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RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI<br />

LA TUTELA DEI DIRITTI<br />

DI IMMIGRATI, RIFUGIATI<br />

E RICHIEDENTI ASILO<br />

<strong>2010</strong>/2<br />

www.aiaf-avvocati.it<br />

Anno XV n° 2, maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

Quadrimestrale - reg. Tribunale Roma n. 496 del 9.10.1995


AIAF <strong>2010</strong>/ 2<br />

Editoriale<br />

2 Dare tutela ai diritti dei rifugiati e degli immigrati<br />

Milena Pini<br />

Focus<br />

4 Asilo e statuto di rifugiato<br />

Bruno Nascimbene<br />

31 Il diritto d’asilo in Italia: dalla disciplina costituzionale all’attuazione delle direttive comunitarie<br />

Livio Neri<br />

38 Il punto della giurisprudenza di merito sul diritto d’asilo, sul riconoscimento dello stato di rifugiato e su altre forme<br />

di protezione umanitaria<br />

Franca Mangano<br />

45 Minori stranieri rifugiati: il quadro normativo di riferimento<br />

Marco Grazioli, Valeria de Cesare<br />

53 Il patrocinio a spese dello Stato nei procedimenti di richiesta di protezione internazionale<br />

Giuseppina Menicucci, Chiara Lisanti<br />

Contributi e approfondimenti<br />

58 Genere, stratificazione civica e diritto all’unità familiare: linee di tendenza in Europa, tra integrazione e controllo<br />

Paola Bonizzoni<br />

63 Il diritto all’unità familiare dei cittadini extracomunitari e la tutela dei minori (cenni) dopo l’entrata in vigore del<br />

“pacchetto sicurezza”, con particolare riferimento alla l. 94/09, alle circolari ministeriali applicative e alla recente<br />

giurisprudenza<br />

Paolo Oddi<br />

72 Diritti del minore straniero: la Cassazione sconfessa se stessa<br />

Alberto Figone<br />

74 Matrimoni “misti” e acquisto della cittadinanza<br />

Luigi Mughini<br />

79 Nuova legge sulla cittadinanza, ovvero il minimalismo del compromesso<br />

Stefano Rossi<br />

Europa<br />

91 Il rapporto Gerin-Raoult sul velo islamico riaccende il dibattito<br />

Angela Cossiri<br />

SOMMARIO<br />

AIAF<br />

RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI<br />

Anno XV n° 2, maggio-agosto <strong>2010</strong> - nuova serie quadrimestrale<br />

Direttore responsabile Milena Pini<br />

Comitato di redazione Manuela Cecchi, Gabriella de Strobel, Luisella Fanni (coordinatrice Quaderni),<br />

