od ufficiale di polizia giudiziaria.<br />

2. Il curatore fallimentare quale pubblico ufficiale: l’art. 30 l. fall.<br />

L’art. 30 l. fall. definisce espressamente come «pubblico ufficiale» il curatore<br />

fallimentare «per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni»( 3 ).<br />

La norma parrebbe esaurire ogni discussione sulla possibilità di attribuire tale<br />

qualifica soggettiva al curatore.<br />

In realtà, proprio questa disposizione ha complicato una questione che il suo<br />

immediato antecedente normativo sembrava aver risolto.<br />

Infatti, sino all’entrata in vigore della L. 10/7/1930, n. 995 il riconoscimento<br />

della qualifica di pubblico ufficiale al curatore fallimentare era piuttosto discussa,<br />

sia per la mancanza di un’espressa disposizione al riguardo, sia in quanto erano assai<br />

deboli, a livello sistematico, gli indici normativi dell’attribuibilità di tale status<br />

giuridico all’organo della procedura fallimentare ( 4 ), sia, infine, perché la nozione<br />

di pubblico ufficiale dettata dal codice penale allora vigente mal si attagliava alla<br />

figura del curatore fallimentare ( 5 ).<br />

L’art. 2 L. n. 995/1930 sembrò risolvere ogni problema, stabilendo testualmente<br />

che «il curatore, per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni, è pubblico<br />

ufficiale a tutti gli effetti di legge»; invero, la chiarezza della formulazione legislativa<br />

condusse la pressoché unanime dottrina del tempo a riconoscere lo status di<br />

pubblico ufficiale al curatore fallimentare ( 6 ).<br />

Ora, se l’art. 30 l. fall., succeduto alla disposizione appena citata, ribadì il carattere<br />

pubblicistico della figura del curatore e delle sue funzioni, tuttavia la scomparsa<br />

dell’inciso «a tutti gli effetti di legge» sollecitò in alcuni Autori il dubbio che<br />

la qualifica di pubblico ufficiale così normativamente assegnata a tale organo della<br />

( 3 ) Il testo dell’art. 30 non è stato modificato dai decreti legislativi della riforma fallimentare.<br />

( 4 ) Da un lato, infatti, il codice di commercio non attribuiva al curatore né la qualità di pubblico funzionario<br />

né quella di persona esercente una pubblica funzione; dall’altro, contemplava come reato proprio<br />

del curatore soltanto il delitto di «malversazione» (art. 864), senza che, però, esistesse nel codice penale allora<br />

vigente una più generale figura di malversazione del pubblico ufficiale a danno dei privati di cui tale<br />

delitto potesse ritenersi un’ipotesi speciale.<br />

( 5 ) L’art. 207 del codice Zanardelli, infatti, attribuiva la qualità di pubblici ufficiali soltanto a funzionari<br />

inquadrati nell’ambito dell’organizzazione dello Stato o di un altro ente pubblico ovvero a particolari<br />

soggetti nominativamente indicati (tra i quali non rientrava il curatore fallimentare).<br />

( 6 ) Cfr., per tutti, A. Levi, Il curatore di fallimento pubblico ufficiale, inRiv. dir. comm., 1930, I, pag.<br />

844.


IL CURATORE FALLIMENTARE NON È UN POLIZIOTTO... 257<br />

procedura concorsuale fosse limitata ad alcuni ambiti dell’ordinamento giuridico<br />

e non potesse essere estesa anche a quello penale.<br />

Più precisamente, si osservò che l’art. 30 l. fall. non assumeva alcuna rilevanza<br />

ai fini dell’applicabilità o meno al curatore fallimentare dei reati commessi da (ovvero<br />

a danno di) pubblici ufficiali ( 7 ) (e – potremmo aggiungere – neppure ai fini<br />

dell’applicabilità delle norme processuali relative all’obbligo di denuncia incombente<br />

sul pubblico ufficiale).<br />

Tale considerazione si basava sull’assunto che l’attribuzione della qualifica di<br />

pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio agli effetti penali poteva<br />

avvenire soltanto alla stregua delle corrispondenti nozioni fornite dagli artt. 357 e<br />

358 c.p. ( 8 ), sicché nessuna norma di legge specifica avrebbe potuto determinare<br />

l’assunzione di tali qualifiche soggettive indipendentemente dalle nozioni dettate<br />

nelle cennate disposizioni del codice penale.<br />

Questa impostazione, senz’altro da condividere e riaffermata anche in tempi<br />

più recenti ( 9 ), dovrà necessariamente guidare l’interprete nella soluzione del problema<br />

che ci siamo posti, vale a dire se il curatore fallimentare possa considerarsi<br />

pubblico ufficiale anche agli effetti penali, senza che, dunque, l’art. 30 l. fall. possa<br />

assumere alcuna rilevanza decisiva al riguardo.<br />

3. Il curatore fallimentare come pubblico ufficiale agli effetti della legge penale<br />

La natura ed il limitato oggetto del presente lavoro non consentono una trattazione,<br />

anche solo in termini generali, della figura del pubblico ufficiale prevista<br />

dall’art. 357 cod. pen. ( 10 ).<br />

Conviene, allora, confinare il discorso ai profili normativi di tale figura che<br />

presentino immediata rilevanza per la trattazione e la soluzione del problema che<br />

ci siamo posti.<br />

( 7 ) Cfr., ad es., P. Nuvolone, Brevi note sul concetto penalistico del pubblico ufficiale, inRiv. it. dir.<br />

pen., 1940, pag. 44.<br />

( 8 ) Come si è poc’anzi osservato, lo stesso argomento aveva contribuito, prima dell’entrata in vigore<br />

dell’art. 30 L. n. 995/1930, a negare il riconoscimento al curatore della qualità di pubblico ufficiale.<br />

( 9 ) Cfr., ad es., C. Benussi, sub art. 357 in Codice penale commentato, a cura di E. Dolcini e G. Marinucci,<br />

vol. I, IPSOA, 2006, pag. 2617, il quale osserva esattamente come «il giudice penale, per l’individuazione<br />

delle nozioni di pubblico ufficiale, di incaricato di un pubblico servizio e di esercente un servizio di pubblica<br />

necessità, non potrà utilizzare fonti diverse da quelle previste agli artt. 357, 358 e 359»; Romano, Commentario<br />

sistematico del codice penale (artt. 336-360), 2002, pag. 230.<br />

( 10 ) Conviene osservare che, almeno ai fini delle disposizioni processuali che prevedono l’obbligo di<br />

denuncia (cfr. par. 1), l’indagine in parola dovrebbe riguardare anche l’attribuibilità al curatore fallimentare<br />

della qualifica di incaricato di un pubblico servizio ex art. 358 c.p. Tuttavia, preferiamo subito anticipare<br />

che tale indagine avrebbe carattere del tutto residuale, assumendo rilevanza solo ove si dovesse negare<br />

che il curatore sia un pubblico ufficiale (anche) agli effetti penali, mentre proprio quest’ultima sarà la tesi<br />

cui perverremo.


258 GIURISPRUDENZA<br />

È innanzitutto necessario sottolineare come, a seguito della riforma operata<br />

con la L. 26/4/1990, n. 86, il Legislatore penale abbia sicuramente accolto una<br />

concezione oggettivo-funzionale della nozione di pubblico ufficiale, in quanto essa<br />

è stata completamente slegata dal riferimento a qualsiasi rapporto di dipendenza<br />

dallo Stato o da altri enti pubblici e risulta essenzialmente incentrata sulla natura<br />

delle mansioni specifiche svolte dal pubblico funzionario ( 11 ).<br />

Tale concetto traspare chiaramente dalla stessa formulazione letterale dell’art.<br />

357 c.p., soprattutto se confrontata con il testo normativo precedente alla riforma<br />

del 1990; in essa, infatti, la qualifica di pubblico ufficiale appare oggettivamente<br />

ancorata all’esercizio della funzione legislativa, giudiziaria od amministrativa<br />

(comma primo), senza più alcun collegamento soggettivo dell’agente con l’organizzazione<br />

della pubblica amministrazione, venendo poi specificamente descritta,<br />

in termini altrettanto oggettivi, solo la pubblica funzione amministrativa (comma<br />

secondo), poiché il Legislatore non avvertito l’esigenza di chiarire anche il contenuto<br />

tipico delle altre due funzioni in quanto già sufficientemente caratterizzate<br />

nell’ambito dell’ordinamento giuridico ( 12 ).<br />

Questo primo rilievo consente agevolmente di comprendere come non sia<br />

d’ostacolo all’assunzione, da parte del curatore fallimentare, della qualifica penali-<br />

( 11 ) Su tale impostazione di fondo della L. n. 86/1990 dottrina e giurisprudenza si trovano ormai unanimente<br />

concordi; omettendo i numerosissimi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali che si potrebbero<br />

fare, rinviamo, per tutti, a A. Fiorella, voce Ufficiale pubblico, incaricato di un pubblico servizio o di un<br />

servizio di pubblica necessità, inEnc. dir., vol. XLV, Milano, 1992, pag. 566; P. Severino di Benedetto,<br />

voce Pubblico ufficiale e incaricato di un pubblico servizio,inDig. disc. pen., Torino, 2002, vol. X, pagg. 508<br />

e segg.; per la giurisprudenza cfr. Cass., SS.UU., 11/7/1992, in Giust. pen., 1993, II, col. 65; Cass., SS.UU.,<br />

13/7/1998, in Arch. nuova proc. pen., 1998, pag. 525.<br />

( 12 ) L’art. 357 c.p., così come modificato dall’art. 17 L. 26/4/1990, n. 86 e successivamente dall’art. 4<br />

L. 7/2/1992, n. 18, stabilisce che: «1. Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano<br />

una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. 2.Agli stessi effetti è pubblica la funzione<br />

amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione<br />

e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di<br />

poteri autoritativi o certificativi».<br />

Il testo precedente così disponeva: «Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali: 1) gli impiegati<br />

dello Stato o di un altro ente pubblico che esercitano, permanentemente o temporaneamente, una pubblica<br />

funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria; 2) ogni altra persona che esercita, permanentemente o temporaneamente,<br />

gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo, una pubblica funzione, legislativa<br />

amministrativa o giudiziaria».<br />

Va detto, peraltro, che anche durante la vigenza dell’originario testo dell’art. 357 c.p. era divenuta prevalente<br />

la concezione oggettiva del pubblico ufficiale, ritenendosi che si dovesse guardare all’attività svolta<br />

effettivamente e concretamente dal soggetto, a prescidere da investiture formali o rapporti di dipendenza<br />

con pubbliche amministrazioni. Del resto, già in questo ambito normativo ed interpretativo si era consolidata,<br />

sia nella dottrina sia giurisprudenza, la tesi secondo cui il curatore fallimentare doveva considerarsi<br />

pubblico ufficiale agli effetti della legge penale non solo – e non tanto – in virtù dell’art. 30 l. fall., quanto –<br />

e soprattutto – in base alla natura dell’attività svolta e, quindi, alla stregua della nozione dettata dall’art.<br />

357 c.p.: cfr., per i soli riferimenti giurisprudenziali, Cass., sez. V, 1/2/1988, C., in Cass. pen., 1989, pag.<br />

870; Cass., sez. VI, 29/1/1983, B., in Cass. pen., 1984, pag. 547; Cass., sez. VI, 28/10/1975, I., in Giust.<br />

pen., 1976, II, col. 265; Cass., sez. VI, 13/4/1972, A., in Giust. pen., II, col. 117.


IL CURATORE FALLIMENTARE NON È UN POLIZIOTTO... 259<br />

stica di pubblico ufficiale il fatto che non si tratti né di un soggetto in rapporto di<br />

dipendenza con lo Stato né, comunque, di un organo stabilmente incardinato nell’organizzazione<br />

della pubblica amministrazione statale.<br />

Se, piuttosto, si deve guardare all’attività che il curatore concretamente svolge<br />

nell’ambito della procedura concorsuale per poi confrontarla con taluna delle<br />

pubbliche funzioni indicate dall’art. 357 c.p., è evidentemente da escludere, innanzitutto,<br />

la congruità di un riferimento alla funzione legislativa.<br />

L’attività tipica del curatore potrebbe, invece, più coerentemente inquadrarsi<br />

nella pubblica funzione amministrativa, siccome delineata dal secondo comma<br />

dell’art. 357 c.p., poiché l’amministrazione del patrimonio fallimentare (cfr. art. 31<br />

l. fall.) non è deputata soltanto alla tutela di interessi privatistici del fallito e dei<br />

creditori, ma anche a quella dell’interesse alla par condicio creditorum, ossia al conseguimento<br />

di una finalità di pubblico interesse.<br />

Del resto, nell’adempimento di tale funzione, indubbiamente regolata da norme<br />

di carattere pubblicistico ed esercitata anche in attuazione di provvedimenti<br />

autoritativi promananti dal giudice delegato, lo stesso curatore risulta titolare di<br />

poteri autoritativi, in quanto esplicativi di un rapporto di supremazia di carattere<br />

pubblico nei confronti di un soggetto (si pensi al potere di convocare il fallito ovvero<br />

a quello di ottenerne la consegna della corrispondenza concernente i rapporti<br />

giuridici compresi nel fallimento).<br />

Parrebbe, quindi, consentito ravvisare nell’attività istituzionale del curatore<br />

fallimentare quegli indici normativi della pubblica funzione amministrativa che il<br />

secondo comma dell’art. 357 c.p. individua nell’esser tale funzione «disciplinata da<br />

norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata (...) dal suo svolgersi<br />

per mezzo di poteri autoritativi o certificativi»; in tal senso, invero, si era pronunciata<br />

in passato anche la Corte di Cassazione ( 13 ).<br />

Tuttavia, nella dottrina e nella giurisprudenza di legittimità ha finito con il prevalere<br />

la tesi secondo cui il curatore riveste la qualifica penalistica di pubblico ufficiale<br />

in quanto esercita una funzione giudiziaria, tenuto conto che in tale concetto<br />

viene ricompresa non solo l’attività propriamente giurisdizionale, ma altresì quella<br />

dei pubblici ministeri e di chi esercita le funzioni amministrative collegate allo iusdicere<br />

( 14 ).<br />

( 13 ) Cfr. Cass., sez. VI, 3/11/1982, B., in Cass. pen., 1984, pag. 587, secondo cui «il curatore fallimentare<br />

in tanto è pubblico ufficiale in quanto adempie una funzione diretta al conseguimento di un fine di pubblico<br />

interesse, avendo l’amministrazione del patrimonio fallimentare, essendo obbligato ad esercitare personalmente<br />

le attribuzioni del proprio ufficio e ad indagare e riferire sulle cause e circostanze del fallimento, sulla<br />

responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini della istruttoria penale (artt. 31,<br />

32, 33 e ss. legge fallimentare)».<br />

( 14 ) Il testo normativo originariamente introdotto nell’art. 357 c.p. dalla L. n. 86/1990 fece riferimento


260 GIURISPRUDENZA<br />

Il curatore fallimentare, quindi, viene considerato un pubblico ufficiale in senso<br />

penalistico poiché, quale organo del c.d. ufficio fallimentare, concorre allo svolgimento<br />

della funzione processuale concorsuale, cui deve riconoscersi natura giurisdizionale<br />

( 15 ).<br />

Ai fini che qui interessano si può allora concludere che il curatore assume anche<br />

agli effetti penali la qualità di pubblico ufficiale e, pertanto, risulta astrattamente<br />

soggetto all’obbligo di denuncia previsto dall’art. 331 c.p.p. ( 16 ).<br />

Non ci sembra, peraltro, che ciò comporti per il curatore l’obbligo assoluto di<br />

informare direttamente l’ufficio del pubblico ministero qualora, nell’esercizio delle<br />

proprie funzioni, venga a conoscenza di fatti penalmente rilevanti.<br />

Il destinatario naturale delle comunicazioni del curatore che riguardino anche<br />

la scoperta di ipotesi di reato è il giudice delegato, al quale vanno presentati la prima<br />

relazione ed i successivi rapporti riepilogativi previsti dall’art. 33 l. fall.<br />

Si tratta, invero, di un organo giurisdizionale che, a sua volta è sicuramente obbligato<br />

a riferire all’autorità giudiziaria penale i fatti costituenti reato di cui venga<br />

informato dalla curatela fallimentare.<br />

Pertanto, è ragionevole ritenere adempiuto l’obbligo di denuncia incombente<br />

sul curatore con la sola comunicazione al giudice delegato ( 17 ).<br />

alla funzione «giurisdizionale», creando così il dubbio – per vero, immediatamente superato dalla giurisprudenza<br />

– di una sua limitazione ai soggetti appartenenti all’ordine giudiziario che svolgono attività qualificabili<br />

come giurisdizionali (una simile interpretazione, del resto, avrebbe irragionevolmente escluso dalla<br />

categoria dei pubblici ufficiali persino i pubblici ministeri). In ogni caso, l’art. 4 L. 7/2/1992, n. 181 modificò<br />

nuovamente l’art. 357 c.p. sostituendo il termine «giurisdizionale» con quello «giudiziaria».<br />

Per una casistica giurisprudenziale delle figure che sono state ricomprese nella categoria in parola cfr.<br />

C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Padova, 2001, pagg.<br />

56 e segg.; tra queste, oltre al curatore fallimentare, sono stati annoverati il commissario liquidatore della<br />

procedura di liquidazione coatta amministrativa (Cass., sez. VI, 13/5/1998, F., in Cass. pen., 1999, pag.<br />

1460) ed il liquidatore del concordato preventivo (Cass., sez. V, 29/12/1994, M., in Cass. pen., 1996, pag.<br />

1827; contra, peraltro, Cass., sez. VI, 17/1/1989, G., in Cass. pen., 1989, pag. 1756).<br />

( 15 ) In questo senso vd., ad es., C. Santoriello, I reati del curatore fallimentare, Padova, 2002, pag.<br />

40; G. Sandrelli, I reati della legge fallimentare diversi dalla bancarotta, Milano, 1990, pag. 24; A. Cadoppi,<br />

Reati del curatore e dei suoi ausiliari, inCommentario Scialoja-Branca, a cura di F. Bricola, F. Galgano,<br />

G. Santini, Bologna-Roma, 1984, pag. 21; M. Benincasa, Il curatore come parte di un processo civile è ancora<br />

pubblico ufficiale,inIl fallimento, 1983, pag. 717; in giurisprudenza, cfr. Cass., sez. VI, 17/5/1994, C., in<br />

CED Cass., rv. 199449. Più recentemente, nell’ambito di vicende relative a corruzioni in atti giudiziari, la<br />

Cassazione è giunta ad affermare che il curatore fallimentare (così come il commissario giudiziale) rivestirebbe<br />

nella procedura concorsuale la qualità di parte (sicché il giudice delegato, al quale un professionista<br />

dia un’illecita mercede per farsi nominare curatore, commetterebbe, come richiede l’art. 319-ter c.p., un<br />

fatto di corruzione «per favorire (...) una parte in un processo civile»): cfr. Cass., sez. VI, 4/2/2004, D., in<br />

motivazione (in questa parte, per quanto ci consta, inedita); Cass., sez. VI, 28/2/2005, B., in Cass. pen.,<br />

2006, pagg. 2140 e segg.<br />

( 16 ) L’attribuzione della natura di pubblico ufficiale al curatore fallimentare comporta anche l’applicabilità<br />

al medesimo del reato di omessa denuncia di reato previsto dall’art. 361 c.p.<br />

( 17 ) Cfr. Cass., sez. V, 17/1/2002, B., in Arch. Nuova proc. pen., 2002, pag. 275, secondo cui «l’art. 33-1<br />

L.F., che ne presume la qualificazione di pubblico ufficiale (art. 30), importa per il curatore l’obbligo di pre-


IL CURATORE FALLIMENTARE NON È UN POLIZIOTTO... 261<br />

4. L’impossibilità di qualificare il curatore fallimentare come ufficiale di polizia<br />

giudiziaria<br />

L’aver individuato nel curatore fallimentare una tipica figura penalistica di<br />

pubblico ufficiale non comporta, però, che a tale organo debba attribuirsi anche la<br />

qualità di appartenente alla polizia giudiziaria.<br />

Come già si è accennato, in passato una parte della dottrina fallimentaristica<br />

aveva ricavato l’attribuzione di tale qualità dal tenore normativo dell’art. 33 l. fall.,<br />

che, obbligando il curatore a riferire al giudice delegato anche i fatti concernenti la<br />

responsabilità penale del fallito ( 18 ) (oltre che degli altri soggetti indicati nel terzo<br />

comma dell’art. 33 cit.) e, più in generale, i fatti che possano interessare l’«istruttoria<br />

penale», avrebbe comportato per l’organo della procedura concorsuale non solo<br />

l’obbligo di riferire tali fatti, ma, altresì, di ricercare gli eventuali elementi di reato.<br />

Va detto, invero, che una simile impostazione sembrò trovare accoglimento<br />

anche nella giurisprudenza di legittimità, poiché la relazione del curatore fallimentare<br />

fu equiparata al c.d. rapporto di denuncia ( 19 ).<br />

Per tentare di fornire una spiegazione a questa tesi è stato osservato che essa<br />

era maturata durante la vigenza del codice di procedura penale del 1930, il cui art.<br />

221 definiva come ufficiali od agenti di polizia giudiziaria «tutte le persone incaricate<br />

di ricercare ed accertare determinate specie di reato» ( 20 ), sicché la formulazione<br />

dell’art. 33 l. fall. pareva rispecchiare tale dettato normativo.<br />

Ora, a prescindere dalla congruità di tale giustificazione, occorre osservare che<br />

la situazione normativa di riferimento sembra essere sensibilmente mutata a seguito<br />

dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale.<br />

Da un lato, infatti, l’art. 57 c.p.p., dopo aver elencato nominativamente una serie<br />

di persone definite espressamente come ufficiali od agenti di polizia giudiziaria<br />

sentare al giudice delegato la relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento... sul tenore<br />

della vita privata del fallito e della sua famiglia e sulla responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare<br />

anche ai fini dell’istruttoria penale. Ma, perciò stesso, non gli fa carico di rapportare direttamente al<br />

pubblico ministero i fatti di rilevanza penale, che ravvisi nel corso del suo mandato, bensì di comunicare al<br />

giudice preposto alla procedura fallimentare tutto quanto verifica. Questi, a sua volta, ravvisando dal tenore<br />

della relazione gli estremi di una notizia di reato, la comunica al P.M., allegando la relazione.<br />

Deve pertanto ritenersi che sia il giudice delegato il pubblico ufficiale obbligato all’adempimento diretto<br />

dell’obbligo di cui all’art. 331 C.P.P., ancorché l’evidenza di quanto rappresentato dal curatore, lo esoneri di<br />

frequente dalla necessità di motivare la denuncia».<br />

( 18 ) Per comodità espositiva d’ora in poi faremo riferimento soltanto al «fallito» inteso come imprenditore<br />

individuale, anche se quanto esporremo varrà, a seconda dei casi, anche per gli amministratori delle<br />

società di capitali ed i soci delle società di persone.<br />

( 19 ) In questo senso cfr. Cass., sez. V, 20/11/1987, C., in Riv. pen., 1988, pag. 1204.<br />

( 20 ) Per questa spiegazione cfr. C. Santoriello, I reati del curatore fallimentare, cit., pag. 43.


262 GIURISPRUDENZA<br />

(c.d. criterio soggettivo), dispone che tali qualifiche debbano, altresì, essere riconosciute<br />

a tutti coloro cui le leggi ed i regolamenti attribuiscono le funzioni previste<br />

dall’art. 55 c.p.p. (c.d. criterio oggettivo).<br />

Quest’ultima norma processuale, a sua volta, descrive, in modo più specifico<br />

ed articolato di quanto facesse l’art. 221 c.p.p. abr., gli obblighi incombenti sulla<br />

polizia giudiziaria, che, oltre a dover prendere notizia dei reati anche di propria<br />

iniziativa, è tenuta ad «impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne<br />

gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere<br />

quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale».<br />

Di fronte ad una simile caratterizzazione normativa della funzione di polizia giudiziaria,<br />

la dottrina penalistica ha sostenuto che la pretesa appartenenza del curatore<br />

fallimentare alla polizia giudiziaria sarebbe del tutto incompatibile con la natura<br />

delle mansioni affidategli, poiché egli è, soprattutto ed innanzitutto, un organo della<br />

procedura concorsuale, prima che una sorta di detective del diritto penale fallimentare<br />

( 21 ); tanto più che gli adempimenti cui è tenuta la polizia giudiziaria implicano<br />

il possesso di una professionalità e di strumenti che normalmente il curatore<br />

fallimentare non ha (e che, per vero, la legge fallimentare neppure gli richiede) ( 22 ).<br />

Tali considerazioni, di per sé esatte, non debbono però porre in secondo piano<br />

un’ulteriore e forse ancor più decisiva considerazione.<br />

La negazione della qualità di ufficiale di polizia giudiziaria in capo al curatore<br />

fallimentare si fonda, prima di tutto, sul rilievo che l’art. 33 l. fall. non attribuisce<br />

in alcun modo tale organo quei doveri di ricerca, raccolta ed assicurazione al procedimento<br />

penale delle fonti di prova di un reato, che sono puntualmente descritti<br />

dall’art. 55 c.p.p.<br />

In altri termini, nessuno dei doveri investigativi indicati da tale disposizione<br />

sono rinvenibili nel dettato normativo dell’art. 33 l. fall., nel quale, pertanto, non è<br />

dato in alcun modo individuare la legge attributiva delle funzioni che sono previste<br />

nell’art. 55 c.p.p. e dalle quali l’art. 57, co. 3 c.p.p. fa dipendere la qualifica di<br />

ufficiale od agente di polizia giudiziaria ( 23 ).<br />

( 21 ) Cfr., ad es., G. Sandrelli, I reati della legge fallimentare diversi dalla bancarotta, Milano, 1990,<br />

pag. 35.<br />

( 22 ) Per questo ulteriore rilievo cfr. C. Santoriello, I reati del curatore fallimentare, cit., pag. 44, nota<br />

(40) ed ivi i relativi richiami bibliografici.<br />

( 23 ) E, probabilmente, ad analoga conclusione si sarebbe potuto pervenire già durante la vigenza dell’art.<br />

221, co. 2 c.p.p. del 1930: infatti, pur essendo assai più laconico, il testo di questa disposizione faceva<br />

comunque riferimento alle persone incaricate di «ricercare», oltre che di «accertare», determinate specie<br />

di reati ed è evidente che l’obbligo di ricerca dei reati è cosa diversa ed ulteriore rispetto alla (mera) informazione<br />

della scoperta degli stessi, giacché implica che il soggetto si attivi per scoprire e non già che semplicemente<br />

riferisca un fatto che potrebbe aver accertato anche casualmente nell’esercizio delle proprie<br />

specifiche funzioni.


