Quattru cunti

TONIO INGROSSO
QUATTRU CUNTI
(Scritti dialettali)

A ttie ca stai luntanu
cu nnu’ te scordi mai
te ‘stu paese.

Ricercare le radici di un popolo attraverso
favolose dicerie e arcane leggende sublima
l’animo nostro, che compie un viaggio a
ritroso nei meandri del passato.
Antonio Nahi

NOTE DELL’AUTORE
Perchè “quattru cunti” quando in questa raccolta ne
sono presenti nove più tre appena iniziati? Perchè il numero
quattro in molte espressioni viene riportato per indicare un
numero impreciso, e comunque di piccola quantità (quattro
chiacchiere, quattro case, quattro passi, quattro risate, quattro
gatti, ecc.ecc).
Quindi questi “quattru cunti” riportati dal sottoscritto,
in realtà non sono altro che alcuni delle centinaia di “cunti”
che la tradizione orale matinese ci ha tramandato per raccontare,
tra storia e leggenda (realtà e fantasia), la vita di una
volta, alcune usanze scomparse appartenenti alla nostra civiltà
contadina. Dico alcune perchè, se è vero che molte usanze
si sono trasformate o addirittura sparite, è pure vero
che molte altre hanno restitito al tempo. Le tradizioni gastronomiche,
per esempio, che non ammettono modernità di
sorta, resistono, eccome! Basta pensare a pasti antichissimi
che connotano tuttora la nostra cucina, (ciceri-ttrìa, pittule
cu llu cottu, rape ffucate, purceḍḍuzzi, gnommareḍḍi,
minchiareḍḍi cu lla ricotta scanta, pitteḍḍe, sagne ritorte
fatte a casa, cozze piccinne fatte cu llu sucu, ecc. ecc.) o le
tradizioni religiose (caratteristiche processioni del venerdì
santo, confraternite ancora con abiti riccamente barocchi,
“focareḍḍe” in onore di alcuni santi, costumanza” te Santu
7

Quattru cunti
Lazzaru”, quella dei presepi, ecc. ecc)
Cosa sono i cunti? I “cunti” sono racconti popolari,
fatti accaduti e tramandati da padre in figlio (modificati, arricchiti,
nel corso del tempo) che venivano narrati in un angolo
della strada o nelle corti durante le serate d’estate, e intorno
al focolare d’inverno. Appartengono al nostro patrimonio
culturale che va assolutamente salvaguardato.
8

PRESENTAZIONE
Con entusiasmo ho scritto queste parole sparse per presentare
la pregevole fatica dell’amico Tonio Ingrosso, testimonianza
di amore e di affetto per la sua Matino e per tutti
noi, a cui ha dato titolo “ Quattru cunti”.
Il dialetto è la manifestazione della civiltà afferente ad
una comunità, come la nostra Matino, formatasi mille anni fa
circa dalla fuga di pochi uomini dalla vicino Alezio, cresciuta
nel tempo sino ad essere un operoso centro urbano qual è
oggi con circa 12.000 abitanti.
Sino al 1950 quasi tutta la popolazione residente era analfabeta
ed il linguaggio dialettale era la sola ed unica comunicazione
fra di noi, annullata dall’avvento della televisione
- la vera artefice, nel tempo, dell’unità d’Italia soltanto
nel linguaggio parlato, poichè il campanilismo esiste ancora,
residuo medievale delle diverse dominazioni subite: dai Fenici,
ai Cartaginesi, ai Romani, Arabi, Spagnoli e Francesi; il
nostro dialetto è un mixer di queste dominazioni che hanno
lasciato la loro impronta in sostantivi dialettali, esempio:
“jussu” (diritto) romano; “sciarabbà” (carretto) lingua araba;
“buttèja” (bottiglia) lingua francese, eccetera, eccetera;
di questa civiltà dialettale Tonio Ingrosso, che conosco sin
dal 1973, ne era ed è cultore; ne sono testimonianza tutte le
9

Quattru cunti
produzioni dialettali pubblicate con notevole successo e consenso
sin dal 1975 quando organizzò un concorso poetico in
vernacolo in contrada “Lazzareḍḍ u”.
Il lavoro di oggi, che ho l’onore di presentare, è una raccolta
“Quattru cunti”, allegoria di un tempo con significazione
di brevità; è uno spaccato del tempo vissuto dal 1945,
eccetto per “Fracciommu, ‘A Matonna t’u Càrmunu, ‘U
Marchese te Matinu; “li cunti” tradizione orale delle favole
che noi non conosciamo per duplice motivo: analfabetismo e
povertà, avevano quasi sempre al termine insegnamenti di
onestà, amore al lavoro, alla famiglia e il loro racconto pronunciato
dagli anziani sollecitava e svegliava la fantasia dei
bambini, tutti attenti alla trama del racconto ed ai suoi eroi
protagonisti.
“E’ un patrimonio culturale che va assolutamente
salvaguardato”, questa affermazione di Tonio Ingrosso deve
essere intesa come un appello a tutti noi matinesi per collaborare
alla stesura in dialetto “te li cunti”, da raccogliere in
volume e da consegnare quale eredità alle future generazioni;
ma il vero patrimonio da salvare è il nostro dialetto, questa
lingua morente; sostantivi di lingua inglese ed americana
hanno inquinato la nostra lingua ed il dialetto. Il nostro dialetto
nella pronuncia ha un id quid di dolcezza e musicalità
di cui si ha conferma nella tradizione popolare di melomani
ed amanti della buona musica.
La funzione educatrice del pregevole lavoro dell’amico
Ingrosso non è tanto il contenuto “te li cunti”, quanto
l’averlo scritto in dialetto che va rivisitato.
Da ex sindaco e cittadino ultra ottuagenario rivolgo un
appello ai signori amministratori pro tempore del nostro
Comune: non sciupate le risorse disponibili della cultura in
piccoli rivoli con il patrocinio economico del Comune nella
10

Quattru cunti
proliferazione di manifestazioni pseudo culturali. Avete il
dovere di sostenere la vera cultura, e questo è il nostro dialetto:
sostantivi come “musuranza” (calore umano), “mafuru”
(turacciolo), ecc. era il linguaggio dei nostri avi sino al 1950
e le radici, come si legge in prefazione del lavoro, debbono
essere sempre presenti in noi e tenere in alto il nostro dialetto
quale migliore eredità da affidare ai giovani.
E’ questa la ratio del lavoro di Tonio Ingrosso al quale
debbo un affettuoso grazie per aver tenuto acceso ed alimentato
con amore e sacrificio la fiammella della cultura dialettale
e delle radici - oasi benefica nel deserto della giungla telematica
ed interplanetaria.
L’augurio che abbia a continuare, attraverso la sua “Associazione
Autori Matinesi”, l’azione rigeneratrice della lingua
dialettale, unica testimonianza della civiltà contadina,
civiltà di lavoro, di sacrificio, di conquiste.
11
Antonio Primiceri

LU CUNTU TE LE MACARE
Una volta i “cunti” si raccontavano nel periodo estivo
per strada, nelle corti o intorno ai “caseḍḍi”, d’inverno, invece,
in casa davanti al camino. Trattavasi di fatti accaduti
molti anni prima tramandati oralmente da padre in figlio;
quasi tutti affascinanti e i più coinvolgenti erano quelli che
narravano storie di morti, di “macàre“, di “acchiature”
(tesori nascosti svelati da parenti defunti) e di “moniceḍḍi”
(spiritelli).
I ”cunti” si raccontavano anche nelle osterie e nelle sale
da barba. Quelli delle osterie potevano essere seriosi o spiritosi
a seconda del vino consumato, se annacquato o mischiato
con la gassosa. Nelle sale da barba si raccontavano “cunti”
vietati ai ragazzi; lì dentro circolavano incipriati calendarietti
di donne nude.
Davanti la mia casa dove abitavo da fanciullo, vi era un
grande piazzale denominato “Fera”, dove attualmente vi è
la villa comunale, sul quale noi giocavamo scalzi tutto il
giorno e la sera, stanchi, seduti in cerchio per terra, ascoltavamo
con attenzione e paura i misteriosi “cunti” raccontati
quasi sempre da un vecchio che noi chiamavamo “u cuntacunti”e
alcune volte da “Nzinu Scamàle”, un altro anziano
che abitava là vicino, padre di dodici figli, dotato di
13

Quattru cunti
grande senso dell’humour. Noi eravamo: io, Mario Nuzzaci,
Rosario Bove, Giulio Scarlino, Augusto Costantino e Totò
Foscarini, tutti ragazzi svegli che però nel sentire quei fatti
ce la facevamo addosso per la paura.
Ci sbudellavamo, invece, dalle risate quando vedevamo
uscire dalla “putèca te lu Ricciotti, nunni mbriachi a stozze
ca ndarluttavane e mminavane crosse roffe (sputi) ca te sbutàvane
lu stòmmucu”. Quante litigate, quante bestemmie in
quella“putèca”; si giocava a morra e a “patrunu e ssutta”.
Ci si divertiva anche con “mèšcia Giacinta”, una donna devota
a Santa Rita che indossava perennemente l’abito nero
con cintura di cuoio, la quale ai nostri insulti rispondeva
sempre -“Tte vìsciu santu, fiju, ‘tte vìsciu santu!...mortu però!”-
e che abitava anche lei nei dintorni.
E i “cunti”, adesso che ricordo, si raccontavano anche
nella cartoleria di mio zio, “mèšciu Ntoni Masella” (altro
personaggio dotato di grande spirito di osservazione e sempre
pronto alla battuta), sita vicino alla “Fera” sulla “via
nova” (attuale via Roma), dove si potevano acquistare quaderni
e pennini, ma anche le prime gomme da masticare
(“gingomme”) e pesciolini di liquirizia.
E visto che mi trovo, voglio raccontarvi “nu cuntu” che
sentii raccontare da un grande conoscitore e narratore di culacchi,
“mèšciu Querinu Stìfani”, proprio in detta cartoleria.
Questo signore, che era un grande ebanista, aveva la falegnameria
proprio lì vicino,(attigua alla casa della maestra
Ròchira), dove mio zio e Ginu Nassisi, gestori di esercizi
privi di bagno, si recavano per usufruire della “fòggia”
(pozzo nero) per le urgenti deiezioni; per le minzioni, invece,
si servivano delle bottiglie e lattine vuote di olio di motore.
Quella sera erano presenti, oltre al sottoscritto e a mio zio,
Ginu Nassisi, gestore del chiosco della benzina Caltex che
14

Quattru cunti
trovavasi sul marciapiede di fronte, suo figlio Luciano e
“mèšciu Cuntinu Uttàru”. Io mi recavo spesso da “zzìuma
Ntoni” per leggere gratis i giornalini di Capitan Miki e
Grande Blek o Blek Macigno..
“Mèšciu Querinu” ci raccontò “nu cuntu te macàre”. Le
“macàre”, verso la metà degli anni cinquanta, stavano già
scomparendo, ma a Matino si diceva che ce n’erano ancora.
Mia madre diceva sempre che per conoscere una “macàra”,
che a prima vista sembrava una persona normale, bastava
disegnare per terra con un gessetto una croce e quella nel
vederla cambiava subito strada. Le “macàre” scappavano
anche di frontre a due spilli disposti a croce. Per poterle,
poi, vedere tutte assieme, occorreva, la notte di S.Giovanni,
mettere un bicchiere d’acqua con dentro il bianco dell’uovo
sulla finestra e aspettare che passassero tutte a processione
quando si recavano, passando prima dal cimitero, alla “casa
t’e macàre”, una casa mezza diroccata, ubicata sulla
strada di “Culìne” (zona agricola a confine col feudo di Alezio)
dove dovevano ballare fino all’alba. Si raccontava, allora,
che di notte, da quella casa uscivano strani rumori e
forti suoni di tamburi. Noi ragazzi che andavamo al mare in
bicicletta, quando passavamo per di là, pedalavamo più forte
perchè avevamo paura; io, addirittura, incrociavo l’indice
col pollice contro il malocchio, gesto che mi veniva spontaneo
anche quando incontravo per strada una zingara.
Mèšciu Querinu incominciò a raccontare premettendo
che si trattava di un fatto veramente accaduto:
“Iti ssapìre ca anni rretu, allu quarantacinque, aḍḍà vanna
‘a Massaria, nnanzi ‘u campu, abbitava ‘u patrunu Saru e dde
frunte a iḍḍu ìa cchiata casa nu certu Nardu, nu pòuru cristu
furastieru ca vanìa t’intru ‘u capu e ca s’ìa unitu cu nna certa
Nzina; nu furese vèduvu ca campava facennu farche sciurna-
15

Quattru cunti
ta a ffore te paru a fijusa, nu caruseḍḍu te ticiassete, ticiottu
anni ca l’ìa utu t’a vecchia mujère. ‘Sta Nzina, mmèce, facìa
sarvìzzie alla mujère te lu patrunu Saru... nsomma facìa ‘a
serva a casa te la signura Lucia, na fimmanazza ca cumannava
lu maritu a bacchetta e ca ne facìa le corne cu nn’ufficiale
pulaccu ca tie mèšciu Ntoni canusci bbona!
‘Sti signuri, chiamàmuli cusìne, tanìane na fija ggià carùsa
ca stutiava a Bbari e ca scìa ‘bbanìa te casa na fiata allu
mese. Era na bbeḍḍa vagnùna ... tutti ticìane ca ssamijava a
Santa Cisaria, e llu fiju te lu Nardu ne minàu l’occhiu. ‘A verità,
puru iḍḍu era nu bbeḍḍu ggiòvine. Eh.... tanìa certi occhi
nìuri ca nu’ be ticu... e poi, era ertu e sveju... ma però, nc’era
nu ma: era nu menzu affabbèta... pe’ nu ddire tuttu! Alla vagnùna
ne piacìu lu stessu e sse zziccàra ‘ulìre scusi pe’ nnu
saccu te tiempu, ma poi la signura Lucia li scuprìu e... aprite
cielu! ‘U Saru, quantu quantu, ma iḍḍa, na marescialla nata,
era cuntraria a ‘stu fattu e ffice te tuttu cu bbite ci lli lluntana
ḍḍi vagnuni.
Ne nne facìa te tutti i culuri, ma nu’ se bbuscava nenzi
percè parìa propiu ca erane fatti l’unu pe’ l’aḍḍu. Nu’ sapìa
cci ìa ffare, mise tanta ggente an menzu e šcìu ‘sse cunfitàu
puru cu Papa Pànfilu, ‘u prèvate t’a Matonna Ndulurata. Iḍḍu
ne rispuse ca nu’ putìa fare nenzi e ca la cosa stìa alli mani te
lu Signore. Allora, tutta raggiata, tisse ca era costretta ‘bbaje
a nna macàra. Papa Pànfilu, e farcheccùnu te ui lu sape ca
nunn era tantu bbeḍḍu, cci ffice? Nu’ filu ca la sviàu, no...
ansi... se tice an giru ca lu nume te la macàra ne lu tese propiu
iḍḍu. E’ bberu? Nunn è bberu? Ennàh? Nsomma allu crai
scìu ‘àcchia ‘sta macàra c’abbitava suse ‘e màcchie intra nnu
caseḍḍu, ḍḍa vanna alla Massaria Giannella, prima t’a carcàra
te lu Carichinu. Mèšciu Querinu raccontava questo “cuntu”
rivolgendosi quasi sempre a noi due ragazzi presenti che
16

Quattru cunti
eravamo i più sbalorditi e i più curiosi.
Era te vèspara e sta cchiuvìa a celi perti, te su ‘e màcchie
scinnìane acqua russa, petre e munti, ma iḍḍa senza ‘ttime
nenzi, pijàu ‘a via te Santa Parmèta, mmarcàu te menzu alli
cippuḍḍazzi e intra quattru quattrottu sciù e l’acchiàu. Era na
vecchia tutta scapiḍḍisciata, senza tenti, cu lli musi pittati, ca
stìa ssattata susu nnu vancuteḍḍu e ca sta cuntava cu nna
cuccuàscia mmaestrata. ‘A macàra prima ntise comu stìane li
fatti, poi ne ddummannàu cci fattura n’ìa ffare a ḍḍu carùsu,
percè ci nn’erane te tanti tipi: fatture te morte, fatture te paccìa
o te mmalazzamentu te sangu. ’A signura rispùse ca noni
te morte, ca bbastava cu nne vene na malatìa te quiḍḍe ca nu’
sani cchiui. Allora ‘a macàra ne tisse ca ìa bbisognu te na
mutanda o te nu maccatùru te ḍḍu ggiòvine ca l’era llavare
cu la lassìa te nu còfunu fattu cu ccìnnere t’osse te morti.
Oppuru bastava ‘nne porta nu litrattu. ‘A signura Lucia tisse
va bbene e se nne scìu.
Se mise t’accordu cu llu maritu, ma nu’ ci fose mezzu cu
nne rrùbbane le rrobbe a ḍḍu vagnone percè màmmasa, la
Nzina, quannu essìa te casa nzerrava sempre ‘a porta a
cchiave.
Passàu farche mese e la signura nu’ pijava riggettu, nu’
sapìa cchiui cci ìa ffare; sapìa ca li vagnuni secutàvane cu sse
òlene scusi e allora, nu bbeḍḍu ggiurnu, tecise cu bbaje a
nn’aḍḍa macàra, ca facìa casa susu Ppeppiceḍḍu, ma puru
quista ne tisse ca ìa bbisognu te farche cosa te lu zzitu te fìjasa;
bastava puru nu fioccu te capiḍḍi o nu stozzu t’ugna.
Se nne turnàu a casa scuraggiata, ma topu ddò misi riturnàu
cu nna francata te capiḍḍi ca nu’ se sape comu l’ìa uti.
‘A macàra cci ffice? Li nturtijàu, fice ddò gnòmmari, a ognetunu
ne nficcàu nu chiou ruggiato schiuvatu te nu chiaùtu e
17