Alberto Figone, Giulia Sarnari, Antonina Scolaro<br />

Redazione Galleria Buenos Aires 1, 20124 Milano - tel. e fax 02 29535945<br />

rivista@aiaf-avvocati.it www.aiaf-avvocati.it<br />

Stampa O.GRA.RO. srl - vicolo dei Tabacchi 1, 00153 Roma


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

DARE TUTELA AI DIRITTI DEI RIFUGIATI E DEGLI IMMIGRATI<br />

Milena Pini<br />

Presidente AIAF<br />

Le persone costrette alla fuga da guerre e persecuzioni<br />

alla fine del 2009 erano oltre 43 milioni.<br />

Secondo il Rapporto statistico annuale dell’Alto<br />

Commissariato delle Nazioni Unite per i<br />

Rifugiati (ACNUR o UNHCR), che riporta questo<br />

dato, l’80% dei rifugiati del mondo si trova nei<br />

Paesi in via di sviluppo, e non nei Paesi industrializzati.<br />

L’Italia, dove i rifugiati alla fine del 2009 erano<br />

55mila, presenta cifre molto basse rispetto ad<br />

altri Paesi dell’Unione europea, in termini sia<br />

assoluti che relativi. A titolo di comparazione,<br />

la Germania accoglie quasi 600mila rifugiati e<br />

il Regno Unito circa 270mila, mentre la Francia<br />

e i Paesi Bassi ne ospitano rispettivamente<br />

200mila e 80mila. In Danimarca, Paesi Bassi e<br />

Svezia i rifugiati sono tra i 4 e i 9 ogni 1.000<br />

abitanti, in Germania oltre 7, nel Regno Unito<br />

quasi 5, mentre in Italia appena 1 ogni 1.000<br />

abitanti.<br />

Nel 2009 sono state presentate in Italia circa<br />

17mila domande d’asilo, poco più della metà<br />

rispetto all’anno precedente, riduzione rilevante<br />

che può essere attribuita alle politiche restrittive<br />

attuate nel Canale di Sicilia da Italia e Libia,<br />

fra cui la prassi dei respingimenti in mare.<br />

Secondo Laurens Jolles, delegato UNHCR per il<br />

Sud Europa che ha presentato il Rapporto nell’ambito<br />

della “Giornata Mondiale per il Rifugiato”<br />

tenutasi a Roma il 20 giugno <strong>2010</strong>, “il<br />

netto calo delle domande di asilo dimostra come<br />

i respingimenti anziché contrastare l’immigrazione<br />

irregolare abbiano gravemente inciso<br />

sulla fruibilità del diritto di asilo in Italia”.<br />

Ottenere lo status di rifugiato può comunque essere<br />

un riconoscimento privo di valore se il Paese<br />

ospitante non assicura reali capacità di inse-<br />

2<br />

rimento, con una politica d’integrazione che<br />

consenta la possibilità per il singolo rifugiato di<br />

rifarsi una vita in dignità e sicurezza.<br />

Il maggior numero di controversie in materia di<br />

immigrazione e di diritti fondamentali degli<br />

stranieri è trattato, nel nostro Paese, dalla prima<br />

sezione del Tribunale civile di Roma, che è stata<br />

così investita da un ingente carico di lavoro.<br />

Rispetto alla specificità, gravità e sensibilità di<br />

tali questioni, i magistrati della sezione hanno<br />

rilevato l’inadeguatezza dei mezzi di cui dispongono<br />

(ad esempio gli interpreti per le traduzioni,<br />

e le informazioni precise e aggiornate<br />

sulla situazione generale esistente nel Paese di<br />

origine dei richiedenti, che dovrebbero essere<br />

elaborate da una Commissione nazionale sulla<br />

base dei dati forniti dall’ACNUR e dal Ministero<br />

degli Affari Esteri, ma che risulta poco efficiente)<br />

e hanno intrapreso un percorso volto all’elaborazione<br />

di un protocollo finalizzato all’individuazione<br />

di prassi e criteri di valutazione<br />

condivisi, per garantire, nei limiti del possibile,<br />

parametri uniformi di giudizio, per una migliore<br />

tutela dei diritti fondamentali che pervadono<br />

questa materia.<br />

Le difficoltà comunque permangono, a causa<br />

di una legislazione nazionale che disciplina<br />

la materia, connotata spesso dall’emergenza e<br />

dall’intersecarsi delle leggi nazionali con quelle<br />

di livello sovranazionale. Difficoltà acuite<br />

anche dalle particolarità di un processo, in cui<br />

vi sono due parti, l’una, pubblica, che spesso è<br />

solo formalmente presente, l’altra, quella richiedente<br />

protezione internazionale, connotata<br />

da una condizione di debolezza sociale che<br />

indubbiamente pesa sullo svolgimento del processo.


Alla trattazione delle domande di asilo e di rifugio<br />

a fini umanitari si aggiungono le questioni<br />

relative alla gestione dell’immigrazione regolare,<br />

al ricongiungimento familiare, ai matrimoni<br />

tra un cittadino italiano e uno extracomunitario,<br />

alla repressione dell’immigrazione<br />

clandestina.<br />

Nonostante le carenze della politica e del legislatore,<br />

gli avvocati e i giudici hanno dato concrete<br />

soluzioni alle richieste di tutela dei diritti<br />

degli immigrati e dei rifugiati, dando tra l’altro<br />

avvio a una specializzazione professionale in<br />

tali materie.<br />

In questo numero della Rivista vengono approfonditi,<br />

sotto il profilo teorico e pratico, le diverse<br />

questioni connesse al diritto di asilo e ai diritti<br />

degli immigrati, che sono accomunati dal filo<br />

conduttore della speranza di queste persone di<br />

poter avviare una nuova vita nel nostro Paese.<br />

EDITORIALE<br />

3


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

ASILO E STATUTO DI RIFUGIATO *<br />

Bruno Nascimbene<br />

Ordinario di Diritto dell’Unione europea, Università degli Studi di Milano<br />

SOMMARIO:<br />

I. 1. Evoluzione storica e definizione di asilo - 2. Varietà delle forme di asilo: l’asilo territoriale - 3.<br />

I lavori dell’Institut de droit international - 4. Le norme di diritto internazionale e di diritto umanitario<br />

- 5. Norme consuetudinarie e pattizie. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo - 6.<br />

Le convenzioni internazionali di diritto umanitario - 7. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo<br />

- 8. La Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato - 9. Il divieto di refoulement e la prassi<br />

dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati<br />

II. 10. Il diritto comunitario in materia di asilo. Dalle “norme minime” alla “politica comune” - 11.<br />

Le direttive e i regolamenti rilevanti. - 12. La protezione internazionale, in particolare a) la protezione<br />

sussidiaria; b) la procedura di riconoscimento (anche con riferimento al diritto interno); c)<br />

la nozione di Paese terzo sicuro - 13. Le critiche al sistema vigente e le proposte di modifica: verso<br />

un “sistema comune europeo” - 14. La definizione di uno status e di una procedura uniforme. Le<br />

difficoltà di attuazione (anche alla luce del Trattato di Lisbona)<br />

III. 15. L’art. 10, 3° comma Costituzione. Il diritto di asilo e lo status di rifugiato - 16. La definizione<br />

di un diritto soggettivo; le ragioni di diritto umanitario a favore di una protezione più ampia.<br />

a) Il diritto di asilo come diritto fondamentale; b) l’orientamento della giurisprudenza - 17. L’incidenza<br />

del diritto comunitario e internazionale circa la definizione dello status di rifugiato e gli obblighi<br />

dello Stato. a) L’onere probatorio; b) il divieto di refoulement - 18. Gli standard di trattamento<br />

e lo statuto del rifugiato. a) La Convenzione di Ginevra; b) una valutazione complessiva: l’applicabilità<br />

degli standard del trattamento nazionale e del trattamento dello straniero<br />

1. Evoluzione storica e definizione di asilo<br />

I.<br />

Si può risalire molto lontani nel tempo per cercare una definizione dell’istituto giuridico dell’asilo,<br />

dei diversi modi di intendere l’asilo, le diverse tipologie, i limiti. L’evoluzione storica mostra come<br />

due nozioni si siano sempre prospettate e mantenute fino a oggi, seppur con connotazioni diverse.<br />

A una concezione religioso-sociale del luogo che rendeva lo stesso inviolabile o immune, si<br />

contrapponeva il riconoscimento di privilegi concessi alla persona: si distingueva, così, nel diritto<br />

greco l’“asilo”, cioè il luogo (“sacro”) in cui veniva assicurata l’inviolabilità o immunità a chiunque<br />

* Relazione tenuta al Convegno dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Lo statuto costituzionale del non cittadino, Cagliari,<br />

16-17 ottobre 2009. Si ringrazia l’Autore per l’autorizzazione alla pubblicazione.<br />

4


vi si fosse rifugiato, dall’“asilía”, cioè i privilegi personali concessi alle persone, stranieri o cittadini<br />

di comunità alleate, che avessero particolari meriti o pubblica considerazione. I privilegi più rilevanti<br />

erano la libertà personale e la possibilità di agire in giudizio per difendere i propri diritti 1 .<br />