IL CURATORE FALLIMENTARE NON È UN POLIZIOTTO... 263<br />

In buona sostanza, quindi, nel prescrivere al curatore fallimentare di riferire<br />

nella propria relazione i fatti concernenti la responsabilità (anche) penale del fallito<br />

e, più in generale, tutto ciò che possa rilevare ai fini dell’indagine penale, l’art.<br />

33 l. fall. addossa all’organo della procedura concorsuale nulla più che quell’obbligo<br />

di denuncia cui, in virtù della sua qualifica di pubblico ufficiale, risulta già soggetto<br />

in base all’art. 331 c.p.p.<br />

Del resto, che tale obbligo di denuncia vada tenuto ben distinto dagli ulteriori<br />

(e diversi) obblighi investigativi incombenti sulla polizia giudiziaria risulta chiaramente<br />

già dalla disposizione dell’art. 331 c.p.p., che fa salvo quanto previsto dal<br />

successivo art. 347, in cui si disciplina il contenuto della c.d. notizia di reato, ossia<br />

l’atto attraverso il quale la polizia giudiziaria riferisce al pubblico ministero il fatto<br />

di reato di cui abbia acquisito conoscenza.<br />

In particolare, l’art. 347 c.p.p. impone di informare per iscritto l’organo inquirente<br />

anche in ordine alle fonti di prova e le attività compiute, nonché di comunicargli<br />

le persone che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione<br />

dei fatti: è fin troppo evidente il collegamento logico e sistematico tra tale<br />

norma processuale e l’art. 55 c.p.p. che, come si è visto, disciplina le funzioni<br />

della polizia giudiziaria.<br />

Ebbene, proprio perché l’art. 331 c.p.p. fa salvi i doveri spettanti agli ufficiali<br />

ed agenti della polizia giudiziaria, se ne desume che tali doveri sono diversi ed ulteriori<br />

rispetto all’obbligo di denuncia cui il pubblico ufficiale è tenuto in quanto<br />

tale.<br />

Non si può che ribadire, allora, come l’art. 33 l. fall. non preveda a carico del<br />

curatore alcuno degli obblighi di investigazione cui è tenuta la polizia giudiziaria<br />

ex art. 55 c.p.p., sicché la norma fallimentare non può presupporre ciò che dovrebbe,<br />

invece, esplicitare affinché il curatore possa essere considerato un appartenente<br />

alla polizia giudiziaria.<br />

Né, del resto, dal fatto che il curatore fallimentare debba riferire nella propria<br />

relazione «quanto può interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale»<br />

è ricavabile l’esistenza di un dovere di ricerca ed assicurazione delle fonti di<br />

prova dei reati di cui egli venga a conoscenza: un simile dovere, invero, non può<br />

essere implicitamente desunto dall’art. 33 l. fall., bensì dovrebbe essere imposto in<br />

modo inequivocabile all’organo della procedura concorsuale.<br />

Insomma, quello di denuncia posto a carico del curatore dall’art. 33 l. fall. è,<br />

per così dire, un obbligo statico di riferire il fatto di reato che si sia scoperto, non<br />

un obbligo dinamico di porsi alla ricerca di questo fatto e, una volta che sia stato<br />

accertato, di accertarne quali siano gli elementi di prova e preservarne le relative<br />

fonti.


264 GIURISPRUDENZA<br />

5. L’interpretazione dell’art. 33 l. fall. in base alla ricostruzione dello status soggettivo<br />

del curatore fallimentare<br />

Sulla scorta delle considerazioni fin qui svolte possiamo ora tentare di ricostruire<br />

nei suo lineamenti generali il contenuto dell’obbligo informativo gravante<br />

sul curatore fallimentare in base all’art. 33 l. fall.<br />

Ci sembra di poter affermare che il curatore fallimentare è, soprattutto e prima<br />

di tutto, un organo della procedura concorsuale, sicché l’accertamento di fatti penalmente<br />

rilevanti a carico del fallito è la conseguenza, ma non il fine dell’esercizio<br />

delle peculiari funzioni che all’interno di tale procedura la legge assegna al curatore<br />

medesimo.<br />

Insomma, il contributo del curatore all’indagine penale non rientra tra i suoi<br />

doveri primari ed essenziali, essendo piuttosto un possibile effetto dell’adempimento<br />

di tali doveri: allorché, nella concreta esecuzione dei propri compiti di organo<br />

del c.d. ufficio fallimentare, il curatore si imbatta in un episodio della pregressa<br />

gestione dell’impresa fallita ( 24 ) che rivesta – o sembri rivestire – gli estremi<br />

di un illecito penale, egli sarà tenuto a notiziarne il giudice delegato né più né meno<br />

di qualsiasi altro pubblico ufficiale il quale, nell’esercizio od a causa delle proprie<br />

funzioni, prenda notizia di un reato e sia, quindi, tenuto a farne denuncia all’autorità<br />

giudiziaria.<br />

È vero che il curatore fallimentare dispone di poteri di indagine che possono<br />

essere esercitati a prescindere dall’osservanza di alcune essenziali garanzie difensive<br />

riconosciute nel corso delle indagini preliminari all’indagato, sicché il risultato<br />

di tale attività «investigativa» potrebbe confluire, direttamente od indirettamente,<br />

nel procedimento penale con la sostanziale elusione di tali garanzie ( 25 ).<br />

( 24 ) Va da sé che il curatore sarà tenuto all’obbligo di denuncia ex art. 33 l. fall. anche qualora scopra<br />

fatti di reato commessi dopo la dichiarazione di fallimento; peraltro, la prassi giudiziaria dimostra come<br />

nella stragrande maggioranza dei casi tali fatti costituiscano ipotesi di bancarotta c.d. prefallimentare.<br />

( 25 ) Si pensi, ad es., al c.d. interrogatorio del fallito ex art. 49, co. 2 l. fall.: non solo non è prevista per il<br />

fallito l’assistenza di un difensore, ma, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel corso<br />

del successivo dibattimento penale il curatore potrà riferire e rendere così processualmente utilizzabili le<br />

dichiarazioni ricevute dal fallito, anche se a quest’ultimo sfavorevoli. Oppure si pensi all’obbligo, in base<br />

all’art. 86, co. 1, lett. c) l. fall., di consegnare al curatore, oltre alle scritture contabili, «ogni altra documentazione<br />

dal medesimo richiesta» ed all’obbligo di consegna della corrispondenza previsto dall’art. 48 l.<br />

fall., nonché al diritto del curatore di ottenere la documentazione bancaria ex art. 119, co. 4 D. Lgs. 1/9/<br />

1993, n. 385: in tali casi l’acquisizione documentale avviene senza la necessità della preventiva adozione di<br />

un provvedimento di sequestro o di un ordine di esibizione promananti dall’autorità giudiziaria, la cui legittimità,<br />

ove assunti nel corso delle indagini preliminari, potrebbe essere contestata dall’indagato con i rimedi<br />

previsti dal codice di procedura penale (per alcune puntuali considerazioni – che in questa sede non<br />

possono essere esaustivamente sviluppate – sulla maggior ampiezza dei poteri del curatore rispetto a quelli<br />

analoghi attribuiti al pubblico ministero ed alla polizia giudiziaria, nonché sui i riflessi dell’esercizio di


IL CURATORE FALLIMENTARE NON È UN POLIZIOTTO... 265<br />

Ma anche in tal caso si tratta di poteri che la legge assegna all’organo fallimentare<br />

non tanto perché egli ne faccia un uso strumentale all’indagine penale, quanto<br />

perché egli possa realizzare appieno il suo fondamentale compito di ricostruzione<br />

e conservazione materiale e giuridica del patrimonio dell’impresa fallita.<br />

Tutto ciò non esclude – come avviene assai spesso nella prassi – che il curatore<br />

fallimentare sia chiamato dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria a specificare<br />

ed integrare determinate notizie già riferite nella relazione al giudice delegato.<br />

Ed è, anzi, proprio questo il momento in cui maggiormente si avverte la tendenza<br />

degli organi inquirenti in sede penale ad utilizzare il curatore come una sorta<br />

di «detective» della procedura fallimentare, chiedendogli (rectius pretendendo<br />

dallo stesso) di strumentalizzare le proprie funzioni alla ricerca ed alla verifica delle<br />

circostanze utili ad un più esaustivo accertamento dei fatti di reato segnalati nella<br />

relazione ex art. 33 l. fall.<br />

Pensiamo all’ipotesi in cui al curatore venga richiesto di approfondire l’indagine<br />

relativa ad un bene che egli non abbia potuto reperire in sede di inventario e<br />

del quale, pertanto, abbia constatato l’assenza nella relazione al giudice delegato<br />

per le determinazioni che intenderà assumere l’autorità giudiziaria.<br />

È chiaro che nel segnalare la scomparsa del bene il curatore dovrà riferire anche<br />

tutte le circostanze di cui sia venuto a conoscenza circa la sorte di tale cespite<br />

ed è altrettanto indubitabile che egli avrà dovuto precedentemente esperire almeno<br />

l’attività di ricerca imposta da un corretto adempimento del proprio dovere di<br />

conseguimento dei beni appartenenti al patrimonio del fallito (e non già, peraltro,<br />

di approfondimento investigativo di eventuali distrazioni di quel bene).<br />

Ad esempio, constatata la mancanza del bene dal patrimonio fallimentare il curatore<br />

potrà (e, riteniamo, dovrà) quantomeno chiedere ragguagli al fallito in sede<br />

di interrogatorio ex art. 49 l. fall. prima di affermarne sic et simpliciter la scomparsa<br />

nella propria relazione al giudice delegato ( 26 ).<br />

questi poteri sullo svolgimento delle indagini penali, vd. C. Santoriello, I reati del curatore fallimentare,<br />

cit., pagg. 55 e segg.<br />

( 26 ) Si tratta di un punto assai delicato dell’attività del curatore fallimentare, soprattutto per le conseguenze<br />

che una non troppo meditata informativa al giudice delegato potrebbe comportare nell’ambito del<br />

procedimento penale.<br />

È noto, infatti, che un (criticabile, ma ormai) unanime orientamento della Cassazione ritiene che il<br />

mancato reperimento di un bene appartenente al patrimonio del fallito ne debba far presumere la distrazione,<br />

con la conseguente imputazione del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e, quindi, il ribaltamento<br />

dell’onere della prova sull’imputato, il quale dovrà, se in grado, dimostrare che il bene uscì lecitamente<br />

dal patrimonio dell’impresa.<br />

Accade talora che le relazioni dei curatori fallimentari siano un po’ troppo «frettolose» nel denunziare<br />

la scomparsa fisica ovvero la separazione sine titulo di un bene dal patrimonio del fallito senza aver svolto<br />

particolari approfondimenti, finendo così per far formulare al pubblico ministero (in modo altrettanto<br />

frettoloso...) imputazioni di bancarotta fraudolenta.


266 GIURISPRUDENZA<br />

Le risposte eventualmente fornite dal fallito orienteranno poi il curatore anche<br />

nell’attivazione dei propri poteri di indagine sulla sorte del bene, che non dovranno<br />

certamente essere volti ad un’investigazione «agli effetti penali» della destinazione<br />

di esso (investigazione alla quale, per quanto si è detto, non è tenuto), bensì<br />

saranno esercitati nella misura in cui l’organo fallimentare è tenuto al diligente<br />

adempimento del proprio dovere di ricostruzione del patrimonio del fallito e di<br />

conseguimento di beni e diritti usciti illegittimamente da tale patrimonio ( 27 ).<br />

Volendo esemplificare, se il fallito riferirà al curatore che un certo bene è detenuto<br />

da un terzo senza titolo ovvero in base ad un titolo che ne comporta comunque<br />

la restituzione, il curatore potrà e dovrà interpellare il terzo ed invitarlo alla<br />

consegna del bene il terzo, quantomeno per verificare se effettivamente egli ne abbia<br />

la detenzione.<br />

Qualora il terzo non ottemperi alla richiesta o, addirittura, neghi di aver mai<br />

conseguito la disponibilità materiale del bene, l’organo fallimentare valuterà l’opportunità<br />

di esercitare l’azione giudiziaria intesa a far rientrare il cespite nel patrimonio<br />

fallimentare, ma, dal punto di vista degli obblighi previsti dall’art. 33 l. fall.,<br />

non sarà tenuto ad esperire ulteriori approfondimenti investigativi miranti ad una<br />

più precisa ricostruzione di un eventuale fatto di distrazione da parte del fallito.<br />

Alla stregua di quanto abbiamo fin qui osservato, infatti, il curatore assolve<br />

pienamente all’obbligo informativo previsto dalla norma fallimentare esponendo<br />

un fatto (il mancato reperimento di un bene appartenente al patrimonio del fallito)<br />

ed un serie di circostanze che possono «interessare anche ai fini delle indagini<br />

preliminari in sede penale» (le dichiarazioni rese dal fallito ed il comportamento<br />

tenuto dal terzo) appresi nell’esercizio delle proprie funzioni di organo dell’ufficio<br />

fallimentare.<br />

Criteri non dissimili dovranno guidare il curatore anche nell’esposizione, in sede<br />

di relazione al giudice delegato, dei risultati dell’analisi della contabilità del fallito<br />

che possano far emergere fatti penalmente rilevanti.<br />

Anche in tal caso è da escludere che il curatore sia tenuto ad un esame dei libri<br />

e delle scritture contabili precipuamente finalizzato all’accertamento ed all’illustrazione<br />

nella relazione ex art. 33 l. fall. delle distinte ipotesi di bancarotta documentale<br />

fraudolenta o colposa rispettivamente previste dall’art. 216 e dall’art. 217<br />

l. fall. (e caratterizzate anche da un diversità dell’elemento soggettivo del reato<br />

non sempre agevolmente riconoscibile) ovvero da quella particolare ipotesi di<br />

bancarotta c.d. impropria di cui all’art. 223, co. 2, n. 1 l. fall. conseguente alla<br />

( 27 ) Per una puntualizzazione delle attività che il curatore deve svolgere nell’ambito della funzione di<br />

«amministrazione del patrimonio fallimentare» demandatagli dall’art. 31 l. fall. cfr., nella dottrina penalistica,<br />

C. Santoriello, I reati del curatore fallimentare, cit., pag. 10.


IL CURATORE FALLIMENTARE NON È UN POLIZIOTTO... 267<br />

commissione di un fatto di false comunicazioni sociali (che, tra l’altro, richiede, a<br />

seguito della riforma operata con il D. Lgs. 11/4/2002, n. 161, anche la dimostrazione<br />

di un nesso di causalità tra il reato di cui all’art. 2621 cod. civ. ed il dissesto<br />

della società).<br />

Piuttosto, l’analisi della contabilità dell’impresa fallita dovrà essere condotta<br />

dal curatore nell’ambito ed in funzione dell’adempimento dei suoi doveri di organo<br />

della procedura concorsuale, laddove la scoperta nelle scritture contabili (ed,<br />

in primis, nei bilanci) di appostazioni false o, comunque, di dubbia attendibilità,<br />

così come il riscontro della mancanza o dell’incompletezza di tali scritture saranno<br />

oggetto di segnalazione nella relazione o nei successivi rapporti riepilogativi diretti<br />

al giudice delegato, che, se del caso ( 28 ), verranno trasmessi all’ufficio del pubblico<br />

ministero perché si attivi, nelle forme e con gli strumenti previsti dal codice di procedura<br />

penale ed avvalendosi degli organi di polizia giudiziaria, al fine di verificare<br />

la fondatezza di eventuali ipotesi di reato.<br />

Alessandro Rampinelli<br />

( 28 ) Peraltro, secondo una prassi assai diffusa, le relazioni del curatore fallimentare vengono normalmente<br />

trasmesse alla competente Procura della Repubblica anche quando non evidenziano prima facie vere<br />

e proprie ipotesi di reato, dando così vita ad iscrizioni di c.d. pseudo-notizie di reato rubricate come «atti<br />

relativi al fallimento ...».


LA CEDU E IL CROCIFISSO: PRODROMI, MOTIVI E CONSEGUENZE<br />

DI UNA PRONUNCIA TANTO DISCUSSA (*)<br />

1. I fatti rilevanti<br />

In questo breve intervento ci si vuole occupare della recente sentenza con la<br />

quale la Seconda Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU, 3 novembre<br />

<strong>2009</strong>) ha condannato l’Italia nel caso Lautsi, per la violazione congiunta<br />

degli artt. 2 («Diritto all’istruzione») del Protocollo addizionale n. 1, e9(«Libertà<br />

di pensiero, di coscienza e di religione») della Convenzione europea dei diritti dell’uomo<br />

e delle libertà fondamentali. Si tratta, come facilmente si ricorderà, della<br />

ormai celebre sentenza sul crocifisso.<br />

Le osservazioni che seguono non hanno lo scopo di affrontare in modo sistematico<br />

e compiuto il tema complesso del regime giuridico dei simboli religiosi nell’ambito<br />

dell’ordinamento italiano. Tanto meno esse si propongono di fornire in<br />

modo univoco un criterio finalmente risolutivo circa la controversa questione dell’esposizione<br />

del crocifisso nelle aule scolastiche ( 1 ).<br />

Si intende, più semplicemente, ripercorrere una storia processuale ben definita,<br />

al fine di ricordarne gli stadi e di comprenderne meglio gli esiti ultimi, soprattutto<br />

per quanto attiene, da un lato, al tenore e alla ratio delle motivazioni utilizzate<br />

dalla CEDU, dall’altro, alla riflessione sulle conseguenze operative che la decisione<br />

sovranazionale comporta.<br />

Non si può, infatti, sottacere la circostanza che il dibattito presto apertosi sul<br />

tema appare spesso diretto a promuovere soluzioni preconcette o sproporzionate,<br />

(*) I paragrafi1e3sono attribuibili a Fulvio Cortese; il paragrafo 2 è attribuibile a Silvia Mirate; il paragrafo<br />

4 costituisce il frutto di una riflessione condivisa da parte di entrambi gli Autori.<br />

( 1 ) In proposito i contributi sono innumerevoli: cfr., ex multis, la silloge raccolta da R. Bin, G. Brunelli,<br />

A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), La laicità croficissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi<br />

nei luoghi pubblici (Atti del Seminario. Ferrara, 28 maggio 2004), Torino, 2004. Per un’analisi comparata<br />

cfr. Aa.Vv., Religions and Public Law – Religions et Droit Public, London, 2005, che offre testimonianza<br />

completa dei lavori che nel 2004 sono stati prodotti sul tema in occasione della Reunion annuale dell’European<br />

Group of Public Law (19-24 settembre 2004; Legraina, Grecia).


270 GIURISPRUDENZA<br />

per eccesso o per difetto. Pertanto, qualche rilievo essenziale può riuscire di giovamento,<br />

quanto meno per tutti coloro che abbiano l’intenzione di assecondare ricostruzioni<br />

tecnicamente fondate.<br />

In questa prospettiva, è indispensabile richiamare i fatti rilevanti della controversia.<br />

Essa nasce al cospetto di un provvedimento con il quale il consiglio di un istituto<br />

comprensivo ha deliberato di lasciare esposti i simboli religiosi presenti nella<br />

scuola (in particolare, i crocifissi posti nelle aule). I genitori di due alunni, avendo<br />

preventivamente richiesto al consiglio di optare per la rimozione di detti simboli,<br />

ricorrono al Tar territorialmente competente, impugnando il provvedimento citato<br />

e facendo valere, anche sulla base del principio di laicità dello Stato, la violazione<br />

della libertà religiosa dei due figli minori (in quel momento iscritti alle classi I e<br />

III).<br />

L’azione concretamente esercitata non viene fondata sulla base della prospettazione<br />

di un vulnus alla libertà, positiva, di esprimere una propria specifica fede,<br />

diversa da quella cristiana cattolica, bensì sulla base dell’allegazione della libertà,<br />

negativa, di non subire alcun condizionamento religioso. I parametri di legittimità<br />

invocati sono gli artt.3e19della Cost., nonché l’art. 9 della Convenzione europea<br />

dei diritti dell’uomo ( 2 ).<br />

Tale giudizio, però, non ha esito positivo ( 3 ).<br />

In primo luogo, il Tar afferma la propria giurisdizione, dal momento che, per il<br />

giudice amministrativo, il potere dell’amministrazione scolastica in merito all’organizzazione<br />

del servizio scolastico e dei suoi arredi complementari è potere ampiamente<br />

discrezionale, di fronte al quale la situazione soggettiva degli utenti sarebbe<br />

sempre qualificabile come posizione di interesse legittimo.<br />

In secondo luogo, il collegio giudicante, passando all’esame del merito, rigetta<br />

il ricorso.<br />

A tale conclusione il Tar perviene con lunga e «celebre» argomentazione, nella<br />

quale, tra l’altro, si sostiene:<br />

– che, preliminarmente, croce e crocifisso, ai fini della decisione, dovrebbero<br />

considerarsi equivalenti;<br />

( 2 ) Per un commento a tale disposizione cfr., tra i tanti, M. Pertile, Libertà di pensiero, di coscienza e<br />

di religione, inL. Pineschi (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme garanzie, prassi,<br />

Milano, 2006, 409 ss.<br />

( 3 ) Cfr. TAR Veneto, 22 marzo 2005, n. 1110, in Foro it., 2005, III, 329 ss. V. il commento (critico) di<br />

P. Veronesi, La Corte costituzionale, il Tar e il crocifisso: il seguito dell’ordinanza n. 389/2004, inwww.forumcostituzionale.it.<br />

Ma sia consentito rinviare anche ai rilievi (parimenti critici) di F. Cortese, Brevi osservazioni<br />

sul crocifisso come simbolo «affermativo e confermativo del principio della laicità dello stato repubblicano»,<br />

in questa Rivista, n. 1-2/2005, 79 ss.


LA CEDU E IL CROCIFISSO 271<br />

– che le disposizioni pre-costituzionali (del 1924 e del 1928) – cui si riconduce<br />

l’obbligo di esporre il simbolo religioso de quo quale arredo scolastico, e sulla<br />

cui legittimità, nel corso del medesimo giudizio, la Corte costituzionale non si è<br />

pronunciata in quanto atti non qualificabili come aventi forza di legge (ord. n.<br />

389/2004 ( 4 )) – sarebbero da considerarsi attualmente vigenti;<br />

– che il crocifisso (o la croce) ha comunque una indubbia valenza simbolica,<br />

di carattere storico-culturale e di carattere religioso;<br />

– che comunque il principio di laicità vigente nell’ordinamento italiano non<br />

imporrebbe alle scuole di non esporre il simbolo;<br />

– che tale simbolo, anzi, sarebbe materiale espressione di una cultura sostanzialmente<br />

laica, tesa alla promozione di principi di libertà, solidarietà ed eguaglianza,<br />

così come trasfusi anche nell’ambito dei principi costituzionali;<br />

– che il crocifisso, pertanto, sarebbe simbolo affermativo e confermativo del<br />

principio di laicità dello Stato repubblicano ( 5 ).<br />

La sentenza è appellata dinanzi al Consiglio di Stato, il quale ne segue, facendola<br />

propria, l’intera argomentazione ( 6 ).<br />

Esaurito ogni rimedio interno all’ordinamento, i ricorrenti agiscono di fronte<br />

alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che si pronuncia con la sentenza surrichiamata.<br />

2. La decisione della CEDU nell’ambito della sua giurisprudenza<br />

La Corte europea giunge nel caso di specie a riconoscere in capo allo Stato italiano<br />

una violazione dell’art. 9 e dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 1 CEDU,<br />

muovendo da una lettura congiunta delle due disposizioni, interpretate alla luce<br />

dei propri precedenti in materia.<br />

Fondandosi su di un orientamento costantemente espresso in passato, a mente<br />

del quale le norme convenzionali debbono essere interpretate nel loro insieme, in<br />

( 4 ) Cfr., in proposito, la nota di A. Pugiotto, Sul crocifisso la Corte costituzionale pronuncia un’ordinanza<br />

pilatesca,inwww.forumcostituzionale.it.<br />

( 5 ) La sentenza è stata oggetto di critiche analitiche da parte di molti interpreti. Per un’illustrazione<br />

delle critiche si richiami, a titolo esemplificativo, F. Cortese, Brevi osservazioni, cit., passim.<br />

( 6 ) V. Cons. Stato, Sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556, in Foro it., 2006, III, 181 ss., con nota di A. Travi,<br />

Simboli religiosi e giudice amministrativo, che, pur segnalando le criticità relative all’affermazione della<br />

giurisdizione del giudice amministrativo, condivide la ricostruzione del principio di laicità effettuata dal<br />

Collegio. Per una discussione ragionata e diffusa del tema della laicità nella Costituzione italiana v. A. Di<br />

Giovine, Laicità e democrazia, inwww.associazionedeicostituzionalisti.it, nonché, con stimolante quanto<br />

acuta vis polemica, M. Ainis, Chiesa padrona, Milano, <strong>2009</strong>. Sul problema della giurisdizione v. anche<br />

Cass. civ., SS.UU., 10 <strong>luglio</strong> 2006, n. 15614, in www.costituzionalismo.it, con nota (critica) di F. Cortese,<br />

Crocifisso: la Corte di cassazione al cospetto del «potere autoritativo della P.A.».