Quattru cunti
poi nne minau susu ddò nziḍḍi t’acqua gialla ca parìa pisciatùru;
unu ne lu tese alla signura e nne tisse cu llu minte intra
lu saccune te lu zzitu, l’aḍḍu, nciarficiannu palore ca nu’ se
capìane, lu precàu ḍḍa fore sutta nn’argulu te sita.
‘A signura Lucìa se pìjau ‘sti capiḍḍi e se nne turnàu a
casa. Mo’ nu’ sapìa comu ìa ffare cu lli minte intra ‘llu lettu
te ḍḍu vagnòne... ‘a casa stìa sempre chiusa. Le pensàu tutte
e alla fine tantu fice ca rrivešcìu. Se canciàu lu crinu te li matarazzi
e sse fice jutare te la Nzina, e alla fine poi, siccomu
nn’era rrumastu tantu (iḍḍa n’ìa ccattatu amposta te cchiui)
ne lu rricalàu alla serva cu llu minte allu saccùne te lu vagnone
ca sapìa ca era te cacchiàme e intra ‘llu crinu ne ccucciàu
‘u gnòmmaru t’a macàra.
‘A Nzina, tutta presciata, ne inchìu ‘u saccùne allu fìju e
quistu, topu ‘a prima notte, ppena se źźàu ‘lla mmane, se
zziccàu sentire fiaccu; jancu an facce comu nu mortu, sculava
te sutùre a ppilu a ppilu e nne scuppiava ‘a capu e llu
stòmmacu. ‘U Nardu e la Nzina se mparuàra e chiamàra te
pressa Don Giuliu, ma nu’ ficera nenzi.
Passara li giurni, ‘u vagnone, pareḍḍu, scìa sempre pèsciu;
critava sempre comu nu pàcciu e a ffiate nu’ mbulìa ‘bbite
ciuveḍḍi; poi alla fine, a ḍḍe condizioni, spicciàu cu sse lassa
puru cu lla zzita. Iḍḍa topu nu picchi te tiempu se nne
cchiàu n’aḍḍu e... bbonanotte sunatùri! Pare ca puru quistu
era nu pulaccu comu l’amante te màmmasa: nu surdatu ca
stutiava cquài alla scola lementare, alla scola t’i pulacchi. Intantu
lu vagnone scìa retu pe’ rretu; chiamàra tuttori furastieri,
ma tutti ticìane ca nu’ c’era nenzi te fare parcè era
ddaventatu scemu, e poi llu purtàra puru allu spetale te
Caḍḍipuli.
Màmmasa, pareḍḍa, nu’ sapìa cchiui cci ffare e lu Nardu
nu‘ se tìa pace; cercava sempre cu llu ncorda, cu llu pija cu
18

Quattru cunti
llu bbonu, ma iḍḍu ne rispunnìa fiaccu e ncerte fiate se nne
scìa te casa pe’ ddò, ttre ggiurni.
’A Nzina, puru iḍḍa scìa ‘sse cunfita cu Papa Pànfilu, e
ḍḍu tiscrazziatu, ca sapìa tuttu, ne ticìa sempre - Nzina, sìa!
Fazza Ddiu! Prega, prega che tuo figlio un giorno guarirà;
cerca di portarlo ogni tanto in chiesa e vedrai.-
Na sira, sutta ‘u cumentu, ‘u Nardu sta cercava sciurnata
pe’ llu crai e nn’amicu ne tisse - Nardu, percè nu’ bà
‘ddummanni na macàra? E ffanni ca a ffìjuta n’ànnu fatta na
fattura?- ‘U Nardu ne lu tisse alla mujère e nu giurnu, tutti e
ttrete, te paru cu llu fiju, scèra a Sulìtu. Tannu ‘e macàre te
Sulìtu scìane pe’ nnuminata! E bbannu ncora moi! E’ bberu
mèšciu Cuntinu?
Cchiara na macàra ca sapìa fare fatture e contrufatture. Se
chiamava Settìmia percè era ‘a settima te sette soru nate tutte
e ssette lu sette t’ogne mese te nascita; tanìa lu sciummu comu
quiḍḍu te lu N. Crapàru e l’ugne nìure e llonghe, longhe;
brutta te toccu, ssamijava alla morte e l’acchiàra ca sta cernìa
na specie te cranu nìuru cu nnu farnàru vecchiu te
cent’anni.
Ppena vitte lu vagnòne capìu ca n’erane fatta na macarìa e
nne zziccàu ffare nu saccu te ddummanne. Ne ddummannàu
pe’ pprimu ci canuscìa farchetunu ca ne ulìa male, poi, ci ìa
mai nduratu farche ffiuru siccatu, ci ìa persu farche fiata farche
patulinu o maccatùru, ci era statu mai fiatatu te na sacàra
o ci intra ccasa ìa vistu mai spilli, spìngule, chiovi rruggiati o
pili nìuri te mùšcia.
‘A Nzina rispuse ca tanìane sulu na crapa, mušci mai tanuti!
Dḍa macàra, poi, ddummannàu ci allu purtune t’a rimesa
nc’era ‘u cattàru e llu Nardu rispuse ca nu’ tanìane nnè
purtune e nnè rrimesa... cavaḍḍi mai tanuti e ca a ffore scìane
sempre all’ampète, ffarche ffiata cu lla mula t’u patrunu Sa-
19

Quattru cunti
ru. Ne ddummannàu puru ci ìa vìpputu mai acqua trubba o
sciòtta àcita o manciatu mile squajate te intra. ‘U vagnone
tisse none e allora la macàra lu zziccàu ttantare a ffrunte, facennu
cruci alla smersa e cercannu cu nne lleva la macarìa cu
mijara te palore ca ciuveḍḍi capìa. Poi, te intra nna
scatuleḍḍa pijàu nu picca te mmerda siccata e lla mise intra
nnu biccheri t’acqua benatitta. Chiamàu t’u celu spiriti e
ssanti; secondu iḍḍa l’acqua era farvìre cu sse nn’esse la
fattura, ma alla fine, quannu vitte ca nu’ facìa nenzi, tisse ca
ne servìa na chiave te na cisterna aḍḍunca s’era ffucatu farchetunu
o na chiave te na chièsia sconzacrata ca surtantu cu
quiḍḍe putìa scuprire cci nn’ìane fattu allu vagnòne.
Allu crai lu Nardu ne purtàu na chiave ca nu’ sapìmu ḍḍu
cazzu la cchiàu e sse nne scìu speranzosu. Passàra misi e llu
vagnone nu’ sanava, ansi scìa rretu pe’ rretu, ggiurnu topu
ggiurnu; jancu te facce, nu’ manciava cchiui nenzi. ‘A Nzina
scìa e bbanìa t’a chièsia e Papa Pànfilu ne ticìa sempre- Stai
calma, prega Dio; portalo in chiesa e vedrai che tuo figlio
guarirà. Il Signore gli farà il miracolo. - Lu maràculu, mmèce,
la Nzina lu cercàu alli Santi Metici e quannu rrivàu la festa
purtàu lu fiju a Uscèntu. Se vìttera ddò misse, una rretu
ll’aḍḍa, se ccattàra nu quartu te scapèce, ddò mantaji te Santu
Cosimu e Ddamianu e sse nne turnàra a Matinu.
Topu farche ggiurnu ‘a Nzina, te mmane mprima, scìu a
Sulìtu alla macàra cu bbite ci nc’era nuḍḍa bbona nova e nne
tisse ca era sciùta alla festa te Santu Cosimu a Uscèntu cu
cerca na cràzzia e ca ìa ccattatu ddò mantaji te Santi Metici,
quiḍḍi te cartune cu lle zacareḍḍe. ’A macàra ppena ntise ḍḍu
fattu, ddevantàu janca te facce e tremulannu tutta ne cumannàu
cu bbaje fuscennu a casa e ccu nne porta te pressa ḍḍi
mantaji.
‘A Nzina, proccupata, scìù e tturnàu ḍḍu stessu giurnu (la
20

Quattru cunti
ccumpagnàu lu stessu cumpare ca l’ìa purtata cu llu travìnu
alla mmane; nu vicinu te casa ca la purtava ogni annu alla festa
t’a Matonna te Sanàrica), e lla macàra quannu vitte li
mantaji se scapiḍḍisciàu tutta; tremulannu li pijàu an manu e
cu lla chiave ca n’ìa purtata ‘u Nardu, ne fice susu na specie
te cruce scerrata, poi, topu cercau ‘rristacca ‘e zacareḍḍe ca
stiane ttaccate forte, forte a nnutu e quannu rrivescìu poi le
bbrusciàu; zzuppannu mmenzu casa, tisse, poi, nu saccu te
litanìe e sse fice cruci su cruci cu tutte ddòi le mani. Quistu
pe’ cchiui te nu quartu t’ùra; quannu poi se carmàu, tutta
squajata, minata su’ nna sèggia, tisse queta, queta -Vane, vane
beḍḍa, la fattura l’imu sbrujata!- Mancu nu minutu... cu
tanti t’occhi te fore, se scapiḍḍisciàu te capu... zzumpàu t’a
sèggia, se mise mmenzu, mmenzu ‘ccasa, e rrazze an celu,
comu na ndemuniata, critàu - Capiḍḍi erane, capiḍḍi!
Capiḍḍi mbrujati!-
‘A Nzina, tutta mparuata, se nne scappàu fuscennu. A
Matinu rrivàu te notte e quannu trasìu intra ccasa cchiàu lu
fiju bbeḍḍu, russu an facce comu na sita ca sta sse manciava
na cosca te fanùcchiu. Tremulannu se lu mbrazzàu tuttu e
bbitte ca era sanatu: ḍḍu fìju mmacarisciatu era turnatu meju
te prima!”-
E mèšciu Querinu terminò di raccontare questo “cuntu”
come si usava dire allora – E llu cuntu nunn è cchiui, mo’
cuntàtine n’aḍḍu ui!-
21

LU CUNTU TE FRA CCIOMMU
Prima di raccontarvi lu cuntu te Fra Cciommu vorrei
far presente, per chi non lo sapesse che “Fra Cciommu” è
una zona agricola sita ad ovest di Matino distante 3 Km. circa,
e che, a detta della buonanima di mia madre, la sua denominazione
deriva da un nomignolo che i matinesi appiopparono
ad un monaco del Monastero di Sant’Eleuterio a seguito
di un avvenimento accaduto molti secoli fa.
Nel 1981 esercitavo la professione di vigile sanitario
presso il Comune di Matino, quando un bel giorno si presentò
in ufficio Benito Cataldo, l’allora custode del cimitero,
per far presente che durante alcuni scavi per lavori di sistemazione
del viale, nei pressi delle cappella gentilizia
Paiano-Primiceri, erano state rinvenute delle ossa umane. A
seguito dell’immediato intervento, l’ufficiale sanitario di allora,
Dott. Donato Marsano, ordinò, non essendo in possesso
di dati identificatori, di collocare detti resti mortali
nell’ossario comunale (fossa comune). Si pensò fossero resti
mortali di persone decedute durante la “ spagnola” del
1918.
Incuriosito, la sera, chiesi a mia madre, essendo ella nata
nel 1903, se ricordava qualcosa di quel periodo in cui si verificò
l’nfluenza spagnola che scatenò una pamdemia, con
la morte di moltissime persone. E le raccontai del rinveni-
22

Quattru cunti
mento dei resti mortali avvenuto la mattina. Al che, mia
madre, spaventata, mi rispose: - Quale spagnola? Quiḍḍe,
fiju meu, suntu l’osse te Fra Cciommu; quiḍḍe suntu l’osse
ca cchiàra sutta Fra Cciommu seculi e sseculi rretu intra
nnu casèḍḍu! Tie si’ bbagnone, fiju meu, ‘sta storia nu’ la
poi sapire.-
Io, incuriosito, chiesi - Mamma, quale storia?- - Quista è
nna storia ca nu’ la cunta cchiui ciuveḍḍi, ma è nna storia
vera. A mmie me la cuntàu ‘u benattàmina t’u nonnu Celestinu
ca a iḍḍu ne l’era cuntata ‘u nonnu te mujèrasa ca facìa
Carìzzulu te cugnume. Pensa te quanti anni ete ‘sta storia!-
- E jeu nu’ la pozzu sapire?- le dissi a quel punto. E
mia madre - Ci òi ‘tte la cuntu, prima famme ‘lleu ‘a farsùra
te susu ‘u focu.-
Dopo due minuti, seduti a fianco del caminetto,( io con i
piedi sul bordo della “frascèra”) mi raccontò lu” cuntu te
Fra Cciommu”.
Ài ssapire, fiju meu, ca tanti anni arretu, seculi rretu oju
‘ddicu, a Matinu, susu ‘e màcchie te Santu Lattèriu nc’era nu
cumentu te monici e ssutta ffore nci nn’era n’aḍḍu... te moniche...
cu nna chiesiceḍḍa te costi: ‘a chiesa te Santa Nastasìa
ca se vitìa te tutte ‘e vanne percè era frabbicata susu nnu
munte, propiu ḍḍunca zziccava ‘a šcisa cu bbai ‘lli Foggi.
Pe’ quistu li ntichi ticìane ca “Santa Nastasìa te tutte ‘e vanne
se vitìa” ca stìa allu ertu.
Tannu, ‘u paese te Matinu era picciccu; picca case, quasi
tutte sparpajate... ca poi, case? Oju ddicu case fatte te petre
senza conza, cu llu bòliu, speciarmente susu ‘e màcchie... e
ssutta ‘ffore nc’erane suppinne e pajàre. Tannu cusìne era!
Erane tutte ulìe, vigne, terra pe’ ssimanare e scràscie. Se ticìa
ca li monici cu lle moniche se jutavane tra dde iḍḍi.; na manu
llava l’aḍḍa se tice; nsomma, se scanciàvane bbeni: ‘i monici
23

Quattru cunti
ne purtàvane asche te susu ‘lle màcchie e lle moniche ne tìane
acqua percè a mmanu ssutta nc’erane tanti puzzi subbràni.
Na semana sì e nna semana no se vitìa nu monucu ca cu nnu
ciùcciu scìa e bbanìa te Santa Nastasìa. Vi’ ca è rrumastu ‘u
dettu “ ‘U ciùcciu te Santa Nastasìa, caricu scìa e ccaricu
vanìa”.
Nu giurnu te nuvembre, versu le ttrete te marìsciu, nu
monucu carùsu, ca te picca era rrivatu allu cumentu, sta šcinnìa,
cu llu ciùcciu caricu te lìune, sutta Ssanta Nastasìa,
quannu allu cchiù bbellu, va sse ngira nu mmaletiempu, maah...
ca è rrumastu alla storia! Lampi, troni, fùrmini, jentu...
nu’ te ticu: intra ‘nnu fìatta se llacàu tutta ‘a “Motta” finu
ssutta ‘a “Frasca”. I cristiani, specie quiḍḍi ca sta ffaticavane
‘mmenzu ‘ffore, cercàra riparu; ci fuscìa te na vanna, ci te
l’aḍḍa... ci se ccucciava sutta ll’àrguli, ci intra ‘e pajàre.
Dḍu monucu ca se truvava topu lu ‘Puzzu nòu”,
parèḍḍu, se ntise persu. Era ‘a prima fiata ca šcinnìa sutta
Santa Nastasìa; nu’canuscìa bbona mancu ‘a via e cercannu
nu postu cu sse rripara, pijàu na carràra sutta “Fra Cciommu”,
na specie te stratone e šcìu spicciare intra a nnu
casèḍḍu cu lla làmia a ccannizzi, menza catuta. Ca poi, fiju
meu, te lu ticu topu percè ḍḍu postu l’ànnu chiamatu “Fra
Cciommu”.
Trasìu paru cu llu ciùcciu tuttu mparuatu... e nu’ mboi ca
aḍḍintra scìu ‘tte àcchia na monaca? Era ‘a matre superiora
te le moniche te “Santa Nastasìa”; lu cumentu stìa propiu
aḍḍà nnanzi. Na bbeḍḍa carusa, tutta mmuḍḍata te capu alli
peti! E puru iḍḍu scìa tuttu nquartarisciatu... sculava acqua te
tutte ‘e vanne. Bbèh, allora se canuscèra e zziccàra ‘ccuntare.
Lu monucu tisse ca era nou, ca vanìa t’a Grecia e ca se
nn’era vanutu cquài in Italia percè allu paese sou era persequitatu
te lu re ca scìa contru li santi, e poi ne tisse ca mentre
24

Quattru cunti
sta šcinnìa allu cumentu cu nne porta l’asche l’ìa cchiappatu
‘u mmaletiempu.
‘A monaca, mmèce, ne tisse ca l’ìa pijata l’acqua propiu
mentre sta riccuìja cicore creste cu aḍḍe ddò sorelle, ca a
nna utàta t’occhiu nu’ ll’ìa viste cchiui... e iḍḍa, poi, siccomu
s’ìa persa, ìa cercatu riparu aḍḍintra a ḍḍu casèḍḍu.
A nnu certu puntu, ‘u monucu, siccomu ddarlampava a
nnu’ finire, pijàu nu saccu e llu ttaccàu all’occhi te lu ciùcciu
cu nnu’ se mpaura; intantu lu tiempu ndallujava, l’acqua šcinnìa
a quartarùni.
Ziccàu chianu, chianu a scurire e lla monaca, mo’, se
zziccàu pproccupare; ulìa cu sse nne torna allu cumentu, ma
comu putìa fare cu nnu mmaletiempu te quiḍḍa manèra? ‘U
monucu, cu lla carma, ne ticìa- Nu’ te proccupare madre ca
mo’ scampa, nu’ te proccupare... ssignurìa prea Ddiu!- Intantu
cci ffice? Scaricàu l’asche te susu llu ciucciu e a
nn’anguleḍḍu ddumàu nu picca te focu e tutti e ddoi, ticennu
patarnòšci, cercara ‘sse ssùcane nu picchi.
Intantu l’ure passàvane, lu jentu nu’ riggettava, fiscava e
trasìa cu fforsa intra allu casèḍḍu percè nu’ c’era porta; aḍḍa
ffore secutava ‘cchiuvire sempre cchiù forte. ‘A suora,
chiancennu, ulìa cu sse ccùccia alla bbona e ccu sse nn’esse;
nsomma ulìa cu sse nne torna allu cumentu, ma lu tiempu era
propiu te quiḍḍi ca facìa paura. E llu monucu ca ne ticìa- Nu’
te proccupare sorella, statte carma ca mo’ scampa e poi te
ccumpagnu jeu cu llu ciùcciu.- E iḍḍa, tremulannu, secutava
‘ddire rusari.
Nsomma rrivàu ‘a notte e llu tiempu nu’ ne ulìu ‘ssapìre
e allora se capacitàra ca erane rrumanìre aḍḍintra e unu a
nn’àngulu e l’aḍḍa all’aḍḍu àngulu ncuàti se ccucciàra cu lle
rrobbe loru stesse e chiusera l’occhi.
Poi, a nna certa ura, fiju meu, quannu stìane tutti e ddòi
25