Gli studiosi dell’evoluzione storica dell’istituto sottolineano come nel diritto greco prima, e in quello<br />

romano poi, asilo e asilía hanno subito limiti, sia nell’individuazione dei luoghi, sia nella definizione<br />

delle persone ovvero degli aventi diritto, escludendo le persone colpevoli di gravi reati o introducendo<br />

una connotazione politica: il diritto veniva riconosciuto soltanto a chi era stato costretto<br />

a fuggire per motivi politici 2 .<br />

La sacralità dei luoghi e la condizione della persona sono elementi ben presenti anche nel cosiddetto<br />

asilo religioso (o ecclesiastico) affermatosi nel Medio Evo e rispettato fino a quando, in età<br />

moderna, il potere di governo degli Stati sovrani e indipendenti si consolidò, ridimensionando l’istituto,<br />

oggetto di trattati ovvero di accordi ad hoc (concordati) frutto di compromesso fra potere civile<br />

e potere religioso. Quest’ultimo, invero, non era più in condizione di difendere le prerogative<br />

della Chiesa, gli istituti e ordini religiosi, divenuti incompatibili con il potere sovrano dello Stato,<br />

la sua indipendenza e laicità di governo. Anche se l’asilo religioso prevedeva limiti ed esclusioni<br />

in considerazione della particolare gravità dei reati, è significativo ricordare che l’atteggiamento della<br />

Chiesa rispondeva alla necessità di far prevalere la misericordia di Dio sulla giustizia terrena, favorendo<br />

la possibilità di porre rimedio agli errori commessi, gli errori essendo connaturati alla condizione<br />

e debolezza umana.<br />

La Chiesa, insomma, difendeva poteri e prerogative proprie, ma difendeva anche i diritti dell’uomo<br />

in quanto tale, nei confronti dell’esercizio del potere esercitato da altri soggetti 3 .<br />

È proprio nei rapporti fra poteri degli Stati, sovrani e indipendenti e quindi nel quadro delle norme<br />

di diritto internazionale, che si afferma la disciplina, a livello internazionale, dell’istituto dell’asilo,<br />

distinto fra territoriale (o esterno) ed extraterritoriale (o interno o diplomatico) 4 .<br />

5<br />

FOCUS<br />

1 Sulla distinzione indicata e per rilievi in proposito cfr. Paoli, Asilía, voce in Noviss. Dig. It., I, Torino, 1958, 1035 ss. e Asilo.<br />

Diritto greco e romano, ibidem; Crifò, Asilo (diritto di) (diritti antichi), voce in Enc. dir., III, Milano, 1958, 191 ss. Per profili di<br />

carattere generale e sull’evoluzione delle nozioni di asilo, territoriale ed extraterritoriale, nonché di rifugio, si vedano Giuliano,<br />

Asilo (diritto di) (diritto internazionale), voce in Enc. dir., II, Milano, 1958, 204 ss.; A. Migliazza, Asilo (diritto internazionale),<br />

voce in Noviss. Dig. It., Iª, Torino, 1958, 1039 ss.; Conetti, Rifugiati, voce in Noviss. Dig. It., Appendice, VI, Torino, 1986, 819 ss.;<br />

Bernardi, Asilo politico, voce in Digesto Disc. Pub., I, Torino, 4ª, 1987, 421 ss.; i vari contributi in Rigaux (ed.), Droit d’asile, Bruxelles,<br />

1988; in Droit d’asile et des réfugiés, Colloque de Caen de la Société Française pour le Droit International, Paris, 1997; Pisillo<br />

Mazzeschi, Il diritto di asilo 50 anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, in Rivista internazionale dei diritti<br />

dell’uomo, 1999, 694 ss.; Hathaway, The Rights of Refugees under International Law, Cambridge, 2005, 1 ss.; i vari contributi<br />

in Feller, Türk, Nicholson (eds.), Refugee Protection in International Law, Cambridge, 2005. In epoca più recente si vedano i<br />

contributi di Pedrazzi, Il diritto di asilo nell’ordinamento internazionale agli albori del terzo millennio, in Zagato (a cura di), Verso<br />

una disciplina comune del diritto d’asilo, Padova, 2006, 13 ss.; Gioia, Asilo, voce in Dizionario di diritto pubblico, I, Milano,<br />

2006, 449 ss.; i vari contributi in Bilotta, Cappelletti (a cura di), Il diritto d’asilo, Padova, 2006; Goodwin-Gill, Mc Adam, The Refugee<br />

in International Law, 3rd , Oxford, 2007, 1 ss.; Carlier, Droit d’asile et des réfugiés. De la protection aux droits, in Recueil des<br />

cours de l’Académie de droit international de la Haye, t. 332(2007), tiré à part, Leiden-Boston, 2008, 40 ss.; Cordini, Il diritto d’asilo<br />

nelle costituzioni contemporanee e nell’ordinamento dell’Unione europea, in Castellano (a cura di), Il diritto di asilo in Europa:<br />

problemi e prospettive, Napoli, 2008, 51 ss.; i vari contributi in Benvenuti (a cura di), Flussi migratori e fruizione dei diritti<br />

fondamentali, Ripa di Fagnano alto, 2008; Lenzerini, Asilo e diritti umani, Milano, 2009, spec. 8, 141 ss. sull’evoluzione storica<br />

dell’istituto.<br />

2 Si vedano i rilievi di Vismara, Asilo (diritto di) (diritto intermedio), voce in Enc. dir., III, Milano, 1958, 198 ss.; Cordini, Il diritto<br />

cit., 52 ss.<br />

3 Sull’asilo religioso, e sua evoluzione, oltre agli autori citati alla nota 1, in particolare Cordini, Il diritto d’asilo cit., Lenzerini,<br />

Asilo cit., cfr. Ciprotti, Asilo (diritto di) (diritto canonico ed ecclesiastico), voce in Enc. dir., III, Milano, 1958, 203. Viene spesso<br />

ricordato, come esempio di asilo religioso, quello ottenuto dal personaggio manzoniano Fra’ Cristoforo (“Lodovico” resosi responsabile<br />

di un omicidio) che si era rifugiato in una chiesa dei cappuccini, luogo “impenetrabile allora a’ birri e a tutto quel complesso<br />

di cose e persone, che si chiamava giustizia” (la decisione di vestire “l’abito di cappuccino” rappresentava una soluzione per<br />

gli ospiti che si trovavano in un “bell’intrigo” poiché “rimandarlo dal Convento” avrebbe significato “esporlo così alla giustizia”,<br />

cioè sottrarsi alla giustizia e per i cappuccini “rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo<br />

di tutti i cappuccini dell’universo per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le<br />

quali si consideravan come tutrici di questo diritto”, Manzoni, I promessi sposi, Milano, 1840, cap. IV.<br />