272 GIURISPRUDENZA<br />

ragione di quel comune afflato di salvaguardia dei diritti fondamentali che anima<br />

l’intera Convenzione ( 7 ), la Corte offre di tali norme una lettura creativa ed attualizzante<br />

che consente un’applicazione ampia del diritto all’istruzione, integrata e<br />

contemperata con i limiti ed i contenuti di tutela della libertà di pensiero, coscienza<br />

e religione ( 8 ).<br />

Il diritto all’istruzione, che implica, nella seconda parte dell’art. 2 Protocollo n.<br />

1 CEDU, l’obbligo per lo Stato di rispettare, nell’esercizio delle funzioni educative,<br />

il diritto dei genitori di assicurare educazione ed insegnamento secondo le loro<br />

convinzioni religiose e filosofiche, incontra, nell’interpretazione del giudice europeo,<br />

un arricchimento di contenuti attraverso il riferimento alle disposizioni dell’art.<br />

9.<br />

La libertà di religione, sancita in tale articolo, viene intesa sia da un punto di<br />

vista interiore come diritto di avere o di non avere un credo religioso, sia da un<br />

punto di vista esteriore come diritto di esprimere il proprio credo religioso. In tale<br />

seconda accezione la libertà presenta un contenuto relativo, in quanto passibile<br />

delle restrizioni che, come precisa lo stesso articolo 9, siano stabilite dalla legge e<br />

risultino necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione<br />

dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti<br />

e delle libertà altrui.<br />

È proprio con riferimento a siffatte restrizioni che la Corte di Strasburgo opera<br />

un bilanciamento fra diritto all’istruzione e rispetto della libertà di manifestazione<br />

del credo religioso. In particolare, il disposto dell’art. 2 del Protocollo n. 1 viene<br />

letto attraverso il riferimento alle stesse garanzie di tutela imposte quale limite alla<br />

libertà (relativa) di manifestare la propria religione.<br />

Fondamentale diviene, dunque, in tale contesto il riferimento alla garanzia di<br />

una «società democratica», cui la decisione si riferisce proprio al fine di delineare<br />

il principio di pluralismo educativo, sul quale necessariamente deve essere improntata<br />

l’attività delle istituzioni scolastiche pubbliche ( 9 ). Secondo la Corte il ri-<br />

( 7 ) In tal senso v. per tutte Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 <strong>luglio</strong> 1968, che, nel caso Linguistique<br />

Belge, in Serie A, n. 6, 1968, pag. 30, par. 1, afferma come «les dispositions de la Convention et du protocole<br />

(P1) doivent être envisagées comme un tout». La lettura combinata delle disposizioni dell’art. 9 e<br />

dell’art. 2 del Protocollo n. 1 CEDU viene spesso anche affiancata dal riferimento all’art. 14 CEDU che<br />

sancisce il divieto di discriminazione. Per un’applicazione in tal senso cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo,<br />

15 febbraio 2001, Dahlab v Switzerland, inReports, 2001 - V, 447, su cui infra nel testo. Per un’analisi<br />

sul tema I.T. Plesner, Legal Limitations to Freedom of Religion or Belief in School Education,inEmory International<br />

Law Review, 2005, 557, in part. 568 e ss.<br />

( 8 ) Sull’attività interpretativa della Corte europea dei diritti dell’uomo fondamentale è il contributo di<br />

F. Sudre (dir.), L’interpretation de la Convention européenne des droits de l’homme, Bruxelles, 1998. Al riguardo<br />

sia altresì consentito il rinvio a S. Mirate, Giustizia amministrativa e Convenzione europea dei diritti<br />

dell’uomo, Napoli, 2007, 8 e ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici.<br />

( 9 ) Il riferimento alla realizzazione di una società democratica come garanzia di pluralismo educativo


LA CEDU E IL CROCIFISSO 273<br />

spetto delle convinzioni dei genitori deve essere reso possibile attraverso un quadro<br />

educativo capace di assicurare «un environnement scolaire ouvert et favorisant<br />

l’inclusion plutôt que l’exclusion», in modo tale che la scuola possa essere considerata<br />

«un lieu de rencontre de différentes religions et convictions philosophiques, où<br />

les élèves peuvent acquérir des connaissances sur leurs pensées et traditions respectives»<br />

( 10 ).<br />

È nell’ottica del rispetto di tale principio pluralistico che i giudici di Strasburgo<br />

affrontano la questione dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.<br />

La pronuncia esamina la questione suddividendone l’analisi in due passaggi<br />

motivazionali. In primo luogo la Corte compie un’attenta ricognizione dei principi<br />

sanciti nei propri passati orientamenti in tema di diritto all’istruzione e rispetto<br />

della libertà religiosa. Segue poi l’applicazione del corpus omogeneo di principi<br />

così ricostruito alla fattispecie oggetto di giudizio.<br />

Per quanto attiene al primo profilo, la Corte europea ricorda nella sentenza<br />

una serie di precedenti dai quali emerge un’interpretazione del combinato disposto<br />

dell’art. 9 e dell’art. 2 del Protocollo n. 1 CEDU, che qualifica il diritto all’istruzione<br />

ponendo l’accento sui termini «obiettivo» e «neutrale».<br />

Tali espressioni, costantemente presenti nelle evoluzioni giurisprudenziali della<br />

Corte, trovano l’origine del loro impiego nella pronuncia sul caso Kjeldsen, Busk<br />

Madsen and Pedersen v Denmark del 1976 ( 11 ). Di fronte alla denuncia di violazione<br />

dell’art. 2 del Protocollo n. 1 CEDU sollevata da alcuni genitori ricorrenti<br />

contro le disposizioni della legislazione danese che introducevano un corso obbligatorio<br />

di educazione sessuale nella scuola primaria, i giudici di Strasburgo limitano<br />

il diritto dei genitori di chiedere per i propri figli l’esenzione dalle attività scolastiche<br />

solo nel caso in cui tali attività consistano in un effettivo «indottrinamento»,<br />

in grado d’influire sulla formazione psicologica e religiosa dell’allievo e condizionarne<br />

lo sviluppo di una attitudine critica. In tale giudizio la Corte europea getta<br />

le fondamenta delle successive pronunce in materia. L’educazione è legittima se<br />

fatta «de manière objective, critique et pluraliste» ( 12 ). Le informazioni e le cono-<br />

compare già in Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 <strong>dicembre</strong> 1976, Kjeldsen, Busk Madsen and Pedersen<br />

v Denmark, inwww.echr.coe.int., su cui infra nel testo, in part. par. 50; nonché in Corte europea dei diritti<br />

dell’uomo, 13 agosto 1981, Young, James et Webster c. Royaume-Uni, inwww.echr.coe.int, par. 63, che riconosce<br />

come: «bien qu’ill faille par fois subordonner les intérêts d’individus à ceux d’un groupe, la démocratie<br />

ne se ramène pas à la suprématie constante de l’opinion d’une majorité; elle commande un équilibre<br />

qui assure aux minorités un juste traitement et qui évite tout abus d’une position dominante».<br />

( 10 ) Così la sentenza in commento, par. 47, lett. c), della motivazione.<br />

( 11 ) Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 <strong>dicembre</strong> 1976, Kjeldsen, Busk Madsen and Pedersen v Denmark,inwww.echr.coe.int.<br />

( 12 ) Così Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 <strong>dicembre</strong> 1976, Kjeldsen, Busk Madsen and Pedersen v<br />

Denmark, cit., par. 53 della motivazione.


274 GIURISPRUDENZA<br />

scenze diffuse a fini educativi in ambito scolastico devono essere fornite in modo<br />

critico ed oggettivo, al fine di assicurare in ogni caso quel principio di pluralismo,<br />

«essentielle à la préservation de la “societé démocratique” telle que la conçoit la Convention»(<br />

13 ). E nello Stato moderno, aggiunge ancora la Corte, è soprattutto attraverso<br />

l’istruzione pubblica che tale disegno pluralistico deve essere realizzato. La<br />

neutralità garantisce il pluralismo. Per tale via il diritto all’istruzione viene ad essere<br />

tutelato in rapporto alla (ed anche nel rispetto della) libertà religiosa, in modo<br />

tale da assicurare quell’esigenza di realizzazione di una «società democratica», che<br />

è condizione ed al contempo limite per l’espressione di tale libertà ( 14 ).<br />

Gli stessi principi sono poi affermati nel discusso caso Campbell and Cosans v<br />

United Kingdom del 1982 ( 15 ). L’inflizione di punizioni corporali in una scuola<br />

pubblica scozzese viene ritenuta una pratica che, anche se finalizzata secondo<br />

l’istituzione scolastica a scopi educativi, confligge con il rispetto del diritto dei genitori<br />

di educare i figli secondo le proprie convinzioni contrarie all’uso della violenza<br />

fisica. Tale diritto, sancito dall’art. 2 del Protocollo n. 1 CEDU, trova, secondo<br />

la decisione della Corte, la necessità della sua tutela attraverso un vero e proprio<br />

«obbligo» che la Convenzione pone in capo allo Stato. Un obbligo a carattere<br />

positivo, consistente nel rispetto delle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori<br />

nell’esercizio dell’attività di istruzione pubblica ( 16 ).<br />

Il medesimo riconoscimento di tale obbligo in capo allo Stato compare nel più<br />

recente Folgerø et Autres c. Norvège del 2007, laddove è riconosciuta una violazione<br />

del medesimo art. 2 di fronte all’introduzione di un corso di religione nella<br />

scuola pubblica, per il quale la legislazione nazionale prevedeva soltanto la possibilità<br />

di una dispensa parziale. L’impossibilità di una dispensa totale per gli allievi<br />

( 13 ) Così ancora la stessa pronuncia cit., par. 50 della motivazione.<br />

( 14 ) Analogamente ex multis cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 18 <strong>dicembre</strong> 1996, Valsamis c.<br />

Grèce, inwww.echr.coe.int., in cui si afferma che la partecipazione obbligatoria di allievi di una scuola<br />

pubblica ad una parata militare commemorativa di una ricorrenza patriottica nazionale non viola il diritto<br />

dei genitori di un allievo, Testimoni di Geova, di professare e trasmettere al proprio figlio l’assoluto pacifismo<br />

derivante dal proprio credo religioso. In tal caso, infatti, siffatta partecipazione non viene considerata<br />

come attività capace di condizionare l’obiettività ed il pluralismo dell’educazione e di impedire il libero<br />

sviluppo della coscienza religiosa del minore nella direzione indicata dalla fede professata dai genitori.<br />

( 15 ) Corte europea dei diritti dell’uomo, 25 febbraio 1982, Campbell and Cosans v. United Kingdom,in<br />

www.echr.coe.int. A commento J. Lonbay, Rights in Education Under the European Convention on Human<br />

Rights, inThe Modern Law Review, 1983, 345. Cfr. altresì la seguente decisione sul quantum dell’equa riparazione,<br />

pronunciata ex art. 50 CEDU, Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 marzo 1983, Campbell<br />

and Cosans v United Kingdom, anch’essa reperibile al sito www.echr.coe.int.<br />

( 16 ) Nella pronuncia sul caso Campbell and Cosans cit., par. 37, la Corte ricorda come lo stesso testo<br />

dell’art. 2 del Protocollo n. 1 CEDU, che nei lavori preparatori presentava l’espressione «tenere in considerazione»,<br />

ha riportato nella stesura definitiva il riferimento esplicito a siffatto obbligo positivo, nell’affermare<br />

che lo Stato «deve rispettare» il diritto dei genitori di assicurare l’educazione e l’insegnamento secondo<br />

le proprie convinzioni religiose e filosofiche.


LA CEDU E IL CROCIFISSO 275<br />

figli di genitori non professanti la religione evangelico luterana (religione ufficiale<br />

dello Stato norvegese), unita alla considerazione della mancanza di una prova effettiva<br />

da parte del Governo sul carattere «obiettivo, critico e pluralista» delle conoscenze<br />

ed informazioni trasmesse in tale corso, costituisce un indebito impedimento<br />

all’esercizio del diritto sancito dall’art. 2 del Protocollo n. 1 CEDU.<br />

Al riguardo va, peraltro, ancora rilevato come la Corte di Strasburgo, nella definizione<br />

di tale obbligo positivo di rispetto, imposto allo Stato dal testo dell’art. 2<br />

della Convenzione, s’impegni a tratteggiarne i caratteri ed i contenuti non solo in<br />

rapporto al principio del pluralismo derivante dalle esigenze di una società democratica,<br />

bensì anche con riferimento al noto principio del margine di libero apprezzamento<br />

degli Stati contraenti, che, nel sistema convenzionale, costituisce una<br />

via attraverso cui realizzare un equilibrio fra istanze europee e tradizioni giuridiche<br />

nazionali ( 17 ).<br />

Nella giurisprudenza europea in materia la decisione di ogni singola fattispecie<br />

scaturisce dal bilanciamento operato caso per caso dalla Corte fra esigenze di pluralismo<br />

educativo (che devono essere realizzate al fine di attuare le condizioni per<br />

il rispetto del diritto all’istruzione di cui all’art. 2 del Protocollo n. 1 CEDU) ed attenzione<br />

al libero apprezzamento che i singoli Stati, in ragione delle peculiarità dei<br />

loro ordinamenti, devono poter mantenere nel disciplinare l’esercizio della funzione<br />

pubblica di educazione ed insegnamento.<br />

Quest’opera di valutazione, ponderazione e contemperamento svolta da parte<br />

dei giudici della Convenzione al fine di individuare in ogni singola decisione il ricorrere<br />

o meno di una violazione dei diritti in essa sanciti, emerge chiaramente nel<br />

giudizio sul caso Dahlab v Switzerland del 2001 ( 18 ). Qui la Corte, affrontando la<br />

questione della libertà di un insegnante di scuola pubblica d’indossare il hijab islamico,<br />

valuta il potenziale impatto sulla coscienza religiosa degli alunni di quello<br />

che viene considerato un «simbolo religioso esteriore». Il divieto d’indossare tale<br />

indumento, imposto in nome del principio di laicità dalla legislazione dello Stato<br />

svizzero, viene riconosciuto quale restrizione della libertà religiosa non eccessiva-<br />

( 17 ) Nell’ottica del principio di sussidiarietà, nel sistema della CEDU viene lasciato ai singoli Stati contraenti<br />

uno spettro di scelte possibili per realizzare in ambito interno i diritti e le libertà presenti nella Convenzione.<br />

Come ha riconosciuto la Corte fin dal caso Swedish Engine Drivers’ Union del 6 febbraio 1976,<br />

in Serie A, n. 20, 18, par. 50, «the Convention does not impose to the Contracting States any given manner<br />

for ensuring within their internal law the effective implementation of its provisions». La verifica delle possibilità<br />

e della correttezza delle scelte effettuate dai singoli Stati nell’esercizio del loro margine di apprezzamento<br />

è, come dimostrano anche i casi in commento, opera della Corte. In dottrina ex multis AA.VV., The<br />

Doctrine of the Margin of Appreciation under the European Convention on Human Rights: Its legitimacy in<br />

Theory and Application in Practice, inHuman Rights Law Journal, 1998, 1-36; R. St. Macdonald, The<br />

Margin of Appreciation in the Jurisprudence of the European Court of Human Rights, inInternational Law<br />

at the Time of its Codification, Essays in honour of Judge Robert Ago, Milano, 1987, 187.<br />

( 18 ) Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 febbraio 2001, Dahlab v Switzerland, cit.


276 GIURISPRUDENZA<br />

mente sproporzionata in ragione del principio del margine di apprezzamento statale.<br />

Il fine perseguito dall’istituzione scolastica di garantire al suo interno una «religious<br />

peace», tale da evitare ogni possibile forma d’influenza religiosa da parte<br />

degli insegnanti della scuola pubblica sulla formazione dei propri studenti, diviene<br />

per la Corte europea la ragione che legittimamente giustifica la restrizione della libertà<br />

di manifestazione esteriore del proprio credo religioso tutelata ex art. 9 CE-<br />

DU ( 19 ).<br />

In questo caso il margine di apprezzamento statale viene rispettato dalla Corte<br />

in quanto elemento utile a salvaguardare il principio di pluralismo educativo necessario<br />

per la realizzazione di una società democratica.<br />

Diversa è invece la valutazione operata dal giudice europeo nel giudizio Lautsi<br />

c. Italie, oggetto del presente commento, poiché in tale caso il margine di libero<br />

apprezzamento statale si esprime nella volontà di mantenere all’interno dell’istituzione<br />

scolastica pubblica quello che viene ritenuto a Strasburgo un «signe extèrieur<br />

fort» (il crocifisso), passibile di ingenerare un turbamento della garanzia di<br />

pluralità dell’educazione, anche religiosa, che deve connotare, ai sensi dell’art. 2<br />

del Protocollo n. 1 CEDU, l’attività di educazione ed insegnamento. Il margine di<br />

apprezzamento riconosciuto dalla Convenzione ad ogni Stato contraente nell’attuazione<br />

dei diritti fondamentali in essa garantiti non viene, dunque, a costituire<br />

nella fattispecie un elemento sufficiente per non ritenere la sussistenza di una violazione<br />

degli stessi diritti da parte della legislazione nazionale.<br />

Nel giudizio la Corte muove dall’applicazione dei principi costruiti nella materia<br />

de qua attraverso la propria precedente case law, già analizzata. Due, in particolare,<br />

i rilievi formulati dal giudice europeo:<br />

1) la necessità di considerare le particolari caratteristiche della funzione dell’insegnamento,<br />

settore particolarmente delicato, tanto più in ragione della giovane<br />

età degli alunni che mancano ancora di spirito critico e quindi necessitano di<br />

un ambiente neutro ed oggettivo in cui sviluppare la propria coscienza ed acquisire<br />

la propria formazione;<br />

2) la natura comunque religiosa del simbolo del crocifisso. La Corte insiste<br />

sulla rilevanza di tale aspetto, considerando come, anche riconoscendo il significa-<br />

( 19 ) Secondo la Corte, nella decisione cit., il divieto statale «pursued the legitimate aim of ensuring the<br />

neutrality of the State primary education system». L’elemento rilevante in tale fattispecie è proprio che ad<br />

indossare il velo isalmico sia un’insegnate di scuola pubblica. L’argomento addotto dalla Corte europea è<br />

che gli insegnanti in una scuola statale, in qualità di «civil servants», non possono vestire in modo tale da<br />

mettere in discussione la neutralità dello Stato di fronte alla religione. Diversa è, infatti, l’ipotesi in cui ad<br />

indossare il velo sia una studentessa, che pur frequentando una scuola pubblica, non rappresenta lo Stato,<br />

ma agisce in qualità di semplice cittadina (così nel caso Sahin v. Turkey, 29 <strong>luglio</strong> 2004, in www.echr.coe-<br />

.int.).


LA CEDU E IL CROCIFISSO 277<br />

to tradizionalmente assunto da tale simbolo nell’evoluzione storica, sociale e culturale<br />

dello Stato italiano, il crocifisso venga comunque avvertito da soggetti appartenenti<br />

ad altra religione o non professanti alcuna fede religiosa come elemento<br />

distintivo della religione cattolica.<br />

Il rilievo della Corte è, peraltro, figlio di un modus procedendi caratteristico dei<br />

giudizi adottati dal giudice convenzionale. Anche con riferimento alla tutela di altri<br />

diritti proclamati dalla Convenzione (ad esempio per il principio di imparzialità<br />

del giudice che integra il diritto all’equo processo di cui all’art. 6 CEDU ( 20 )), la<br />

giurisprudenza di Strasburgo tende spesso ad adottare decisioni valutando l’ipotetica<br />

violazione from an outsider’s perspective ( 21 ). La violazione di una garanzia<br />

convenzionale può consistere nei giudizi della Corte non solo in un comportamento<br />

oggettivo, effettivamente tenuto in violazione del diritto convenzionale, ma anche<br />

in un’«apparenza» di violazione. È sufficiente cioè per i giudici di Strasburgo<br />

che un dato comportamento possa essere avvertito in apparenza, ab externo, come<br />

possibile violazione di un diritto fondamentale per essere considerato davvero tale.<br />

La percezione del crocifisso come simbolo religioso e l’esposizione di tale simbolo<br />

nelle aule scolastiche possono ingenerare in determinati soggetti un’apparenza<br />

di non neutralità dello Stato italiano in rapporto al rispetto della libertà di avere<br />

o non avere un credo religioso ed in relazione al compito di pluralismo educativo<br />

cui la scuola pubblica deve necessariamente attendere nel contesto di una società<br />

democratica. La mera apparenza di non neutralità, ingenerata dalla forza che connota<br />

la portata religiosa del simbolo esposto nel particolare contesto dell’istituzione<br />

scolastica (la stessa che nel caso Dahlab fondava la legittimità del divieto per<br />

un’insegnante di scuola pubblica d’indossare il velo islamico ( 22 )) giustifica in tale<br />

caso il riconoscimento della violazione delle garanzie convenzionali come risultanti<br />

dal combinato disposto dell’art. 9 e dell’art. 2, Protocollo n. 1, CEDU.<br />

( 20 ) In rapporto al principio d’imparzialità oggettiva del giudice come garanzia del diritto all’equo processo<br />

gli orientamenti della Corte europea trovano il loro fondamento nella decisione del 24 maggio 1989,<br />

Hautschildt c. Denmark,inSerie A, 154, par. 48. In argomento cfr. J.P. Costa, Le droit au juge indépendant<br />

et impartial en matière administrative. Le principe vu par la Cour européenne des droits de l’homme, inActualité<br />

Juridique – Droit Administratif, 2001, 514. Per un’analisi dei più recenti orientamenti del giudice<br />

europeo in materia si rinvia ancora a S. Mirate, Giustizia amministrativa e Convenzione europea dei diritti<br />

dell’uomo, cit., 261 e ss.<br />

( 21 ) I.T. Plesner, Legal Limitations to Freedom of Religion or Belief in School Education, cit., 570.<br />

( 22 ) In proposito va rilevato come nella stessa decisione sul caso Dahlab la Corte precisi come diverso<br />

sarebbe per l’insegnante indossare un gioiello raffigurante una croce, in quanto tale gioiello difficilmente<br />

verrebbe avvertito dagli studenti come simbolo «so strong of a religious expression». Diverso è ora il caso,<br />

affrontato dalla decisione Lautsi in esame, in cui sia il crocefisso ad essere esposto dalla istituzione pubblica<br />

nelle aule scolastiche. L’esposizione nella scuola statale contribuisce ad acuire la forza della valenza simbolica<br />

religiosa del crocifisso.