Quattru cunti
citti citti, quasi cu mpànnane, rrivàu lu tiàulu e ssuccesse
quiḍḍu ca successe -.
Ed io- Cci ssuccesse ma’?- - Cci ssuccesse fìju meu?
Successe ca fìcera paccatu! E cci sorta te paccatu! Erane carùsi
tutti e ddòi e llu tiàulu li tentàu - Ed io -Teveru?-
- Callora!! Quannu, poi, versu le toi, lu tiempu se carmàu,
lassàra lu casèḍḍu. E ttie mo’ scummettu ca me ddummanni
cci ffice ‘u monucu cu ll’asche, ci ne le purtàu alle
monache oppuru no. E jeu te rispunnu no! Nu’ tanìa cchiui lu
curaggiu cu sse presenta allu cumentu topu quiḍḍu ca era
successu! Se nne turnàu a “Santu Lattèriu” e l’asche le lassàu
intra a ḍḍu caseḍḍu.
‘E mòniche... nu’ te ticu....tutte all’erta, cu llu pansieri,
ma quannu la vìttera turnare allora se cquetàra e ringraziàra
Santa Nastasìa cu nna salve recìna.
Passàra ‘i giurni e la matre superiora pensava sempre a
ḍḍu fattu te ḍḍa notte e quannu scuprìu ca era prena, ne catìu
lu munnu susu. Topu farche semana, ḍḍu monucu šcise ntorna
sutta a “Santa Nastasìa” cu porta l’asche e ‘sta fiata se
ncuntràra tutti ddòi intra ‘a chiesiceḍḍa t’u cumentu. Iḍḍa,
pareḍḍa, chiancennu ne tisse ca era prena e aḍḍu puntu puru
iḍḍu zziccàu ‘cchiancìre.... nu’ sapìane cc’èrane ffare. Pensàra
cu chiàmane scusi farche mmammana cu pozza bburtire,
pensara puru allu petrusìnu farvutu, ma tutti e ddoi nu’ mbòsera
‘ffannu ḍḍu paccatu.
Nsomma te ḍḍa sira ḍḍài se zziccàra a ulìre... e scusi,
scusi, te notte, ‘gnettantu se vìtiane propiu intra ḍḍu casèḍḍu,
aḍḍunca s’èrane cchiati ‘a prima fiata.... e aḍḍunca n’ìa prutùta
l’anima a tutti e ddòi.
Intantu passàvane li misi, ‘a panza criscìa, iḍḍa cercava cu
sse la ccùccia cu lla veste ca era bella larga, ma na tiscraziata
26

Quattru cunti
te monaca ca turmìa vicinu a iḍḍa se nne ncorse; na notte la
secutàu e scuprìu tuttu. Nu’ disse nenzi a cciuvèḍḍi, ma la
tìnne t’occhiu.
Passàra nove misi e quannu stìa cùcchia cu sgrava, ‘a superiora
scìu te notte allu casèḍḍu aḍḍunca sta lla spattava lu
monucu, l’amante. Iḍḍu scìa cu nn’aḍḍa criatura, na carùsa te
quasi trent’anni, una ca era stata disonorata e llassata te nu
telinquente te nu paese vicinu ca nu’ s’era fattu cchiui bbitìre;
na carusèḍḍa ca tutti pijàvane an giru percè era stata cacciata
te casa; parèḍḍa, scìa menza squartata e campava se pò
ddire, sulu te lemòsina, te carità.
‘U monucu l’ìa canusciuta nu ggiurnu e ll’ìa cunvinta cu
sse pìja iḍḍa lu vagnone ca ìa nascìre... e ca poi ìa pensatu
iḍḍu cu lli campa tutti e ddoi. E ḍḍa notte l’ìa purtata aḍḍà
ssutta cu lla face canuscìre alla suora, e propiu ḍḍa notte, fiju
meu, tuttu te paru se rumpèra l’acque e jutata, pe’ mmotu te
tire, te ḍḍa carùsa, ‘a monaca sgravàu. Ma lu testinu nfame,
propiu tannu, mentre staci essìa, fice murire ffucatu ḍḍu
beḍḍu fìju. Nu’ te ticu quanti chianti... quanti chianti ca se
fìcera; chianse puru ḍḍa carusa ca nu’ centrava a nnenzi.
Mo’ nu’ ssapìane cc’ìane ‘ffare: ‘a monaca ulìa cchiama
jutu, ‘u monucu la scunsijava e lla vagnùna, mparuata, tremulava
tutta. Alla fine topu tantu tiempu tecìsera cu pprècane
ḍḍ’animèḍḍa intra ḍḍu casèḍḍu. Fìcera na fòggia piccina,
piccina a nn’angulèḍḍu e llu sutterràra.
‘A monaca, pardennu sangu, se nne turnàu chianu, chianu
allu cumentu e pe’ ttre ggiurni stese curcata e malata.
Ciuvèḍḍi suspettàu nenzi, sulu ḍḍa tiscrazziata te monaca ca
la spiava sapìa tuttu percè l’ìa secutata puru ḍḍa notte ca ìa
parturùtu.
‘U monucu, chiancennu, se nne turnàu a “Santu Latteriu”
27

Quattru cunti
e ccumpagnàu cu llu ciùcciu ḍḍa carusa allu paese, ma nci
fose ggente ca li vitte e dde pressa allu crammàne spargìu la
uce intra tuttu Matinu. -L’ànnu vista cu nnu monucu ‘sta
notte! Tiscrazziata, puru cu ll’òmmini te chièsia se la face!
Quiḍḍa è nna ndemuniata! Quiḍḍa è nna sbergugnata!-
Nsomma, ne nne tìssera te tutti ‘i culuri. E cusì, senza nuḍḍa
curpa, ḍḍ’innucente scìu spicciare am mucca a tutti quanti.Tutti
la nzurtàvane ḍḍa pòvara fìja e ‘i vagnuni la rravagnàvane
e lla pijàvane a petre.
Quannu lu sìppera li parenti, scèra ‘lla cchiara e iḍḍa tisse
ca ḍḍu monucu nu’ lu canuscìa mancu, tisse ca l’ìa cchiatu
scasularmente e ca n’ìa fatta la carità. Ma ḍḍi parenti, ca erane
poi ddò cursupìni, cci ffìcera? Scèra lu stessu an cerca te
ḍḍu monucu, lu cchiara propiu sutta a ḍḍu casèḍḍu ca ngianucchiatu
sta preava e llu scutursàra bbonu, bbonu te mazzate.
Nsomma lu fìcera a cciommu!
‘Stu fattu lu vinne ssapìre tuttu lu paese e siccomu
ciuveḍḍi sapìa comu se chiamava, quannu se cuntava te ḍḍu
monucu lu chiamavane tutti Fra Cciommu. Ài capitu mò “Fra
Cciommu” ci bbole ‘ddice? E puru ḍḍu casèḍḍu, poi, pe’ tutti
fose lu “casèḍḍu te Fra Cciommu”.
Sta tte ticìa ca ḍḍa vagnuna, parèḍḍa, passava le pene te
lu nfiernu; cercava cu sse spieca cu palore soi, cercava cu
ddice a tutti quanti ca iḍḍa nu’ centrava a nnenzi, ma
ciuveḍḍi la critìa; ci cchiui la scansava. Comunque ‘stu fattu
lu sìppera puru alli paesi vicini. Lu monucu topu tutte ḍḍe
mazzate, stese stuccatu intra ‘llu lettu cchiui te nu mese e
dopu nu’ se fice vitìre cchiui an giru.
Intantu ‘a madre superiora, parèḍḍa, nu’ pìjava riggettu,
suffrìa pe’ llu fìju mortu; timìa cunussìa se vanìa a ssapìre
tuttu. Nu giurnu, quannu capìu ca era stata scuperta te ḍḍa
28

Quattru cunti
monaca ca turmìa te costi, tecise cu sse nne scappa t’u cumentu.
E cusì fice. ‘A notte ca vinne, te paru allu monucu,
sparìu te Matinu.
Dḍa monaca, poi, topu nu picca, tuttu spumpàu e nci fose
nu scandalu, maah! Tisse ca l’amanti se nn’erane fusciuti e
ca lu piccinnu mortu te sicuru l’erane precatu intra ḍḍu
caseḍḍu!
Pe’ tantu tiempu lu casèḍḍu te “Fra Cciommu” rrumase
bbandunatu, poi ‘a porta fose chiusa cu lli cuzzetti e ogne
notte, quannu lu tiempu era stiḍḍatu, cu lla luna china, te
ḍḍ’intra essìane lamenti; tutti ticìane ca era l’arma te ḍḍu
picciccheḍḍu ca nunn era statu vattisciàtu.
Passara l’anni, ansi seculi, ḍḍu casèḍḍu zziccàu ccatire
morsi, morsi e lli monici se nne scera te Matinu percè
ciuveḍḍi cchiui li putìa vitìre ca erane ddevantati ricchi
spunnati. Puru ‘e moniche se nne scera. Sparèra ḍḍi ddò cumenti
te paru cu lle chièsie. Susu “Santu Lattèriu” nu’ rumase
nenzi, sulu farche stozzu te parìte te petre, na cisterna e
nna spece te crutta sgarrata; sutta “Ssanta Nastasìa”, poi, topu
tant’anni ficèra ntorna na chiesiceḍḍa nova ca ete quiḍḍa
ca nc’ete moi.
Poi, cu llu passare te lu tiempu, lu paese se ngrandìu; se
zziccàra ‘ffare nu saccu te case su’ ‘a “Matonna t’u Càrmunu”
e ssusu ‘a chiazza te San Giorgi e allu cinquecentu Matinu
rrivàu cu sorpassa, saccherà, mille abitanti; fìcera puru ‘a
chiesia t’u Rusariu cu llu cumentu percè rrivara li patri domenicani
e poi se zziccàra frabbicare case puru sutta ffore.
E allu seicentu rrivàu lu mumentu ca li patruni te ḍḍu
casèḍḍu te sutta “Fra Cciommu”, aḍḍunca tutti ticìane ca
nc’era l’acchiatura e llu tamòniu, ulèra cu llu sgàrrane ca ulìane
‘ffannu, saccherà, na massarìa. Ma quannu scèra cu llu
29

Quattru cunti
mìnane an terra, allu primu corpu te zzoccu, se ntìsera uci ca
vanìane te sutta ‘a terra. Se ntìsera chianti e lamenti e lli
frabbicatori se nne scappàra tutti pe’ lla paura.
Allora turnàu an galla ḍḍu fattu te tanti seculi prima. Ognetunu
lu cuntava a motu sou; nc’era cinca ticìa ca ḍḍi lamenti
erane te ḍḍu piccinnu ca nu’ truvava pace... ci ticìa ca
aḍḍintra nc’erane anime, spiriti, macàre. Nsomma, quannu se
mmantuàva ḍḍu caseḍḍu ognetunu se facìa ‘a cruce alla
smersa.
Ma nci fose na càpura te pàcciu ca nu’ timìa ciuveḍḍi ca
nu giurnu scìu cu ddò turchi, ddò schiavi ca l’era ccattati allu
portu te Caḍḍipuli e sgarràu ḍḍi pariti. Quannu zziccàu
‘smuvire ‘e petre te terra, sutta a nnu muntùne cchiàu ddò
scheletri, ddò morti, unu mbrazzatu all’aḍḍu; ognetunu tanìa
ttaccata am piettu na cruce te fierru rruggiàtu. E quannu
sprecàra cchiù nnanzi, acchiàra quantu na francata te
ossiceḍḍe e capèra ca erane osse te nu picciccheḍḍu.
Allora se scuprìu ca ‘a monaca e llu monucu, ḍḍa notte,
nu’ se nn’erane scappati te Matinu, ma parèḍḍi, erane sciuti
cu mmòrene te costi allu fiju loru. Nsomma pe’ llu paccatu
ca erane fattu s’èrane ccisi; saccherà ca s’èrane pijatu lu
valenu? Ennàh! Immaggina, mo’, fiju meu, cci scumpìju ca
nci fose.
Tutti ‘i matinesi curiusitùsi šcìsera sutta “Fra Cciommu”
cu bbìtene ḍḍi morti. Mo’, quiḍḍ’osse nu’ sapìane aḍḍu
l’ìane pprecare...tannu ‘i morti li precàvane intra ‘e chièsie,
ma l’arcipreite te tannu ca lu chiamavane Dracone, nu’
mbulìa ḍḍ’osse sconsacrate te nu monucu e dde na monaca
ca erane fattu nu paccatu murtale...e poi nc’erane puru
quiḍḍe t’u piccinnu ca era mortu senza cu èggia vattisciatu.
Nci fose, comunque, nu monucu domenicanu ca se ti-
30

Quattru cunti
spiacìu e ca scusi, scusi, senza ‘ddice nenzi a cciuveḍḍi, te
notte, scìu, mise ḍḍ’osse intra nna cašcetta te tàula e se le
purtàu allu cumentu e siccomu nu’ rivescìu ‘lle preca intra
lla chièsia, le ccucciàu intra nnu stipu t’a cella aḍḍunca iḍḍu
turmìa. Ansi ḍḍu stipu lu chiuse propiu cu lli ccuzzetti!
Allu crammàne, quannu turnàra li frabbicatori nu’ chiàra
cchiui l’osse e tutti tìssera ca era statu lu tiàulu ca se l’era pijate
percè erane osse te tannati e nne ttuccavane a iḍḍu. Nci
fose, poi, na macàra ca tisse ca l’anima te li tannati nu’ pò
pijàre mai riggettu.
Allora minàra an terra ḍḍu casèḍḍu, puliźźàra tuttu quantu
e ffìcera nu casùne nou, cranne, cranne... saccherà na massarìa...
nu’ sàcciu! E tte ḍḍu giurnu nu’ se ntìsera cchiui lamenti.
Ma alli primi anni te l’ ottucentu ‘i monici domenicani se
nne scera te Matinu percè lu cuvernu francese ne li cacciàu.
Tannu, se tisse ca a cquà ssutta nnui chiusèra cchiui te centu
cumenti. I monici se nne scera e llu cumentu se lu pijàu ‘a
Comune ca llu nfittàu a case e a puteche.
Poi, topu tant’anni quannu ‘a Comune tecise cu fface Porta
Carrese, ttuccàu cu mmina an terra menze case te lu cumentu.
Nu frabbicatore mentre sta sgarrava nu parite truvàu
intra nnu stipu ḍḍa cašcetta ca era stata ccucciata tanti anni
rretu te ḍḍu domenicanu e pensannu ca ḍḍ’intra nc’era
n’acchiatùra, turnàu te notte e senza cu llu vite ciuveḍḍi se la
purtàu a casa; ma quannu l’aprìu, ‘u fessa, mmèce cu ttrova
li sordi, cchiàu l’osse t’i ttre morti. Mparuàtu, nu’ sapìa cci ìa
ffare... ulìa cu lle porta ntorna allu cumentu o alla chièsia, ma
timìa cunussìa lu piscavane. Allora cci ffice? Fice n’aḍḍa cašcetta
te tàula cchiù cranne, quiḍḍa la mise intra e la nchiuvàu
tutta; poi la ccucciàu sutta ‘a cantina... fice na fòggia su’
ll’àšciucu, calàu ‘a cašcetta e susu ne mpuggiàu na utte te
31

Quattru cunti
vinu te quiḍḍe cranni, cranni.
Topu farche annu ‘stu nunnu se nzuràu e quannu ‘a mujère
šcise ‘a prima fiata sutta ‘a cantina, ntise scàzzachi, lamenti,
chianti te vagnone e, mparuàta, se nne salìu fuscennu
susu ccasa. N’u tisse allu maritu, ma iḍḍu, bballatrone, ticìa
ca nu’ putìa essere veru e ca iḍḍa staci essìa pàccia. Pareḍḍa,
alla notte nu’ durmìa cchiui, pensava sempre aḍḍài; ogne
giurnu se llitacava cu llu maritu e ssutta ‘a cantina nu’ šcinnìa
ca timìa. Poi topu, te veru se mmalazzàu.. te ciriveḍḍu
oju ddicu, e allora se nne scappàu te casa.
Passàu ‘u tiempu e a Matinu ìa te picca ca erane zziccatu
ffare ‘u campusantu... e nna notte ḍḍu nunnu cci ffice? Pijàu
ḍḍa cašcetta te l’osse, la purtàu allu campusantu e lla precàu
an terra, quasi all’entrata, senza cu mminte susu nuḍḍu segnu...
mancu na cruce te tàula mise! Cusì finarmente se libberàu.
E pare ca topu se nzuràu ntorna cu nna furastiera te nu
paese vicinu.
Quiste osse ca ui iti cchiate stammàne nu’ tanìane nuḍḍa
cruce susu, no? E quiḍḍe suntu! Nu’ ll’iti cchiate aḍḍunca
prima zziccava ‘u cimiteru vecchiu, aḍḍunca moi ànnu fatta
‘a chièsia t’a Comune?- -Sì- dissi io- a fianco.- - E quiḍḍe
suntu! L’osse ca ìti cchiate suntu quiḍḍe te “Fra Cciommu”!
Viti, fiju meu, comu suntu le cose? Ticìa bbonu ḍḍa macàra:
l’anime te li tannati nu’ pìjane mai riggettu...e cusìne è
statu! Quarda ḍḍ’osse... topu tanti anni ncora nu’ trovane nu
postu sicuru cu ndafrìscane am pace.-
Quistu è lu cuntu te Fra Cciommu; mava cusìne me l’aje
cuntàtu e jeu senza scamiḍḍu te na vìrgula bbe l’àggiu tau.
32

‘U CICI CCÙJA
Nc’era na fiata a Matinu, tant’anni rretu, nu nunnu curiosu
pe’ ccomu se vestìa e pe’ comu campava. Se chiamava
Luigi Panarella, ma tanìa tante nciùrite. Ci lu chiamava “Cici
Ccùja”, ci “Frate”, ci “Pupu” e cci “U pupu t’u frate”.
Era canusciutu te tutti; scìa an giru cu nnu maccaturu an
canna ttaccatu a nnocca comu li zzìngari; purtava tre-quattru
neḍḍi alli mani, unu era na càpura te morte t’argentu fintu;
susu ‘e razze tanìa li segni te li carcerati (tatuaggi) e allu
puźźu na źacareḍḍa te santu Roccu. An capu, a ffiate, purtava
na pajetta.
Ticìane ca la mujère l’era lassatu e sse nn’era sciuta luntana;
ticìane puru ca tanìa nu fiju tuttore e ca stìa a Napuli.
Ne piacìane l’annimali, spece ‘i cani e cu lli cani facìa puru
teatru. Mpannìa na tenda te saccu alla porta te casa e quannu
l’aprìa se nfacciàvane ddò cani: ‘a Brèscia e lla Màuse, tutti
e ddoi mmaestrati. Quannu, poi, ne murìa n’annimale ne facìa
nu funerale comu cristu cumanna. Lu benaticìa, lu precava
e ssusu ne mpizzava na cruce cu llu nume....e nnu mazzu
te fiuri. Ssamijava a ḍḍi persunaggi te circulu ca te fannu ritire.
Ah! Sta mme riscurdava ‘bbe ticu ca tanìa nu bastone cu
llu pumu, ca parìa t’argento, nu bastone tuttu chinu te smaraje
ca facìa sciochi te prestìggiu; lu facìa fitare cu nnu tìsciutu
33