4 Cfr. i rilievi di Ciprotti, Asilo (diritto di), loc. cit., 203 ss.; Gioia, Asilo cit., 450.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

2. Varietà delle forme di asilo: l’asilo territoriale<br />

La prassi internazionale distingue l’asilo territoriale da quello extraterritoriale, il primo indica il rifugio<br />

e la protezione accordati dallo Stato sul proprio territorio a persona che intenda sfuggire o<br />

sottrarsi alla giustizia o a situazioni esistenti nello Stato da cui proviene. Il secondo, invece, è concesso<br />

a persone che intendano sfuggire o sottrarsi alla giustizia o sovranità locale. Esso rappresenta<br />

una deroga alla sovranità territoriale dello Stato ed è concesso nei locali di una missione diplomatica<br />

(“asilo diplomatico”), in basi militari, a bordo di navi da guerra o aeromobili militari che si<br />

trovino in territorio altrui 5 .<br />

Premesso che il maggior interesse, nella stessa prassi internazionale, considerata l’evoluzione nel<br />

tempo, è per il primo tipo di asilo, si deve tener presente che entrambi gli istituti si sono affermati<br />

come situazioni di fatto, caratterizzate, da un lato, dall’inviolabilità del territorio (in generale) dello<br />

Stato, dall’altro dall’inviolabilità del luogo (specifico) in cui opera l’agente dello Stato straniero ovvero<br />

(e con maggior frequenza nella prassi) dall’inviolabilità dei locali della missione diplomatica.<br />

L’estensione della protezione accordata ha subíto significativi mutamenti, passando da un riconoscimento<br />

generalizzato a favore dei responsabili di reati comuni, a uno ristretto a favore dei responsabili<br />

di reati politici, lo Stato territoriale rivendicando il proprio imperium a causa di abusi da parte<br />

degli agenti stranieri. Questo istituto, come quello dell’asilo territoriale di cui si dirà poco oltre, ha<br />

subìto un’evoluzione, soprattutto per effetto della tutela internazionale dei diritti dell’uomo. Per<br />

quanto sia da alcuni ritenuto addirittura caduto in desuetudine, a causa della reazione agli abusi, esso<br />

può assumere, invece, significativa rilevanza qualora i diritti fondamentali della persona vengano<br />

violati all’interno di uno Stato – a causa di moti, violenze, guerra civile, rivoluzione – e la persona<br />

non possa far altro che rifugiarsi nei luoghi (locali) in cui un altro Stato esercita la sovranità 6 .<br />

Se questa è l’evoluzione più recente, sembra dubbia l’esistenza di obblighi giuridici internazionali<br />

in proposito, salvo siano previsti in norme convenzionali, mancando norme generali o consuetudinarie<br />

che obblighino lo Stato territoriale a tollerare l’attività di un agente statale straniero, a protezione<br />

di una persona che si sia resa colpevole di un reato 7 .<br />

3. I lavori dell’Institut de droit international<br />

L’asilo territoriale è l’istituto che merita (per le ragioni di cui si darà conto nel prosieguo) una specifica<br />

considerazione, per i profili di diritto internazionale, europeo e nazionale che esso presenta.<br />

Gli studi sul tema, la prassi e la giurisprudenza confermano, d’altra parte, tale rilievo e merito di<br />

considerazione. L’Institut de droit international ne fece oggetto di esame e studio, e quindi di una<br />

risoluzione intitolata L’asile en droit international public (sessione di Bath, 1950). Distinto l’asilo<br />

extraterritoriale dal territoriale, l’Institut definisce (art. 1) quest’ultimo come la protezione concessa<br />

da uno Stato sul proprio territorio o in luoghi sottoposti alla sua sovranità, a un individuo che<br />

vi sia recato per farne richiesta 8 .<br />

5 Cfr. in particolare Giuliano, Asilo cit., 204, 209 ss.<br />

6 Sull’evoluzione dell’istituto e le sue caratteristiche, cfr. gli autori citati alla nota 1 e i riferimenti alla nota 7, nonché sulla possibile<br />

giustificazione costituzionale, nel nostro ordinamento, di tale istituto in virtù della tutela di diritti fondamentali (ex art. 2<br />

Cost.), Rescigno, Il diritto d’asilo tra previsione costituzionale, spinta europea e “vuoto” costituzionale, in Politica del diritto, 2004,<br />

155 (rifer. ivi). Sul diritto d’asilo nel nostro ordinamento si veda oltre, parte III.<br />

7 Sull’evoluzione dell’istituto (oltre agli autori citati alla nota 1), Gioia, Asilo cit., 450 s., sottolineando il declino dell’istituto nella<br />

seconda metà del XVII secolo, la ritenuta desuetudine nel XX secolo e la più recente reviviscenza; quanto all’esistenza di una<br />

consuetudine, ricorda i dubbi in proposito, specie da parte della dottrina che ammetterebbe l’esistenza, quanto meno, di una consuetudine<br />

regionale nell’America Latina, invece esclusa dalla C.I.G. (20 novembre 1950, in ICJ Reports, 1950, 266 ss.; la Corte nega<br />

l’esistenza della consuetudine regionale, se non provata, come vincolante, da chi l’invoca, circa il riconoscimento dell’asilo diplomatico<br />

a favore di chi si sia reso colpevole di un reato qualificato unilateralmente come politico dallo Stato che concede l’asilo).<br />

Su tale impostazione, ampiamente, Giuliano, Asilo cit., 209; Francioni, Asilo diplomatico: contributo allo studio delle consuetudini<br />

locali nel diritto internazionale, Milano, 1973, 81 ss.<br />

8 La risoluzione, dell’11 settembre 1950, è in Résolutions de l’Institut de droit international 1873-1956, Bâle, 1957, 58; sui la-<br />