278 GIURISPRUDENZA<br />

La Corte nella decisione non si sofferma, peraltro, sulla violazione dell’art. 14<br />

CEDU che sancisce il divieto di discriminazione. Il motivo, invocato dalla ricorrente,<br />

viene qui ritenuto sostanzialmente «assorbito» dalla riconosciuta violazione<br />

delle altre due disposizioni convenzionali. Si tratta di una scelta decisionale già<br />

adottata in precedenza dal giudice europeo, per esempio nel caso Folgerø sopra citato,<br />

laddove il divieto di discriminazione viene avvertito come sorta di corollario<br />

al principio di pluralismo educativo che costituisce, nelle interpretazioni del giudice<br />

europeo, oggetto di primaria tutela nel contemperamento con il rispetto della<br />

libertà di manifestazione del credo religioso.<br />

A differenza della conclusione cui era giunta la Corte nel summenzionato caso<br />

Folgerø, nella fattispecie i giudici di Strasburgo concedono di fronte alla violazione<br />

convenzionale anche il riconoscimento di una riparazione monetaria per il pregiudizio<br />

sofferto dalla ricorrente. La semplice constatazione della violazione in capo<br />

allo Stato italiano non viene, cioè, avvertita come equa soddisfazione della pretesa<br />

addotta in giudizio, vista la mancata dichiarazione del Governo italiano (diversamente<br />

da quanto accadde per il Governo norvegese con riferimento alla riconosciuta<br />

intenzione di provvedere alla soppressione del corso di religione a<br />

frequenza obbligatoria) di essere pronto a rivedere le disposizioni nazionali relative<br />

alla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. La sentenza si chiude, quindi,<br />

con il riferimento ad un ipotetico e perdurante attrito fra la normativa italiana in<br />

materia e le garanzie convenzionali richieste al riguardo dal giudice europeo. Un<br />

attrito sulle cui possibili conseguenze pare necessario riflettere nell’analizzare gli<br />

effetti che la decisione della Corte potrà esplicare nel nostro ordinamento interno.<br />

3. Gli effetti della sentenza dei giudici di Strasburgo e dei principi in essa affermati<br />

L’effetto pratico che la decisione della Corte europea può determinare all’interno<br />

del nostro ordinamento merita di essere esaminato, vuoi con riguardo alla<br />

statuizione di condanna che essa contiene, vuoi con riferimento ai principi che essa<br />

afferma. In proposito, alcuni punti fermi sono facilmente riassumibili ( 23 ).<br />

( 23 ) In generale, sul tema dell’esecuzione delle sentenze CEDU v. l’ottima guida operativa curata dal<br />

Consiglio d’Europa: Council of Europe, The executions of judgments of the European Court of Human<br />

Rights, Strasbourg, 2008 (II ed.), nonché M.W. Janis, R.S. Kay, A.W. Bradley (eds.), European Human<br />

Rights Law. Text and Materials, Oxford, 2008 (III ed.), 829 ss. Con riguardo all’ordinamento italiano v.,<br />

tra i tanti, il volume di R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), All’incrocio tra Costituzione<br />

e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo<br />

(Atti del Seminario, Ferrara, 9 marzo 2007), Torino, 2007, e il contributo di G. Spadea, L’esecuzione delle


LA CEDU E IL CROCIFISSO 279<br />

a) Con riguardo al caso di specie (ossia alla specifica controversia decisa nella<br />

sentenza qui annotata).<br />

Innanzitutto occorre precisare che per poter discutere utilmente circa gli effetti<br />

di una sentenza della CEDU sulla fattispecie da essa conosciuta è necessario riscontrarne<br />

preliminarmente la definitività.<br />

L’art. 44, comma 1, della Convenzione conferisce direttamente tale attributo<br />

soltanto alle sentenze della Grande Camera della CEDU. Nel nostro caso, però, la<br />

sentenza è stata adottata dalla Seconda Sezione, ossia da una delle Sezioni semplici.<br />

Per quanto riguarda quest’ultima tipologia di sentenze, si prevede che esse diventino<br />

definitive: «a. quando le parti dichiarano di non voler deferire la causa alla<br />

sezione allargata; o b. tre mesi dopo la data della sentenza, se non è richiesto il deferimento<br />

della causa alla sezione allargata; o c. quando il collegio della sezione allargata<br />

respinge la richiesta di rinvio formulata in applicazione dell’articolo 43» (così<br />

sempre l’art. 44, comma 2).<br />

Per ciò che interessa in questa sede, nel caso di specie si è verificata proprio<br />

quest’ultima opzione: la sentenza, attualmente, non è ancora divenuta definitiva,<br />

in quanto lo Stato italiano avrebbe formulato la richiesta di cui all’art. 43 («Rinvio<br />

dinnanzi alla Grande Camera») ( 24 ): «1. Entro un termine di tre mesi a decorrere<br />

dalla data della sentenza di una Camera, ogni parte alla controversia può, in casi eccezionali,<br />

chiedere che il caso sia rinviato dinnanzi alla Grande Camera. 2. Un collegio<br />

di cinque giudici della Grande Camera accoglie la domanda quando la questione<br />

oggetto del ricorso solleva gravi problemi di interpretazione o di applicazione della<br />

Convenzione o dei suoi protocolli, e anche una grave questione di carattere generale.<br />

3. Se il Collegio accoglie la domanda, la Grande Camera si pronuncia sul caso con<br />

una sentenza».<br />

La sentenza in esame, quindi, potrà diventare definitiva soltanto laddove la richiesta<br />

di rinvio alla Grande Camera venga respinta.<br />

Quanto alle sentenze definitive – e quindi sia con riferimento all’eventuale rigetto<br />

della richiesta di rinvio sia, in caso contrario, con riguardo alla sentenza della<br />

Grande Camera – il principio generale in materia di esecuzione è ricavabile da<br />

quanto previsto ex art. 46 della Convenzione («Forza vincolante ed esecuzione delle<br />

sentenze»):<br />

sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in Italia, relazione italiana all’incontro annuale dell’AGATIF<br />

(Associazione dei Giudici Amministrativi tedeschi italiani e francesi), tenutosi a Trento il 3 ottobre<br />

2008: http://www.agatif.org/incontri/trento_2008.htm.<br />

( 24 ) L’iniziativa è stata annunciata in diverse occasioni ufficiali, anche dal Presidente del Consiglio (v.<br />

soprattutto la conferenza stampa successiva al Consiglio dei Ministri del 6 novembre <strong>2009</strong>, nel quale sarebbe<br />

stata adottata la decisione: http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/crocifisso_sentenza/).


280 GIURISPRUDENZA<br />

«1. Le alte Parti Contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive<br />

della Corte nelle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza definitiva della<br />

Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione».<br />

A tale formulazione, il Protocollo n. 14, ratificato dall’Italia il 7 marzo 2006 ma<br />

non ancora entrato in vigore in mancanza della ratifica da parte della Russia, apporta<br />

le seguenti aggiunte:<br />

«3. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che la sorveglianza di una sentenza definitiva<br />

è intralciata dalla difficoltà d’interpretare tale sentenza, esso può investire la<br />

Corte affinché si pronunzi su tale questione d’interpretazione. La decisione di investire<br />

la Corte è presa con voto a maggioranza di due terzi dei rappresentanti aventi diritto<br />

ad un seggio nel Comitato. 4. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che un’Alta<br />

Parte contraente rifiuti di attenersi ad una sentenza definitiva in una controversia di<br />

cui è parte, esso può, dopo aver messo in mora questa Parte e mediante una decisione<br />

adottata con un voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad<br />

un seggio nel Comitato, investire la Corte della questione dell’osservanza di questa<br />

Parte degli obblighi relativi al paragrafo 1. 5. Se la Corte accerta una violazione del<br />

paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri affinché esamini i provvedimenti<br />

da adottare. Qualora la Corte accerti che non vi è stata violazione del paragrafo<br />

1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri, il quale decide di porre fine al suo<br />

esame».<br />

Come si può agevolmente constatare, la Convenzione prevede che sia lo Stato<br />

a doversi curare dell’esecuzione effettiva della sentenza all’interno del proprio ordinamento.<br />

Lo stato dell’arte è, per l’Italia, alquanto sconfortante.<br />

In numerose occasioni, infatti, l’Italia è risultata incapace di ottemperare concretamente<br />

alle pronunce della CEDU (cfr. soprattutto, nella materia penale, il<br />

noto caso Dorigo ( 25 )). Ciò ha condotto il Comitato dei Ministri a giudicare del tutto<br />

inadeguata la legislazione nazionale italiana, in quanto priva di strumenti generali<br />

idonei a superare il vincolo dei giudicati nel frattempo formatisi circa le contrastanti<br />

statuizioni dei giudici interni ( 26 ).<br />

Di qui si è originata, nel frattempo, la proposizione di diverse iniziative di riforma,<br />

ipotizzate soprattutto in relazione alla necessità di introdurre nell’ordina-<br />

( 25 ) In argomento v. A. Guazzarotti, Il caso Dorigo: una piccola rivoluzione nei rapporti tra CEDU e<br />

ordinamento interno?, inwww.forumcostituzionale.it.<br />

( 26 ) G. Spadea, L’esecuzione delle sentenze, cit., 8 ss. ricorda, in proposito, la raccomandazione n.<br />

1684 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e la risposta, molto critica nei confronti dell’Italia,<br />

successivamente adottata dal Comitato dei Ministri. Si rammenti, ma è dato di tutta evidenza, che il<br />

problema del giudicato nel frattempo formatosi non è situazione «patologica», bensì situazione del tutto<br />

presupposta dal sistema della CEDU, in quanto questo prevede il previo esaurimento dei rimedi di diritto<br />

interno.


LA CEDU E IL CROCIFISSO 281<br />

mento processuale (in particolare in quello penale) ipotesi innovative e specifiche<br />

di revisione ovvero forme altrettanto nuove di impugnazione straordinaria, tali da<br />

consentire ai giudici interni, con riguardo a tutte le possibili tipologie di violazioni<br />

dei principi espressi dalla Convenzione, di sovvertire le soluzioni già consolidatesi<br />

e di garantire il rispetto delle sentenze CEDU ( 27 ).<br />

Di qui, contemporaneamente, si è manifestato anche lo sviluppo di interpretazioni<br />

evolutive e in certo qual modo «sperimentali» da parte della giurisprudenza<br />

della Corte di cassazione, sia civile sia penale, tese ad attribuire maggior forza alle<br />

statuizioni della CEDU ovvero a consentire, per l’esecuzione delle stesse, l’accesso<br />

al ricorso straordinario in Cassazione ( 28 ).<br />

Né sono mancate, questa volta con riguardo proprio al processo amministrativo,<br />

ipotesi dottrinali (per vero perplesse) volte a considerare eventualmente applicabile<br />

all’esecuzione delle sentenze sovranazionali il rimedio del giudizio di ottemperanza<br />

( 29 ).<br />

Tali reazioni, però, hanno lasciato impregiudicato il problema delle violazioni<br />

sistematiche e strutturali della Convenzione, nel senso, cioè, che la pur utile predisposizione<br />

di istituti processuali ad hoc risulterebbe funzionale soltanto alla risoluzione<br />

dei singoli casi concreti nei quali vi è stata la sentenza della CEDU, non anche<br />

di tutte le fattispecie che sarebbero potenzialmente riguardate in modo determinante<br />

dai principi affermati in sede sovranazionale. Ciò è particolarmente «grave»,<br />

del resto, proprio per le situazioni oggetto del potere amministrativo, destinate,<br />

per definizione, a riprodursi serialmente.<br />

Si ricordi che la legge 9 gennaio 2006, n. 12 (recante «Disposizioni in materia di<br />

esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo») nulla ha aggiunto,<br />

di particolare, al quadro finora descritto, poiché essa, con un’operazione<br />

di lifting normativo, ha semplicemente modificato l’art. 5, comma 3, della legge 23<br />

agosto 1988, n. 400, con l’aggiunta della lett. a-bis), per la quale il Presidente del<br />

Consiglio: «promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle<br />

pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato<br />

italiano; comunica tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame<br />

da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta<br />

( 27 ) Sempre G. Spadea, L’esecuzione delle sentenze, cit., passim, offre un’elencazione esemplificativa<br />

delle diverse iniziative legislative proposte nel corso del tempo.<br />

( 28 ) Una rassegna completa degli orientamenti giurisprudenziali così richiamati si trova in E. Lupo, La<br />

vincolatività delle sentenze della Corte europea per il giudice interno e la svolta recente della Cassazione civile<br />

e penale (relazione presentata all’incontro di studio organizzato dal CSM a Roma sul tema «La giurisprudenza<br />

della Corte europea dei diritti dell’uomo», 28 febbraio-2 marzo 2007), reperibile al seguente indirizzo:<br />

http://appinter.csm.it/incontri/vis_relaz_inc.php?&ri=MTQwMzc%3D.<br />

( 29 ) Così l’auspicio formulato da G. Spadea, L’esecuzione delle sentenze, cit., 19-20.


282 GIURISPRUDENZA<br />

annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette<br />

pronunce» ( 30 ).<br />

Parimenti «innocua», dal punto di vista della generale attitudine dell’ordinamento<br />

a dare concreto ed effettivo riscontro ai dicta di Strasburgo, è la modifica<br />

all’art. 19 del d.p.r. 14 novembre 2002, n. 313, così come introdotta dal d.p.r. 28<br />

novembre 2005, n. 289, che, in materia di casellario giudiziale, ha prescritto l’obbligatorietà<br />

della menzione dell’estratto delle sentenze definitive della CEDU concernenti<br />

i provvedimenti giurisdizionali ed amministrativi definitivi delle autorità<br />

nazionali già precedentemente iscritti.<br />

Maggiormente interessante è la prospettiva di «controllo» che la stessa CEDU<br />

ha avviato in seguito ad una risoluzione del Comitato dei Ministri del 2004, applicata,<br />

con riferimento all’ordinamento italiano, proprio in occasione di una vicenda<br />

di violazione sistematica e strutturale delle disposizioni convenzionali ( 31 ) (si tratta<br />

della famosa sentenza della Grande Camera nel caso Scordino del 29 marzo 2006<br />

sulla conformità alla CEDU del calcolo dell’indennità di esproprio ( 32 )).<br />

In quell’occasione (ma anche in altre successive: v., ad esempio, il caso Sejdovic<br />

( 33 )) la Corte ha dimostrato di voler mettere concretamente in opera la pratica consistente,<br />

in primo luogo, nell’imposizione, allo Stato «recidivo» di misure generali,<br />

( 30 ) Sulla base di questa nuova attribuzione è stato adottato il d.p.c.m. 1 febbraio 2007 («Misure per<br />

l’esecuzione della Legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea<br />

dei diritti dell’uomo»), che delega gli adempimenti necessari al Dipartimento Affari giuridici e legislativi.<br />

Esso avrebbe, tra l’altro, i seguenti compiti: – comunicare tempestivamente il contenuto della sentenza<br />

al Ministero dell’economia e delle finanze e all’Amministrazione interessata; – invitare l’Amministrazione<br />

interessata a conformarsi alla sentenza stessa, suggerendo, se del caso, l’adozione di misure individuali o<br />

generali ritenute necessarie; – coordinare e favorire l’individuazione di misure idonee ad evitare constatazioni<br />

di violazione della Convenzione. Si noti che, a ben vedere, il compito del Dipartimento di invitare<br />

l’Amministrazione interessata a conformarsi non è del tutto irrilevante: ci si potrebbe chiedere, ad esempio,<br />

se esso potrebbe giustificare l’esercizio eccezionale del noto potere officioso di annullamento straordinario<br />

d’ufficio, di cui è titolare il Governo proprio per le ipotesi in cui sia necessario garantire l’unità e la<br />

coerenza dell’ordinamento. E ci si potrebbe chiedere, analogamente, se, una volta trasmesso l’invito, ciò<br />

possa radicare nei soggetti privati concretamente interessati ad un’esecuzione favorevole della sentenza<br />

CEDU un interesse (legittimo) tale da consentire loro di indirizzare all’Amministrazione una coerente<br />

istanza e, in caso di silenzio, di adire il giudice amministrativo (ma di ciò, con tutta probabilità, si dovrebbe<br />

dubitare).<br />

( 31 ) Si veda la Risoluzione del Comitato dei Ministri n. (2004)3 «Sur l’arrêts qui rélevent un problème<br />

structurel sousjacent», nonché, per il primo caso affrontato in tal senso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,<br />

Broniowski c. Polonia, 22 giugno 2004, in www.echr.coe.int. A commento cfr. V. Zagrebelsky,<br />

Violazioni strutturali e Convenzione europea dei diritti umani: interrogativi a proposito di Broniowski, in Diritti<br />

umani e diritto internazionale, 2008, 8.<br />

( 32 ) Per un commento cfr., ex multis, R. Conti, Espropriazione legittima ed illegittima: il giudice nazionale<br />

«multilivello» alla ricerca dell’arca, inCorriere giur., 2006, 948 ss.<br />

( 33 ) Per una prima analisi di questa giurisprudenza v. A. Giansanti, Riflessioni in ordine all’efficacia<br />

delle sentenze della Corte europea dei diritti umani e agli obblighi di riparazione a carico dello Stato soccombente<br />

con particolare riguardo al caso Sejdovic c. Italia, reperibile on line al seguente indirizzo:<br />

www.sioi.org/Sioi/Giansanti.pdf.


LA CEDU E IL CROCIFISSO 283<br />

ed individuate come in una sorta di programma da seguire, idonee ad impedire<br />

che la rottura della legalità convenzionale possa ripetersi in futuro ( 34 ).<br />

Con riferimento alla fattispecie decisa dalla sentenza qui annotata, la potenziale<br />

e facile reiterabilità della violazione può condurre senza dubbio a pronunce dello<br />

stesso tenore. Ciò ovviamente in relazione a statuizioni CEDU che, è bene ricordarlo,<br />

siano divenute definitive.<br />

b) Con riguardo ai principi desumibili dalla motivazione della sentenza ed affermati<br />

dalla CEDU in applicazione di disposizioni convenzionali.<br />

In merito a tale profilo, si deve evidenziare che la situazione è più facilmente districabile,<br />

se non altro per la nota circostanza che la Corte costituzionale, proprio prendendo<br />

atto dell’inefficacia diretta delle statuizioni giurisdizionali CEDU, e discostandosi,<br />

così, per certi versi, dai tentativi sperimentali avallati dalla Corte di cassazione o<br />

da alcune voci dottrinali in relazione al riconoscimento di una qualche efficacia diretta<br />

alle sentenze di Strasburgo (v. supra), è giunta, attraverso una lettura propulsiva del<br />

nuovo art. 117, comma 1, Cost., ad una ricostruzione alternativa, spinta dall’esigenza<br />

di evitare il protrarsi di violazioni costanti e difficilmente rimediabili (v. le sentenze<br />

n.348 e 349 del 2007 ( 35 ); ma v. anche la sentenza n.129 del 2008 ( 36 )).<br />

( 34 ) La Corte, nel caso Scordino, così si è espressa: «Pur ribadendo che lo Stato contraente rimane libero<br />

di individuare gli strumenti che ritiene più opportuni per adempiere alla propria obbligazione giuridica, la<br />

Corte ha individuato in sentenza taluni principi cui dovranno ispirarsi le riforme in materia onde porre termine<br />

a tale situazione di strutturale violazione della Convenzione. Innanzitutto – ha affermato la Corte – sarà<br />

necessario impedire tutte le occupazioni illegittime dei terreni e cioè tutte le occupazioni che siano o sprovviste<br />

dall’inizio dell’apposita autorizzazione o la cui autorizzazione sia successivamente annullata. In tale ottica,<br />

potrebbe ipotizzarsi di non autorizzare l’occupazione di un terreno se non quando venga stabilito che il<br />

progetto e i provvedimenti concernenti l’espropriazione siano stati adottati nel rispetto delle regole e siano<br />

assistiti da una previsione economica idonea a garantire un risarcimento rapido ed adeguato dell’interessato.<br />

Inoltre, lo Stato italiano dovrebbe scoraggiare pratiche non conformi alle regole della normale procedura di<br />

espropriazione adottando disposizioni dissuasive e perseguendo le responsabilità degli autori di dette pratiche.<br />

Per quanto concerne i terreni già occupati senza titolo e trasformati in assenza di un decreto di espropriazione,<br />

occorrerebbe sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente la restituzione<br />

del terreno. Solo laddove detta restituzione si palesi impossibile per plausibili ragioni individuate in concreto,<br />

lo Stato dovrà assicurare il pagamento di una somma corrispondente la valore venale. In aggiunta, lo Stato<br />

dovrà individuare adeguate misure finanziarie per risarcire i danni per le perdite subite, che non possano<br />

ritenersi coperte dalla semplice restituzione del bene o dal mero pagamento della somma corrispondente. In<br />

fattispecie come quella in esame, dunque, la Corte ribadisce la necessità che lo Stato garantisca ai cittadini lesi<br />

una piena restitutio in integrum e cioè una riparazione integrale del danno subito».<br />

( 35 ) Si tratta di pronunce assai note, con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le norme<br />

che, contrariamente ai principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, prevedevano, ai fini del<br />

calcolo dell’indennità di esproprio o ai fini della quantificazione del danno da occupazione acquisitiva, criteri<br />

di valutazione assai lontani dalla considerazione del valore di mercato: cfr., ex plurimis, i commenti di A.<br />

Ruggeri, T.F. Giupponi, N. Pignatelli, D. Tega, C. Napoli, G. Pili, D. Schefold, F. Cortese, S. Penasa,<br />

tutti raccolti nel Forum di Quaderni costituzionali: http://www.forumcostituzionale.it/site/content/<br />

view/56/46/. Sia consentito rinviare anche a S. Mirate, CEDU, parametro di costituzionalità per l’indennità<br />

d’esproprio e risarcimento del danno da occupazione acquisitiva,inUrbanistica e appalti, 2008, 163 ss.<br />

( 36 ) La sentenza, analogamente molto conosciuta, si sofferma sul problema dell’intangibilità del giudicato<br />

interno e rileva, sul punto, la formale inefficacia diretta, nell’ordinamento italiano, delle sentenze CE-


284 GIURISPRUDENZA<br />

La soluzione scelta dalla Corte costituzionale è, nella sua linearità, abbastanza<br />

semplice: poiché la Costituzione (art. 117, comma 1) impone al legislatore, sia statale<br />

sia regionale, il rispetto degli obblighi internazionali, le leggi in contrasto con<br />

le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretate<br />

ed applicate dalla CEDU, devono considerarsi costituzionalmente illegittime.<br />

In altre parole: i principi affermati dalla CEDU circa l’interpretazione delle<br />

norme convenzionali possono assurgere al rango di parametro interposto della legittimità<br />

costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge; l’unico controllo<br />

che la Corte costituzionale si riserva è quello concernente il rispetto, da parte<br />

delle norme convenzionali in questione, dei diritti e delle libertà fondamentali, oltre<br />

che dei principi supremi, previsti dalla Costituzione ( 37 ).<br />

Il punto merita attenzione, soprattutto laddove lo si voglia considerare nell’ottica<br />

della questione oggetto della sentenza sul crocifisso, poiché, in quest’ultimo<br />

caso, non si hanno leggi o atti aventi forza di legge, bensì disposizioni regolamentari<br />

o prassi consolidate. Potrebbe, quindi, sembrare, ad un primo e superficiale<br />

sguardo, che l’impostazione seguita dal giudice costituzionale non sia utilmente<br />

invocabile.<br />

Ma così non è, in quanto anche la Costituzione – in questo caso intesa come<br />

comprensiva del parametro interposto – vincola il giudice che venga concretamente<br />

richiesto di pronunciarsi su provvedimenti o comportamenti svolti in applicazione<br />

di regolamenti che siano contrastanti con essa.<br />

Il dato è di indubbio rilievo, poiché, ad esempio, e restando nell’ambito di un<br />

ipotetico e nuovo giudizio amministrativo sulla medesima fattispecie sui cui si è<br />

pronunciata la CEDU in tema di crocifisso, sia che si voglia considerare la violazione<br />

dell’art. 117, comma 1, Cost., ricostruito come sopra, quale violazione di<br />

legge, sia che si voglia considerare il mancato rispetto dello stesso parametro come<br />

violazione di principi generali dell’azione amministrativa, tali da determinare<br />

un’ipotesi sintomatica di eccesso di potere, l’esito della cognizione giurisdizionale<br />

dovrebbe consistere comunque nell’annullamento degli atti effettivamente adottati<br />

dall’amministrazione.<br />

Si noti ulteriormente che questa soluzione, sia pur con qualche temperamento,<br />

DU. Cfr. la nota di V. Sciarabba, sempre nel Forum di Quaderni costituzionali. Il testo è reperibile al seguente<br />

indirizzo: http//www.forumcostituzionale.it/site/content/view/63/46/. Cfr. anche V. Sciarabba,<br />

La «riapertura» del giudicato in seguito a sentenze della Corte di Strasburgo: questioni generali e profili interni,inGiur.<br />

cost., <strong>2009</strong>, 513 ss.<br />

( 37 ) Per un’argomentazione ante litteram simile a quella svolta dalla Corte costituzionale, v., ad esempio,<br />

A. Guazzarotti, La CEDU e l’ordinamento nazionale: tendenze giurisprudenziali e nuove esigenze<br />

teoriche,inQuad. cost., 2006, 491 ss.


può fondarsi non solo (o non tanto) sulla sentenza, che sia divenuta definitiva, con<br />

cui una Sezione semplice della CEDU si è pronunciata sul regime dell’esposizione<br />

del crocifisso nelle aule scolastiche italiane, quanto, potenzialmente, anche sulla<br />

giurisprudenza CEDU sulla quale quella stessa pronuncia si è fondata: anche tale<br />

giurisprudenza, per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost., può verosimilmente<br />

ed efficacemente orientare l’interpretazione delle disposizioni costituzionali rilevanti<br />

(artt. 3 e 19) e, di conseguenza, guidare l’accertamento del giudice circa la legittimità<br />

delle disposizioni regolamentari che prevedono l’obbligo di esporre il<br />

simbolo e degli atti applicativi che ne costituiscano la puntuale esecuzione ( 38 ).<br />

4. Alcune osservazioni finali<br />

LA CEDU E IL CROCIFISSO 285<br />

Al termine di questi rapidi rilievi sono opportune alcune osservazioni conclusive.<br />

Come si è potuto constatare, l’assenza del riconoscimento di una diretta efficacia,<br />

nell’ordinamento italiano, alle sentenze, anche definitive, della CEDU non<br />

esclude, in primo luogo, che, a fronte di violazioni reiterate, la stessa Corte europea<br />

torni a pronunciarsi obbligando lo Stato a mettere in pratica misure (non solo<br />

individuali ma anche) generali, finalizzate, cioè, a rimuovere le ragioni e le basi<br />

stesse delle situazioni contrarie alle disposizioni convenzionali.<br />

In secondo luogo, poi, ed anche a prescindere dalla constatata definitività delle<br />

pronunce sovranazionali, il «fatto nuovo» consistente nella peculiare interpretazione<br />

proposta dalla Corte costituzionale nel 2007 circa il valore dei principi<br />

espressi dalla giurisprudenza CEDU quali principi interpretativi della Convenzione<br />

come parametro interposto di legittimità costituzionale (ex art. 117, comma 1,<br />

Cost.) consente in chiave «rafforzata» la proposizione di nuove controversie giurisdizionali<br />

per le stesse violazioni, dovendosi, cioè, ritenere che l’Amministrazione<br />

sia comunque tenuta al rispetto della Costituzione e dei suoi principi, anche in<br />

quanto «letti» attraverso la «lente» della CEDU.<br />

Ciò è tanto più vero dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, avvenuta<br />

in data 1 o <strong>dicembre</strong> <strong>2009</strong>. Il novellato art. 6 del Trattato UE prevede l’adesione<br />

dell’Unione europea alla CEDU, ribadendo che i diritti fondamentali, in essa garantiti,<br />

fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.<br />

( 38 ) In questo senso si concorda con quanto preconizzato da Id., ibidem, in part. 504-505, il quale osserva<br />

che «il mancato rispetto di un orientamento giurisprudenziale di Strasburgo affermatosi nei riguardi<br />

di altri Paesi membri costituisce per lo Stato convenuto una prima violazione della CEDU, mentre il mancato<br />

rispetto di una condanna emessa nei propri confronti, costituisce per lo Stato una ripetizione della<br />

violazione della CEDU, anzi, una violazione aggravata».