Quattru cunti
e spitava i caruseḍḍi spiritosi ca era capace cu nne zzumpa ‘a
sicaretta te ucca sprisciannu nasu e facce senza ‘nne face
male.
Quasi tutti ne ulìane bene, speciarmente ‘i vagnuni; ogne
ttantu, però, nc’era farche ffessa ca lu nzurtava; quannu
sfrecciava susu ‘a via Roma cu nna vecchia bicicretta te corsa
cu llu manùbbiu chinu te źacareḍḍe tutti ne bbattìane ‘i
mani, ma nc’era ffarche disbellatu ne minava l’acqua an facce.
Na fiata lu fìcera catìre e sse fracassàu lu nasu.
Jeu l’àggiu canusciutu quannu iḍḍu era oramai cranne; jeu
era piccinnu, scìa ncora alla mèšcia. Lu canuscèi quannu oramai
vivìa propiu te misareḍḍu, quannu scìa an giru pe’ llu
paese tirannu nu carrellu (na crossa càšcia su quattru rote fatta
te iḍḍu stessu) e scìa vinnennu llavatùri, mmenatùri, cruci,
castillò e monopattini fatti cu lle tàule ca rispicava allu Narducciu
te Mèšciu Cici Primiceri. Scìa casa-casa cu cconza
segge e vancuteḍḍi.
Mo’ bbe cuntu nu fattu ca me ccappàu a mmie nu giurnu.
Era te state, na mmane, versu le ùnnici, jeu sta sciucava a
paḍḍi cu nn’amicu mmenzu ‘a fera, quannu vìttime rrivare
‘stu Cici Ccùja ca se farmava nnanzi ‘ccasa t’a Niculetta,
quiḍḍa ca facìa cosatuci. Scìa cu nna cannuttiera russa, cu
nnu maccatùru an canna a ffiuri e cu nnu paru te caźźi ggialli.
S’ìa farmatu ca n’ìa ccunzare ddò segge.
Topu farche minutu, mentre sta nne nbicinàvane, curiosi,
cu spiàmu intra ḍḍa càscia, lu sire te l’amicu meu, ca sta turnava
tannu te fore, chiamàu l’Aucùstu e jeu rrumasi sulu cu
quardu tutte ḍḍe stròfule ca nc’erane ḍḍintra mmassate: tàule,
taulèḍḍe, mpanavite, tanaja, cruciere e nc’erane puru nu
vancuteḍḍu pe’ bbagnuni e nnnu monupattinu. Jeu rrumasi
bbabbatu te frunte a ḍḍu monupattinu... (nunn ìa mai tenutu
34

Quattru cunti
unu) e mme misi a ngirare le rote ca erane ddò cuscinetti; me
piacìa ‘ssentu ḍḍu rùsciu!
‘U Cici Ccùja mpizzava chiovi, me quardava e nnu’ dicìa
nenzi. Poi, tuttuteparu me fice cu nzardu - Vuèi vagliò!
Quiḍḍu nunn è ppe’ ttie, stàttete quetu! Ansi no, sai cci ffanni?
Tamme, tamme ḍḍa tanàja ca nc’è ḍḍintra! - Jeu ne la pijài
e nne la tesi. Iḍḍu, allora, me tisse - Oi ‘tte nne vèi cu
mmie ‘mme faci te tiscìpulu?- Jeu nu’ rispusi percè me nne
scurnava.
Spicciatu te ccunzare ‘e segge cci ffice? Pijàu t’intra ḍḍa
càšcia nu castillò e mme llu rricalàu e jeu ne tissi - E lla
mazza?- Iḍḍu, ncazzatu, me rispuse - Vuèi vagliò, ‘u sai ca
si’ spruntatu? Poi ritennu - Comunque a mmie me piàcune li
vagnuni sveji! Comu te chiami?- Ne rispusi -Toniu - E iḍḍu -
Allora Toniu, jeu mo’ sta mme riccòju ‘ccasa, ci òi la mazza
veni a casa mia ca te la rricalu; ne tegnu una fatta te nu
mmenatùru ca ca propiu jeri l’àggiu spicciata te pittare.- Se
pijàu ddò mustazzòli ca ne tese ‘a Niculetta, ddoi propiu a
nnumeru, se li mise intra ‘lla bbòscia te li caźźi e ngirannu
t’a via t’u Roccu Furnaru, se mbiàu versu ‘a chiazza.
Jeu lu secutai. Sutta ‘a via nova cchiamme ‘u Benitu Spaliggia
ca sta purtava nu scencu allu macellu; lu nzurtàu e nne
mise lu bastone an menzu all’anche! Nnanzi ‘u putichinu t’a
Ggisa De Salve, poi, lu farmàu ‘a mujere t’u Carotta ca sta
scinnìa te via Del Tufu e nne tisse - Cici, tocca cu ssali a casa
cu mme cconzi ‘a piattèra ca sta mme còtula tutta; bbasta
‘mme minti ddò chiovi! - ‘U Cici Ccùja rispuse - Te nne
mintu puru quattru e ffranchi puru, ma ‘a piattèra me l’ài
scinnìre acqua ssutta –
E ppercè? Tai, sciamu, nu minutu nci ole! - - Nu’ si’
mmancu fessa! Lu sai ca ḍḍa via a mmie nu’ me piace; aḍḍài
nc’è ‘a casa te carèmme e jeu nu’ mbòju ‘bbìsciu nnè ca-
35

Quattru cunti
rèmme e nnè macàre! A’ ci nu’ passu te ḍḍa via te lu trentasette,
te quannu fici lu spazzinu, a mmanu ‘llu potestà!-
Susu ḍḍa via abbitavane ddò sorellastre soi ca cu iḍḍu
stìane a curteḍḍi.- Ci nu’ mboi ‘lla scinni, allora fammela
purtare a casa.- - Va bbene va’, mo’ vìsciu ci capàcitu marìtuma;
stàttete bbonu.- rispuse ‘a mujere t’u Carotta e se nne
scìu.
‘U Cici Ccùja a ḍḍu mentre trasìu intra ‘u putichinu e sse
nne ssìu cu ddò pesciulini te liquirizzia; unu se lu mise an
mucca e l’aḍḍu me lu tese a mmie - Nà, fatte ‘a ucca!- Critannu
poi se mise ‘ccantare na canzune te Lucianu Tajoli ca
ssìa te intra l’artuparlante t’u bbarra t’u Spunsiellu!
Salemme, poi, susu ‘a chiazza, scìu tarittu tarittu alla puteca
t’a Sara Mmammineḍḍu e nne futtìu na francate te pastìje.
Iḍḍa, quasi ritennu, lu critàu - Tie la mmesti ca nu’ c’è lu
Santu ca sinò...- ‘I vecchi ca stìane nnanzi alla putèca t’u
Mastizza ne critàra - Attenzione pupu, ca quiḍḍa te trova
l’acqua!-
Tirannu ḍḍu carrellu salemme, poi, susu Mmatinu vecchiu
e trasìu intra ‘llu furnu t’u Ciaḍḍuzzu, ma te ḍḍài se nne ssìu
castimannu (nunn erane tata ‘a cuḍḍura te pane) e critannu. -
A bbui era bbanìre ‘u moniceḍḍu e nnu’ a ḍḍu pouru cristu!-
Poi se ngiràu a mmie e mme tisse - Tie sai cci gg’è ‘u
moniceḍḍu?- Jeu rispusi -No- E iḍḍu -‘U moniceḍḍu ete
l’arma te nu vagnone ca è mortu senz’ èggia vattisciatu; è
nn’anima ca se tiverte te notte cu bba fface scherzi, se minte
susu lu piettu e carca li fiacchi cristiani... e puru li bboni; veramente
ḍḍu tiscrazziatu puru l’annimali nzurta... pensa ca ne
ttacca ‘a cuta alli cavaḍḍi. Eh, ci vanìa a casa mia... facìa jeu
‘bba bbonu, sapìa jeu comu n’ìa ffuttìre ḍḍu ccoppulinu russu
ca tene an capu. E ccomu me l’ìa ddire a ḍḍu staje
36

Quattru cunti
l’acchiatura!!!
Tie sai cci gg’è l’acchiatura? - - No - rispusi jeu. - Ma allora
tie nu’ sai nenzi; e jeu ticìa ca si’ nnu vagnone sveju?
L’acchiatura, beḍḍu, ete nu tesoru, suntu li sordi ca se ccucciàvane
li ricchi; li ricchi, na fiata, li sordi li mintìane intra
ccapaseḍḍe e lli precàvane an terra o intra lli parìti.
L’acchiatura se pò ncora cchiare ci nc’è farche parente mortu
ca te vene an sonnu e tte tice ‘u postu aḍḍunca tie la poi truvare;
però nc’è nna cosa: ca cinca l’àcchia tocca ‘sse vinne
l’anima allu tiàulu. Tie lu canusci ‘u tiàulu?- Jeu, prontu, ne
rispusi -Sine, lu canuscu !- - Lu canusci? Bbrau! E ddici ca
nu’ sai nenzi? Timme, timme, ma ‘u tiàulu è bberu ca tene ‘a
cuta? - Sì, è bberu; e gg’ete puru longa!- -Ài capitu tie?- tisse
quardannu an celu. - Quistu te sàtana ne sape cchiui te
mie!-
Poi, topu ca sorpassamme ‘a casa te Papa Nicetu, me
mmušciàu nu trappìtu ca stìa suttafunnu. -Tutti tìcune ca acquassutta
nc’è nn’acchiatura e mmèce l’acchiatura sàcciu jeu
aḍḍu sta. Aḍḍa ssusu sta, viti? aḍḍa ssusu!- Critava e mme
mmušciava a casa t’a Chella-llà.
Cchiù nnanzi, poi, rrivati allu Sparpaja me tisse ; Ài ssapire
fiju meu ca Matinu vecchiu è tuttu chinu te trappiti, na fiata
se macinava notte e giurnu, moi ne su’ rrumasti picca e
nu’ c’è cchiui nu fessa ca te rricala nu litru t’oju!- E llu Maurizziu
te nanzi ‘ccasa - Vuèhi Cì, veni cquài, veni... ca cquài
sordi nu’ ci nnè, ma patroju quantu nn’oi!- E iḍḍu mmèce
pensava ‘rravagna ‘a Maria Llolla ca stìa te frunte. -Eh, jata a
ttie ca nu’ capisci nenzi!- Ne ticìa.
Ne mbiàmme, poi, versu lu “riale” e cchiamme nnanzi ‘e
moniche ‘u Roccu Putenza cu llu ttrerrote ca sta bbinnìa gelati;
se ngiràu a mmie e mme ddummannàu- Nu coppulinu
l’oi?- Topu ca se nfilàu ‘i mani intra lle bbòsce tisse- Paccatu
37

Quattru cunti
ca tegnu sordi sani sinò te lu cattava!-
Passamme, poi,nnanzi ccasa t’u Gginu Nciccu, salèmme te
susu ‘a via Santa Rosalia e alla fine rrivàmme a casa te lu
Cici Ccùja. Na casa frabbicata mmenzu alle scale ca scìnnene
sutta ‘a via nova, quiḍḍe ca nci suntu prima t’i calipsi,
nnanzi ccasa t’u Muzzune, vicinu allu focularu! Era na casa
piccinna, piccinna e quannu rrivàmme, ‘u cane ca stìa ttaccatu
a ḍḍa ffore vicinu alla porta t’u cessu, se mise a zzumpare
e a bbajare pe’ lli presci.
‘U Cici lu vasàu susu lu musu e nne tese na pastìja t’a Sara.
Trasennu intra ccasa se presentàra ddò mušci, unu jancu
e unu nìuru. -A bbui nenzi! Nu’ su’ cose pe’ bbui!- Intra ḍḍa
casa nc’era: nu lettu, nu saccùne te sbrìje cu susu nu chiasciùne
tuttu rrignatu e nzivatu; a nna ripata nu cantru e nnu
rinale; susu a nna tàula senza tuvaja nc’erane ddò cannìle e
dde costi na sèggia e nnu vancutèḍḍu. A nn’àngulu na bicicretta
te corsa vecchia, menza rruggiata, an terra ddò coppi
pe’ lli mùšci e nnenzi aḍḍu.
Me quardàu ritennu e mme tisse – Viti, quistu è llu palazzu
meu! E quista è la mazza!- topu ca l’ìa pìjata te sutta ‘u
lettu. -Tamme, tamme ḍḍù castillò ca t’àggiu tatu prima.- Jeu
ne lu tesi. - Quarda, su’ fatti tutti e ddoi te fàggiu, te tàula
tosta... assivoja cu bbinchi cu quista!! Te piàcune?-
Aḍḍu mentre te ḍḍa ffore na nunna se mise a ccritare - Cici,
Cici, si’ turnatu?- E ttrasìu na vicina te casa cu nnu piattu
te pasùli an manu e llu mpuggiàu susu ‘a bbanca mentre ncora
cacciava fumu. Prima cu sse nn’esse ‘u Cici Ccùja ne tisse-
Bbona sorta, cummare! - Poi, cci ffice? Essìu ḍḍa fore e
turnàu cu nnu sicchiettu t’acqua ca l’ìa tirata tannucitannu t’a
cisterna, (cu llu nzartu ncora ttaccatu), inchìu ḍḍi coppi te
terra, poi pijàu ḍḍu piattu te pasùli e lli spartìu: ne tese nu
picca allu cane e nnu picca alli mušci.
38

Quattru cunti
-Sta bbiti? A mmie m’è rrumastu sulu ‘stu cucchiàru.- Poi
cu ll’ucca menza china -Senti, e mmo’ nu’ te nne vai? Cci sta
spetti? ‘A mazza te l’àggiu ggià data!- -Jeu rispusi - Sì, ma
mo’ nu’ sàcciu ‘a via cu tornu a casa; - - Ah fiju te bbona
mamma, m’ài futtutu!- Tisse ritennu - Comu? Nu’ sai ‘tte
nne torni a casa? Toccu! Nu’ sai ‘ttorni ‘rretu ‘a fera? Te ci
si’ ffìju?- - Jeu ne tissi - T’a Ggina Masella, t’a mèšcia tu
tabbaccu!- - Ah, t’u Tunatucciu si’ ffiju? T’u picciuttaru?
Senti, allora facìmu na cosa, mo’ spetta picca, picca, ssèttate
a ‘stu vancuteḍḍu, fanni cu mme spìcciu ‘stu restu te pasùli
ca sinò mo’ se ndafrìddane.-
Cu ddò ccuni se pulizzàu ḍḍu piattu, poi cacciàu ḍḍi ddò
mustazzòli ca tanìa intra ‘a bbòscia. -Eh, osci è festa, osci tanìmu
puru lu cosatuce!- Me nne tese unu a mmie e unu a
iḍḍu. -Nà, fàttete ‘a ucca! E mmo’ sciamu ca te portu a casa.-
Pijàu ḍḍa bicicretta tutta china te stampini e dde
źacareḍḍe, la scise an coḍḍi sutta ‘a via nova, me fice nchianare
susu ‘u telaiu e dde corsa alla scisa versu casa mia.
Rrivatu nnanzi ccasa me fice scinnìre e mentre ticìa- Mìnchia
cci ndoru t’òrgiu bbrustulitu nc’è acquavanna!- cacciàu
t’e bbòsce ddò cuscinetti -Nà, tànneli a ssìrata, cu quisti fatte
fare nu monupàttinu ca m’àggiu ncortu ca prima, nnanzi ‘a
Niculetta, sta tte lu manciavi cu l’occhi.- Ma mentre sta mme
li tìa se fermàu.- Ansi no, vistu ca si’ nnu vagnone ca me
piaci, tàmmeli, tàmmeli a mmie ca lu monupàttinu te lu fazzu
jeu!
39

‘A CHIESA T’U CRUCIFISSU
Nònnuma se chiamava Giovanni Maselli, ma te nciùrita
facìa “Masella o Giuvanni Caroppaciucci” pe’ llu mestieri
ca facìa.. E pe’ llu mestieri ca facìa era canusciutu te tuttu lu
paese.
Era nu tipu furbu e nu’ timìa ciuveḍḍi. Ficuràtibbe ca
quiḍḍu, te notte, scìa, sulu, intra ‘llu campusantu cu rriccoje
foje creste. Era scherzusu cu tutti e a tutti ne nne facìa te tutti
i culuri.
Na fiata, poi, ne cumbinàu una tantu crossa ca scìu an
mucca a tuttu Matinu. A nnu cumpare sou ne murìu nu
ciucciareḍḍu propiu topu ca nònnuna l’ìa caruppatu. ‘U patrunu
era cunvintu ca era mortu te tispiacire percè secondu
iḍḍu era statu caruppatu fiaccu; ”era statu caruppatu sanni,
sanni” cusì ddicìa. Allora scèra allu vetrinariu e quistu tisse
nvèce ca era mortu te na malatia nfettiva e ca quiḍḍa carne
nu’ se putìa vinnire mancu a prezzu te vàscia macelleria;
ansi obblicàu lu patrunu cu ssuttèrra l’annimale sutta ‘nnu
metru e mmenzu te terra.
Nònnuma, ḍḍu triscrazziatu, pe’ dispiettu cci ffice? Allu
crainnotte scìu e sprecàu lu ciucciu, lu fice morsi morsi e lu
spartìu a tutti li parenti ca se lu mìsera intra ‘lle capase e llu
‘źźara cu llu citu cu nu’ bbaje a mmale. Tannu pe’ lla fame
40