6


Una definizione, questa, che, come emerge dalla lettura dei resoconti dell’Institut, ha ricevuto un<br />

non facile consenso in un particolare momento storico: dopo la fine della seconda guerra mondiale,<br />

che aveva creato un gran numero di rifugiati e sfollati, era in corso di elaborazione la Convenzione,<br />

promossa dalle Nazioni Unite, relativa allo status dei rifugiati (adottata a Ginevra il 28 luglio<br />

1951) ed era stata poco prima (10 dicembre 1948) proclamata dall’Assemblea generale delle N.U.<br />

la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il dibattito che ha preceduto l’adozione della risoluzione<br />

conferma sia il problema di definizione dell’asilo (definizione non contenuta, peraltro, nella<br />

Convenzione) e del rifugio, sia la rilevanza assunta dal diritto umanitario in tale contesto.<br />

La risoluzione dà atto di tale rilevanza, richiamando nel preambolo la Dichiarazione universale e<br />

sottolineando come il riconoscimento internazionale dei diritti della persona umana imponga nuovi<br />

e più ampi sviluppi del diritto di asilo, ma soprattutto viene precisato (art. 2) che lo Stato non<br />

incorre in alcuna forma di responsabilità internazionale quando, nell’adempiere a doveri umanitari,<br />

concede l’asilo sul proprio territorio. La risoluzione si preoccupa dunque di precisare i diritti e<br />

gli obblighi di diritto internazionale degli Stati, non già i diritti degli individui che gli strumenti di<br />

diritto umanitario avrebbero affermato negli anni successivi, pur assumendo come base quella Dichiarazione<br />

universale che (all’epoca) era già stata proclamata 9 .<br />

Il rifugio, o condizione di rifugiato, appare definito nei lavori dell’Institut come una situazione di<br />

fatto che rappresenta il presupposto dell’asilo: il rifugio diventa asilo quando lo Stato non si limita<br />

ad ammettere il soggiorno dell’individuo, penetrato nella sua sfera territoriale per sottrarsi alla<br />

giustizia o all’autorità di un altro Stato, ma ne assuma anche la protezione, nel senso che non intende<br />

dare seguito alle richieste di consegna o di estradizione o espulsione da parte di altro Stato<br />

(cui l’individuo appartiene o alla cui giurisdizione sia sfuggito). La concessione dell’asilo, nel diritto<br />

internazionale, è dunque una (tipica) manifestazione della piena libertà o sovranità dello Stato<br />

che spetta a tutti i membri della comunità internazionale 10 . Dalla combinazione di due elementi,<br />

l’inviolabilità del territorio dello Stato e il potere dello Stato di ammettere o allontanare dal territorio<br />

gli stranieri, emerge l’inesistenza di obblighi internazionali, salvo che siano previsti da convenzioni,<br />

di concedere l’asilo. Oltre a distinguere il rifugio dall’asilo, si distingue anche un diritto dello<br />

Stato, nei confronti degli altri Stati, di concedere l’asilo, quale esercizio della propria sovranità<br />

territoriale, ovvero “diritto di asilo”, e un diritto dell’individuo a ottenere l’asilo, o “diritto all’asilo”,<br />

che si colloca, più propriamente, nell’ambito delle norme di diritto umanitario. Si afferma infatti nel<br />

diritto internazionale consuetudinario l’inesistenza di limiti (in linea di principio) alla sovranità dello<br />

Stato, che non ha l’obbligo di concedere l’asilo, così come l’individuo non ha il diritto di ottenerlo<br />

(salvo sia diversamente disposto, come si è detto, in convenzioni internazionali).<br />

Un obbligo per lo Stato di cui l’individuo è cittadino, di rispettare l’asilo concesso dallo Stato di rifugio<br />

si afferma, invece, con l’istituzionalizzazione della cooperazione internazionale in materia penale<br />

e di repressione della criminalità: lo Stato di rifugio protegge l’individuo perseguito per motivi<br />

politici, e in mancanza di obblighi convenzionali di estradizione (mancando un trattato o non<br />

verificandosi l’ipotesi estradizionale prevista dal trattato), lo Stato di rifugio può rifiutarsi di arrestare<br />

e consegnare l’individuo responsabile di reati comuni allo Stato che ne reclami la consegna 11 .<br />

Rileva in proposito, in mancanza di previsioni contenute in norme internazionali, l’esistenza di norme<br />

interne, in particolare di norme di carattere costituzionale, quali nel caso italiano l’art. 10, 3°<br />

comma Cost. sul diritto d’asilo e il 4° comma che vieta l’estradizione per reati politici.<br />

7<br />

FOCUS<br />

vori preparatori e le discussioni cfr. Annuaire de l’Institut de droit international, 43° vol., Session de Bath, septembre 1950, Bâle,<br />

1950, t. I, 133 ss. e t. II, 198 ss. Il Rapport supplémentaire et projet définitif de Résolutions è di Tomaso Perassi, 162 ss. Perassi,<br />

come si dirà oltre, parte III, era uno dei componenti della Commissione dei 75 (ne fu anche il segretario) incaricata di redigere<br />

il testo della Costituzione del nostro Paese. Per alcuni rilievi sulla risoluzione dell’Institut, nonché sulla configurazione del diritto<br />

dello Stato, Lenzerini, Asilo cit., 37 ss.<br />

9 Si vedano i rilievi del relatore Perassi, Rapport supplémentaire cit., 164, sul nesso fra protezione dei diritti dell’uomo e asilo,<br />

il preambolo della risoluzione richiamando espressamente la Dichiarazione universale, il cui art. 14 è dedicato al diritto d’asilo.<br />

10 Sulla sovranità dello Stato si veda quanto si dirà oltre, con riferimento alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,<br />

che conferma questa impostazione.<br />

11 Si vedano i rilievi di Bernardi, Asilo politico cit.; Gioia, Asilo cit.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