286 GIURISPRUDENZA<br />

La previsione comunitaria, seppur non implicando modificazioni nell’attuale<br />

disciplina degli effetti delle sentenze della Corte europea nei Paesi membri dell’Unione,<br />

sembra in ogni caso destinata a determinare un maggior impulso nell’attenzione<br />

da parte delle amministrazioni e delle giurisdizionali nazionali alla tutela<br />

dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione. Il diritto comunitario, attraverso<br />

la propria normativa, nonché soprattutto negli orientamenti dei suoi organi<br />

giurisdizionali (Corte di Giustizia e Tribunale di primo grado), potrebbe in tal<br />

senso costituire un veicolo di più intensa circolazione all’interno dell’ordinamento<br />

italiano dei diritti e delle garanzie convenzionali e della loro interpretazione ad<br />

opera della Corte di Strasburgo. Al rispetto di tali diritti e garanzie dovranno attenersi<br />

non solo i giudici comuni nel definire i propri orientamenti giurisprudenziali,<br />

ma anche le pubbliche amministrazioni, chiamate fra l’altro dall’art. 1, comma<br />

1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, come modificata dalla legge n. 15/2005, ad improntare<br />

la propria attività ai principi riconosciuti dall’ordinamento comunitario.<br />

Simili profili consentono di evidenziare che gli orientamenti espressi dalla CE-<br />

DU non possono essere comunque sottovalutati dalle Amministrazioni italiane, il<br />

cui ricorso, peraltro diffuso, ad ipotesi simboliche di azione temporanea e propulsiva<br />

(v. il caso delle molte ordinanze che i Sindaci di diversi Comuni hanno adottato<br />

prescrivendo l’obbligo dell’esposizione del crocifisso) non solo si palesa discutibile<br />

per quanto da ultimo rappresentato, ma si manifesta ulteriormente illegittimo<br />

per essere del tutto estraneo all’ambito di applicazione (la sicurezza urbana) delle<br />

discipline, a loro volta discusse e controverse, che formalmente le consentono.<br />

Fulvio Cortese<br />

Silvia Mirate


Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per il Veneto – Sentenza n. 673/09 del<br />

14 ottobre <strong>2009</strong><br />

La disposizione dell’art. 17 comma 30 ter del D.L. n. 78/<strong>2009</strong> convertito in legge<br />

n. 102/<strong>2009</strong>, così come modificato dal D.L. 3 agosto <strong>2009</strong> n. 103, convertito in Legge<br />

3 ottobre <strong>2009</strong> n. 141, va ritenuta, in virtù della norma transitoria di cui al 4 o capoverso,<br />

che deroga alla norma generale dell’art. 5 c.p.c., immediatamente applicabile<br />

a tutti i procedimenti pendenti alla data della sua entrata in vigore, e quindi anche<br />

ai giudizi in corso, seppur radicati prima della sua entrata in vigore, con la sola esclusione<br />

dei procedimenti per i quali sia intervenuta, alla medesima data, pronuncia di<br />

sentenza anche non definitiva.<br />

Conseguentemente, ai sensi dell’art. 17 comma 30 ter D.L. n. 78/<strong>2009</strong> convertito<br />

in legge n. 102/<strong>2009</strong>, come modificato dal D.L. 3.8.<strong>2009</strong>, n. 103, convertito in Legge<br />

3.10.<strong>2009</strong>, n. 141, va dichiarata la nullità dell’atto di citazione proposto prima della<br />

entrata in vigore della disposizione medesima, limitatamente al capo di domanda relativo<br />

al danno all’immagine.<br />

È rilevante ma priva del requisito della non manifesta infondatezza la questione<br />

di legittimità costituzionale dell’art. 17 comma 30 ter del D.L. n. 78/<strong>2009</strong> convertito<br />

in legge n. 102/<strong>2009</strong>, così come modificato dal D.L. 3 agosto <strong>2009</strong>, n. 103, convertito<br />

in Legge 3 ottobre <strong>2009</strong>, n. 141, in relazione alla lamentata lesione dei principi di cui<br />

agli artt. 3, comma 1, 24, comma 1, 97, 103, 108 e 111 Cost.<br />

(Omissis) ... Passando al danno all’immagine, occorre esaminare dapprima le questioni preliminari<br />

relative all’art. 17 comma 30 ter del decreto legge 78/<strong>2009</strong>, convertito in legge 102/<strong>2009</strong>, così<br />

come modificato dal decreto legge 3 agosto 103/<strong>2009</strong>, convertito – nelle more della stesura della presente<br />

decisione – in legge 3 ottobre <strong>2009</strong>, n. 141.<br />

(Omissis) ...La Procura ha eccepito in primis la inapplicabilità della suddetta normativa alla fattispecie<br />

per cui è causa.<br />

Sostiene il Requirente che la nuova norma non sia operativa per le domande giudiziali già proposte<br />

prima della sua entrata in vigore, ai sensi dell’art. 5 c.p.c. «Essa riguarda uno specifico presupposto<br />

dell’azione di responsabilità in tema di risarcimento di danni all’immagine, non previsto in precedenza<br />

e che non ha effetto retroattivo». L’atto di citazione, infatti, risulta depositato in data 20 aprile<br />

<strong>2009</strong> e notificato in data 28 aprile <strong>2009</strong>, quindi in epoca antecedente all’entrata in vigore della norma<br />

(5 agosto <strong>2009</strong>).


288 GIURISPRUDENZA<br />

Secondo il rappresentante della Procura, anche la formulazione letterale del 4 o capoverso del<br />

comma 30 ter dell’art. 17, lascerebbe propendere per l’inapplicabilità della disposizione al caso di<br />

specie. Ed invero, l’inciso «posto in essere» unitamente all’altro «di cui al presente comma» andrebbe<br />

interpretato nel senso che la norma richieda come condizione per la sua operatività, la contestualità<br />

temporale dell’atto istruttorio/processuale posto in essere con la vigenza della norma. Poiché, nel caso<br />

di specie, l’atto introduttivo del giudizio è stato depositato e notificato quando la norma non era<br />

stata ancora emanata, la stessa non troverebbe applicazione.<br />

L’assunto accusatorio non pare condivisibile. Ed invero, proprio il 4 o capoverso del comma 30<br />

ter dell’art. 17 induce a ritenere la norma immediatamente applicabile a tutti i procedimenti pendenti<br />

alla data della sua entrata in vigore e, quindi, anche al giudizio in corso, come reso evidente dalla<br />

esclusione della sola circostanza costituita dalla avvenuta pronuncia di sentenza anche non definitiva,<br />

alla medesima data. Nella sostanza, la norma non si applica alle sole sentenze già pronunciate alla<br />

data di entrata in vigore della legge di conversione 102/<strong>2009</strong> (5 agosto <strong>2009</strong>). Trattasi, evidentemente,<br />

di norma di diritto transitorio che deroga all’art. 5 c.p.c., norma generale, e, come tale, inapplicabile<br />

in fattispecie.<br />

Quanto all’interpretazione degli incisi «posto in essere» e «di cui al presente comma», occorre rilevare<br />

che la norma va letta nella sua globalità sicché la tesi della Procura non pare condivisibile perché<br />

non tiene conto del periodo immediatamente successivo «salvo che sia stata già pronunciata sentenza<br />

anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».<br />

Alla luce delle esposte considerazioni e conformemente al recentissimo orientamento della giurisprudenza<br />

contabile sul punto (v. Sez. Giurisd. Lazio, ordinanze n. 418/<strong>2009</strong>, 419/<strong>2009</strong>, 423/<strong>2009</strong>,<br />

depositate il 28 e 30 settembre <strong>2009</strong>), l’eccezione di inapplicabilità al presente giudizio della recente<br />

normativa, deve essere respinta.<br />

In via subordinata, la Procura ha chiesto «la sospensione del presente giudizio ritenendo sussistere<br />

i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza per attivare il ricorso al giudizio di costituzionalità<br />

in via incidentale dinanzi alla Corte Costituzionale, poiché la normativa in discussione<br />

comprime sensibilmente la giurisdizione contabile in tema di risarcimento danni all’immagine, in violazione<br />

dei principi fondamentali della costituzione».<br />

(Omissis) ... Ciò stante, occorre verificare la sussistenza delle condizioni di proponibilità delle<br />

questioni sotto il duplice aspetto della rilevanza e della non manifesta infondatezza (art. 23 legge 87/<br />

1953).<br />

Quanto alla rilevanza, si osserva quanto segue.<br />

La norma censurata stabilisce che «Le Procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento<br />

del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97.<br />

A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14<br />

gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale».<br />

Il danno all’immagine della PA – rientrante nella giurisdizione contabile in base al consolidato<br />

orientamento della Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 5668/1997; n. 744/99; n. 14990/2005; n.<br />

8098/2007) e perseguibile in presenza di comportamento illecito connotato da dolo o colpa grave<br />

ancorché non integrante reato, secondo il noto insegnamento delle SSRR di questa Corte (sent. 10/<br />

QM/2003) –, rimane ora soggetto alla giurisdizione contabile solo nei termini e modi previsti dall’art.<br />

7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento<br />

disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche),<br />

vale a dire solo in presenza di un giudicato penale di condanna per uno dei delitti di cui agli<br />

artt. 314-335 bis c.p. Ne consegue la sottrazione alla giurisdizione contabile di tutte le fattispecie non<br />

derivanti da reato, come quella in esame, nonché di quelle che pur raggiungendo la soglia della punibilità<br />

penale, non rientrano nella tipologia dei «delitti contro la PA».<br />

La questione di legittimità costituzionale è dunque rilevante nel presente giudizio (ad eccezione<br />

di quanto – in seguito – si dirà in relazione all’art. 3 Cost., secondo aspetto censurato), atteso che<br />

dall’applicabilità della norma censurata di incostituzionalità dipende la sussistenza, o meno, della


AZIONE DI RESPONSABILITÀ ERARIALE PER DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A. 289<br />

giurisdizione di questa Corte sul danno all’immagine derivante da fattispecie non delittuosa, come<br />

nella specie.<br />

Quanto alla dedotta non manifesta infondatezza delle questioni, il vaglio va fatto, ovviamente,<br />

con riferimento alle singole censure sollevate dalla Procura e sopra riportate.<br />

Con riguardo alla violazione dell’art. 3 comma 1 Cost., censurata sotto un duplice aspetto, appare<br />

utile esaminare le argomentazioni attoree seguendo l’ordine espositivo di cui alla memoria.<br />

Quanto al primo aspetto censurato (v. sopra sub 1), secondo cui la norma sarebbe illegittima<br />

perché limiterebbe l’esercizio dell’azione contabile ad una sentenza penale irrevocabile di condanna,<br />

si osserva quanto segue.<br />

La scelta di circoscrivere la giurisdizione contabile sul danno all’immagine ai soli casi in cui<br />

l’agente abbia riportato una condanna penale irrevocabile, è espressione della discrezionalità di cui<br />

gode il legislatore nella conformazione delle fattispecie di responsabilità. Ed invero, non vi sono<br />

dubbi «che il legislatore sia arbitro di stabilire non solo quali comportamenti possano costituire titolo di<br />

responsabilità, ma anche quale grado di colpa sia richiesto ed a quali soggetti la responsabilità sia ascrivibile<br />

(sent. C. Cost. 411/88), senza limiti o condizionamenti che non siano quelli della non irragionevolezza<br />

e non arbitrarietà (C. Cost. 371/98)».<br />

Ritiene il Collegio, quindi, che la scelta legislativa di limitare la giurisdizione contabile in tema di<br />

danno all’immagine entro i confini di un giudicato penale irrevocabile, per quanto appaia in contrasto<br />

col consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione e delle SSRR di questa<br />

Corte, non possa ex se reputarsi irragionevole, né arbitraria. D’altronde, al di là di una generica censura<br />

sul punto, non sono stati illustrati, né addotti, specifici profili di irragionevolezza e/o arbitrarietà<br />

della scelta legislativa.<br />

Quanto al secondo aspetto censurato (vedi sopra sub 2), secondo cui la norma sarebbe incostituzionale<br />

perché limita l’azione contabile sul danno all’immagine ai soli delitti previsti dall’art. 314 all’art.<br />

335 bis c.p., escludendo in tal modo altre fattispecie delittuose altrettanto infamanti ed offensive<br />

della pubblica immagine sol perché non rientranti nella tipologia dei «delitti contro la PA», deve<br />

evidenziarsi, come già anticipato, la mancanza del presupposto della rilevanza.<br />

Essa infatti, non ha alcuna attinenza con la fattispecie oggetto di causa. Nel presente giudizio<br />

non v’è stata condanna per reati diversi da quelli espressamente previsti dal legislatore, sicché la presunta<br />

discriminazione tra norme incriminatrici, non avrebbe comunque alcuna rilevanza ai fini della<br />

decisione. Ed infatti, la censura è evidentemente finalizzata ad ottenere – sul punto specifico – una<br />

pronuncia «additiva» della Corte che dichiari l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non<br />

prevede l’estensione della giurisdizione contabile anche ad altre fattispecie delittuose altrettanto offensive<br />

della pubblica immagine; ma una tale, ipotetica, pronuncia rimarrebbe inutiliter data nel presente<br />

caso per la cui decisione la questione non rileva.<br />

In relazione all’art. 24 comma 1 Cost., va richiamato il pacifico orientamento della giurisprudenza<br />

costituzionale secondo cui «la garanzia apprestata dall’art. 24 opera attribuendo tutela processuale<br />

alle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano riconosciute dal legislatore;<br />

di modo che quella garanzia trova confini nel contenuto del diritto al quale serve e si modella sui concreti<br />

lineamenti che il diritto stesso riceve dall’ordinamento (C. Cost. 371/98)». Ne consegue che il lamentato<br />

impedimento del PM contabile di agire in giudizio per il danno all’immagine, altro non è<br />

che il riflesso della nuova disciplina sul risarcimento del danno all’immagine della PA siccome delineata<br />

dalla norma censurata, la cui irragionevolezza/arbitrarietà è stata solo denunciata, ma non puntualmente<br />

argomentata.<br />

Circa la lamentata violazione del principio del buon andamento della PA, garantito dall’art. 97<br />

Cost. e, secondo la Procura «sostanzialmente compresso dalla restrizione dell’attività giurisdizionale<br />

del PM per le ragioni appena considerate», la consolidata giurisprudenza costituzionale ha più volte<br />

ribadito che l’art. 97 attiene solo all’attività amministrativa, all’organizzazione dell’amministrazione<br />

secondo principi di imparzialità e di buon andamento, mentre rimane «estraneo all’esercizio della<br />

funzione giurisdizionale (C. Cost. sent. 433/2000; sent. 174/2005; ord. 44/2006; sent. 272/2008)».


290 GIURISPRUDENZA<br />

Per quanto riguarda le prerogative del PM, secondo la giurisprudenza costituzionale, la garanzia<br />

apprestata dall’art. 108 comma 2 Cost. «mira ad assicurare, come questa Corte ha già avuto occasione<br />

di chiarire (C. Cost. sent. 40/1964; n. 234/76; n. 375/96), che l’attività giurisdizionale si svolga<br />

sotto l’esclusivo imperio della legge, senza inammissibili influenze esterne (C. Cost. 433/2000)». La<br />

norma quindi, garantisce l’autonomia e l’indipendenza del PM contabile dagli altri poteri dello Stato,<br />

sicché la censura appare destituita di fondamento atteso che la norma impugnata non pregiudica,<br />

né pone in pericolo tale autonomia.<br />

Quanto all’art. 103 comma 2 Cost., va ricordato che detta norma «ha solo la finalità di riservare<br />

alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, secondo ambiti la cui concreta<br />

determinazione, peraltro, è rimessa alla discrezionalità del legislatore (C. Cost. 371/98)». Il Giudice<br />

delle Leggi ha più volte sottolineato in proposito, la natura solo tendenzialmente generale della giurisdizione<br />

della Corte nelle materie di contabilità pubblica, statuendo che è il legislatore a determinare<br />

la sfera di giurisdizione dei giudici, ed in tale interpositio legislatoris deve individuarsi il limite funzionale<br />

delle attribuzioni giurisdizionali della Corte (C. Cost. 129/81; 641/87). Valgono quindi le<br />

considerazioni già svolte con riguardo alla censurata violazione dell’art. 3, comma 1 Cost., trattandosi<br />

di scelta discrezionale del legislatore la cui arbitrarietà e irragionevolezza non risulta neppure dedotta.<br />

Per quanto attiene alla supposta violazione dell’art. 111 Cost., deve evidenziarsi che l’invocato<br />

parametro costituzionale riguarda «il processo» e non l’attività pre-processuale cui, evidentemente,<br />

fa riferimento il Requirente nella memoria. L’attività processuale infatti, ha inizio con l’emissione<br />

dell’atto di citazione che, ai sensi della norma censurata, potrà essere depositato dal PM contabile<br />

nella segreteria della Sezione solo dopo la comunicazione della sentenza penale di condanna irrevocabile,<br />

sicché è evidente che l’art. 30 ter non incide sulla durata del «processo», ma al più, su quella<br />

dell’attività istruttoria pre-processuale che, tuttavia, non è assistita dalla garanzia di cui all’art. 111<br />

Cost. (v. Cass. Pen. sez. III n. 40974/2002; C. Cost. 513/2002).<br />

Né, d’altro canto, l’eventuale allungamento dei tempi della fase pre-processuale può produrre<br />

effetti sul decorso della prescrizione dell’azione erariale, atteso che la norma ha espressamente previsto<br />

la sospensione del termine di prescrizione fino alla conclusione del procedimento penale.<br />

Le stesse considerazioni valgono per la cd. pregiudiziale penale che, secondo la Procura, sarebbe<br />

stata reintrodotta dalla censurata norma sul danno all’immagine. L’istituto della pregiudizialità<br />

penale, previsto dall’art. 3 del codice di procedura penale abrogato, era ispirato al principio, in precedenza<br />

vigente, della unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale sul giudizio civile<br />

con conseguente sospensione necessaria del giudizio civile fino al passaggio in giudicato della<br />

sentenza penale. La pregiudiziale penale dunque, presupponeva la contestuale pendenza dei due<br />

«giudizi», di cui quello penale – per il suo carattere pregiudiziale –, costituiva l’inevitabile antecedente<br />

logico giuridico dal quale dipendeva la decisione della causa civile pregiudicata. Il contesto<br />

dell’istituto era dunque il «processo», l’attività processuale in itinere.<br />

La fattispecie sul danno all’immagine disciplinata dall’art. 30 ter, invece, si inserisce in un contesto<br />

pre-processuale, comportando la sospensione non già del «processo» che ancora non è iniziato,<br />

ma, semmai, dell’attività istruttoria del PM contabile. Nella sostanza, la norma ha introdotto un presupposto<br />

dell’azione contabile per il danno all’immagine, rappresentato dalla sentenza penale di<br />

condanna irrevocabile.<br />

La dedotta violazione dell’art. 111 Cost. nel duplice aspetto rappresentato, è da ritenersi, quindi,<br />

destituita di fondamento.<br />

Le questioni di legittimità costituzionale della norma così come formulate dal Requirente, appaiono,<br />

pertanto, prive del requisito della non manifesta infondatezza.<br />

Ciò stante, in accoglimento della richiesta della difesa pervenuta in data 14 settembre <strong>2009</strong>, non<br />

può che dichiarasi – ai sensi dell’art. 17 comma 30 ter del DL 78/09, convertito in legge 102/09, così<br />

come modificato dal DL 103/09, convertito in legge 141/<strong>2009</strong> – la nullità dell’atto di citazione limitatamente<br />

al capo relativo al danno all’immagine, non essendo rinvenibili, nel caso di specie, i pre-


supposti di cui all’art. 7 della legge 97/2001. È pacifico ed incontestato, infatti, che il convenuto non<br />

ha riportato alcuna condanna penale per uno dei delitti di cui agli artt. 314-335 c.p.<br />

La declaratoria di nullità dell’atto introduttivo del giudizio, preclude ogni esame del merito della<br />

domanda relativa al danno all’immagine.<br />

(Omissis) ...<br />

AZIONE DI RESPONSABILITÀ ERARIALE PER DANNO<br />

ALL’IMMAGINE DELLA P.A.: PRIME PRONUNCE, E PRIMI<br />

«SUSSULTI», IN MERITO ALL’APPLICAZIONE DELLA NUOVA<br />

DISCIPLINA DELL’ART. 17 COMMA 30 TER DEL D.L. N. 78/09,<br />

CONVERTITO IN LEGGE N. 102/09, COME MODIFICATO DAL<br />

D.L. N. 103/09, CONVERTITO IN LEGGE N. 141/<strong>2009</strong><br />

1. Premessa<br />

AZIONE DI RESPONSABILITÀ ERARIALE PER DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A. 291<br />

La giurisprudenza contabile, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni<br />

novanta, dopo la legge di riforma n. 20 del 1994 (che avendo previsto l’azione di<br />

responsabilità anche per danni ad amministrazione diversa da quella di appartenenza,<br />

ha svincolato così la responsabilità da una obbligazione, ex lege o ex contractu,<br />

tra funzionario e amministrazione danneggiata), è giunta, a conclusione di<br />

un articolato e graduale percorso, alla configurazione di un vero e proprio danno<br />

erariale – soggetto alla propria giurisdizione – per la lesione all’immagine ed al<br />

prestigio della Pubblica Amministrazione, e consistente nella lesione di quei valori<br />

della P.A. (diritto alla propria identità personale, del proprio buon nome, della<br />

propria reputazione e credibilità), tutelati dall’art. 97 della Costituzione.<br />

La Corte di Cassazione (vedi Cass. Civ. Sez. Un. 25.6.1997, n. 5668, e le successive<br />

Sez. Un. 25.10.1999, n. 744 e 4.4.2000, n. 98, e ancora più di recente Sez.<br />

Un. 12.11.2003, n. 17078 e n. 8098 del 2.4.2007) ha avvallato l’estensione della<br />

giurisdizione contabile alla valutazione del danno all’immagine, seppur escludendone<br />

la possibilità di valutazione in termini di danno morale, e ritenendo invece<br />

ammissibile da parte della magistratura contabile la valutazione del «danno conseguente<br />

alla grave perdita di prestigio e grave detrimento dell’immagine e della personalità<br />

pubblica dello Stato», il quale, «anche se non comporta una diminuzione patrimoniale<br />

diretta è, tuttavia, suscettibile di una valutazione patrimoniale, sotto il profilo<br />

della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso».<br />

A fronte di tale, anche recentemente ribadito, orientamento della Cassazione,<br />

la giurisprudenza contabile è inizialmente venuta a delineare una lettura in chiave<br />

sostanzialmente «patrimoniale» del danno in questione, che, svincolato, fra l’altro,


292 GIURISPRUDENZA<br />

dalla qualificazione del fatto illecito come reato, e pur qualificato come «danno<br />

non patrimoniale all’immagine dell’amministrazione», veniva tuttavia assoggettato<br />

ad una (riteniamo in realtà inevitabile) valutazione economica, richiedendosi, per<br />

la sua configurabilità, la prova della sussistenza di un pregiudizio concretamente<br />

valutabile e risarcibile, ovvero dell’effettiva erogazione di una spesa per il ripristino<br />

dei beni immateriali lesi, ovvero, comunque, e quantomeno, la prova della suscettibilità<br />

di una valutazione patrimoniale della lesione del bene giuridicamente<br />

protetto (eventualmente con l’indicazione, non tanto, o non solo, dei costi effettivamente<br />

sostenuti per il ripristino del prestigio e dell’immagine deteriorata, quanto<br />

piuttosto degli elementi connotanti la spesa da sostenere ed occorrente per riparare<br />

il discredito patito dalla P.A., recuperare la sua credibilità ed affidabilità).<br />