Quattru cunti
ca nc’era se facìa quistu e aḍḍu!
Topu n’ annu, fìjusa lu Celestinu, zzìuma, ca era nu menzu
pueta, scrisse na posìa su’ ‘stu fattu, na posìa ca scìu an
giru a tuttu lu paese e cusì lu cumpare, nu’ sulu fose
rrubbatu, ma fose puru pijatu an giru.
Sta bbe ticìa ca nònnuma, siccomu canuscìa tanta ggente,
canuscìa puru tanti culacchi, sapìa tante storie, tanti fatti ca
scìa cuntannu all’amici intra alle putèche e intra allu
bbarbieri, o mentre caruppava... e lli cuntava puru a casa
quannu stìa te cornu. Na sira a mmàva ne cuntàu ‘stu fattu:
Nc’era na fiata, allu milleottucentuottantanove nu sìnnucu
ca se chiamava Mmemmi ca ordinàu cu mmìnane an terra
tuttu ‘u fruntìle t’a chiesa t’u Crucifissu, chiesia oramai
sconsacrata, percè erane llargare ‘a via nova. Allora quiddi
t’a Comune cumannàra ddò travinieri cu ccàricane tuttu lu
matriàle te sgarru. Unu se chiamava Serafinu e l’aḍḍu Curratu.
‘U Serafinu tanìa casa e staḍḍa sutta ‘e “Càmmere” e ‘u
Curratu abbitava susu ‘a “Matonna t’u Càrmunu”.
Tuttu ‘stu matriàle l’ìane purtare e scaricare allu largu
“San Bbiaggiu” aḍḍunca se facìa la fera. Pare ca ‘u Serafinu,
an menzu a ttanti jaggi se nne fice unu pe’ cuntu sou; se purtàu
scusi a ffore nu travinu te cuzzetti, i meju-meju, percè
ulìa cu sse llarga ‘a staḍḍa.
Comunque ḍḍu giurnu ca sta sgarravane,‘stu Serafinu vitte
vicinu allu trappìtu ca nc’era te frunte alla chiesia na
bbeḍḍa carùsa cu l’occhi verdi e lli capiḍḍi nìuri, cu ddò fiette
longhe longhe. Ne zzumpàu lu core e tannucitannu se ne
nnamuràu. Alla sira, topu scapulàtu, se ndarizzàu e dde pressa
turnàu allu paese, ma ḍḍa carùsa nu’ c’era cchiui.
Alla notte nu’ pijàu riggettu e allu crammane nu’ scìu
‘ffatica, ma scìu ‘ddummanna an giru ci farchencunu canuscìa
ḍḍa vagnuna. Tutti rispunnìane ca ḍḍà bbicinu nu’ abbi-
41

Quattru cunti
tava nuḍḍa caruseḍḍa cu ll’occhi verdi e cu lli capiḍḍi nìuri a
ffiette. Ma ‘lla notte, ncapunìtu, turnàu a Matinu e ‘sta fiata
la cchiàu ntorna nnanzi allu trappìtu, comu allu jeri. Se tisse
ca ficèra all’amore intra ‘lla chiesia, nu paccatu mortale te
quiḍḍi crossi, puru ca ḍḍa chiesia era menza sgarrata e sconsacrata.
Allu crai lu Serafinu se źźau tuttu llesatu, scìa scaranfatu
a tutte ‘e vanne e nu’ sapìa percè; comunque comu sempre
pijàu lu travinu e scìu ‘ffatica. Alla sira ntorna riturnàu alla
chiesia, ma la nnamurata nu’ la cchiàu. Turnàu pe’ sei -sette
sire te fila, ma ḍḍa carùsa nu’ se fice bbitìre cchiui e iḍḍu allora
la cercàu pe’ mmari e pe’ mmunti. Nu ‘se tìa pace, la
cercàu pe’ anni, ansi pe’ tutta la vita. Se mmalazzàu te core e
dde capu e tutti erane cunvinti ca n’ìane fatta na fattura. Sta
te fattu ca ssìu pàcciu e ca lu chiùsera allu manicomiu te
Lecce, aḍḍunca, poi, murìu.
Susu ‘a staḍḍa ca era frabbicatu a ffore, na notte catìu nu
furmine e nne ccise puru ‘a vacca ca nc’era aḍḍintra.
Topu n’annu successe n’aḍḍu fattu: intra ḍḍu trappìtu ca
nc’era te frunte alla chiesia faticava nu bbeḍḍu vagnone ca
tutte le sire quannu ìa mmanciare essìa ḍḍa fore cu nne tà nu
ccune te minèšcia a nna mùšcia nìura cu ll’occhi verdi ca
sempre alla stessa ura se facìa truvare annanzi ḍḍa chiesa
menza sgarrata.
Ma passata la staggione te la màcina, ‘stu carùsu se perse
t’a circulazione; lu cercàra a tutte ‘e vanne e llu cchiàra
topu nu mese intra ‘lle tajate t’u marchese, intra llu sciardinu
te l’anime, mortu; pare ca ìa catutu pe’ sbaju, te notte. Scìa
tuttu scaranfatu te capu alli peti e tutti pensàra ca prima cu
mmore, ìa caminatu, ci sape pe’ quantu tiempu, ‘mmenzu alle
scràscie.
Passàra l’anni e ḍḍa chiesia sconsacrata canciàu tanti pa-
42

Quattru cunti
truni; unu te quisti ulìu cu lla sgarra tutta quanta, ma quannu
zziccàu ‘bbinchiare cu llu zzoccu annanzi allu parite ca
nc’era pittatu ‘u Crucifissu, ne vinne nu corpu e morse.
Cinca sta ffaticava cu iḍḍu tisse ca ḍḍu giurnu ìa vistu a
nn’àngulu t’a chiesia na mùšcia nìura cu ll’occhi verdi ca
scamava.
Dḍa chiesia, comunque, poi, rrumase vacante pe’ tant’
anni e lli vicini ticìane ca te notte santìane sempre rusci e
lamenti. Poi fose usata comu staḍḍa e nna notte cavaḍḍi e
muli se nne scappàra tutti versu ‘a via te Tajanu. Allu crai
nc’era ci tisse ca era stata opera te lu moniceḍḍu ca, tispiettusu
com’era, n’ìa ttaccata a cuta all’annimali e ll’ìa fatti
scappare tutti quanti... e nc’era ci tisse ca ggiurni prima,
nnanzi alla chiesia, ìa vistu na mùšcia nìura cu ll’occhi verdi,
e ca te sicuru era stata iḍḍa ca ìa scaranfatu alli peti
l’annimali e l’ìa tutti sparpajati, percè sicuramente era na
macàra... e quiḍḍu postu era sou; aḍḍintra iḍḍa facìa le macarìe!
Nsomma ognetunu ticìa la sua; se nne ticìane te tutti i culuri.
Dḍa chiesia, poi, rrumase vacante pe’ tantu tiempu e i
vicini santìane sempre rusci te catine, scami te mušci, lamenti
te piccinni; tuttu Matinu cuntava te anime, te moniceḍḍi, te
acchiature... e nna fiata nci fose nu frabbicatore, nu menzu
scumunicatu, ca na notte se sunnàu sìrasa mortu ca ne tisse
ca ḍḍintra lla chiesia nc’era n’acchiatura; e iḍḍu fessa fessa
scìu pe’ tre notti te fila, ma tutte ‘e fiate cchiava te frunte na
mùšcia nìura ca cercava cu llu scaranfa. Perciò nu’ se bbuscàu
nenzi e mmorse te crepacore.
Topu, ḍḍa chiesia t’u Crucifissu canciàu tanti patruni, ma
tutti fìcera na fiacca fine.
‘Stu fattu ‘u nonnu Giuvanni ne lu cuntàu a mmava farche
annu prima cu mmore.
43

Quattru cunti
Poi all’anni cinquanta, ḍḍa chièsia la minàra an terra e
nne fìcera una nova e dde tannu, sparèra macàre, moniceḍḍi
e anime tannate.
Comunque quannu jeu era vagnòne, santìa cuntare ncora
te ‘sta mùšcia nìura ca ognettantu se facìa bbitire all’àngulu
te ḍḍu trappìtu, sutta ‘a nicchia te Santu Vitu: na mùšcia
nìura cu ll’occhi verdi! Mo’ nu’ se vite cchiui, ma nc’è ci tice
ca te notte farche fiata se sèntene ncora scami.
44

STORIE E CUNTI
TE MÈšCIU ANGIULINU RAMARU
In tutti i paesi sono esistiti personaggi bizzarri, macchiette
che venivano derise dal popolo per il loro abbigliamento e
per il loro comportamento comico forse, ma che erano comunque
quasi tutte persone ricche di bontà d’animo.
Chi non ricorda a Matino ‘u Pupu, ‘a Chella-llà, ‘u Tarzan,
‘a Maria Llolla, ‘u Duca ta Lemma, ‘u Nzinu Càfiu,
‘u Pumpìliu? e llu Nazzionale, spauracchio di noi bambini
che al sol sentire pronunciare il suo nome ce la facevamo
addosso. Tutta gente rimasta, e perchè no, nei nostri
cuori come figure che ci hanno accompagnato durante parte
della nostra vita
Ci sono stati anche altri personaggi, sempre originali, di
un’altra pasta però; come ‘u Cosimeḍḍu Tarluciàru, organista,
dalla capigliatura alla Giuseppe Verdi, ‘u Zenu Tamborrini,
anche lui organista ma persona colta, dotata di una
memoria di ferro, così come mèšciu Rafeli che faceva contemporaneamente
“benzinaru e sartòre”.
Molti ricorderanno anche Don Gaetano Marsano, alias
papa Caitanu, un prete buontempone ricco di umanità. Poi
‘u Vitale Russo, uomo di chiesa, ‘u Nicola Chezza, cantore,
mèšciu Vitu Palatini, un poetastro estemporaneo che faceva
lo stagnino (ramàru) e poi l’Angiulinu Giudice, anche lui
45

Quattru cunti
“ramàru”, un artigiano di talento deceduto da poco, amante
della lirica (tutti lo ricordiamo, in bicicletta, rientrando da
lavoro, che fischiettava arie famose di opere liriche), vecchio
sodale della “Società Operaia”, instancabile lavoratore,
persona dotata di grande spirito di osservazione, a conoscenza
di molti “cunti” e di molte storie paesane che sapeva
narrare con linguaggio molto colorito.
A casa ho un suo caro ricordo: una “menziceḍḍa” fatta
con perizia certosina che conservo sulla “cimanìa” del caminetto
come soprammobile.
E mèšciu Angiulinu Ramaru, negli ultimi anni della sua
vita, (era già in pensione da un bel po’) mi raccontava, quasi
sempre seduti su una panchina della villa comunale, tante
di quelle “storie”, a detta di lui, tutte vere.
- Ài ssapire, caru bbeḍḍu, ca jeu tegnu cchiui te 86 anni e
ca sàcciu vita e maràculi te Matinu. N’àggiu viste e passate
tante ca tie nu’ poi mancu ‘mmagginare.-
E mme cuntava te quannu nc’erane i pulacchi a Matinu,
te quiḍḍu ca facìane... ca scìane a mmissa alla chiesia t’u
Cumentu, ca scìane allu ginnasiu, alla scola pulacca te lu
Nazzariu Sauro, ca tanìane ḍḍà vanna ‘lla Carrozzini nu
campu te pallone surtantu pe’ iḍḍi, ca tanìane puru ‘u cinema
loru; me cuntava te quannu nci fose ḍḍa tiscràzzia te lu
quarantacinque, ca nu pulaccu ccise ‘u Roccu Paianu sulla
via te Casaranu.
Na fiata me cuntàu te lu scioperu te lu quarantasei ca i
matinesi an menzu ‘a chiazza t’u cumentu, fermàra ‘a corriera
mentre ‘u secretariu comunale sta sse nne scappava...
ca lu cchiappàra a ttiempu a ttiempu e llu scutursàra bellu
bellu te mazzate... e ca tannu, pareḍḍu, carceràra ‘u Nzinu
Scamàle ca era nnucente.
N’aḍḍa fiata te quannu fallìu ‘a “Cassa Rurale S. Gior-
46

Quattru cunti
gio”, quannu tania l’ufficiu ḍḍùnca moi nc’è ‘a Società Operaia,
ca nci fose ggente ca se ccise... ca unu se minàu intra
’u puzzu alla “Pèrgula”, n’aḍḍu se impicàu a nn’àrgulu te
nèspula alli “Cucci”, e ca aḍḍa ggente, ca ìa persu tuttu,
ttuccàu cu sse ne scappa te Matinu. Puru mèšciu Ronde perse
sordi!
N’aḍḍa vèspara me cuntàu ‘a storia te ḍḍu bitellu ca “per
atti innominabili” a nna vagnuna te sei anni t’a scola elementare,
fose tenunciatu e perse lu postu; quiḍḍa te nu carbinieri,
(portaordini) ca se ccise te sulu, cu lla motocuzzi
500 susu a curva t’a via te Casaranu, quiḍḍa te quannu allu
Giorgi Carichinu ne mòrsera ddò cavaḍḍi ca catèra intra
‘lle tajate te Taurisanu e quiḍḍa te quannu frabbacàra ‘u
cumentu te Monache te Clausura.
Nu giurnu mentre me cuntava cunti e storie te ggente ca
iḍḍu canuscìa, me vinne te core cu nne ticu - Mèšciu Angiuli’,
ma percè nu’ me cunti farche fattu ca t’è ccappatu a ssignurìa-
-A mmie? Eh, ci t’era cuntare quante n’àggiu ccappate
jeu...-
- Cùntame te ḍḍu fattu te lu quarantasei, quannu ulìane
‘tte mìntene carceratu pe’ ḍḍu piccinnu ca murìu.- - Te quale
fattu? Ah, te ḍḍu vagnone ca morse, te ḍḍu picciccheḍḍu?
Sìne, ma jeu tannu nu’ c’entrava a nnenzi! Fose cusìne: Murìu
nu vagnone te tùtici misi, ca pe’ mmie, ci oì ‘llu sai, era
ggià menzu malatu; morse percè tìssera ca ìa pruàtu nu picca
te zzambajone te màmmasa; zzambajone fattu a nna cucina
te “l’UNRRA”. Nu’ te ticu lu scumpìju intra allu paese! Pensa
ca le monache nu’ mbòsera cchiui cu ddannu te manciare
alli vagnùni te l’asilu e a Matinu rrivara i carbinieri te Parabbita
e quiḍḍi te Casaranu; poi vìnnera puru ddò dottori te
Lecce cu llu Sanitariu, fìcera analisi susu analisi e cchiara
47

Quattru cunti
mutu chiummu a nna caldaia ca ìa stagnatu jeu giurni prima.
Pe’ quistu la curpa l’ulìane ‘mme la ncòḍḍane a mmie, ma
jeu nu’ centrava a nnenzi!
Tannu ‘u sinnucu era Don Giorgi Primiceri ca era statu
votatu misi primi e l’assessore era ‘u professore Stefanu Espositu.
Jeu ne tissi- Vuèi bbeḍḍi, ui nu’ siti mancu fessi! Jeu
nu’ centru nenzi a ‘ste cose!- E šcèi ‘ccuntu a Papa Nicetu
ca l’erane votatu all’urtime votazioni; e ḍḍu purpuratu sai cci
mme rispuse? Ca iḍḍu nu’ centrava cchiui cu lla pulitica.
Bèh, lassàmu perdere, và! Ài capitu, no? Poi, allu spetàle
te Lecce fìcera ‘u sbaru allu vagnone, però nu’ me ricordu
cci essìu.
Topu stagnàra n’aḍḍa fiata ḍḍa caldaia e cu llu manciare
se scìu nnanzi comu sempre; sàcciu però ca le monache fìcera
casinu ca ulìane cu cucinane iḍḍe in propiu e nu’ alla
“UNRRA”.
Comunque nu’ me ricordu comu scìu spicciare, ma na cosa
è certa ca jeu nu’ tanìa nuḍḍa, nuḍḍa curpa!-
Me cuntava tanti fatti ca erane ccappati propiu a iḍḍu e
tanti ca l’era ntisi te aḍḍi, ma a ccomu ticìa, tutti veri. Comunque
veri o no, iḍḍu li sapìa cuntare... eccomu puru!
Me ticia fatti te tanti amici soi; me cuntava te mèšciu Vituardu
ca quannu sciù a Roma intra ‘llu bbarbieri t’a stazzione
sputàu pe’ sbaju propriu intra ‘a sputacchiera; te mèšciu
Ntoni Masella, ca facìa ‘u fiscularu e ca era capicàutu e
ca na fiata se presentàu lu ticiannove te marzu alla taulàta
te ciciri-ttrìa ca facìa ‘U Gginu Ngùsciu nnanzi ‘a putèca
pe’ tutti i falegnami te Matinu, e ca lu Gginu ne tisse -
Quarda mèšciu Ntoni ca tie a cquài nu’ centri, tìe fisculi faci
- e iḍḍu rispuse - E’ bberu, fazzu fìsculi e nnu’ suntu falegname,
ma sàcciu ffazzu chiaùti però!-
Me cuntava fatti te mèšciu Pippi Marra, te mèšciu Ninu
48

Quattru cunti
Fersini,‘u Curdella, t’u Luvici Angelè, quiḍḍu t’i liquori, t’u
Giuvanninu Musìu ca susu ‘a società operaia nu’ mbulìa
mai cu ppaca ‘a smazzatura te le carte te sciocu; te mèšciu
Vitu cu llu Porru, te lu Ntoni Canìja ca cantava sempre “
Ciceri simanàu la cuccuàscia susu li munti te Santa Parmeta...
“, t’u Sparpaja e dd’u Ninu Lecci ca erane sperti ‘ssègnane
‘i tebbiti susu ‘e librette; t’u Roccu Furnàru ca pare
ca se futtìa ‘u casu, quiḍḍu ggiallu t’intra ‘e latte ca mmannavane
l’americani e ca spartìa ‘a parrocchia; t’u Duca ta
Lemma ca quannu turnàu te Milanu, a ccinca, comu sempre
lu nzurtava, ne rispunnìa ca i matinesi su’ tutti gnuranti e ca
allu spetàle te Milanu, iḍḍu lu chiamavane Signor Marsano,
aḍḍu cca Duca ta Lemma.
Poi me cuntava puru storie te topu ‘a querra ca jeu ggià
canuscìa. E tannu, allora jeu ne ticia - Quarda mèšciu Angiulinu
ca quiste le sàcciu puru jeu - - E iḍḍu me rispunnìa -
Sìne, le sai, ma nu’ comu a mmie! Nu’ tte scurdare ca jeu
su’ ggiudice te cugnume e dde fattu: le cose ca sàcciu le canuscu
meju te l’aḍḍi e lle vau ticennu tutte quante precise e
ggiuste.
Na vèspara, alli primi te nu nuvembre, sempre intra ‘a
villa comunale, topu ca m’ìa cuntàtu tanti fatti t’a bbanda te
Matinu, t’u maestru Papatìa e te Don Faustinu Provenzanu,
me cuntàu na storia te na fimmana matinese ca se fice mprenare
te n’ufficiale pulaccu intra llu cessu, rretu ‘llu sciardinu
te casa. Na storia longa ca nu’ tutti canuscune percè,
comu me tisse iḍḍu, le cose fòsera fatte comu s’erane ffare,
ca picca lu sìppera.
Me tisse ca ‘sta carùsa cu sgrava ttuccàu ‘sse nne vaje
fori te Matinu, e ca topu farche annu,(i polacchi ormai se
nn’erane ggià šciuti), se nne turnàu spusata cu tre fiji; lu
cranne era ‘u fiju t’u pulaccu, ma ciuveḍḍi lu sippe e
49