All’epoca dei lavori dell’Institut, come pure nella dottrina coeva e in quella degli anni immediatamente<br />

successivi, la tesi dell’inesistenza di norme consuetudinarie, anche in considerazione di un<br />

diritto umanitario poco sviluppato, era assolutamente dominante 12 .<br />

La rilevanza del diritto dello Stato, nei confronti degli altri Stati, non già del diritto dell’individuo,<br />

e quindi del diritto dello Stato di concedere l’asilo, piuttosto che dell’individuo di ottenerlo, è posta<br />

a base della stessa risoluzione dell’Institut, riflettendo l’opinione della dottrina e la prassi corrente.<br />

La risoluzione tiene conto delle esigenze umanitarie richiamando la Dichiarazione universale:<br />

non però per riconoscere diritti all’individuo, ma per giustificare il comportamento dello Stato<br />

che concede l’asilo 13 .<br />

4. Le norme di diritto internazionale e di diritto umanitario<br />

Il tema del diritto d’asilo presenta una varietà di profili interessanti, sia per la sua evoluzione storica,<br />

sia per la diversa rilevanza, nel corso del tempo, del diritto internazionale da un lato e del diritto<br />

umanitario dall’altro lato.<br />

Profilo, in primo luogo, interessante è la possibile formazione di norme consuetudinarie in materia<br />

e l’incidenza di queste nel diritto interno; in secondo luogo lo sono la formazione e il recepimento<br />

negli ordinamenti nazionali di norme convenzionali, e più recentemente di norme comunitarie.<br />

Per quanto riguarda il nostro ordinamento, norme rilevanti sono non solo l’art. 10, 3° comma<br />

Cost., ma anche le norme di adattamento a convenzioni internazionali, sia a quella specifica<br />

(Ginevra, 1951 e Protocollo di modifica di New York, 1967; l. ratifica ed esecuzione 24 luglio 1954,<br />

n. 722 e 14 febbraio 1970, n. 79) sullo status dei rifugiati, sia a quelle di diritto umanitario, come<br />

il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966, l. ratifica ed esecuzione 25 ottobre 1977, n.<br />

881), la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950, l. ratifica ed esecuzione 4 agosto 1955,<br />

n. 848), la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti<br />

(1984, l. ratifica ed esecuzione 3 novembre 1988, n. 498). In un contesto geografico e politico<br />

limitato, di carattere regionale quale l’europeo, ha assunto rilievo la disciplina comunitaria, l’asilo<br />

essendo divenuto (con il Trattato di Maastricht, prima, e di Amsterdam poi) parte integrante dello<br />

spazio di libertà, sicurezza e giustizia che è obiettivo fondamentale dell’Unione europea (art. 2,<br />

quarto trattino Trattato UE; art. 61 ss. Trattato CE).<br />

Un’attenzione particolare merita la possibile formazione di norme consuetudinarie, anche per le<br />

conclusioni che si trarranno in prosieguo sull’incidenza di tali norme (quella sul non refoulement<br />

in particolare) nel nostro ordinamento. La dottrina che si è occupata del tema, con un risultato condivisibile,<br />

ritiene che, ancor oggi, non esista una norma di diritto internazionale consuetudinario<br />

sul diritto d’asilo se non per alcuni aspetti o per alcuni princìpi in cui tale diritto si esprime. Si tratta<br />

di princìpi contenuti in atti internazionali ovvero nella prassi convenzionale: il principio del non<br />

refoulement, cioè del divieto di respingere alla frontiera uno straniero (o apolide), di espellerlo o<br />

estradarlo o allontanarlo verso un Paese dove è probabile che subisca persecuzione o tortura o (secondo<br />

un’interpretazione più ampia) ove può correre il rischio di essere espulso, estradato, allontanato<br />

verso un Paese che non rispetta i diritti fondamentali 14 . L’asilo così riconosciuto ha un con-<br />

12 Cfr. Giuliano, Asilo cit., 206 ss., ma per l’evoluzione, soprattutto grazie agli strumenti di diritto internazionale umanitario e alla<br />

giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché del Comitato dei diritti umani, per quanto riguarda l’interpretazione,<br />

rispettivamente, dell’art. 3 Convenzione europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi CEDU) e dell’art. 7 Patto, relativi al divieto<br />

di tortura, pene e trattamenti inumani o degradanti, Pedrazzi, Il diritto cit., 13, 28 ss., in particolare sulla formazione di una<br />

norma consuetudinaria che vieta il refoulement.<br />

13 Afferma l’art. 2, 1° co., che “Tout Etat qui, dans l’accomplissement de ses devoirs d’humanité, accorde asile sur son territoire<br />

n’encourt de ce fait aucune responsabilité internationale”. Come si vede, si prevede una causa di esclusione della responsabilità,<br />

non già un obbligo di diritto internazionale di concedere l’asilo.<br />

14 Sul divieto di refoulement, fra i molti contributi, quelli di Pisillo Mazzeschi, M. Pedrazzi citt.; quanto all’interpretazione più<br />

ampia proposta, Goodwin-Gill, Mc Adam, The Refugee cit., 345 ss.; cfr. pure Hailbronner, Non-Refoulement and “Humanitarian”<br />

Refugees: Customary International Law or Wishful Legal Thinking?, in Virginia Journal of International Law, 1986, 866 ss.; Na-<br />

8


tenuto minimo, è provvisorio o temporaneo, perché la persona resta sul territorio dello Stato e non<br />

viene refoulée verso lo Stato in cui la sua vita e libertà sono o possono essere minacciate.<br />

Espressione dello stesso principio o suo corollario è quello del divieto di estradizione per reati politici,<br />

contenuto in molti trattati bilaterali e multilaterali: l’estradizione comporterebbe, invero, l’allontanamento<br />

e quindi la consegna della persona allo Stato ove subirebbe una persecuzione 15 .<br />

5. Norme consuetudinarie e pattizie. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo<br />

La ricognizione delle fonti di diritto internazionale attraverso atti e prassi internazionali ha, come<br />

risultato, l’affermazione di un diritto d’asilo che dipende ancora, in gran parte, dalla sovranità dello<br />

