Apicoltura della Valtellina - Associazione Produttori Apistici Sondrio
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Storia dell’apicoltura valtellinese pareti, analoga a quella naturale dei favi, non provocava la saldatura alle pareti tipica altrimenti di questi “bugni villici”: erano le antesignane delle arnie moderne a favi mobili. In Valtellina (e Valchiavenna) si afferma sicuramente un altro tipo di arnia o “bugno villico”, costituito da quattro assi poste a formare un parallelepipedo vagamente piramidale con un imbocco leggermente più piccolo rispetto alla parte terminale. Quest’ultima veniva chiusa da uno sportellino rimovibile. L’origine di tali ricoveri per le api si perde nei secoli e il loro utilizzo, in maniera quasi immutata, è continuato fino a qualche decina di anni fa. L’uso e l’allevamento delle api è comune a molte culture: da quella egizia, che li ha effigiati nelle decorazioni tombali 1 , a quella greca 2 e romana, che inseriva con sapienza il miele nella propria alimentazione, codificandone l’uso gastronomico. Virgilio, nelle “Georgiche” descrive le tecniche apistiche 3 . Il miele è poi citato anche nelle religioni ebraiche e mussulmane dove “fiumi di latte e miele ristoreranno i guerrieri morti valorosamente per la fede”. In Valtellina, come nel resto d’Europa, nel diradarsi della cortina che avvolge l’alto Medio Evo 4 , troviamo gli evidenti segni di rinascita e razionalizzazione dell’agricoltura, tramite l’opera degli ordini religiosi monastici. In Valtellina un sicuro centro di tale diffusione sorge a Monastero, attuale frazione del comune di Berbenno, a cui si fa risalire la paternità dell’attuale tecnica viticola. Essa è basata sul terrazzamento e sulla capacità di utilizzare appieno il versante solivo, abbarbicando alla roccia anche minuscoli fazzoletti di terra. 1 Gli Egizi furono i primi a prelevare miele e cera dagli alveari senza praticare apicidi. L’ape e il miele assumevano anche un valore sacro. Il propoli poi era l’elemento base, essenziale per le pratiche di inumazione e preparazione delle mummie. 2 Aristotele nella sua “Storia degli animali” descrive le arnie greche a favi mobili. 3 Molti scrittori naturalisti latini trattano dell’apicoltura e tra questi Plinio, Varrone, Columella. Non viene praticato apicidio e l’allevamento è di tipo semirazionale; si assiste ad un florido commercio di miele per l’alimentazione e la cera per svariati usi tra cui per le “tabulae”. 4 Con le invasioni barbariche si perdono quelle cognizioni di allevamento delle api e i prodotti dell’alveare vengono ricavati per apicidio. Una pratica forse nata anche dalla insicurezza dei tempi e quindi da una mentalità più volta al saccheggio delle risorse che a un teorizzare le ricchezze per tempi futuri. Si selezionavano così, inconsapevolmente, solo le famiglie con una forte attitudine alla sciamatura. 4
UL’ apicoltura valtellinese nel 1800 Il binomio apicoltura e religione poi, per vari motivi, rimane sempre una costante fino ai nostri giorni. Non bisogna infatti dimenticare, ad esempio, che la cera vergine rappresenta la materia prima delle candele che rischiarano i luoghi di culto. Globalmente la cera dà luogo ad un commercio particolarmente ricco ed attivo, tanto che nell’elenco della “Tariffa del datio delle Eccelse Tre Leghe che si scode nella Valtellina” stampato a Coira nel 1568, ovvero le tariffe del dazio che i Grigioni riscuotono in Valtellina, si cita per la cera nuova, non lavorata, la tariffa di soldi 10. LL’’ aappiiccoollttuurraa vvaalltteelllliinneessee nneell 11880000 Voltando le spalle alla dominazione Grigiona e giungendo a tempi più recenti, troviamo una ricca documentazione nel corso del 1800. In “Notizie statistiche intorno alla Valtellina, memoria di F. Visconti Venosta” del 1844 troviamo interessanti riferimenti all’apicoltura. “Si calcolano a 2.470 gli alveari della Provincia, ed a 120 quintali il miele ed a 60 quelli di cera. Del primo è squisitissimo ed emulo dello spagnolo quello che si raccoglie a Bormio, l’altro ordinario”(pag. 66) e viene citato che “Chiavenna esporta la rinomata sua birra, e Bormio lo squisito suo miele” ( pag. 68). Mentre nella pagina successiva viene quantificata l’eccedenza di miele, ovvero la quantità di esportazione e quindi 5
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UL’ apicoltura valtellinese nel 1800<br />
Il binomio apicoltura e religione poi, per vari motivi, rimane<br />
sempre una costante fino ai nostri giorni. Non bisogna infatti<br />
dimenticare, ad esempio, che la cera vergine rappresenta la<br />
materia prima delle candele che rischiarano i luoghi di culto.<br />
Globalmente la cera dà luogo ad un commercio particolarmente<br />
ricco ed attivo, tanto che nell’elenco <strong>della</strong> “Tariffa del datio delle<br />
Eccelse Tre Leghe che si scode nella <strong>Valtellina</strong>” stampato a Coira<br />
nel 1568, ovvero le tariffe del dazio che i Grigioni riscuotono in<br />
<strong>Valtellina</strong>, si cita per la cera nuova, non lavorata, la tariffa di soldi<br />
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LL’’ aappiiccoollttuurraa vvaalltteelllliinneessee nneell 11880000<br />
Voltando le spalle alla dominazione<br />
Grigiona e giungendo a<br />
tempi più recenti, troviamo una ricca documentazione nel corso<br />
del 1800.<br />
In “Notizie statistiche<br />
intorno alla <strong>Valtellina</strong>, memoria di F.<br />
Visconti Venosta” del 1844 troviamo interessanti riferimenti<br />
all’apicoltura. “Si calcolano a 2.470 gli alveari <strong>della</strong> Provincia, ed<br />
a 120 quintali il miele ed a 60 quelli di cera. Del primo è<br />
squisitissimo ed emulo dello spagnolo quello che si raccoglie a<br />
Bormio, l’altro ordinario”(pag. 66) e viene citato che “Chiavenna<br />
esporta la rinomata sua birra, e Bormio lo squisito suo miele”<br />
( pag. 68). Mentre nella pagina successiva viene quantificata<br />
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