Quattru cunti
ciuveḍḍi l’à mai saputu, tranne i parenti stritti; e mme tisse
puru ca ‘stu cristianu stìa ncora a Matinu e gg’era puru
nzuratu. - - E jeu ne ddummannài - E nu se pò sapire ci ete? -
- No, no, nu’ lu poi sapire!-
Allu crai cercai ntorna cu llu spròu ticennu - Ma jeu lu
canuscu? Màmmasa ci ete? Ci era?- - E iḍḍu me rispuse quasi
ncazzatu - Noni, nu’ li canusci! Nnè iḍḍu nnè mmàmmasa!
Comu te l’àggiu ddire?- Nsomma mèšciu Angiulinu su’ stu
fattu nu s’aje mai spumpatu. Ansi, na fiata se nne ssìu cu ‘ste
palore - Teni ‘mmente ca lu paccatu se tice e nnu’ lu peccatore.
Tie , mmèce a quantu sentu, òi ‘ssai paccatu, peccatore
e fruttu te lu peccatore. Tie nn’òi mute, vagnone meu!
Parole sagge dette da un uomo giusto ed onesto!
50

LU MARCHESE TE MATINU
Nc’era na fiata nu nunnu ca alla sira t’a viscìlia te Natale
te lu 1700 sta sse riccujìa a casa, quannu, susu alli Grutti, a
nn’àngulu t’a via, cchiàu, nturtijatu intra na pezza te lana,
nu vagnunceḍḍu ppena natu; te pressa lu purtàu alla chiesia e
llu prèvate, prima lu scarfàu bellu, bellu e poi lu fice llattare
te na fìmmana te ḍḍa nnanzi ca ggìà llattava n’aḍḍa criatura
te ddò misi.
Allu crai tuttu Matinu sippe te ‘stu fattu; lu sìnnucu allora,
comu usanza, ne tese ‘u cugnume sou e cercàu na famija cu
sse lu pìja e fose propiu lu marchese ca se pijàu ḍḍu
scettateḍḍu; lu chiamàu te nume Natalinu e nne lu tese allu
cumpare Nardu cu llu crisce. Lu cumpare Nardu era ‘u capu
pecuraru te la casa marchesale, era nzuratu cu lla Pumpea e
ttanìa ggià na fija ca se chiamava Carmina; iḍḍu abbitava intra
allu palazzu e nu’ alle massarie percè aḍḍintra cuarnava
sei, sette pecure ... ‘e meju, meju, ca erane ffare ‘u latte sulu
pe’ lla famija t’u marchese. Nu’ passara mancu ottu giurni e
llu vagnone vinne vattisciatu alla chiesa matre; i cumpari fòsera
lu marchese e lla sua mujere.
Lu Natalinu cusì criscìu intra llu palazzu marchesale cu
‘sta famìja te pecurari, na santa famìja ca scìa a mmissa tutte
‘e tumìniche e ddicìa lu rusariu tutte le sire. Pensati ca lu
51

Quattru cunti
Nardu era puru fratellu te la confraternita t’a Santa Maria te
la Pietà.
Criscìa te paru ‘lla Carmina ca era ddò anni cchiù ccranne
te iḍḍu. Sciucàvane sutta ‘lle cantine te lu palazzu percè susu
alli saloni nu’ putìane salire e ‘a mamma Pumpea se raccumannava
cu stannu ncorti percè ḍḍa ssutta era pericolosu ca
nc’erane tajate e traùcculi. Sciucàvane a scunnarèḍḍi e sse
ccucciàvane intra pposti aḍḍunca nu’ trasìa mai ciuvèḍḍi. Na
fiata ‘u Natalinu s’era persu e tutti pensara ca ìa pijatu a via
secreta t’u marchese, quiḍḍa ca suttaterra scìa spicciare allu
sciardinu te Lazzareḍḍu. Iḍḍu, mmèce, era salutu ‘e scale e
ss’era ccucciatu rretu ll’artare te lu salone, n’artare ca stìa intra
nnu cranne stipu ca se chiutìa cu nna porta. Lu piscàu lu
marchese, lu critàu, ma siccomu era sciušcettu sou nu’ ne
fice nenzi.
‘Ppena se fice te sei anni, ‘u Natalinu ttuccàu ‘sse zzicca
bbuscare lu pane te sulu; zziccàu purtannu le pecure allu pasculu
te paru alla Carmina. Na fiata scìane sutta allu
“Mmimmu”, n’aḍḍa a “Santumilianu”, ma quasi sempre li
ttuccava susu ‘e màcchie, susu alli “Muḍḍoni”. Partìane alla
manne mprima e turnavane prima cu scurisce.
Tuttu lu giurnu quardavane le pecure, sciucàvane culli
cipuḍḍazzi, cuntàvane, ritìane e quardavane lu mare versu la
turre te lu “Pizzu” e poi a menzatìa se spartìane ḍḍu stozzu te
pane tostu cu farche matura ca acchiavane an terra. Na fiata
‘u Natalinu scanciàu nu pecurìnu pe’ nna ciaḍḍina e sta sse
lu manciava... menu male ca lu farmàu ‘a Carmina; e dopu
‘stu fattu, iḍḍa lu nzurtava sempre e nne ticìa ca era ncora
cacanìtu percè nu’ canuscìa mancu ‘a cacca te le pecure.
Se ulìane tantu bbene propiu comu frate e ssoru e lla
Pumpea li trattava propiu comu ddò fìji. ‘U Natalinu era nu
52

Quattru cunti
bbonu vagnone; ‘a staḍḍa la pulizzava quasi sempre iḍḍu e
intra ccasa facìa tante sarvìzzie; riccuìja lìune pe’ llu focu e
jutava ‘a mamma Pumpea quannu ìa llavare ‘a lana te le pecure.
Scìa a mmissa alla Matonna t’u Carmunu e nne piacìane
i cavaḍḍi te corsa ca tanìa lu marchese (saccherà ca ne
tanìa na trentina); essìa pàcciu pe’ unu ca se chiamava
“Lampu”.
Tutte le sire quannu se riccuìja te le màcchie caricu te
vinchi ca sarvìane allu frate t’a mamma Pumpea cu fface cisti
e panareḍḍi, scìa cu sse quarda ḍḍu cavaḍḍu e ddicìa sempre
intra te iḍḍu:- Quannu me fazzu cranne m’àggiu ccattare
nu cavaḍḍu cu ssamija allu Lampu!-
Passàu lu tiempu, ‘i vagnuni criscèra e llu Natalinu nu’
sulu se nnamuràu sempre te cchiui te ḍḍa bbestia, ma perse
la capu puru pe’ lla Carmina. Tutte ‘e notti se sunnava ca cu
iḍḍa an cavaḍḍu allu “Lampu” trajàvane susu alle màcchie
contru lu jentu, mentre ‘a luna li tincìa tutti t’argentu. Iḍḍa
capìa tuttu, ma facìa la smurfiusa percè era cchiù cranne e
gg’era ggià signurina.
A ttrìtici anni, lu marchese lu llevàu te le pecure e llu
mmannàu ‘ffatica intra ‘a staḍḍa te le sciumente. Iḍḍu, a ddire
‘a verità, era ulutu meju cu ccuerna ‘i cavaḍḍi te corsa, ma
allu marchese, puru ca era nunnu sou, nu’ tanìa ‘u curaggiu
‘nne lu tice.
Lu marchese parìa bbonu e bbrau, però era nu pijanculu te
quiḍḍi ca...! Era patrunu te tuttu Matinu; “patrunu te la terra
e dde li cristiani” cusì ddicìa ‘a mamma Pumpea, “e dde le
fìmmane... speciarmente t’e carùse!” L’ìa mmannatu alla
staḍḍa t’e sciumente percè erane aumentate te numeru. N’era
rrivata una nova te Martina Franca ca se chiamava
“Fiuriḍḍa”. Pe’ iḍḍu fose nu corpu te ccetta allu core. Nunn
53

Quattru cunti
era capace cu sta luntanu t’a Carmina. Comunque, zziccàu
ffare lu sciumentaru; stìa fiaccu tuttu lu giurnu e nnu’ bitìa
l’ura cu rriva la sira cu lla vite. A verità puru ‘a Carmina
patìu tantu percè puru iḍḍa s’era nnamurata te lu Natalinu.
‘A Pumpea se nn’era ncorta... eccomu, te ‘sta cosa, ma nu’
se mmušciava, gnuttìa e ddicìa rusari e avemarie alla Matonna
t’u Carmunu cu lli juta iḍḍa ḍḍi ddò beḍḍi carusi.
‘U tata Nardu, mmèce, nu’ suspettava nenzi! Comunque
lu verme nu tardàu cu ttrase intra ‘llu casu e ḍḍe ddò anime
se zziccara ulìre scusi. Se vitìane te notte sutta lle staḍḍe o
sutta ‘lle cantine te lu palazzu marchesale.
Riturnannu allu marchese, tutti sapìane ca era nu fimmanaru,
ìa pijatu te lu nonnu e sse ticìa puru ca ‘a fimmana, ‘a
prima notte te matrimoniu l’era passare cu iḍḍu; era ppacare,
comusìa na specie te tassa. Ma ‘u Natalinu nu’ critìa a ‘ste
puttanate; allu marchese ne ulìa bbene, certu nu’ comu alla
mamma Pumpea e allu tata Saru ca l’erane crisciutu. Te
cranne ìa saputa tuttu quanta ‘a storia sua, ìa saputu pe’ filu e
pe’ segnu comu erane sciute le cose; nu’ ne putìa ulire male
a unu ca bbene o male l’ìa riccotu allu palazzu. E poi nu’
n’ìmu riscurdare ca era sempre ‘u sciušcettu sou, puru ca
iḍḍu nu’ ll’ìa chiamatu mai nunnu.
Ma nu giurnu piscàu lu nunnu marchese ca sta sse ppuntava
i caźźi topu ca na serva era ssuta t’a staḍḍa ḍḍunca sgravàvane
‘e sciumente. Rrumase....! Nu’ critìa a quiḍḍu ca era
vistu! Era propiu veru quiḍḍu ca ticìa la ggente: iḍḍu se rascava
tutte le fimmane ca ulìa! E tte ḍḍu giurnu nu’ lu potte
cchiui vitìre. E quannu poi sippe te la Carmina ca ḍḍu porcu
n’ìa minatu l’occhiu puru a iḍḍa, ca la quardava cu ntaresse,
allora se ntise trapanare lu core pe’ la cialusìa. Ne vanìa cu
bba ‘llu ccite.
E dde tannu zziccara li quai; nu’ durmìa nné notte nné
54

Quattru cunti
giurnu, stìa sempre all’erta e se raccumannava cu lla Carmina
ticennu cu staje sempre luntana te ḍḍ’annimale.
Ma rrivàu nu giurnu ca s’era šcire a Gravina alla fera te
San Giorgi cu sse portane ottu cavaḍḍi te corsa; e siccomu
unu te li quardiani vinne a mancare percè s’era mmalazzatu
fose chiamatu lu Natalinu a ppostu sou. Aprite celu! Lu Natalinu
nu’ mbulìa cu bbà; tisse ca puru iḍḍu tanìa la freve. Lu
tata Nardu però cercàu cu llu pija cu llu bbonu ticennu- Sìa
fiju meu, vane! Vane ca aḍḍài mpari tante cose, canusci tanta
ggente, aḍḍài trovi cavaḍḍi ca su’ cchiù bbeḍḍi te lu Lampu.-
Nsomma, poi, chianu, chianu se capacitàu e, mbrazzannu ‘a
Carmina mentre la salutava, ne tisse:- Apri l’occhi, me raccumannu!-
Partìu te paru all’aḍḍi e lu pansieri stìa sempre a Matinu;
tanìa tanta paura te ḍḍu puttanieri te lu marchese percè sapìa
ca ci quiḍḍu ulìa na cosa.....
Turnàu topu tieci giurni e ppena quardàu an facce ‘a Carmina
capìu. Capìu tuttu e partìu sparatu cu bbà ccite lu marchese,
ma lu tata Nardu lu farmàu cu lla forza e lu tinne pe’
tutta la notte ttaccatu cu nu rruvagnu allu lettu. Iḍḍu nu’ se
tìa pace, sbattìa comu nu pàcciu e critava comu nu tannatu.
Poi ‘a mamma Pumpea pe’ ddò giurni te fila ne fice vivìre
na specie te cottu fattu te iḍḍa ca lu fice carmare, ansi lu
bbabbàu propiu, lu fice ddevantare quetu comu nu
pecureḍḍu... e ffice cu perde puru la palora; nu’ cuntava, nu’
musciava e nu’ mbulìa ‘bbite cchiui ciuveḍḍi.
Chiamara ‘u tuttore, ‘u marchese ne fice vanire puru unu
te Napuli, ma nu’ ci fose nenzi te fare. ‘A Carmina, chiancìa
e chiancìa, sicura ca era ddevantatu scemu pe’ llu tispiacìre.
Cinca nu ‘sapìa comu erane sciuti li fatti ticìa, mmèce, ca lu
carùsu era statu fiatatu te na sacàra. Ma le cose nu’ stìane
55

Quattru cunti
propiu cusìne! Intra te iḍḍu, lu Natalinu pensava e ripensava
a comu ìa ffare cu ccite lu marchese.
E nna notte, alla securdàta, se presentàu allu marchese vastutu
te fìmmana. Lu puttanieri sta spattava cu nne portane
na carùsa ca s’ìa spusata ‘lla mmane. Ppena lu Natalinu trasìu,
lu porcu se zziccàu a spujare e iḍḍu allora, cu tutta la
ràggia ca tanìa an corpu, ne mmullàu tre corpi te pugnale am
piettu e se nne scappàu, sicuru ca l’era ccisu. Ma lu marchese,
tannucitannu parìu mortu, ma poi se sarvàu percè lu purtara
te pressa allu spetàle te Napuli; però lu fessa, topu te
ḍḍu fattu, le fìmmane ttuccàu cu sse le riscorda... e comu
puru! Sta te fattu ca campàu n’aḍḍu annu, mancu, sempre intra
nnu funnu te lettu, poi morse!
‘U Natalinu intantu ḍḍa notte stessa sparìu! Nu’ se sippe
cchiui nenzi te iḍḍu! Ci ticìa ca l’erane zziccatu e ll’erane
minatu viu intra ‘lle tajate t’u palazzu, ci ticìa ca l’erane vistu
sutta ‘lle “Càmmere”, spreggiatu an facce... . nc’erane,
poi, quiḍḍi ca ticìane ca s’era ccisu sulu. E llu bbellu fose ca
nu’ sparìu surtantu lu Natalinu, ma puru ‘a Carmina! A
pprincipu tìssera ca s’era ccisa puru iḍḍa; poi essìu ‘a uce ca
l’erane cchiati morti tutti ddoi intra a nnu canale, vicinu alla
ora te la “Motta”, ma nunn era veru. ‘Nci fose puru ci tisse
ca se nn’erane scappati alla “Vetrana” alli parenti t’a Pumpea.
Nsomma, se nne tìssera te tutti i culuri!
Na cosa è certa: ca ‘a fine ca fìcera ḍḍi carùsi nu’ la sippe
mai ciuveḍḍi!
56

‘A MATONNA T’U CARMUNU
(‘A Matonna senza nume)
Quannu jeu era vagnone, vicinu a casa mia nc’era nu
vecchiu ca se chiamava Pantaleu ca me cuntava tanti cunti
te macàre, t’acchiature e dde anime e tanti aḍḍi fatti ca
iḍḍu ticìa ca erane tutti veri. Ne piacìa poi cu mme cunta te
quannu s’ìa tiratu a surdatu e dde quannu ìa fattu ‘a cuerra..
L’urtimu cuntu ca me cuntàu prima ‘mmore fose quiḍḍu
t’a Matonna senza nume. Ssattati tutti e ddoi nnanzi ‘llu focalire,
lu Pantaleu zziccàu te cusìne:
A’ ssapire, fiju meu, ca cinque seculi ‘rretu a Matinu
scuppiàu na querra tra Matinu Cranne e Matinu Piccinnu ca
turàu cchiui te cent’anni.
Matinu Cranne fose ca zziccàu e Matinu Piccinnu nu’ šcìu
pe’ curtu! Tannu a Matinu, ssutta ffore era chinu te vigne e
dde cranu, mentre susu ‘lle màcchie nc’erane surtantu scràscie
e spine. ‘E màcchie erane abbitate t’i matinesi te Matinu
Cranne, cristiani furbi, tutti pecurari e macchialuri; ssutta
ffore nc’era, mmèce, Matinu Piccinnu abbitatu oramai surtantu
te picca cristiani quasi tutti furesi ca erane chiamati
brusciapajàre e cucuzzari. Susu ‘e màcchie nc’erane le pecure
e sse facìa lu casu, sutta, mmèce, se facìa lu pane.
I ddò paesi scìane te cuncertu, se scanciavane pane e casu,
57