Su tale linea interpretativa si sono sostanzialmente collocate anche le SS.RR.<br />

con la sentenza n. 10 del 23.4.2003, che hanno considerato il danno all’immagine<br />

della P.A. «“una delle fattispecie del danno esistenziale” che va risarcito sulla base<br />

del “sillogismo secondo cui, premesso che lo svolgimento di attività non remunerative<br />

costituisce un interesse dell’individuo tutelato dall’ordinamento, ne consegue che<br />

la lesione della possibilità di svolgere tali attività rappresenta un danno ingiusto ex<br />

art. 2043 c.c. e l’ingiustizia del danno ne determina necessariamente la risarcibilità”.<br />

“La violazione di questo diritto all’immagine, intesa come diritto al conseguimento,<br />

al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica<br />

pubblica, è economicamente valutabile. Essa, infatti, si risolve in un onere finanziario<br />

che si ripercuote sull’intera collettività, dando luogo ad una carente utilizzazione<br />

delle risorse pubbliche ed a costi aggiuntivi per correggerne gli effetti distorsivi che<br />

sull’organizzazione della pubblica amministrazione si riflettono in termini di minor<br />

credibilità e prestigio e di diminuzione di potenzialità operativa”».<br />

Tale orientamento, che nega il carattere in re ipsa del danno all’immagine della<br />

P.A., e che dunque, sottolineando la patrimonialità e la necessità di una valutazione<br />

economica del danno, pone comunque a carico delle Procure attrici l’onere<br />

della prova sia circa le spese già effettuate, sia circa quelle eventualmente ancora<br />

da effettuare, trova tuttora ampio seguito nella giurisprudenza delle Sezioni (regionali<br />

e centrali) della Corte dei Conti (fra l’altro, anche della Sezione Giurisdizionale<br />

per il Veneto, vedi n. 501 del 7.12.2007).<br />

Non mancano, tuttavia, e si vanno, anzi, seppur lentamente ampliando, le<br />

«voci» di coloro, Giudicanti e non, i quali ritengono che il riconoscimento del<br />

danno all’immagine possa prescindere dalla reale effettuazione di spese per il ripristino<br />

del bene immateriale leso e dalla dettagliata e specifica prova dei costi<br />

sopportabili per la reintegrazione del bene leso, in quanto considerano necessaria<br />

ma sufficiente la prova di comportamenti antigiuridici che, resi di dominio pubblico,<br />

abbiano avuto una valenza lesiva dell’immagine dell’amministrazione, non


AZIONE DI RESPONSABILITÀ ERARIALE PER DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A. 293<br />

potendo, pertanto «assumere particolare rilievo la circostanza che non venga offerta<br />

la prova delle spese sostenute dalle amministrazioni per il ripristino dell’immagine<br />

compromessa dalla condotta illecita dei propri dipendenti, ritenendosi non condivisibile<br />

ed ingiustificatamente riduttiva la prospettiva di riconoscere la risarcibilità del<br />

pregiudizio solo nei casi in cui si acquisita la prova delle spese sostenute per ridare<br />

credibilità all’amministrazione pubblica» (così C. Conti Sez. Giurisdiz. n. 56 del<br />

5.2.2008, e ancora C. Conti Sez. I 13.3.2008, n. 137, C. Conti Sez. I App.<br />

11.7.2007, n. 198, secondo cui «Nel caso di danno all’immagine il pregiudizio può<br />

configurarsi a prescindere dall’effettuazione o dalla programmazione di spese per il<br />

ripristino dei beni immateriali lesi, di tal che l’onere dell’attore può ritenersi adempiuto<br />

con la dimostrazione della lesione della pubblica estimazione dell’ente, da valutare<br />

equitativamente ai sensi dell’art. 1226 c.c.» – Va detto, che il ricorso alla valutazione<br />

equitativa ex art. 1226 c.c., stante talora la problematicità di una esatta<br />

determinazione dei costi, viene pacificamente ammesso dalla giurisprudenza contabile<br />

come «ausilio» alla parte attrice per la quantificazione del danno, e viene<br />

solitamente agganciato ad una serie di parametri, che devono essere forniti dalla<br />

parte pubblica attrice, quali il ruolo del soggetto nell’organizzazione e la funzione<br />

svolta, la sua eventuale funzione di rappresentanza esterna, la natura dell’ente e la<br />

sua capacità esponenziale, l’ambito territoriale, la gravità dell’illecito e la reiterazione<br />

delle condotte, la reazione della collettività e gli atteggiamenti conseguenti<br />

degli utenti dei servizi).<br />

Non da ultimo, va rammentato che anche a seguito della nota pronuncia delle<br />

Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 26972/2008), che ha ricostruito<br />

unitariamente la figura del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c.,<br />

negando il carattere autonomo al c.d. danno esistenziale e ridimensionando la categoria<br />

del danno evento, la sentenza n. 143/<strong>2009</strong> della III Sezione Centrale<br />

d’Appello della Corte dei Conti, ha in sostanza riaffermato la valenza dell’assetto<br />

giurisprudenziale contabile in tema di danno all’immagine, ritenendo i principi<br />

contenuti nella detta pronuncia non applicabili, immediatamente e autonomamente,<br />

al danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, e sottolinenando<br />

«la nozione di danno all’immagine subito da un soggetto pubblico come danno patrimoniale<br />

da perdita di immagine, di tipo contrattuale, avente natura di danno conseguenza<br />

(tale comunque da superare una soglia minima di pregiudizio e la cui prova<br />

potrà essere fornita anche per presunzioni e mediante il ricorso a nozioni di comune<br />

esperienza)».


294 GIURISPRUDENZA<br />

2. La nuova disciplina dell’art. 17 comma 30 ter del D.L. n. 78/09, convertito in<br />

legge n. 102/09, come modificato dal D.L. n. 103/09, convertito in legge n. 141/<br />

<strong>2009</strong><br />

In questo quadro composito dell’elaborazione della giurisprudenza contabile<br />

in materia di danno all’immagine della P.A. è recentemente intervenuto il legislatore<br />

nazionale che, con l’art. 17, comma 30 ter del Decreto Legge 1 o <strong>luglio</strong> <strong>2009</strong>,<br />

n. 78 (riguardante peraltro – sic! – «Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini<br />

e della partecipazione italiana a missioni internazionali»), convertito con modifiche<br />

nella Legge 3 agosto <strong>2009</strong>, n. 102, ha testualmente previsto che: «“Le procure<br />

regionali della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno<br />

all’immagine subito dall’Amministrazione nei soli casi previsti dall’art. 7 della legge<br />

27 marzo 2001, n. 97. Per danno erariale perseguibile innanzi alle Sezioni giurisdizionali<br />

della Corte dei Conti si intende l’effettivo depauperamento finanziario o patrimoniale<br />

arrecato ad uno degli organi previsti dall’articolo 114 della Costituzione o<br />

ad altro organismo di diritto pubblico, illecitamente cagionato ai sensi dell’art. 2043<br />

del codice civile. L’azione è esercitabile dal Pubblico Ministero contabile, a fronte di<br />

una specifica e precisa notizia di danno, qualora il danno stesso sia stato cagionato<br />

per dolo o colpa grave”. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in<br />

violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia già stata pronunciata<br />

sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione<br />

del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in<br />

ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale<br />

della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal<br />

deposito della richiesta».<br />

Il Legislatore tuttavia, immediatamente dopo la conversione in legge, modificava<br />

tale disposizione, ed in particolare i primi tre periodi dell’art. 17 comma ter,<br />

sopra citato (vedi la parte sottolineata), con l’art. 1 del D.L. 3 agosto <strong>2009</strong>, n. 103,<br />

che veniva convertito nella Legge 3 ottobre <strong>2009</strong>, n. 141. La norma, dunque, ad<br />

eccezione del 4 periodo che è rimasto immutato, è stata così testualmente riscritta:<br />

«“Le Procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio<br />

dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno,<br />

fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge. Le procure della<br />

Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli<br />

casi e modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il<br />

decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14<br />

gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale”. Qualunque<br />

atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di<br />

cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non defini-


AZIONE DI RESPONSABILITÀ ERARIALE PER DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A. 295<br />

tiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è<br />

nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia<br />

interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti,<br />

che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta».<br />

3. La fattispecie: la Sezione all’esame delle questioni circa l’applicabilità della<br />

nuova disciplina<br />

Anche la Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti del Veneto, come altre<br />

Sezioni Regionali, ha dovuto immediatamente confrontarsi con l’applicazione della<br />

nuova normativa.<br />

Nel caso esaminato con la pronuncia in commento, la Procura, con atto di citazione<br />

depositato in data 20 aprile <strong>2009</strong> e notificato in data 28 aprile <strong>2009</strong>, quindi<br />

in data antecedente all’entrata in vigore della norma (5 agosto <strong>2009</strong>), aveva richiesto<br />

il risarcimento per il presunto danno all’immagine derivante ad una Pubblica<br />

Amministrazione statale, per fatti non configuranti alcuna fattispecie di reato.<br />

A seguito dell’entrata in vigore, nelle more del processo, della nuova disciplina<br />

dell’art. 17 comma 30 ter del D.L. n. 78/<strong>2009</strong> conv. in Legge n. 102/<strong>2009</strong> e modificato<br />

dal D.L. n. 103/<strong>2009</strong>, il convenuto presentava istanza per la declaratoria di<br />

nullità della domanda relativa al presunto danno all’immagine (secondo quanto<br />

prescritto dal 4 o periodo della menzionata disposizione).<br />

La Procura attrice replicava eccependo in primo luogo l’inapplicabilità del citato<br />

art. 17 comma 30 ter alla fattispecie in esame ai sensi dell’art. 5 c.p.c., essendo<br />

stato l’atto di citazione depositato e notificato (e dunque il processo radicato) in<br />

epoca antecedente alla data di entrata in vigore della norma. In via subordinata,<br />

sollevava questione dei legittimità costituzionale della normativa sopra citata per<br />

violazione del principio di uguaglianza ex art. 3, comma 1 o , Cost., nonché degli<br />

artt. 24, comma 1, 97, 108 e 103 della Carta Costituzionale. Deduceva altresì la<br />

violazione del principio della ragionevole durata del processo, ai sensi dell’art.<br />

111, comma 2, Cost.<br />

La questione sostanziale che la Sezione Giurisdizionale del Veneto ha dovuto<br />

affrontare nella fattispecie, attiene, dunque, alla applicabilità o meno della nuova<br />

disciplina del menzionato art. 17 comma 30 ter.<br />

Come detto, la Procura ha eccepito l’inapplicabilità della normativa in relazione<br />

ai principi dell’art. 5 c.p.c., in particolare evidenziando che la nuova normativa<br />

«riguarda uno specifico presupposto dell’azione di responsabilità in tema di risarcimento<br />

di danni all’immagine, non previsto in precedenza e che non ha effetto retroattivo».


296 GIURISPRUDENZA<br />

La Sezione ha invece ritenuto che la nuova disciplina dovesse trovare senz’altro<br />

applicazione alla fattispecie in esame.<br />

Non pare, effettivamente, che nella fattispecie esaminata dalla Corte fosse possibile<br />

accogliere un’altra e diversa soluzione.<br />

Va osservato, intanto, che i fatti oggetto di giudizio non riguardavano in alcun<br />

modo fatti di rilievo penale. Il rilievo appare fondamentale, atteso che la scelta del<br />

legislatore risulta essere stata netta ed inequivocabile, proprio nel senso di escludere<br />

la possibilità di azione per il risarcimento del danno all’immagine per tutti i<br />

fatti non costituenti reato, (come era nel caso di specie), consentendola invece,<br />

per fatti costituenti reato, limitatamente alle ipotesi, ai casi e alle modalità di cui<br />

all’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97.<br />

Per inciso, la norma da ultimo menzionata dispone testualmente che:<br />

«1. La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti<br />

indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti<br />

nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente<br />

procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta<br />

giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti<br />

del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme<br />

di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate<br />

con decreto legislativo 28 <strong>luglio</strong> 1989, n. 271». (A sua volta l’art. 129 Disp.<br />

Att. c.p.p. – «Informazioni sull’azione penale» – stabilisce ai commi 3e3bis, che:<br />

«3. Quando esercita l’azione penale per un reato che ha cagionato un danno per<br />

l’erario, il pubblico ministero informa il procuratore generale presso la Corte dei<br />

Conti, dando notizia della imputazione. 3-bis. Il pubblico ministero invia la informazione<br />

contenente la indicazione delle norme di legge violate anche quando taluno<br />

dei soggetti indicati nei commi 1e2èstato arrestato o fermato ovvero si trova<br />

in stato di custodia cautelare».<br />

La stessa Sezione Giurisdizionale del Veneto, in una successiva pronuncia<br />

(sentenza non definitiva n. 756 dell’11.11.<strong>2009</strong>, che ha respinto invece l’istanza<br />

per la declaratoria di nullità), ha avuto modo di chiarire che le ipotesi delittuose<br />

considerate dall’art. 17 comma 30 ter, con rimando all’art. 7 Legge n. 97/2001, sono<br />

precisamente ed esclusivamente quelle contemplate nel Capo I, Titolo II, del<br />

Libro II del Codice Penale, e cioè le fattispecie contemplate negli articoli compresi<br />

dal 314 al 335 bis c.p.<br />

Correttamente la Sezione non ha ritenuto condivisibile l’interpretazione della<br />

Procura attrice secondo cui l’inciso «posto in essere» unitamente all’altro «di cui al<br />

presente comma» andrebbe interpretato nel senso che la norma richiederebbe, per<br />

la sua applicazione, la contestualità temporale dell’atto istruttorio/processuale posto<br />

in essere sotto la vigenza della norma: donde, nella specie, la nuova disciplina


AZIONE DI RESPONSABILITÀ ERARIALE PER DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A. 297<br />

non avrebbe potuto trovare applicazione, atteso che l’atto introduttivo del giudizio<br />

era precedente alla sua entrata in vigore ed alla sua emanazione.<br />

In effetti, come ha affermato la Sezione, la lettura complessiva della norma,<br />

che fa salvi i casi in cui «sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla<br />

data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto», rende in<br />

sostanza palese che la disposizione del 4 o periodo va ritenuta senz’altro applicabile<br />

a tutti i procedimenti pendenti, e dunque anche ai giudizi in corso (ad eccezione,<br />

appunto, di quelli per i quali sia stata pronunciata sentenza).<br />

D’altra parte, la circostanza che la disposizione in questione abbia distintamente<br />

considerato gli atti «istruttori» (quelli compiuti dalla Procura prima del deposito<br />

della citazione – es. invito a dedurre), da quelli «processuali» (cioè attinenti<br />

ad un periodo successivo al radicamento del processo, con il deposito e la notifica<br />

dell’atto di citazione), lascia anzi chiaramente intendere che essa ha inteso immediatamente<br />

e principalmente disciplinare proprio l’ipotesi dei giudizi già pendenti<br />

alla data di entrata in vigore della legge di conversione (si aggiunga che la distinzione<br />

tra atti processuali, intesi come atti riferiti a giudizio già pendente, e atti<br />

istruttori, intesi come atti pre-processuali, trova conforto nella disposizione del<br />

primo capoverso ove appunto si considera l’attività istruttoria come attività finalizzata<br />

e strumentale all’esercizio dell’azione di danno erariale).<br />

Inoltre, proprio la specificazione che la nullità «può essere fatta valere in ogni<br />

momento», e da chiunque vi abbia interesse (donde, fra l’altro deve dedursi che si<br />

tratti di una nullità rilevabile anche d’ufficio – vedi in tal senso Corte dei Conti,<br />

Sezione Giurisdizionale Sicilia, ord. n. 218 del 14.10.<strong>2009</strong>), chiaramente evidenzia<br />

che tra le ipotesi contemplate dalla norma vi sia anche quella della sua applicazione<br />

ad un giudizio già instaurato.<br />

D’altronde, come è stato sottolineato (Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale<br />

per il Lazio ord. n. 419 del 28.9.<strong>2009</strong>), proprio dalla natura rigorosamente processuale<br />

della normativa introdotta in tema di nullità, discende l’immediata entrata in<br />

vigore della normativa medesima e la sua applicabilità a tutti i procedimenti in<br />

corso alla data della sua entrata in vigore.<br />

Ha ragione, del resto la pronuncia in esame laddove ha ritenuto che la disposizione<br />

del 4 o capoverso configuri una norma di diritto transitorio, e come tale una<br />

norma che espressamente deroga alla disciplina dell’art. 5 c.p.c. e ai principi generali<br />

della perpetuatio jurisdictionis.<br />

Il problema, semmai, potrebbe essere quello opposto, della ragionevolezza, e<br />

dunque della tenuta costituzionale della deroga disposta relativamente ai casi in<br />

cui sia stata pronunciata sentenza anche non definitiva, per i quali il «regime» della<br />

nullità disposta dalla norma in esame, non trova applicazione: ma qui, il discrimine<br />

dato dalla pronuncia di una sentenza potrebbe essere considerato ragionevo-


298 GIURISPRUDENZA<br />

le, per la necessità di soddisfare l’esigenza di evitare la dispersione delle attività<br />

processuali già compiute, atteso che nei processi giunti a sentenza, il materiale<br />

probatorio di accusa e difesa, nonché gli adempimenti istruttori eventualmente disposti<br />

dalla Corte, sono stati ormai acquisiti, e la sequenza procedimentale, svoltasi<br />

nel contradditorio delle parti, ha già trovato definizione con la pronuncia della<br />

decisione (vedi al riguardo le considerazioni di carattere più generale di cui alla<br />

decisione della Corte Costituzionale n. 72 del 28.3.2008, in ordine ai profili di illegittimità<br />

costituzionale sollevati con riferimento al regime differenziato della c.d.<br />

Legge Cirielli, in tema di prescrizione penale).<br />

Sotto quest’ultimo profilo, non appare perciò condivisibile, proprio per la<br />

mancanza di elementi che possano connotarla in termine di ragionevolezza, l’opinione<br />

di chi ritiene, invocando una lettura «costituzionalmente orientata» delle<br />

norme, che il confine di applicazione sia dato dall’instaurazione del giudizio attraverso<br />

il deposito della citazione in epoca antecedente la data di entrata in vigore<br />

della nuova normativa, di talché sarebbe da ritenersi precluso solo l’esercizio dell’azione<br />

in data successiva all’entrata in vigore della legge e non invece la prosecuzione<br />

dei giudizi già instaurati (vedi al riguardo Corte Conti Sezione Giur. Lombardia,<br />

n. 765 del 16.11.<strong>2009</strong>. Anche la Sez. Giur. Piemonte, ord. n. 60 del<br />

2.11.<strong>2009</strong>, è fautrice di una lettura «costituzionalmente orientata» che ritiene<br />

inapplicabile la nuova normativa ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore<br />

della nuova normativa. Corte dei Conti, Sez. Giur. Piemonte, ord. n. 60 del<br />

2.11.<strong>2009</strong>. Merita ancora segnalare che la stessa pronuncia della Sezione Lombardia,<br />

così come l’ordinanza n. 462 del 14.10.<strong>2009</strong> della Sez. Giuris. Lazio, hanno, in<br />

sostanza, sostenuto che risulta più conforme a Costituzione, un’interpretazione secondo<br />

la quale, in virtù del rinvio all’art. 7 della legge n. 97/2001 e da questo all’art.<br />

129 Disp. Att. C.p.p., si dovrebbe ritenere legittima l’azione della Procura<br />

per una serie indeterminata di ipotesi di reato, prescindendo dal riferimento,<br />

espresso nella nuova disciplina, ai reati di cui al Capo I del Titolo II del Libro II<br />

del codice penale: afferma testualmente la menzionata pronuncia della Sezione<br />

Lombardia che «...tale aberrante e ripudiato approdo ermeneutico testuale va corretto<br />

con una lettura “ortopedica”, sistematica, logica, costituzionalmente orientata dl<br />

pluricitato art. 17, comma 30 ter, ritenendo non preclusa mai, da tale norma, l’azione<br />

della Corte dei Conti per qualsiasi danno arrecato all’immagine della p.a., quale<br />

che sia la matrice penalistica dell’illecito dannoso....»).<br />

Ora, anche a non voler considerare che il tenore letterale della chiara disposizione<br />

del 4 o capoverso, rende inconsistente la distinzione tra «esercizio» dell’azione,<br />

precluso, e prosecuzione del giudizio, consentito, proprio non si coglie quale<br />

sarebbe l’elemento rilevante, e quale sarebbe la sua connessione a principi o istituti<br />

di carattere generale, idoneo a giustificare una tale distinzione ed un tale diffe-


AZIONE DI RESPONSABILITÀ ERARIALE PER DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A. 299<br />

renziato trattamento (salvi invece, ovviamente, i casi in cui sia stata pronunciata<br />

sentenza).<br />

Né, di fronte alla inequivocabile delimitazione legislativa, pare davvero sostenibile<br />

l’estensione dell’ambito di azione della Procura anche a fattispecie di reato<br />

ulteriori rispetto a quelle espressamente contemplate.<br />

Ma, al di là di tutto questo, principalmente, non pare accettabile l’operazione<br />

ermeneutica che propugna letture «costituzionalmente orientate» della nuova normativa,<br />

tali da stravolgere le scelte del legislatore: in tal senso, non si può davvero<br />

non essere, quantomeno metodologicamente, d’accordo con la Sezione Giurisdizionale<br />

siciliana, laddove ha sottolineato (ord. 218/<strong>2009</strong> cit.) di non poter ritenere<br />

«che le disposizioni legislative in discussione, per evitare censure di illegittimità, possano<br />

essere interpretate secundum costitutionem dal momento che la chiara dizione<br />

del testo, volta a sottrarre alla giurisdizione della Corte dei Conti alcune ipotesi di<br />

danno all’immagine, non consenta ulteriori opzioni ermeneutiche, a meno di una sostituzione<br />

arbitraria del decidente alla volontà espressa dal legislatore, con conseguente<br />

inammissibile invasione di competenze».<br />

Semmai, la ritenuta non conformità alla Costituzione dovrebbe condurre a sollevare<br />

la questione incidentale di legittimità costituzionale della nuova disciplina:<br />

come risulta che, allo stato abbiano fatto la Sezione Giurisdizionale per la Sicilia<br />

(con ordinanza n. 218 del 14 ottobre <strong>2009</strong>), la Sezione Giurisdizionale per la Campania<br />

(con ordinanza n. 377 del 27 ottobre <strong>2009</strong>) e la Sezione Giurisdizionale per<br />

l’Umbria (con ordinanza n. 20 del 16 novembre <strong>2009</strong>).<br />

La sentenza della Sezione Giurisdizionale del Veneto qui in commento, non ha<br />

invece, almeno per il momento, ritenuto di sollevare la questione, nella considerazione<br />

che le censure di legittimità costituzionale della norma «così come formulate<br />

dal Requirente», appaiono prive del requisito della non manifesta infondatezza.<br />

Così, nella sentenza della Sezione per il Veneto, vengono sintetizzate le censure<br />

formulate dalla Procura attrice: «In particolare, secondo la Procura, “risulta leso<br />

innanzitutto il principio di uguaglianza, ex art. 3, comma 1 Cost., in quanto l’applicazione<br />

della norma considerata riduce l’esercizio dell’azione del PM alla presenza di<br />

due presupposti: 1) l’esistenza di una sentenza irrevocabile di condanna pronunciata<br />

dal giudice penale; 2) la limitazione della tipologia di delitti contro la PA ai pubblici<br />

dipendenti indicati nell’articolo 7 della legge 97/2001, cioè nel capo 1 o del titolo 2 o<br />

del libro 2 o del codice penale, vale a dire i delitti previsti dall’art. 314 all’art. 335 bis<br />

c.p. Rispetto al secondo elemento, risulta escluso dall’azione contabile per danno all’immagine<br />

un vasto numero di delitti posti in essere da pubblici ufficiali, diversi da<br />

quelli espressamente indicati, anche quando la condanna penale concerna reati infamanti,<br />

tali da comportare un’interdizione dai pubblici uffici...(...) In sintesi, l’esclusione<br />

dall’azione contabile ed il diverso trattamento processuale dipenderebbero


300 GIURISPRUDENZA<br />

esclusivamente dalla collocazione della norma incriminatrice in articoli diversi da<br />

quelli richiamati dall’art. 7 della legge 97/2001”.<br />

La norma sarebbe “altresì in contrasto con l’art. 24, comma 1 Cost., in quanto<br />

impedisce al PM contabile di agire in giudizio per numerosi illeciti riguardanti danni<br />

all’immagine, cagionati da agenti pubblici in pregiudizio di pubbliche amministrazioni,<br />

in base ad una previsione limitata ed arbitraria del legislatore d’urgenza”.<br />