Stato, salvo per quel “nucleo irrinunciabile”, di natura “inderogabile e cogente” che discende dal<br />

divieto di tortura e trattamenti disumani, che è norma di diritto internazionale generale e che si<br />

esprime (come si è detto) nel divieto di refoulement 16 .<br />

Il riconoscimento di un vero e proprio diritto d’asilo non è andato oltre la previsione contenuta<br />

nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che, dopo aver affermato il diritto di emigrare<br />

ovvero “di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese” (art. 13, 2°<br />

comma), sancisce il diritto di ogni individuo “di cercare e godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”,<br />

seppur con il limite che tale diritto non possa essere invocato “qualora l’individuo sia realmente<br />

ricercato per reati non politico per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite”<br />

(art. 14).<br />

La Dichiarazione universale, forse la più nota delle Dichiarazioni di princìpi dell’Assemblea delle<br />

Nazioni Unite, non ha, da un punto di vista formale, valore obbligatorio, pur avendo un importante<br />

rilievo al fine della rilevazione del diritto internazionale generale ovvero nella prospettiva della<br />

sua evoluzione.<br />

Non diversamente dagli accordi di codificazione è ben possibile che il contenuto di una Dichiarazione<br />

rifletta lo stato del diritto internazionale generale esistente oppure cristallizzi norme in via di<br />

formazione, concludendone il processo, o rappresenti una fase di tale processo. La Dichiarazione<br />

non è fonte “in sé e per sé”, tale essendo le norme consuetudinarie o quella particolare species di<br />

consuetudine rappresentata dai princìpi generali di diritto 17 . Norme consuetudinarie di diritto umanitario<br />

sono espresse dai princìpi generali (dell’ordinamento internazionale) che vietano le violazioni<br />

gravi o gross violations dei diritti fondamentali delle persone quali il genocidio, la discriminazione<br />

razziale, la tortura, i trattamenti inumani o degradanti. Le disposizioni della Dichiarazione<br />

universale che riflettano, nel contenuto, questi princìpi, assumono tale natura consuetudinaria. Di<br />

per sé la norma sul diritto d’asilo non ha natura consuetudinaria, ma le conseguenze a essa riconducibili,<br />

in quanto il diniego di ingresso o refoulement provochi la violazione di diritti fondamentali<br />

della persona, fanno ritenere che il principio di non refoulement, avente quelle conseguenze<br />

sotto il profilo del (mancato) rispetto dei diritti dell’uomo, abbia natura di norma consuetudinaria.<br />

9<br />

FOCUS<br />

scimbene, Il diritto di asilo e lo status di rifugiato. Profili di diritto interno e comunitario, in Studi Panzera, vol. II, Bari, 1995, 519<br />

ss. e Id., La condizione giuridica dello straniero, Padova, 1997, 886 ss. (rifer. ivi). Cfr. pure Lauterpacht, Bethlehem, The Scope<br />

and Content of the Principle of Refoulement: Opinion, in Feller, Türk, Nicholson, Refugee cit., 140 ss. Per ampi rilievi sulla formazione<br />

di una norma consuetudinaria, e le ipotesi in cui divieto di refoulement e diritto di asilo possono configurarsi, considerata<br />

l’incidenza di diritto umanitario, come norme di jus cogens, più recentemente Lenzerini, Asilo cit., 320, 335 ss.<br />

15 Si vedano i riferimenti alla nota precedente e sul divieto di estradizione Del Tufo, Estradizione III) Diritto internazionale, in<br />

Enc. giur., Roma, 1989, 5 ss.; cfr. anche i rilievi di Pisillo Mazzeschi, Il caso Oçalan: A) Profili di diritto internazionale, in Diritto<br />

penale e processo, 1999, 364 ss.; per ampi riferimenti alla prassi Lenzerini, Asilo cit., 176 ss.<br />

16 In questi termini Pedrazzi, Il diritto cit., 35 ss.<br />

17 Si vedano in proposito i rilievi di Luzzatto, Il diritto internazionale generale e le sue fonti, in Carbone, Luzzatto, Santa Maria,<br />

Istituzioni di diritto internazionale, 3ª ed., Torino, 2006, 62 ss. sul valore delle dichiarazioni e dei princìpi generali, distinguendo<br />

i princìpi generali dell’ordinamento internazionale (come quello pacta sunt servanda o quelli, sette precisamente, enunciati<br />

nella Dichiarazione dell’Assemblea generale delle N.U. sui princìpi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e<br />

la cooperazione fra gli Stati, in conformità della Carta delle N.U., come il principio del divieto della minaccia o dell’uso della forza),<br />

dai princìpi generali degli ordinamenti giuridici interni ovvero “riconosciuti dalle Nazioni civili”, come recita l’art. 38, n. 1 lett.


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6. Le convenzioni internazionali di diritto umanitario<br />

La prassi successiva alla Dichiarazione universale conferma l’inesistenza di un diritto di asilo a livello<br />

consuetudinario, se non nei termini e condizioni prima ricordati.<br />

Gli atti convenzionali vincolanti fondati sulla Dichiarazione confermano, almeno dal punto di<br />

vista formale, la natura programmatica della stessa: il Patto sui diritti civili e politici (del 16 dicembre<br />

1966, l. ratifica ed esecuzione 25 ottobre 1977, n. 881) prevede soltanto il divieto di impedire,<br />

arbitrariamente, a una persona di entrare nel proprio Paese e il divieto di espellere (art.<br />

12, par. 4 e art. 13) uno straniero regolarmente residente. Nel Patto sui diritti economici, sociali<br />

e culturali (del 16 dicembre 1966, l. ratifica ed esecuzione 25 ottobre 1977, n. 881), non si rinvengono<br />

norme rilevanti, salvo quelle sul diritto alla sopravvivenza fisica e alimentare e sul diritto<br />

alla salute (artt. 11, 12) che potrebbero essere gravemente compromessi in caso di refoulement<br />

18 .<br />

A livello universale la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani<br />

o degradanti (del 10 dicembre 1984, l. ratifica ed esecuzione 3 novembre 1988, n. 498) prevede<br />

un divieto (peraltro assoluto, e quindi senza le eccezioni di cui si dirà, contenute nella Convenzione<br />

di Ginevra) di espellere, respingere, estradare una persona verso uno Stato in cui vi siano seri<br />

motivi per ritenere che rischierebbe di essere sottoposto a tortura (art. 3). La tutela offerta, come<br />

emerge anche dalla prassi del Comitato contro la tortura (organo istituito dalla Convenzione, art.<br />