Quattru cunti
puru ca ognettantu nc’era farche fessa ca se llitacava e se
vattìa. Susu Matinu Cranne nc’erane ddò chiesie: una cranne
ca era ‘a chiesa te San Giorgi, nu’ quidda te moi, e nn’aḍḍa
cchiù piccinna, ca tìcune ca era ‘a chiesa te Santu Elìa cu lla
làmia a ìrmici e ccannizzi. Matinu Piccinnu tanìa na chiesia
ntica, ntica, menza catuta sutta a Santa Nastasia e ddò chiesie
piccinne frabbicate vicine allu paese: una te Santu Lìggiu e
saccherà l’adda te San Bbiaggiu. Poi c’erane aḍḍe chièsie an
mezzu ffore, tutte picciccheḍḍe, te sicuru sconzacrate, ca nu
se’ sape aḍḍu stìane te precisu.
Comunque tutti i matinesi erane bboni cristiani; tutti scìane
alla chiesia cu pprèane Ddiu, li santi e la Matonna, e propiu
pe’ nna Matonna ca cchiara precata suttaterra zziccàra na
vera querra.
Zziccàu cusìne: ddò cucuzzari, a ttiempu te vinnìgna, scera
an càccia susu ‘e màcchie te Matinu Cranne. Unu se
chiamava Culonna, nu cristianu forte, crossu e ertu comu
n’armàtiu, l’aḍḍu, mmèce, era finu, finu, ca la ggente lu
nciurava “Tennarume”.
Era te vèspara e cercannu la malogna se spartèra: unu scìu
te na vanna e l’aḍḍu te l’aḍḍa. A nnu certu puntu ‘u Culonna
ttuppàu a nna petra, ‘mmenzu alle scràscie; era na chianca
crossa, crossa te laccìsu ca stìa precata menza an terra e
menza te fore e susu ‘sta chianca nc’era pittata na Matonna.
Lu Culonna quannu la vitte rrumase bbabbatu: minàu lu fucile
an terra e sse ngianucchiàu! Tremulannu, critàu e chiamàu
lu Tennarume.
‘U Tennarume quannu vitte ḍḍa Matonna nciarfisciàu -
Matonna, quanta è bbeḍḍa! Pare ’a Matonna Ndolurata; ansi
no, quista à dd’essere ‘a Matonna Mmaculata!- - Cci ddici
armènu- tisse lu Culonna- nu’ biti ca tene lu piccinnu? E poi
nu’ stare ḍḍài mpalatu comu nu baccalà; cchiuttostu fatte ‘a
58

Quattru cunti
cruce e ddamme ‘u ggiàccu cu nne stùsciu ‘a facce!- E llu
Tennarume allora ne tese ‘u giaccu, se ngenucchiàu e se nne
fice ttrete te cruci. Topu ca ‘u Culonna la stuscìau alla bbona-
Quarda ‘sta facce, ete propiu ‘a mamma te Gesù
Mmamminu! Ca nu’ sapìmu cci Matonna ete nu’ nne face
nenzi, sempre Matonna ete e gg’ete tantu bbeḍḍa!
Topu nu picca te scuncertu, tècisara cu sse la pòrtane a
Matinu Piccinnu, ma timìane cunussìa li piscavane i matinesi
te Matinu Cranne e allora pensara meju cu ttòrnane te notte
quannu tutti turmìane.
E cusì ffìcera: a menzanotte spaccata turnara e ccitti, citti,
cu nna pala sprecàra ḍḍa Matonna , la mìsera tisa, la cuprèra
cu ddò vasazze e sse la caricara an coḍḍi; ma allu cchiù bbellu
se truvara te nanzi quattru pecurari ca ne ncarnara li cani.
Nu cane lupu mozzacàu ‘u Culonna a nn’anca e la Matonna
ne scappàu te coḍḍi. Allora zziccàra le mazzate: ddòi contru
quattru; o meju, unu contru quattru; nu’ te ticu...’u Culonna
se vattìa comu nu leone, ‘u Tennarume, mmèce, timìa e se
ccucciava rretu a iḍḍu, ma a nnu certu puntu se bbuscàu nu
corpu te mazza an capu e scuppàu! Allora lu Culonna nu’
bitte cchiui: ccacciàu ‘u curteḍḍu, tese ttre corpi a nnu pecuraru
e poi sse nne fuscìu.
Dḍi pecurari, tannu stessu, purtara ḍḍa Matonna intra alla
chiesia cu lla làmia a ccanizzi e allu crammàne fìcera na
cranne festa! Misse susu misse e poi nne sparara puru i fochi
a ḍḍa Matonna senza nume! Lu Culonna, te sutta Mmatinu
Piccinnu, vitennu ḍḍi fochi an celu giuràu vandetta pe’
ll’amicu Tennarume e tutti i paesani ggiurara paru cu iḍḍu!
E fose propiu tannu ca scuppiàu la querra tra Matinu
Cranne e Matinu Piccinnu! Nuḍḍu matinese putìa scinnire
sutta a ffore e nuḍḍu putìa salire susu ‘e macchie. Era pericolosu,
pe’ nnenzi putìa scappare ‘u mortu! Sulu alle purgis-
59

Quattru cunti
sioni stìane mmiscati percè nc’erane ‘e quardie t’u Barone ca
li tanìane t’occhiu!
Lu Barone ulìa la pace e nnu ggiurnu tecise cu fface na
chiesia a cunfine te lli ddò paesi e ccu minte intra ḍḍa Matonna,
pensannu ca ci ḍḍa Matonna ‘ppartenìa a tutti, allora
le cose se mintìane appostu te sule.
Pensa, fiju meu, ca fice vanìre puru li monaci Domenicani.
Fice cumentu e chiesia, ma nu’ cumbinàu nenzi! Lu capu
te li macchialuri scìa vinnisciannu: -Te cquài ‘a Matonna
nòšcia nu’ se move, scinnisse lu Patreternu!- E cusì la querra
secutàu!
Ài ssapire ca tannu a Matinu ognettantu rrivava na brutta
carestìa; nc’era fame e miseria e la miseria purtava lu “morbu”.
Nci fose muta ggente ca murìu e murìu puru lu Culonna...e
tannu, tutti se ricordara puru te lu Tennarume e cusì
aumentàu la ràggia contru Matinu Cranne. I ddò paesi stìane
sempre a curteḍḍi; ‘u macchialùru nu’ putìa spusare na fìja te
nu cucuzzaru e nuḍḍu furese se putìa nzurare cu nna fìja te
nu pecuraru.
Però nu giurnu na carùsa ca se chiamava Sara, fija te lu
Manimpise ca era napùte t’u capu te li macchialuri, quiḍḍu
ca nu’ mbulìu cu sposta la Matonna, se nnamuràu te nu certu
Tore ca era napùte te lu Culonna. ’Stu Manimpise era però
nu santu cristianu; nunn era filu comu ‘u nonnu, iḍḍu nunn
era cuntrariu ci la fìja se spusava cu llu Tore, ma sapìa ca li
paesani soi te Matinu Cranne ne scìane contru; pe’ iḍḍi lu
Tore era sempre nu cucuzzaru, era sempre nu namicu. Tuccàu
pe’ forza cu ddice none a ḍḍu matrimoniu.
Se mise an menzu ntorna lu Barone cu bbite ci i ddò paesi
fannu pace, ma nu’ ci fose versu. La Sara però era na carùsa
tosta te capu, e dde notte, mentre tutti turmìane, se aźźava e
60

Quattru cunti
scinnìa sutta alla chiesia te li Domenicani e intra alla sacristìa
se vitìa cu llu Tore; nsomma se vitìa scusi cu llu zzitu.
‘U rufianu era ‘u sacristanu ca era pacatu te lu Manimpise cu
nnu’ dice nenzi a ciuveḍḍi. Lu Manimpise preava lu Signore
cu nnu’ se scoprene l’artarini percè sapìa ca ci li paesani soi
scuprìane lu fattu lu ccitìane. Preava sempre- Signore jùtame,
jùtame Tie!-
Ma na notte lu sacristanu nu’ se presentàu cu apre la sacristìa
percè s’ìa mmalazzatu e lla Sara rrumase pe’ tantu
tiempu ḍḍà ffore alla porta cu spetta lu Tore. Ma ppena iḍḍu
rrivàu, propiu te ḍḍà nnanzi s’acchiàu passare nu cristianu e
lli vitte.
Allu crammnàne tutti lu sìppera e tutti i matinesi te Matinu
Cranne scera te pressa a casa te lu Manimpise, tutti contru
lu tratitore. ‘A Sara, pareḍḍa, pe’ lla paura se mmalazzàu te
bruttu! ‘U Manimpise nu’ ‘ssìu cchiui te casa pe’ llu scornu
e llu Tore, puru iḍḍu, se nne scappàu te Matinu.
Passara l’anni e lla carestìa turnàu tecapu; ‘a Sara stìa
sempre ggiuncata intra ’llu lettu e llu Manimpise chiancìa e
preava lu Patreternu pe’ ḍḍa fìja sbenturata.
Rrivàu nu giurnu ca puru iḍḍu mmalazzàu; ne vinne nu
corpu e zzoppacàu te n’anca. Dḍu fattu allora tuccàu lu core
te la ggente; tutti pardunara lu Manimpise e la pace, se cusì
se pò ddire, riturnàu a lli ddò paesi.
Cusì i matinesi turnàra ogne ttantu ‘sse scànciane lu casu
cu llu pane e l’acqua cu lle lìune, percè sutta ffore nc’erane ‘i
puzzi e ssusu ‘e màcchie l’asche.
Lu Manimpise, poi, cu llu tiempu stese meju e tutti ‘i
giurni, chianu, chianu, zziccàu šcire alla chiesia, preannu
ḍḍa Matonna senza nume cu nne face na cràzzia alla fìja -
Matonna mia, ci me sarvi la Sara mia, te mprumìntu ca te
fazzu na chiesia nova e nn’artare tuttu te oru!-
61

Quattru cunti
Na sira, topu la nuvena, turnannu a casa, cchiàu la Sara tisa
annanzi ‘u lettu ca critava -Maràculu! Maràculu!- Chiancìa
e sse strincìa la smeràja t’a Matonna am piettu. Allora lu
Manimpise se la mbrazzàu e poi, presciatu, ssìu ḍḍa ffore e
critannu fice sapìre a tuttu lu paese ca la Matonna, ḍḍa Matonna
cchiata susu ‘lle macchie te lu Culonna e dde lu Tennarume,
n’ìa fattu nu maràculu! N’ìa sarvata la fija!
Allora tutti ‘i Matinesi, quiḍḍi te Matinu Cranne e quiḍḍi
te Matinu Piccinnu fìcera festa, ficera sciochi e sparara ‘i fochi
pe’ ttre giurni te sècutu. Allu quartu giurnu sgarrara la
chiesia e ccu llu jutu te lu barone ne zziccara a frabbicare
una nova, mutu cchiù cranne e mutu cchiù bbeḍḍa.
Quannu ‘stu fattu lu sippe ‘u Tore, te pressa turnàu allu paese
e sciu se mbrazza la Sara maraculata! Passàu n’annu, era lu
quinnici te luju, nnanzi ‘lla porta te la chiesia nova nc’era nu carùsu
ca sta spattava cu rriva la sposa! Era ‘u Tore ca s’ìa spusare
cu lla Sara! Dḍa ffore nc’era na fuḍḍa mai vista!
I ddò carùsi, ḍḍu giurnu, se spusara te frunte alla Matonna
e ḍḍu giurnu stessu li matinesi finarmente tèsera lu nume a
ḍḍa Matonna senza nume. La chiamara “Matonna t’u Carmunu”
percè l’erane cchiata mmenzu ‘lle màcchie, susu lu
munte Carmelu.
Cusì, topu quasi cent’anni, i matinesi fìcera la pace; spiccìau
la querra e Matinu ddevantàu nu sulu paese! Matinu
Piccinnu te ḍḍu giurnu sparìu!-
E’ bberu ‘stu cuntu? E’ bbera ‘sta storia? Ennàh! Comunque
na cosa è certa ca Matinu Piccinnu è esistitu teveru
e puru ‘a Matonna t’u Càrmunu è stata cchiata an terra,
susu lle màcchie!
62

‘A MMELA TARANTATA
A Matino, 50 anni rretu nc’era na famìja te quattru parsùni
ca abbitava susu ‘a “Matonna t’u Carmunu” topu ‘a casa
te papa Nicetu. ‘U sire se chiamava Nardu e ‘a mamma, Cristina;
‘a fìja, ca tanìa si e no 15-16 anni, se chiamava Carmela
e llu frate cchiù piccinnu ca tanìa 5 anni, Tumasinu. Turmìane
e manciàvane tutti intra nna casiceḍḍa aḍḍunca nc’era
‘u focalire, ‘a bbanca, ttre sèggie mpajate e nnu vancuteḍḍu.
Sutta ’llu lettu cranne tanìane ‘u cantru e llu rinale pe’ lli bisogni
te la notte; te giurnu scìane alla foggia ca nc’era ḍḍà
ffore. Era na famìja povera ca scìa nnanzi comu meju putìa.
‘U Nardu facìa ‘u furese e faticava sutta ‘u patrunu Saru; era
nu cristianu te quiḍḍi onesti; timìa puru cu sse riccoje ‘e mature
te rispìcu, mmagginàtibbe nu picca. Cristianu te carbu e
cranne lavoratore, era na specie te fattore, ticu na specie, ca
lu fattore veru e propiu era te Parabbita e abbitava alla massarìa.
‘U patrunu Saru era nu patrunale senza scole, ma riccu,
ca tanìa tanti fondi, tanta terra e a Matinu abbitava intra ‘nnu
palazzu.
‘A mamma Cristina, puru iḍḍa, se tìa te fare; puru iḍḍa
scìa a ffore a sciurnata, ma sulu quannu se cuìjane ulìe o se
vinnimava; ‘u restu te l’annu stìa a casa cu fface sarvìzzie.
63

Quattru cunti
‘A vagnuna, mmèce, menza ffabbèta (ìa fattu surtantu ‘a
prima lementare), scìa sempre a ffore cu llu sire. Casa e ffore,
fore e ccasa; essìa sulu ci ìa šcire alla chiesia o ci ìa ppìjare
l’acqua t’a funtana e ffarche fiata ci scappava allu Sparpàja
cu ccatta nu quintu te ricotta scanta per li minchiareḍḍi ca
ne piacìane allu tata. Scìa sempre cu lla libretta an manu percè
ccattava tuttu a critènzia.
Tutte ‘e tumìniche, poi, topu la missa scìa allu palazzu
t’u patrunu cu fface sarvìzzie a Donna Ppina e aḍḍài cchiava
‘u fiju t’a signura, farche annu cchiù cranne te iḍḍa, ca tutti
chiamavane ‘u signurinu. Iḍḍa, mmèce, lu putìa chiamare
Ninettu percè te vagnuna ìa sciucatu tante fiate cu iḍḍu intra
‘llu sciardinu.
‘U Tumasinu scìa alla scola te le monache ca stìa propiu
ḍḍà nnanzi; vanìa cu mmie a Suor Clara: jeu e ssòruma ogne
giurnu, all’ampete, ne scaffàvane te ḍḍà vanna a fera,
aḍḍunca abbitavane, finu aḍḍài, percè mava ticìa ca le scole
te le moniche erane mejiu te quiḍḍe te la Comune.
Alle suore tutti canuscìane ‘u Tumasinu e tutti lu chiamavane
‘u “Tumasinu t’a Mmela tarantata”. Era nu vagnone
sveju, sempre an menzu ‘a via; mute fiate lu vitivi sciucare
nnanzi ‘a funtana vicinu ‘ccasa t’u Benitu Maurìzziu, quiddu
ca vinnìa petroju.
Nsomma quista era na famìja povareḍḍa, comu tante
aḍḍe; tannu, cuntati erane li ricchi. Tutta ggente ca se ccuntentava
te picca, ca passava la vita faticannu mmenzu a ffore
te sule an sule e ca ‘lla sira, topu nu ccune te foje, o te pignata,
sguariava nnanzi casa o intra lla curte te paru alli vicini,
cuntannu culacchi; cuntannu storie te santi, te anime morte o
te acchiatùre.
I cranni quasi sempre se scujavane te risi, ma i piccinni,
ssattati an terra e rrunchiati, chiancìane pe’ lla paura. Tannu
64

Quattru cunti
cusì era!
Nu giurnu, te tumìnaca ‘lla mmanne, ‘u Tata Nardu, mentre
sta sse vestìa cu bbà ‘mmissa, (‘a campana t’a chiesia t’u
Carmunu ìa fattu ggià ‘u terzu sonu) ddummannàu alla mujere-
Vuèi Cristina, timme na cosa; percè stanotte te ngiravi e
te sbutavi intra llu lettu e nu’ pijavi mai sonnu?- Iḍḍa ne rispuse
ca stìa proccupata pe’ lla vagnuna percè ìa nu picca te
tiempu ca nu’ la vitìa filu bbona. Ticìa ca la vitìa sempre mara
e scuntrusa.- Se mmòšcia sempre fiacca, si e nno te rispunne.
Te ḍḍu giurnu ca ne vinne maccanza a ffore nunn ete
cchiui iḍḍa; sta sempre nervosa e poi nu’ biti ca nu mància
cchiui comu na fiata? Pe’ mmie sta ssuttija puru! Ennàh! tice
sempre ca ne tole ‘a capu e llu stommacu.-
- Sine,- rispuse ‘u Nardu- nu’ te proccupare! Ca cci tte
criti ca ccappàu ḍḍu giurnu ‘menzu ‘ffore? Ne ngiràu pe’
nnu minutu ‘a capu e ippe sbotamentu te stommacu! Cose ca
ccàppane le fimmane! Nu’ mm’ài tittu ca tiempu rretu ‘a
Mmela è ddevantata signurìna? E allora? Quiḍḍu ete! Nu ‘te
proccupare ca chianu chianu viti ca ne passa.-
Allu crai mentre sire e fìja stìane a ffore, passàu te casa
‘lla Cristina, ‘a cummare Tetta, ‘a cummare ca ìa vattisciatu
‘a Mmela, na pittecula ca scìa pe’ nnuminata; ìa passata ca
ulìa ‘ssape cci gg’è ca ìa ccappatu la sciušcètta percè l’ìa vista
a mmissa e ll’ìa cchiata ssuttijata e janca te facce.
‘A Cristina ne cuntàu tuttu e allora la Tetta sentenziàu ca
la Mmela era stata pizzacata te nu tarantune ḍḍu giurnu ca a
ffore nu’ s’era ntisa bbona. Ne cunsijàu cu fface na prova; ne
tisse cu bba’ chiama mèšciu Giorgi Barbieri, quinnu ca sunava
‘u tammurreḍḍu, ca era spertu te ‘ste cose, e ccu bbite
ci la vagnuna allu santire te la musica bballava o no. Ci se
mintìa ‘bballare ulìa ‘ddice ca era ddaventata na tarantata, se
nvece nu’ se scazzacava allora l’èrane purtare a farche dotto-
65