Parimenti, sarebbe violato l’art. 97 Cost., poiché il buon andamento della PA<br />

verrebbe “sostanzialmente compresso dalla restrizione dell’attività giurisdizionale<br />

del PM per le ragioni appena considerate”.<br />

Ancora, risulterebbero “ingiustificatamente ridotti i poteri di indagine del PM<br />

contabile”, sotto il profilo della sua autonomia, garantita dall’art. 108 Cost., e dell’ambito<br />

operativo nelle materie di contabilità pubblica ai sensi dell’art. 103 Cost.<br />

Infine, verrebbe violato il principio della ragionevole durata del processo, ex art. 111,<br />

comma 2 Cost., in quanto verrebbe consentito al PM contabile l’apertura dell’istruttoria<br />

a seguito della comunicazione ex art. 129 c.p.p., ma l’effettivo esercizio dell’azione contabile<br />

per il danno all’immagine rimarrebbe sospeso in attesa di una sentenza di condanna<br />

penale irrevocabile. Di fatto, la norma censurata avrebbe finito col reintrodurre la cd.<br />

pregiudiziale penale, provocando un allungamento dei tempi processuali».<br />

La Sezione non ha reputato di poter condividere dette censure ai fini della proposizione<br />

della questione incidentale di costituzionalità.<br />

Effettivamente, come ha affermato la Sezione, la Corte Costituzionale ha più<br />

volte riconosciuto la possibilità per il legislatore, con l’unico limite della non irragionevolezza<br />

e non arbitrarietà, di stabilire quali comportamenti possano costituire<br />

titolo di reponsabilità, quale sia il grado della colpa richiesto, ed a quali soggetti,<br />

in astratto, la responsabilità possa essere ascritta. In tale ordine di considerazioni,<br />

dice la Sezione, la scelta del legislatore non può reputarsi ex se irragionevole o<br />

arbitraria, essendo del resto le ipotesi delittuose contemplate nella nuova normativa<br />

quelle che più intensamente e significativamente, per essere intrinsecamente ed<br />

ontologicamente connesse con lo svolgimento di pubbliche funzioni, incidono sull’immagine<br />

della pubblica amministrazione.<br />

Questo dunque potrebbe ragionevolmente giustificare la scelta del legislatore<br />

di escludere dalla sottoposizione alla giurisdizione contabile per danno all’immagine<br />

tutte quelle ipotesi non configuranti reato, e, tra i reati, di includervi solo<br />

quelle ipotesi, più gravi e rilevanti per il pregiudizio recato all’immagine della p.a.,<br />

relative ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (Capo I,<br />

Titolo II, Libro II cod. pen.).<br />

La violazione dei principi di cui all’art. 3, 1 o comma, Cost. denunciata dalla<br />

Procura non appare pertanto convincente, e per altro verso neppure rilevante, laddove<br />

si disquisisce del trattamento differenziato tra alcune ed altre ipotesi di reato,


AZIONE DI RESPONSABILITÀ ERARIALE PER DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A. 301<br />

posto che nella concreta fattispecie il fatto generatore della responsabilità non<br />

configurava alcun reato.<br />

Neppure le ulteriori censure sollevate dalla Procura sono apparse convicenti.<br />

Non quella riguardante la pretesa violazione dell’art. 24 Cost. e dell’art. 103, comma<br />

2 Cost., dato che come giustamente ha osservato la Sezione, da un lato, il lamentato<br />

impedimento della Procura contabile ad agire per il danno all’immagine discende<br />

dal contenuto della nuova disciplina, della quale non è stata argomentata la irragionevolezza<br />

o arbitrarietà, mentre, dall’altro lato, deve riconoscersi rimessa alla discrezionalità<br />

del legislatore, la concreta determinazione dell’ambito di esercizio della giurisdizione<br />

della Corte dei Conti nelle materie di contabilità pubblica, dovendo individuarsi<br />

in tale interpositio legislatoris, il limite funzionale delle attribuzioni giurisidizionali<br />

della Corte dei Conti (vedi Corte Cost. n. 129/1981; n. 641/1987; n. 371/1998).<br />

Non quella riguardante la pretesa violazione dell’art. 97 Cost., atteso che, come<br />

effettivamente più volte ha ribadito la Corte Costituzionale, i principi dell’art.<br />

97 non impingono all’esercizio della funzione giurisdizionale, e dunque non se ne<br />

può censurare la violazione con riguardo a prtese restrizioni dell’attività giurisdizionale<br />

del P.M. contabile.<br />

Non quella riguardante la pretesa violazione dell’art. 108, comma 2 Cost., dato<br />

che, a prescindere dal fatto che si condividano o meno le scelte del legislatore, non<br />

pare che la nuova disciplina ponga in pericolo o pregiudichi l’autonomia della giurisdizione<br />

contabile, che anche dopo l’introduzione della nuova normativa, continua<br />

ad essere svolta solo sotto l’esclusivo imperio della legge (vedi al riguardo le<br />

decisioni della Corte Costituzionale citate dalla Sezione).<br />

Non infine quella riguardante la presunta violazione dell’art. 111 Cost., perché,<br />

come giustamente rileva la Sezione, la nuova normativa influisce sostanzialmente<br />

sull’attività istruttoria e pre-processuale, non assistita dalle garanzie dell’art.<br />

111 Cost., risultando tuttavia, per così dire, «protetta» dalla sospensione della prescrizione<br />

dell’azione erariale, espressamente prevista dalla nuova normativa, sino<br />

al maturarsi del presupposto di procedibilità dell’azione per il danno all’immagine,<br />

rappresentato dalla sentenza penale irrevocabile di condanna.<br />

Dalla sentenza in commento, non traspare, peraltro, una «chiusura» assoluta e<br />

totale ad una eventuale riconsiderazione della legittimità costituzionale della nuova<br />

normativa: si evidenzia però, piuttosto, lo scrupolo e la necessità che le censure<br />

di legittimità puntualizzino in modo adeguato i profili di irrazionalità ed arbitrarietà<br />

della nuova disciplina, e ciò ad evitare che la proposizione della questione incidentale<br />

di costituzionalità possa configurarsi come sostanziale sovrapposizione<br />

di una «scelta» della giurisdizione alla scelta del legislatore.<br />

Vittorio Fedato


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LE LEGGI REGIONALI DEL TRIVENETO<br />

A CONFRONTO<br />

1. La L.R.V. n. 14/<strong>2009</strong>: genesi e ratio<br />

La L.R. veneta n. 14/<strong>2009</strong>, intitolata «Intervento regionale a sostegno del settore<br />

edilizio per favorire l’utilizzo della edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale<br />

12 <strong>luglio</strong> 2007 n. 16 in materia di barriere architettoniche», è stata approvata<br />

nel solco dell’Intesa promossa dall’Esecutivo ai sensi dell’art. 8, comma 6, L. n.<br />

131/2003 in sede di Conferenza Unificata Stato – Regioni – Enti Locali e finalizzata<br />

ad approntare una risposta immediata alla crisi che ha investito tutti i settori<br />

produttivi e, principalmente, quello edilizio ( 1 ).<br />

Tale Intesa, sottoscritta il 31 marzo <strong>2009</strong>, ha comportato l’assunzione, da parte<br />

delle Regioni ( 2 ), dell’impegno ad emanare nei tre mesi successivi leggi che<br />

avrebbero dovuto ispirarsi preferibilmente ad una serie di obiettivi individuati<br />

dall’Intesa medesima e volti a «favorire il rilancio dell’economia, rispondere anche<br />

ai bisogni abitativi delle famiglie, introdurre incisive misure di semplificazio-<br />

( 1 ) In realtà, già il 10 marzo <strong>2009</strong> la Giunta regionale del Veneto, con DGR n. 5/DDL, aveva approvato<br />

un disegno di legge intitolato «Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per promuovere le<br />

tecniche di bioedilizia e l’utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili». Si trattava di un progetto<br />

conciso – solo nove articoli – volto a concedere un premio di cubatura, in deroga agli strumenti urbanistici<br />

e territoriali vigenti, riconoscibile sia alle case di abitazione sia agli edifici con destinazioni d’uso diverse.<br />

Il testo, trasmesso al Consiglio regionale, è stato esaminato dalla seconda Commissione consiliare e inviato,<br />

dopo essere stato in parte modificato, all’Aula.<br />

La definitiva approvazione è avvenuta nella seduta del 1 <strong>luglio</strong> <strong>2009</strong> quindi la legge è stata pubblicata<br />

sul Bollettino Ufficiale della Regione Veneto n. 56 del 10 <strong>luglio</strong> <strong>2009</strong> e, in conformità con la dichiarazione<br />

d’urgenza contenuta nell’art. 13 L. cit., è entrata in vigore l’11 <strong>luglio</strong>.<br />

( 2 ) L’unica eccezione è rappresentata dalla Provincia autonoma di Trento che ha rifiutato di aderire<br />

all’Intesa Stato – Regioni – Enti Locali ed ha invece preferito fronteggiare la crisi del settore edilizio con<br />

provvedimenti ispirati ad una filosofia differente e riconducibile alla concessione di contributi in conto capitale<br />

e interessi fino al 35% della spesa. Somme utilizzabili non solo per la ristrutturazione ma anche per<br />

ampliamenti, demolizioni, ricostruzioni e per l’acquisto degli immobili. Si veda, in proposito, la L.P. Trento<br />

n. 2/<strong>2009</strong> come integrata dalla Delibera di Giunta n. 814/<strong>2009</strong>.


304 GIURISPRUDENZA<br />

ne procedurale dell’attività edilizia» ( 3 ).<br />

Questi i cardini dell’intervento individuati in quella sede:<br />

– incremento volumetrico fino al 20% per i soli edifici residenziali uni- bifamiliari<br />

o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi per un incremento<br />

complessivo massimo di 200 metri cubi, fatte salve diverse determinazioni<br />

regionali;<br />

– bonus volumetrico del 35% della volumetria esistente in caso di demolizione<br />

e ricostruzione di edifici a destinazione residenziale, ferma restando, ancora<br />

una volta, l’autonomia legislativa regionale con riferimento ad altre tipologie di intervento;<br />

– introduzione di forme semplificate per l’attuazione degli interventi di ampliamento<br />

e ricostruzione. Forme che non vengono individuate a priori ma di cui<br />

viene richiesta la conformità ai principi della legislazione urbanistica ed edilizia e<br />

della pianificazione comunale;<br />

– esclusione per gli edifici abusivi e per quelli situati nei centri storici e in<br />

aree di inedificabilità assoluta;<br />

– validità temporalmente definita delle adottande leggi regionali, non superiore<br />

a 18 mesi, salva diversa determinazione.<br />

Il tutto demandando alle singole Regioni la facoltà di individuare ambiti di<br />

esclusione/limitazione degli interventi – in riferimento alla necessità di tutelare i<br />

beni culturali e le aree di pregio ambientale e paesaggistico – ovvero ambiti in cui i<br />

medesimi interventi potessero essere incentivati anche allo scopo di riqualificare<br />

aree urbane degradate.<br />

Salva – ovviamente – ogni prerogativa costituzionale delle Regioni a statuto<br />

speciale e delle Province autonome ( 4 ).<br />

Questa Intesa dunque, forte dell’accordo politico che la sostiene e del preciso<br />

impegno assunto dalle Regioni, parrebbe sostanziare quella disciplina di principio<br />

che l’art. 117, comma 3, Cost. richiede quando dispone che la materia «governo<br />

del territorio», in quanto materia rientrante nella competenza legislativa concorrente<br />

Stato - Regioni, deve vedere la (pre)determinazione di principi fondamentali,<br />

riservata alla legislazione statale ( 5 ).<br />

( 3 ) Così l’incipit del testo dell’Intesa sottoscritta il 31 marzo <strong>2009</strong> in sede di Conferenza Unificata Stato<br />

– Regioni – Enti Locali di cui all’art. 8, comma 6, L. n. 131/2003.<br />

( 4 ) L’Intesa prevedeva anche che l’Esecutivo avrebbe dovuto emanare entro dieci giorni dalla sottoscrizione<br />

dell’accordo un decreto - legge, dal contenuto concordato con le Regioni e le autonomie locali,<br />

allo scopo di semplificare le procedure di competenza esclusiva dello Stato in materia edilizia. Avrebbe dovuto<br />

avviare anche uno studio di fattibilità per un piano casa nazionale.<br />

( 5 ) Così F. Rocco, Gli interventi per favorire il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente, Relazione<br />

al Convegno di Studio sul tema Profili di straordinarietà della nuova legge regionale n. 14/09 a sostegno<br />

del settore edilizio organizzato dall’Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti, Castelfranco Veneto,


PIANO - CASA: LE LEGGI REGIONALI DEL TRIVENETO A CONFRONTO 305<br />

In questo contesto, le singole Regioni ( 6 ) si sono dotate di proprie leggi regionali<br />

in materia, leggi tra loro assai differenziate – attesa la facoltà riconosciuta al legislatore<br />

regionale dall’Intesa del 31 marzo di potersi ispirare solo preferibilmente<br />

ai contenuti della stessa – tanto da avere creato quello che è stato definito un vero<br />

e proprio puzzle regionale ( 7 ).<br />

Tra le altre, la L.R. Veneta n. 14/<strong>2009</strong>, così come specificata da una serie di<br />

provvedimenti successivamente emanati tra cui la L.R. n. 26/<strong>2009</strong>, Modifica di leggi<br />

regionali in materia urbanistica ed edilizia, che ha ritoccato alcune norme e ha<br />

dettato un interpretazione autentica delle nozioni di prima abitazione del proprietario<br />

ediprima casa di abitazione ( 8 )( 9 ).<br />

Specificazione, questa, quanto mai importante nella disciplina veneta di cui<br />

trattasi considerato che solo gli interventi relativi alla prima casa di abitazione, come<br />

si vedrà, sono immediatamente realizzabili e costituiscono il nucleo duro, necessario<br />

ed inderogabile della legge, sottratto al vaglio dei vari Consigli comunali<br />

( 10 ).<br />

Tutti questi provvedimenti, ed in particolare la Circolare interpretativa n.<br />

4/<strong>2009</strong>, pubblicata sul Bur n. 82 del 6 ottobre <strong>2009</strong>, vanno a precisare la reale por-<br />

20 novembre <strong>2009</strong>. Solleva invece perplessità circa la possibilità di demandare la determinazione dei principi<br />

fondamentali, anziché a legge statale, ad una mera intesa che si sostanzia in un accordo tra Enti pubblici,<br />

V. Italia, richiamato in nota da M. Bassani, Commento al piano casa in Lombardia, inUrbanistica e<br />

Appalti, n. 11/<strong>2009</strong>. Anche B. Barel - V. Fabris (a cura di), Il piano casa del Veneto. La legge della Regione<br />

Veneto 8 <strong>luglio</strong> <strong>2009</strong>, n. 14, Ed. Corriere del Veneto, Padova, <strong>2009</strong>, pag. 20, dopo aver ricordato la necessità<br />

di una determinazione di principio affidata alla legislazione statale giusta il disposto dell’art. 117,<br />

comma 3, Cost., riconoscono che «le iniziative a livello regionale si sono concretizzate [...] avendo a riferimento<br />

il quadro piuttosto blando ed elastico dell’Intesa del 31 marzo <strong>2009</strong>».<br />

Ciò, in ogni caso, non toglie che le Regioni, nel legiferare, abbiano tenuto ben fermo il contenuto dell’Intesa<br />

come conferma, tra le altre, la L.R. Lombardia n. 13/<strong>2009</strong> che, all’art. 1, afferma di promuovere<br />

un’azione straordinaria per valorizzare ed utilizzare al massimo il patrimonio edilizio - urbanistico anche in<br />

attuazione dell’Intesa espressa dalla Conferenza Unificata.<br />

( 6 ) Risultano da approvare al 3 <strong>dicembre</strong> <strong>2009</strong> le leggi delle Regioni Campania, Molise, Calabria e Sicilia.<br />

Fonte: La Repubblica, Giovedì 3 <strong>dicembre</strong> <strong>2009</strong>.<br />

( 7 ) B.L. Mazzei, Puzzle regionale per i premi del piano casa,inIl Sole 24ore, 9 agosto <strong>2009</strong>, pag. 3.<br />

( 8 ) Questa legge ha ancorato la nozione di prima casa alla semplice residenza, sottraendo ogni diversa<br />

potestà decisoria alle Amministrazioni comunali. Si trattava di un punto molto controverso e di un problema<br />

particolarmente sentito da quei Comuni dei luoghi di villeggiatura che sostenevano che una simile definizione<br />

avrebbe favorito non solo l’edilizia di necessità ma anche tutte le altre abitazioni.<br />

( 9 ) Si ricordino anche la DGR del 4 agosto <strong>2009</strong>, n. 2499 che integra, per gli interventi straordinari ed<br />

in deroga, le linee guida regionali in materia di edilizia sostenibile; la DGR del 4 agosto <strong>2009</strong>, n. 2508 che<br />

definisce più precisamente caratteristiche e dimensioni delle tettoie e delle pensiline per l’installazione di<br />

impianti solari e fotovoltaici di cui all’art. 5 L. cit.; la DGR del 22 settembre <strong>2009</strong>, n. 2797 con cui è stata<br />

approvata la Circolare interpretativa n. 4/<strong>2009</strong> che ha fornito criteri di applicazione e interpretazione della<br />

legge regionale sul piano - casa.<br />

( 10 ) È la stessa Circolare cit. ad affermare che «la L.R. 14/<strong>2009</strong> si articola in due parti: l’una, necessaria<br />

e inderogabile, relativa alla prima casa, di operatività immediata e generalizzata, l’altra flessibile ed eventuale,<br />

rimessa alle scelte di ciascun Comune e variamente modellabile entro i parametri ed i criteri fissati dalla Regione».


306 GIURISPRUDENZA<br />

tata dettata dalla disciplina regionale del piano - casa. Invero essa non vuole assumere<br />

la valenza e le caratteristiche di un piano urbanistico ma, più semplicemente,<br />

quelle di una legge finalizzata al rilancio dell’attività edilizia, di una «legge economico<br />

- finanziaria che mira a promuovere gli investimenti privati per il recupero e la<br />

riqualificazione del patrimonio edilizio esistente nel territorio regionale, in modo generalizzato<br />

e capillare, attraverso microinterventi idonei ad alimentare soprattutto il<br />

mercato delle piccole e medie imprese del settore edilizio»( 11 ).<br />

Ora, questa precisazione è sicuramente importante perché dà l’impostazione<br />

ermeneutica generale che l’interprete deve adottare nel leggere le disposizioni della<br />

legge. Anche in quest’ottica, coerentemente, la Circolare ha chiarito che non è<br />

possibile utilizzare la normativa del piano casa per sanare immobili o porzioni di<br />

immobili realizzati in modo abusivo ( 12 ). Infatti, se la ratio della legge è nel senso<br />

di favorire nuovi interventi edilizi, è evidente che ammettere la possibilità di utilizzare<br />

la legge stessa per legittimare a posteriori immobili già costruiti in maniera<br />

abusiva non corrisponderebbe per nulla allo scopo del legislatore regionale.<br />

Su questa linea generale del massimo favor per l’edilizia, dunque, la legge regionale<br />

veneta non solo dà attuazione alle previsioni dell’Intesa Stato - Regioni ma<br />

addirittura va oltre le stesse per diversi aspetti, per esempio prevedendo interventi<br />

straordinari in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti<br />

urbanistici per tutte le destinazioni d’uso, e non solo per quella residenziale, o, ancora,<br />

dettando una serie di disposizioni a regime e non limitate temporalmente<br />

nella loro vigenza.<br />

Ancora.<br />

Nell’impostazione del legislatore veneto l’utilizzo di tecnologie che prevedano<br />

l’uso di fonti di energia alternativa rinnovabile è semplicemente condizione per riconoscere<br />

un bonus ulteriore ma non si presenta come presupposto imprescindibile<br />

per il riconoscimento di qualsivoglia incremento volumetrico ( 13 ).<br />

( 11 ) Circolare n. 4 del 29 settembre <strong>2009</strong> pubblicata sul Bur n. 82 del 6 ottobre <strong>2009</strong>.<br />

( 12 ) Immobili del resto espressamente esclusi dall’ambito applicativo della legge de qua ai sensi dell’art.<br />

9, comma 1, lett. e), L.R. cit.<br />

( 13 ) Si veda l’art. 2, comma 5, L.R. cit., il quale prevede che «la percentuale del comma 1 [pari al 20%<br />

del volume se si tratta di edifici residenziali; della superficie coperta se di edifici adibiti ad uso diverso] è<br />

elevata di un “ulteriore” 10% nel caso di utilizzo di tecnologie che prevedano l’uso di fonti di energia rinnovabile<br />

con una potenza non inferiore a 3 Kwh, ancorché già installati».<br />

Bisogna tuttavia ricordare come anche il legislatore veneto dimostri una particolare sensibilità per il tema<br />

dell’energia rinnovabile atteso il disposto dell’art. 5 L.R. cit. che prevede come, in presenza di particolari<br />

condizioni, non concorrano a formare cubatura le pensiline e le tettoie realizzate su abitazioni esistenti<br />

alla data di entrata in vigore della legge e destinate all’installazione di impianti solari e fotovoltaici. Previsione<br />

questa di favore anche considerato il fatto che il richiamato art. 5 si presenta come norma a regime<br />

ossia non soggetta a nessun limite temporale di efficacia diversamente dalle norme costituenti propriamente<br />

il piano - casa (artt. 2, 3, 4).


PIANO - CASA: LE LEGGI REGIONALI DEL TRIVENETO A CONFRONTO 307<br />

In questo la legge veneta si differenzia da altre realtà regionali e, segnatamente,<br />

da quella delineata dal piano - casa della Provincia autonoma di Bolzano ( 14 ).<br />

Infatti, la disciplina dettata dalla Provincia autonoma di Bolzano non è tanto<br />

volta ad incentivare l’attività edificatoria sul territorio quanto, piuttosto, a favorire<br />

la riqualificazione energetica degli edifici esistenti con conseguente limitazione degli<br />

interventi edificatori consentiti.<br />

Mentre l’Intesa e la maggior parte delle leggi regionali, quella veneta compresa,<br />

prevedono di regola una duplice tipologia di interventi ammissibili – vale a dire<br />

gli ampliamenti tout court, da un lato, e gli ampliamenti collegati all’integrale demolizione<br />

e successiva ricostruzione, dall’altro –, la Provincia di Bolzano riconosce<br />

solo interventi di ampliamento su immobili legittimamente edificati ad uso residenziale<br />

per oltre il 50% con cubatura di almeno 300 metri cubi ( 15 ). Non è ammesso,<br />

invece, l’ampliamento a seguito di integrale demolizione e ricostruzione se<br />

non nel caso in cui si demolisca parzialmente meno della metà dell’edificio complessivamente<br />

considerato.<br />

In ogni caso – ed è il profilo che si vuole sottolineare – costituisce presupposto<br />

di ammissibilità dell’intervento che l’immobile venga riqualificato energeticamente<br />

secondo lo standard casa - clima C ovvero che tale standard già sia soddisfatto<br />

con ciò evidenziando la precipua finalità di perseguire un obiettivo sia di efficienza<br />

energetica che di sostenibilità ambientale più che di rilancio edilizio.<br />

2. Gli interventi ammessi: gli ampliamenti tout court<br />

Come anticipato, il Consiglio regionale del Veneto ha previsto incrementi volumetrici<br />

puri e semplici e ampliamenti collegati alle ipotesi di integrale demolizione<br />

e ricostruzione. In entrambi i casi l’intervento è ammesso sia su edifici residenziali<br />

che su immobili a destinazione diversa.<br />

L’art. 2, L.R. cit., relativo alla prima tipologia di intervento straordinario individuato,<br />

ammette «l’ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20% del volume<br />

se destinati ad uso residenziale e del 20% della superficie coperta se adibiti ad<br />

uso diverso». In entrambe le ipotesi, poi, è previsto un incentivo ulteriore nel caso<br />

( 14 ) La Provincia autonoma di Bolzano ha adottato il proprio piano casa con DGP n. 1609 del 15 giugno<br />

<strong>2009</strong>.<br />

( 15 ) In assenza di specificazioni si può allora ritenere che possono essere ampliate tutte le tipologie di<br />

edifici abitativi siano essi uni o bifamiliari, case a schiera o condomini, anche quando una quota dell’immobile<br />

sia destinata ad uso diverso dal residenziale purché inferiore alla metà. Restano esclusi gli immobili<br />

con destinazione industriale - artigianale e, questo, in linea con la maggior parte delle leggi regionali eccezion<br />

fatta come visto per il Veneto.