Quattru cunti
re o a farche macàra percè a ffiate putìa essere puru ca
n’èrane fatta na fattura.
Ppena ‘a cummare se nne scìu, ‘a Cristina se mise
‘cchiancìre- Focu meu, focu meu! Cci sbentura intra ‘sta casa!
Povera fija mia, povera fìja mia!- Quannu poi turnàu ‘u
Nardu, scusi te la fìja, ne cuntàu tuttu pe’ ffilu e pe’ segnu.
Lu Nardu se ncazzàu forte, forte: aźźava le mani an celu
e castimava contru la mujere.- E ttie a ḍḍa bbaccalà criti? A
ḍḍa pittecula? Nu’ sai ca quiḍḍa nu’ tene nenzi te fare e bba’
mminte nzurti alle famije, nu’ lu sai? E poi, cci ccazzu ne
capisce iḍḍa te ‘ste cose? Ma ‘a ràggia mia ete ca tie te
mmucchi tuttu quiḍḍu ca te tìcune! T’àggiu tittu ca quiste su’
cose te carùse e ca se ggiustane te sule! Nu te proccupare!-.
La lassàu e sse nne ssiù te casa ncazzatu. Però intra te
iḍḍu farche suspettu lu tanìa; timìa cunussìa ‘a Mmela, fessa
comu era, era rrumasta gravida te farche cagnulastru. Eppuru
nunn ìa mai vistu carùsi ca ne ngiravane ntornu.
Passara ddò giurni e tuttu ‘u paese sippe te ‘sta cosa. Ia
pansatu a cummare Tetta cu sparge la uce casa, casa. Naturalmente
lu sippe puru lu patrunu Saru e fìjusa lu signurinu
se presentàu te pressa a casa t’a Cristina cu ddummanna ci
era vera ḍḍa notizia. Iḍḍu ne ulìa bbene alla Mmela; n’ìa
sempre piaciuta, te vagnuna, te quannu sciucavane te paru
intra ‘u sciardinu, ma ‘ste cose ciuveḍḍi le sapìa.
‘A Cristina ne cuntàu tuttu - Signurinu meu, Don Ninu
meu, ‘a Mmela à ccappatu na tiscrazzia! L’à pizzacata na taranta
e gg’è ddevantata tarantata. Nu’ cunta, nu’ mància,
ssuttija giurnu pe’ giurnu e poi è scuntrusa cu tutti. Cusì tìcune
ca fannu le tarantate quannu le zzicca lu male. E mmo’
tocca cu chiamamu mèšciu Giorgi Barbieri cu...-
Don Ninu, tuttu saputu, la fermàu e nne tisse in italianu.-
Ma che stai dicendo Nunna Cristina? Non dare retta a ciò che
66

Quattru cunti
ti dicono. Tua figlia forse sarà ammalata, ma non di tarantismo;
si tratta di una malattia non dovuta al morso della taranta,
ma ad altre cause. La Mmela non ha bisogno del tamburo
di mèšciu Giorgi Barbieri; ha bisogno di un dottore, di
un buon medico. Stai calma e non ti preoccuapre; io domani
parto (stutiava a Pisa) e son sicuro che quando tornerò la
prossima volta la troverò già guarita.-
Passavane ‘i giurni e la Mmela scìa sempre pèsciu, la purtàra
allu tuttore, ma nu’ fìcera nenzi e allora ‘a Cristina scìu
‘bbà ccunta cu Papa Nicetu. L’arcipreite ne rispuse cu ttene
pacienza, cu nu’ se proccupa ca iḍḍu canuscìa n’amicu ca era
spertu te ‘ste cose- Non ti preoccupare Cristina, lo faccio venire
a Matino apposta per la Mmela. Statte carma! E poi ricordate
ca ci nu’ facimu nenzi cu st’amicu meu e la Mmela
risulta essere davvero na taratanta, nc’è sempre Santu Paulu
a Galatina prontu cu nne face la crazzia! Tie prea e spera!-
-Crazzie, crazzie.- ne rispuse ‘a Cristina- Ssignurìa sì ca
si’ nnu santu!
Topu tieci giurni rrivàu te Milanu ‘stu cristianu e intra alla
sacrestìa te paru alla Cristina, a llu Nardu, a mèšciu Giorgi
Barbieri e a nn’aḍḍu paru sou ca sunava ‘u mandulinu, se ficera
li patti. -Domenica quando la signorina trovasi in chiesa
per la messa, lei signora Cristina dovrà addobbare tutta la casa
di panni rossi e verdi.- Cusì tìa cumanni lu milanese. -Il
signor Nardo dovrà tenere pronto un cuscino per proteggere
la testa di sua figlia se dovesse cadere per terra o urtare contro
le suppellettili. Bisognerebbe preparare una bacinella
d’acqua fresca in caso la signorina Mmela ne avesse bisogno.
Lei, signor Barbieri, insieme al suo amico, dovrà essere
pronto per quando io darò il via per la musica. D’accordo?
L’aspetteremo nascosti dietro la porta e mi raccomando,
dobbiamo preparare tutto con scrupolosità.-
67

Quattru cunti
Rrivàu la tumìnaca, ‘a Mmela scìu alla missa te le ùnnici,
iḍḍi sistemara tutto intra casa e la spettara citti citti ccucciati
rretu ‘a porta. Papa Nicetu nu’ ci scìu.
Topu n’ura ‘a Mmela turnàu e mentre staci trasìa a casa,
tuttu teparu mèšciu Giorgi Barbieri se mise ‘ssunare lu tammùrru:
iḍḍa a principiu se mparuàu , rrumase pe’ nnu picca
te tiempu bbabbata cu quarda fissa intra ll’occhi tutta ḍḍa
gente, ma quannu ntise sunare puru lu mandulinu se mise
chianu, chianu a ballare e quannu, poi, aumentàu ‘u ritmu se
scatenàu comu na ndemuniata; sartava susu ‘u lettu, sturtijava
an terra e se lamentava critannu.
Ballaù per cchiui te nn’ura e quannu poi nu’ la fice
cchiui, tutta squajata, scuppàu an terra e menu male
pe’sìrasa, prontu cu llu cuscinu, ca sinò s’era pututu scašciare
la capu. Stese an terra pe’ nnu picca te tiempu, ndafriscàu
e poi la stìsera susu ‘llu lettu. Allora tutti se cunvinsera ca
era teveru na tarantata e ca ḍḍu giurnu a ffore era stata pizzacata
te na taranta.
Rrivàu la festa te Santu Paulu e la purtàra a Galatina;
aḍḍài truvàu tanti aḍḍi comu a iḍḍa e paru all’aḍḍi scìu cu
bbive allu puzzu maraculatu ca nc’era vicinu alla chiesia.
Tutti ticìane ca ḍḍ’acqua, puru ca era mpuzzunata, era acqua
santa pe’ ḍḍi poveri sbenturati.
Poi intra chiesia ‘a Mmela scìu prima a ngianucchiuni
versu Santu Paulu e poi, strisciannu an terra, versu l’artare.
Spicciata missa, essèra tutti ḍḍà ffore e se mìsera bballare susu
alla chiazza; balli strani: certi stutijavane an terra comu
scursùni, menzi se nficcavane intra ‘i fusticiḍḍi t’e sèggie;
aḍḍi ballavane cu lle źacareḍḍe an manu e critavane; sutati,
stracchi e morti, a turnu, catìane an terra, poi te pressa se
źźavane e ntorna se scatenavane.
Nu saccu te ggente a ccìrchiu, gente cu lli tammùrri e cu
68

Quattru cunti
lli mandulini ca sunava, e tutti l’aḍḍi ca battìane ‘i mani secutannu
‘a musica. Nc’erane puru furastieri te fori provincia;
cinque o sei cristiani ca facìane litratti e nnu tuttore ca ìa
scrivìre nu libbru su’ stu fenomenu.
A Galatina, ḍḍu giurnu nc’era n’aḍḍu te Matinu, nu certu
Tunatu ca iḍḍa nu’ canuscìa; quistu era nu tarantatu te
tant’anni e ḍḍa fiata sciù ‘bballaù susu l’artare te Santu Paulu;
cu lli peti susu l’artare critava e zzuppava cu lli cannilieri
an manu.
Turnàra a casa e allu crai ‘a vagnuna stese bbona. An capu
all’annu ntorna ne turnàu ḍḍu male e ntorna ballàu
mmenzu ‘ccasa e ‘u giurnu t’a festa scìu tecapu a Santu Paulu.
Pe’ mmuti anni, quannu rrivava maggiu, giugnu se santìa
fiacca, cu llu ballu stìa meju e topu ca scìa a Galatina stìa tecapu
bbona. Don Ninu tutte ‘e fiata ca riturnava a Matinu
scìa ‘lla truvava.
Nsomma ‘sta malatia turàu pe’ mmuti anni, poi, nu sapìmu
comu, la Mmela sanàu, se nzuràu e ippe ddò fiji; nu’ sapìmu
però ci se spusàu cu llu Ninettu o cu farchetunu aḍḍu.
Moi te ‘ste cose nu’ se sente cchiui cuntare; lu munnu è
canciatu. Prima i tarantati bballavane a pizzaca percè erane
malati, osci a pìzzaca se bballa pe’ divertimentu!
69

DDÒ MARACULI INTRA UNU
Nci su’ ccunti longhi e ccunti curti; quistu ete nu cuntu curtu,
curtu. Me lu cuntàu nu zziu meu na sira nnanzi ‘llu focalire;
tisse ca na fiata a Matinu lu Patreternu fice ddò maràculi intra
unu. Se ddumàu la pippa e zziccàu ‘ccuntare:
-Tant’anni rretu, nci fose n’annu ca vinne sìccitu, saccherà
ca fose allu 1903; n’annata te quiḍḍe ca su’ rrumaste alla storia!
Li furesi chiancìane notte e giurnu parcè a ffore tuttu sta siccava:
cranu, pummatori, ua, tuttu an siccu. Tutti li cristiani preavane
Ddiu cu cchiove e intra ‘lle chièsie se ticìane misse su
misse e alla purgissione te San Giorgi an mucca allu santu
n’erane misa na sarda.
Ài ssapire, caru napùte, ca tannu, a Matinu erane tutti furesi,
picca l’artieri e farchencunu facìa lu travinieri. An menzu alli
travinieri nc’era nu certu Nardu ca tanìa nu fiaccu vìzziu: castimava
t’a mmane alla sira ‘a Matonna Ndolurata. Pe’ ogni cosa
te nenzi ne scuḍḍava ‘a Matonna e llu bbellu era ca la castimava
cu tanta ràggia ca li cristiani ca stìane te costi se uḍḍavane
le rìcchie cu nnu’ lu sèntene. Era, nsomma, unu ca facìa schifu,
era propiu nu sbuccatu!
Sta tte ticìa ca lu state te quiḍḍ’annu minàu focu ca nci fòsera
puru morti; i cchiù bbecchi se li purtàu quasi tutti.
‘Stu Nardu facìa jaggi, caricava e scaricava frìcciu, bricciulina,
terra e petre e nnu giurnu lu Patreternu fice ddò maràculi
70

Quattru cunti
intra unu, propiu mentre iḍḍu sta turnava te le tajate te
Caḍḍipuli caricu te cuzzetti. Era menzatìa spaccata quannu lu
celu s’aprìu e finarmente rrivàu l’acqua ca tutti spattavane; rrivàu
però puru nnu bruttu mmaletiempu: troni, lampi, jentu e
acqua a quartarùni. Ndallujava ca facìa paura!
Iḍḍu era rrivatu ggià a Matinu; propiu tannu sta passava te
nanzi ‘llu campusantu e sse mmuḍḍàu tuttu te capu alli peti.
Mo’ eri utu ssantìre lu Nardu ca castimava la Matonna tuttu
ncazzatu e ca tìa corpi te scurisciatu allu cavaḍḍu cu bbàje
cchiù dde pressa; ma ‘u cavaḍḍu scìa straccu e cu lli lampi se
mparuava.
E mentre tutti ‘i matinesi, presciati, cu ll’occhi an celu, preavane
e ringrazziavane Ddiu, iḍḍu secutava ddare corpi te scurisciatu,
castimannu comu sempre la Matonna. Nu corpu, na càstimata...
nu corpu, na càstimata!
Quannu rrivàu nnanzi allu Mmemmi, ‘u cavaḍḍu se farmàu
te quartu e nu’ mbose cu bbaje cchiùi nnanzi. Bbèh! Mo’ vitisti
zzumpare lu Nardu te susu ‘llu travinu critannu e castimannu
comu nu tàmoniu.- Ah! Ah! Fiju te puttana, ài ‘u curaggiu puru
cu tte fermi? Ah! Ah! Ci à ccappatu? Cu bbutti lu sangu, camina!-
Ma lu cavaḍḍu nu’ se smuvìa!
- Sangu te... e castimannu la Matonna, -Osci te ccìu, osci te
ccìu!- A ḍḍu mentre se ncorse ca te nanzi allu cavaḍḍu a nna
distanza te nu metru, nc’era na fimmana vastuta tutta te nìuru.
Allora ne scìu nnanzi critannu- Vuèi bbeḍḍa, cci sta ffaci
acquài? Lle’ te nanzi, nu bi’ cci maletiempu? - Iḍḍa nu se
mosse!- Lle’ te nanzi ca sinò va ffinire ca nu corpu te scurisciatu
t’u mmollu puru a ttie!- Ma ḍḍa cristiana nu’ cuntava e nnu’
se muvìa. Ncazzatu a morte lu Nardu -T’àggiu tittu cu tte llevi
te nanzi, ài capitu o no?-
Se ncorse però te na cosa: ca iḍḍu scìa tuttu nquartarisciatu e
71

Quattru cunti
mmece iḍḍa scìa ssutta, ssutta; tuttuncotu zziccàu tremulare, se
ntise passare susu la morte piccinna e nne ddummannàu -Ma ci
sinti nsomma?- Iḍḍa allora, carma, carma, rispuse -Jeu suntu la
Matonna Ndolurata! Quiḍḍa ca tie castìmi sempre!-
A ḍḍu mentre lu cavaḍḍu se scianucchiàu. Titte ‘ste palore
rrivàu nu lampu e la Matonna sparìu. A ‘stu puntu allu Nardu
ne vinne nu corpu e scuppàu an terra te quartu! Lu pìjàu ‘a freve
a quaranta e stese ggiuncatu intra a nnu lettu pe’ tantu tiempu.
Poi an capu ‘ll’annu murìu!-
Quannu zzìuma spicciàu te cuntare ‘stu cuntu jeu ne ddummannài
- Ehi zziu, ma nunn ài tittu ca lu Patreternu à fattu ddò
maràculi intra unu? Unu ete quiḍḍu c’à fattu cu cchiove e
l’aḍḍu quale è statu?-
Zìuma rispuse - Comu quale è statu? Lu primu è statu
quiḍḍu c’à fattu chiuvire e lu secunnu è statu quiḍḍu ca à fattu
sparire te susu ‘sta terra ḍḍ’anima tannata te lu Nardu, ḍḍu satanassu
sbuccatu!-
72

PAPA NDIEGU - NU RICCU MATINESE -
‘U NTONICEU SENZA PAURA
Sàcciu nu cuntu ca te vagnòne me lu cuntàu ‘u nunnu Pippi
Sergiu, mio padrino di battesimo. “Nunnu Pippi” spesso
pronunciava questa frase “Jata a ḍḍa casa ḍḍunca nc’ete
na chìraca rasa”. Io non capendo il significato, un giorno
gli chiesi cosa intendesse per chìraca rasa e lui mi rispose :
“E’ fortunata quella casa in cui uno dei familiari abbraccia la
carriera ecclesiastica”. Ed io: “Cos’è la carriera ecclesiastica?”
-.
“Ete quannu unu se face prèvate!- me rispuse - Na famija
ca tene nu prèvate a casa acquista prestigio e vantaggi economici;
ma tie si’ ncora vagnòne, nu’ le capisci certe cose;
comunque spetta ca mo’ te cuntu nu fattu: “Ài ssapire, fiju
meu, ca prima, tant’anni rretu a ogni paese nc’erane cchiui te
vinti prèvati. Matinu rrivava puru a trenta. Tutti prèvati, ma
nu’ tutti struìti. Nc’erane sempre quiḍḍi quattru, cinque ca
s’erane fatti prèvati nu’ pe’ diuzione, ma pe’ ntaressi. Menzi
erane puru gnuranti; ‘u latinu se l’erane mparatu alle scole
serali e farchetunu, poi, era puru scapestratu: se nne futtìa te
la chiesia e sse facìa li cazzi soi! Unu te quisti era nu certu
papa Ndiegu ca tese nu saccu te fastìtiu te viu e dde mortu.”
‘U nunnu Pippi cuntannu ‘stu fattu me ticìa ca te mortu,
73

Quattru cunti
l’arma te ‘stu scumunicatu facìa tispietti alli matinesi, nzurtava
cranni e bbagnùni, facìa cose.... cose ca a mmie nu’
me coḍḍa moi cu bbe le cuntu.
Poi sàcciu n’aḍḍu cuntu: quiḍḍu te ḍḍu matinese riccu,
pisirchi e cialùsu ca prima cu parte ‘nguerra chiuse intra
nna crutta le ddò fije te paru a nna capasa te sordi; quiste,
poi, mòrsera precate vive percè iḍḍu nu’ turnàu cchiui.
E ssàcciu puru lu cuntu t’u “Ntoniceḍḍu senza paura”
quiḍḍu ca nu’ timìu cu face la nchianata.........
ma ‘sti cunti, cari amici , bbe li cuntu n’aḍḍa fiata!
74

INDICE
Note dell’autore pag 7
Presentazione “ 9
Lu cuntu te le macàre ” 13
Lu cuntu te Fra Cciommu ” 22
‘U Cici Ccùja ” 33
‘A chiesia t’u Crucifissu ” 40
Storie e cunti te mèsciu Angiulinu Ramaru ” 45
Lu marchese te Matinu ” 51
‘A Matonna t’u Càrmunu ” 57
‘A Mmela Tarantata ” 63
Ddò maràculi intra unu ” 70
Papa Ndiegu - Nu riccu matinese - Lu
Ntoniceḍḍu senza paura ” 73

Fabbricatu rurale con torre (contrada Fra Cciommu)
77

Ex abitazione di Cici Ccùja
78

Chiesa del Cocefisso - San Donato - (Affresco del 1807 dopo il restauro)
79

Tamburello - collezione privata Francesco De Donatis (Gli Arcuevi)
80