308 GIURISPRUDENZA<br />

di utilizzo di tecnologie che prevedono l’uso di fonti di energia rinnovabile ( 16 ).<br />

Intervento premiale che trova applicazione anche per edifici non ancora costruiti<br />

purché il relativo progetto o la richiesta del titolo abilitativo edilizio siano<br />

stati presentati al Comune interessato entro il 31 marzo <strong>2009</strong> (art. 9, comma 6,<br />

L.R. cit.).<br />

La norma dunque è molto lata non ponendo alcun limite alla tipologia edilizia<br />

delle costruzioni su cui è possibile intervenire: come per la Provincia di Bolzano<br />

( 17 ), quindi, si deve concludere che potrà trattarsi sia di edifici unifamiliari che bifamiliari;<br />

case a schiera e condomini.<br />

E ad una medesima conclusione si deve addivenire anche con riguardo al piano<br />

- casa licenziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia che ammette ampliamenti<br />

fino ad un massimo di 200 metri cubi di volume utile con riguardo a fabbricati<br />

aventi qualsiasi destinazione d’uso ( 18 ).<br />

Dunque, il Triveneto si caratterizza, almeno a livello regionale, per previsioni<br />

volte a garantire al massimo le possibilità di un rilancio del settore edilizio salve,<br />

ovviamente, le diverse determinazioni che saranno assunte in ambito comunale<br />

posto che i Comuni, entro un termine fissato, dovranno pronunciarsi in merito ad<br />

eventuali ulteriori limiti ( 19 ).<br />

Si rendono tuttavia necessarie alcune precisazioni.<br />

La L.R.V., pur non dettando limiti espressi con riferimento alle tipologie edilizie<br />

interessate, chiarisce all’art. 2, comma 4, che «in caso di edifici composti da più<br />

unità immobiliari l’ampliamento può essere realizzato anche separatamente per ciascuna<br />

di esse, compatibilmente con le leggi che disciplinano il condominio di edifici,<br />

fermo restando il limite complessivo stabilito dal comma 1 [del 20%]. In ipotesi di<br />

case a schiera l’ampliamento è ammesso qualora venga realizzato in maniera uniforme<br />

con le stesse modalità su tutte le case appartenenti alla schiera».<br />

( 16 ) Si veda la nota 14.<br />

( 17 ) Si veda la nota 15.<br />

( 18 ) Il Friuli Venezia Giulia ha approvato la L.R. n. 19/<strong>2009</strong>, pubblicata sul Bur di quella Regione il 18<br />

novembre <strong>2009</strong>, con cui si è modificata la disciplina urbanistico – edilizia e si è adottato un codice regionale<br />

dell’edilizia. Con l’occasione, è stato dedicato un Capo apposito – il VII – della L.R. alla riqualificazione<br />

del patrimonio edilizio esistente così recependo l’Intesa del 31 marzo <strong>2009</strong>. Il nuovo corpus normativo entra<br />

in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione sul Bur della legge in parola con l’unica eccezione<br />

delle disposizioni incentivanti del Capo VII, entrate in vigore il giorno successivo alla pubblicazione<br />

analogamente alla L.R.V. n. 14/<strong>2009</strong>.<br />

( 19 ) La normativa della Provincia autonoma di Bolzano assegna, infatti, la facoltà ai Comuni di intervenire<br />

entro 30 giorni dall’entrata in vigore della stessa per indicare ulteriori ambiti in cui l’incremento volumetrico<br />

sia escluso e per elevare fino al 75% la percentuale di destinazione abitativa degli edifici; la L.R.V.<br />

n. 14/<strong>2009</strong>, art. 9, comma 5, assegna alle Amministrazioni comunali il termine del 30 ottobre <strong>2009</strong> per deliberare<br />

«se e con quali limiti ulteriori e modalità applicare la normativa di cui agli articoli 2,3e4».<br />

Nessun intervento comunale invece è ammesso dalla legge del Friuli Venezia Giulia evidentemente con<br />

lo scopo di non creare diversità di regime sul territorio regionale.


PIANO - CASA: LE LEGGI REGIONALI DEL TRIVENETO A CONFRONTO 309<br />

Seconda parte che – sembra a chi scrive – introduce una limitazione con ricadute<br />

di non poco momento nell’ipotesi non di scuola che uno dei proprietari di<br />

una delle case costituenti la schiera non ritenga di usufruire delle possibilità concesse<br />

della legge: dal tenore letterale parrebbe doversi desumere che nessun altro<br />

proprietario è ammesso ad ampliare la sua porzione per mancanza della richiesta<br />

uniformità ( 20 ). Con riflessi negativi in punto di uguaglianza.<br />

Un cenno merita poi la particolare tipologia di ampliamenti che potrebbero<br />

definirsi staccati, eccezionalmente prevista dall’art. 2, comma 2, L.R.V. che non<br />

trova conformi previsioni nelle normative di altre Regioni.<br />

L’art. 2, comma 2, richiamato prevede che «l’ampliamento deve essere realizzato<br />

in aderenza rispetto al fabbricato esistente o utilizzando un corpo edilizio contiguo<br />

già esistente ( 21 ); ove ciò non risulti possibile oppure comprometta l’armonia estetica<br />

del fabbricato esistente può essere autorizzata la costruzione di un corpo edilizio separato,<br />

di carattere accessorio e pertinenziale».<br />

Dunque, il legislatore veneto, dopo aver dettato la regola generale dell’ampliamento<br />

in aderenza, stabilisce un’eccezione assai rilevante consentendo, oltre all’ampliamento<br />

contiguo, quello ottenuto mediante costruzione di un nuovo fabbricato.<br />

Tuttavia – a parere di chi scrive – questa previsione sembra destinata a determinare<br />

dubbi pratici ed applicativi non indifferenti considerato che il concetto di<br />

armonia estetica e la relativa valutazione al riguardo si connotano per un’alta discrezionalità<br />

che potrebbe condurre a contestazioni fra il privato richiedente e<br />

l’Ente locale.<br />

3. Segue: le demolizioni - ricostruzioni<br />

Passando alla seconda tipologia di intervento straordinario – ampliamento a<br />

seguito di integrale demolizione e ricostruzione –, l’art. 3, L.R. cit. promuove la<br />

sostituzione e il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente mediante la rico-<br />

( 20 ) La stessa Circolare n. 4/<strong>2009</strong> cit. chiarisce, con riguardo a questo punto, che la finalità ultima è<br />

quella di preservare l’armonia architettonica e formale dell’edificio mediante presentazione di un’istanza<br />

edilizia comune.<br />

( 21 ) Sempre la Circolare n. 4/<strong>2009</strong> cit. chiarisce che il termine aderenza va inteso come sinonimo di<br />

continuità edilizia e che, in tal senso, devono assimilarsi agli ampliamenti in aderenza anche quelli realizzati<br />

in appoggio o in sopraelevazione perché il concetto di contiguità va inteso nel senso che l’edificio sul quale<br />

si realizza l’ampliamento, ancorché non aderente, deve trovarsi in prossimità dell’edificio principale.<br />

In realtà, una lettura siffatta pare trascendere il portato normativo anche perché la fattispecie degli ampliamenti<br />

staccati con carattere accessorio e pertinenziale è già espressamente consentita dalla seconda<br />

parte della norma.


310 GIURISPRUDENZA<br />

struzione di edifici – legittimi o legittimati ex post ( 22 ) – purché anteriori al 1989 e<br />

che necessitino di essere adeguati agli attuali standard qualitativi, architettonici,<br />

energetici, tecnologici e di sicurezza.<br />

In tali casi sono consentiti aumenti di volume fino al 40% della cubatura esistente<br />

per le abitazioni e della superficie coperta per gli edifici con diversa destinazione<br />

d’uso purché situati in zona territoriale propria e solo se per la ricostruzione<br />

vengano utilizzate le tecniche costruttive della L.R. n. 4/2007 ( 23 ).<br />

Percentuale elevabile al 50% nel caso di ricomposizione planivolumetrica diversa.<br />

Infine, bisogna ricordare la possibilità di applicazione della normativa nell’ipotesi<br />

di edificio già demolito o in corso di demolizione in forza di regolare titolo<br />

abilitativo: se, all’entrata in vigore della legge (11 <strong>luglio</strong> <strong>2009</strong>), la ricostruzione non<br />

è ancora avvenuta, sarà possibile richiedere una variante in corso d’opera per realizzare<br />

l’ampliamento di cui si è detto.<br />

Già si è avuto modo di dire come Bolzano non riconosca interventi di<br />

demolizione/ricostruzione ( 24 ), quanto al Friuli Venezia Giulia le differenze si riscontrano<br />

sugli edifici ammessi e sulle percentuali di incremento volumetrico consentito.<br />

L’art. 58 della L.R. Friuli Venezia Giulia cit., nel riferirsi alla ristrutturazione<br />

(che equivale, a parte la terminologia, all’ipotesi di demolizione/ricostruzione),<br />

ammette all’intervento gli edifici esistenti al 19 novembre <strong>2009</strong>, con qualsiasi destinazione<br />

d’uso, prevedendo una percentuale di ampliamento fino al 35% del volume<br />

utile esistente e consentendo una sopraelevazione fino a due piani comunque<br />

non superiore ai 6 metri.<br />

Si aggiunga, infine, che la L.R. veneta, con una previsione espressa che ancora<br />

una volta non trova immediato riscontro in altre leggi regionali, detta un apposito<br />

articolo relativo agli interventi per la riqualificazione degli insediamenti turistico –<br />

ricettivi.<br />

L’art. 4, L.R. cit., infatti, ammette un ampliamento, fino ad un massimo del<br />

20%, di alcune particolari tipologie di attrezzature all’aperto considerate dagli<br />

allegati alla L.R. n. 33/2002: si tratta di stabilimenti balneari con strutture fisse<br />

( 22 ) Anche Bolzano e il Friuli Venezia Giulia ammettono, in generale, interventi su edifici esistenti debitamente<br />

approvati o in via preventiva o a posteriori come nel caso di cd. sanatoria ordinaria (accertamento<br />

di conformità) o nel caso di legittimazione straordinaria in forza di leggi di condono.<br />

Diverso, invece, l’atteggiamento di altre Regioni, come Toscana ed Umbria, che espressamente hanno<br />

stabilito la non applicazione del piano - casa agli edifici privi di titolo abilitativo per i quali si sia fatto ricorso<br />

al condono edilizio.<br />

( 23 ) È poi rimesso alla Giunta regionale il compito di intervenire entro 60 giorni dall’entrata in vigore<br />

della legge per graduare la volumetria assentibile in ampliamento.<br />

( 24 ) Si veda, più sopra, pag. 4.


PIANO - CASA: LE LEGGI REGIONALI DEL TRIVENETO A CONFRONTO 311<br />

e delle infrastrutture private adibite a campeggio, impianto sportivo o ricreativo.<br />

La norma in esame non specifica se sussista o meno la possibilità di cumulare<br />

l’ampliamento ivi previsto con gli incentivi dell’art. 2 e dell’art. 3 ma la Circolare<br />

n. 4/<strong>2009</strong> cit. ha precisato che l’incremento dell’art. 4 è riferito esclusivamente agli<br />

spazi scoperti e alle attrezzature all’aperto così riconoscendo l’applicabilità degli<br />

artt. 2e3agli eventuali edifici che si trovino sul medesimo sito.<br />

Con ciò evidenziando, ancora una volta, la finalità spiccatamente edificatoria<br />

della L.R. che abbiamo già avuto modo di sottolineare più sopra ( 25 ).<br />

4. L’efficacia temporale delle previsioni<br />

Ebbene, gli articoli 2, 3e4L.R.V. n. 14/<strong>2009</strong>, costituenti il nucleo della disciplina<br />

sul piano - casa ( 26 ), si presentano come norme straordinarie, come tali<br />

destinate ad operare per un periodo di tempo limitato. Infatti, a mente dell’art.<br />

9, comma 7, della medesima legge, gli interventi previsti da quelle norme sono<br />

consentiti solo a chi proponga l’istanza entro 24 mesi dall’entrata in vigore della<br />

legge ( 27 ).<br />

Conseguentemente, anche altre norme, collegate agli articoli richiamati, subiranno<br />

gli stessi limiti temporali come l’art. 6, sul procedimento da utilizzare, gli<br />

artt. 7 e 11, relativi a contributi di costruzione, e l’art. 8, sull’elenco comunale degli<br />

interventi.<br />

Diversa invece la sorte di altre disposizioni che si presentano come norme a regime,<br />

destinate a trovare applicazione nell’ordinamento regionale a tempo inde-<br />

( 25 ) Finalità ancor più accentuata se si considera che non è stabilito alcun limite alla cumulabilità degli<br />

incrementi previsti dagli artt. 2, 3e4conaltri potenziali incrementi di cubatura eventualmente derivanti<br />

da altre e diverse disposizioni. Un unico limite: l’obbligo, ai sensi dell’art. 2, comma 3, L.R.V. cit., di computare<br />

nella volumetria massima ampliabile il recupero dei sottotetti esistenti al 31 marzo <strong>2009</strong> aventi le<br />

caratteristiche poste dalla L.R.V. n. 12/1999 e non costituenti oggetto di contenzioso.<br />

Diverso, invece, l’atteggiamento di altre Regioni, per esempio Toscana ed Umbria, che hanno vietato il<br />

cumulo degli incentivi del piano - casa con quelli eventualmente consentiti dagli strumenti urbanistici comunali<br />

o da norme regionali.<br />

( 26 ) Gli interventi previsti dagli articoli richiamati, in ogni caso, non possono comportare una modifica<br />

nella destinazione d’uso degli edifici tranne nell’ipotesi di ampliamento realizzato mediante l’utilizzo di un<br />

corpo edilizio contiguo già esistente giusta il disposto dell’art. 9, comma 2, L.R. n. 14/<strong>2009</strong>.<br />

( 27 ) B. Barel - V. Fabris (a cura di), Il piano casa, cit., pag. 29, sottolineano come «il termine di scadenza<br />

così indicato non determina la perdita di efficacia delle disposizioni richiamate bensì delimita le iniziative<br />

edilizie da considerare iniziate in tempo utile per godere dei benefici della legge speciale».<br />

Del resto, anche la Circolare n. 4/<strong>2009</strong> cit. chiarisce che, proprio per il suo carattere straordinario, la<br />

nuova disciplina ha una durata limitata a due anni dalla entrata in vigore anche se gli effetti si produrranno<br />

per l’intero arco di validità dei titoli abilitativi degli interventi.


312 GIURISPRUDENZA<br />

terminato: l’art. 5, sugli interventi per favorire l’installazione di impianti solari e<br />

fotovoltaici ( 28 ), l’art. 10, sulla ristrutturazione edilizia, e l’art. 12 di modifica a leggi<br />

regionali sulle barriere architettoniche.<br />

Discorso più complesso per l’art. 9, che comprende in sé sia disposizioni temporalmente<br />

limitate, in quanto riferite agli artt. 2, 3e4,siadisposizioni a regime.<br />

Diversa, invece, la scelta in punto di efficacia temporale, operata dalla Regione<br />

Friuli Venezia Giulia che, senza fissare un limite di validità alla normativa del piano<br />

- casa, stabilisce senz’altro una scadenza all’inizio dei lavori concedendo, a tal<br />

fine, cinque anni (art. 58 L.R. Friuli Venezia Giulia).<br />

Molto più restrittiva la previsione della provincia di Bolzano che, pur aderendo<br />

alla medesima impostazione del Friuli Venezia Giulia, richiede che i lavori debbano<br />

risultare iniziati entro il 31 <strong>dicembre</strong> 2010 ( 29 ).<br />

Tuttavia, risulta di tutta evidenza il favor che il legislatore veneto ha per le norme<br />

del piano - casa e, segnatamente, per quelle relative alla prima casa di abitazione<br />

( 30 ).<br />

Ed infatti, l’art. 6, comma 1, L.RL. cit., all’opposto di quanto disposto dalla<br />

Provincia di Bolzano ed in linea con il Friuli Venezia Giulia, prevede che esse<br />

«prevalgono sulle norme dei regolamenti degli enti locali e sulle norme tecniche dei<br />

piani e regolamenti urbanistici contrastanti con esse»( 31 ).<br />

Ed ancora, con specifico riguardo alle disposizioni relative alla prima casa, la<br />

legge detta una particolare disciplina sia per la loro efficacia temporale sia per i<br />

poteri riconosciuti in materia alle Amministrazioni comunali ( 32 ).<br />

Invero, l’art. 9, comma 5, L.R.V. cit., dispone che i Comuni avrebbero dovuto<br />

deliberare entro il 30 ottobre <strong>2009</strong> «sulla base di specifiche valutazioni di carattere<br />

urbanistico, edilizio, paesaggistico ed ambientale, se o con quali ulteriori limiti e modalità<br />

applicare la normativa di cui agli articoli 2,3e4»( 33 ).<br />

( 28 ) Si veda la nota 13.<br />

( 29 ) Il Triveneto opta quindi per il riconoscimento di termini di validità, anche se operanti con criteri e<br />

modalità diverse, delle norme sul piano - casa. Diversa soluzione è stata invece adottata da altre Regioni<br />

come, per esempio, la Valle d’Aosta con la L.R. n. 24/<strong>2009</strong>. Infatti, il legislatore valdostano non ha fissato<br />

un termine finale di efficacia delle disposizioni del suo piano - casa ma le ha previste tutte a regime, benché<br />

applicabili una volta soltanto per ogni unità immobiliare.<br />

( 30 ) Si pensi anche alla previsione dell’art. 7, L.R. cit., che prevede un contributo di costruzione ridotto<br />

del 60% nell’ipotesi di edificio o unità immobiliare destinato a prima abitazione del proprietario o dell’avente<br />

titolo.<br />

( 31 ) Sono invece fatte salve le disposizioni in materia di distanze previste dalla normativa statale (art. 9,<br />

comma 8, L.R. n. 14/<strong>2009</strong>).<br />

( 32 ) Si veda la nota 19.<br />

( 33 ) Decorso inutilmente detto termine la medesima disposizione prevede la nomina di un commissario<br />

ad actum con il compito di convocare il Consiglio comunale entro e non oltre 10 giorni.


PIANO - CASA: LE LEGGI REGIONALI DEL TRIVENETO A CONFRONTO 313<br />

Così non è, però, per gli interventi di cui agli articoli2e3relativi alla prima casa<br />

di abitazione, che si applicano sin dall’entrata in vigore della legge ( 34 ).<br />

Dunque le disposizioni sulla prima casa hanno immediata efficacia, «indipendentemente<br />

dalla necessità di pronunciamento da parte del Comune che potrà decidere<br />

di non applicare o limitare le possibilità offerte dalla legge regionale eccettuata<br />

la disciplina della prima casa di abitazione»( 35 ).<br />

5. Le leggi del Triveneto: considerazioni finali<br />

Questa breve disamina delle leggi regionali del Triveneto dimostra come il filo<br />

rosso seguito dai diversi legislatori regionali sia il medesimo, vale a dire quello del<br />

massimo rilancio edilizio.<br />

Certo, come visto, le percentuali di bonus sono diverse ed in certe zone (essenzialmente<br />

la Provincia di Bolzano) sono ammessi solo interventi di ampliamento e<br />

non di demolizione – ricostruzione integrale.<br />

Ma ciò non toglie che l’idea di fondo che anima le leggi sia quella che si è individuata.<br />

E in questo contesto, la L.R. veneta si presenta sicuramente come una delle più<br />

ampie sia sotto il profilo del quantum percentuale degli incrementi di cubatura riconoscibili<br />

sia sotto quello della individuazione delle tipologie di intervento ammissibili.<br />

Come rilevato ( 36 ), la L.R.V. prevede, oltre alle ipotesi contemplate anche dalle<br />

altri leggi del Triveneto, un incentivo specifico per favorire la riqualificazione degli<br />

insediamenti turistico - ricettivi (art. 4 L.R. cit.).<br />

E tale previsione è particolarmente importante non solo per la sua novità ma<br />

( 34 ) Ovviamente sempre nel rispetto del campo di applicazione generale della normativa come individuato<br />

dall’art. 9, comma1e2,L.R. cit. In particolare, non sono ammessi interventi premiali, neppure a favore<br />

di prime case, su edifici che ricadano all’interno di centri storici; nelle aree di inedificabilità assoluta<br />

previste dall’art. 33 della prima legge sul condono edilizio n. 47/1985 o in quelle dichiarate inedificabili<br />

per sentenza o provvedimento amministrativo; in zone ad alta pericolosità idraulica e nelle quali non è consentita<br />

l’edificazione ai sensi del T.U. dell’ambiente. Precluso altresì intervenire su edifici vincolati come<br />

beni culturali ai sensi del Codice Urbani e su immobili oggetto di specifiche norme di tutela da parte degli<br />

strumenti urbanistici e territoriali; su immobili a destinazione commerciale se l’intervento è volto ad eludere<br />

o derogare disposizioni regionali in materia di programmazione, insediamento ed apertura di grandi<br />

strutture di vendita, centri e parchi commerciali. Infine, esclusi i fabbricati anche parzialmente abusivi soggetti<br />

ad obbligo di demolizione.<br />

Un elenco piuttosto ampio di esclusioni che trova pressoché corrispondenze in quasi tutte le leggi regionali<br />

sul piano - casa con l’eccezione della Provincia di Bolzano che si limita ad escludere le sole zone di<br />

verde alpino e di bosco.<br />

( 35 ) Così la Circolare n. 4/<strong>2009</strong>.<br />

( 36 ) Si veda pag. 7.


314 GIURISPRUDENZA<br />

soprattutto perché evidenzia la lungimiranza del legislatore veneto il quale, nel tutelare<br />

il settore edilizio, non ha dimenticato quello turistico.<br />

Ed invero, il turismo si presenta indubbiamente come uno dei motori di sviluppo<br />

che la Regione Veneto può e deve valorizzare nella situazione di crisi che ha<br />

investito l’economia e di cui tutti avvertiamo i segni. Crisi che impone di individuare<br />

non tanto soluzioni immediate e di breve durata ma piuttosto approcci<br />

strutturali, destinati a mantenere la loro efficacia nel lungo periodo.<br />

Anche in quest’ottica, quindi, sembra doversi leggere l’art. 4 L.R.V. che chiaramente<br />

considera le risorse turistiche e naturali della Regione come una delle<br />

possibilità di crescita da incentivare.<br />

E riconducibile a questa visione è pure l’art. 5 L.R. cit. relativo agli interventi<br />

per favorire l’installazione di impianti solari e fotovoltaici ( 37 ).<br />

Anche con tale disposto il legislatore veneto dimostra di avere la consapevolezza<br />

che qualsivoglia sviluppo edilizio, turistico, urbano in genere, deve avere come<br />

cardine la sostenibilità ambientale ( 38 ).<br />

Come evidenziato ( 39 ), la Provincia autonoma di Bolzano è su questo aspetto<br />

ancora più categorica nell’affermare l’irrinunciabilità della riqualificazione energetica,<br />

anche a spese di una ridotta edificabilità.<br />

Tuttavia – pare – il legislatore veneto ha saputo raggiungere un equilibrio tra<br />

questi profili che, in quanto tale, sembra poter garantire alla L.R.V. quel successo<br />

in cui confida il legislatore medesimo.<br />

Pur essendo questa, seppur a grandi linee, la disciplina generale dettata dal legislatore<br />

regionale veneto – e degli altri legislatori regionali del Triveneto –, è necessario<br />

attendere le determinazioni in merito che verranno adottate dai Comuni<br />

per poter verificare se il piano - casa abbia effettivamente conseguito i risultati<br />

sperati.<br />

In realtà, non sono pochi i Comuni che non hanno ancora deliberato se e come<br />

recepire la L.R. n. 14/<strong>2009</strong> ed è ipotizzabile che, quanti lo faranno, procederanno<br />

in modo diversificato, nell’esercizio della loro autonomia sicuramente legittima ma<br />

con ricadute di non poco momento sul territorio.<br />

Vi sono poi esempi di Comuni, come Cortina d’Ampezzo, che hanno ritenuto<br />

che «la decisione di non applicare i predetti articoli 2, 3, 4 può riguardare, diversamente<br />

da quanto sostenuto nella circolare interpretativa n. 4/<strong>2009</strong>, anche le c.d. pri-<br />

( 37 ) Si vedano pag. 8elanota 13.<br />

( 38 ) Del resto, è noto come la Giunta regionale del Veneto abbia aderito, con DGR n. 234 del 1 febbraio<br />

2000, alla Carta di Aalborg e alla Carta di Goteborg, così affermando e confermando la volontà politico<br />

- istituzionale della Regione di perseguire lo sviluppo sostenibile.<br />

( 39 ) Si veda pag. 4.


PIANO - CASA: LE LEGGI REGIONALI DEL TRIVENETO A CONFRONTO 315<br />

me case di abitazione relativamente alle quali l’art. 9, comma 3, della legge si limita<br />

a prevedere che gli interventi degli artt. 2, 3, 4 si applicano sin dall’entrata in vigore<br />

della legge il che esclusivamente significa che l’applicazione di detti articoli alle prime<br />

case non richiede una preventiva deliberazione del Comune ma certamente non<br />

significa che il Comune non possa stabilire, ove lo reputi opportuno, se ed in che limiti<br />

consentire l’ampliamento delle prime case»( 40 ).<br />

E questa medesima situazione di incertezza è riscontrabile in molte altre realtà<br />

regionali.<br />

Stando così le cose, al di là delle considerazioni generali, anche critiche, e di<br />

raffronto tra le varie normative sopra svolte, sembra che a restare aperta sia non<br />

solo l’incognita relativa al modo di attuazione della legge che i diversi Comuni riterranno<br />

di adottare ma anche, e prima ancora, la questione attinente alla corretta<br />

individuazione dell’ambito di applicazione e della portata della L.R. n. 14/<strong>2009</strong>,<br />

questione che, ovviamente, avrà riflessi inevitabili sulla concreta operatività della<br />

legge medesima.<br />

Aurora Fracassi<br />

( 40 ) Comune di Cortina d’Ampezzo, deliberazione del Consiglio comunale n. 88 del 28 ottobre <strong>2009</strong>,<br />

pubblicata il 5 novembre <strong>2009</strong>.

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