17) cui i singoli possono rivolgersi presentando comunicazioni nei confronti di uno Stato (la competenza<br />

del Comitato ad esaminarle deve essere, ex art. 22, accettata dallo Stato), è intesa in senso<br />

ampio, il divieto non prevedendo eccezioni o deroghe 19 .<br />

A livello regionale gli strumenti di diritto umanitario di maggior rilievo sono la Convenzione americana<br />

sui diritti umani del 22 novembre 1969, la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli<br />

del 27 giugno 1981 e, a livello europeo, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 4 novembre<br />

1950 (l. ratifica ed esecuzione 4 agosto 1955, n. 848) con i suoi protocolli.<br />

La Convenzione americana prevede il diritto di cercare e ricevere asilo, in caso di persecuzione<br />

per delitti politici o delitti comuni connessi a quelli politici, e comunque in conformità con<br />

la legislazione di ogni Stato contraente e con gli accordi internazionali (art. 22, par. 7); prevede<br />

c dello Statuto della Corte internazionale di giustizia indicando le fonti da utilizzare in materia di soluzione delle controversie.<br />

Questi non sono ricavabili dalle norme di diritto internazionale, né sono dallo stesso sviluppati, e quindi non sono fonti di diritto<br />

internazionale generale, ma lo possono diventare (e quindi non limitarsi a esplicare funzione integrativa delle regole elaborate<br />

in ambito internazionale) in quanto esprimano effettivamente dei princìpi e caratteri essenziali in una determinata materia e<br />

abbiano un effettivo carattere di generalità, siano cioè accolti da sistemi giuridici rappresentativi delle principali forme di civiltà<br />

giuridica. Sul carattere non vincolante delle dichiarazioni, ma sul ruolo svolto quanto allo sviluppo del diritto internazionale, Conforti,<br />

Diritto internazionale, 6ª ed., Napoli, 2002, 60 ss., che ricorda anche due pronunce, Cass. S.U., 31 luglio 1967, n. 2035 in<br />

Rivista di diritto internazionale, 1969, 590, Corte Cost., 23 novembre 1967, n. 120 ove la Dichiarazione universale è richiamata<br />

(nel primo caso riconoscendole il valore di fonte di diritto consuetudinario, nel secondo caso limitandosi a precisare che il richiamo<br />

è fatto “prescindendosi da qualunque indagine [...] circa il valore giuridico” della stessa). Sul valore di norme consuetudinarie<br />

dei princìpi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili, a condizione che siano uniformemente applicati nella più gran<br />

parte degli Stati e siano sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale, non solo del diritto<br />

interno, i rilievi dello stesso autore, p. 45 ss., con riferimenti alla giurisprudenza circa l’interpretazione dell’art. 10, 1° comma<br />

Cost., i princìpi appartenendo alle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (si ricordano, in particolare, pronunce<br />

della Corte Cost. sul principio ne bis in idem, escludendo, in riferimento all’art. 11 cod. pen., la natura di principio generale,<br />

sentenze 18 aprile 1967, n. 48, 8 aprile 1976, n. 69, ma ammettendo, in riferimento all’art. 705 cod. proc. pen. che accoglie<br />

entro certi limiti il ne bis in idem internazionale, che se si non si è formata ancora una regola di diritto internazionale generale<br />

“è tuttavia principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale, e risponde del resto ad evidenti ragioni di garanzia<br />

del singolo di fronte alle concorrenti potestà primitive degli Stati”: in questi termini Corte Cost., 3 marzo 1997, n. 58). Per alcuni<br />

rilievi sulla natura della Dichiarazione, peraltro escludendo la natura consuetudinaria, Vitta, Introduzione al capitolo primo,<br />

in Vitta, Grementieri, Codice degli atti internazionali sui diritti dell’uomo, Milano, 1981, 22 ss.<br />

18 Cfr. i rilievi in proposito di Pedrazzi, Il diritto cit., 33.<br />

19 L’art. 3 prevede che “No State Party shall expel, return (“refouler”) or extradite a person to another State where there are substantial<br />

grounds for believing that he would be in danger of being subjected to torture”. Cfr. sul Comitato e la sua prassi Plender,<br />

Mole, Beyond the Geneva Convention: Constructing a de facto Right of Asylum from International Human Rights Instruments, in<br />

Nicholson, Twomey (eds.), Refugee Rights and Realities, Evolving International Concepts and Regimes, Cambridge, 1999, 86 ss.<br />

10


inoltre (art. 22, par. 8) un divieto di refoulement formulato in modo simile a quello della Convenzione<br />

di Ginevra (senza però eccezioni e, quindi, in termini più ampi e favorevoli alla persona)<br />

20 .<br />

La Carta africana (art. 12, par. 3) prevede il diritto dell’individuo, in caso di persecuzione, di cercare<br />

e ricevere asilo in altro Paese, secondo la legge di tale Paese e le convenzioni internazionali:<br />

una convenzione promossa dall’Organizzazione dell’Unità africana (del 10 settembre 1969) “regola<br />

gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa”, assumendo come presupposto la Convenzione<br />

di Ginevra, ritenuta lo “strumento fondamentale e universale” in materia, fra l’altro vietando<br />

il refoulement e l’espulsione, se viene messa in pericolo la vita, l’integrità fisica 21 .<br />

7. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo<br />

A livello europeo, in particolare, la Convenzione dei diritti dell’uomo e i relativi protocolli non<br />

contengono una norma sull’asilo né sul divieto di refoulement. L’art. 5, par. 1, lett. f, prevede,<br />

dopo aver affermato il diritto alla libertà e alla sicurezza, fra i motivi che legittimano la privazione<br />

della libertà personale, l’arresto o detenzione “legali di una persona per impedirle di penetrare<br />

irregolarmente nel territorio o di una persona contro la quale è in corso un procedimento<br />

d’espulsione o d’estradizione”. Il Protocollo n. 4 (del 16 settembre 1963 cui è stata data esecuzione<br />

con d.p.r. 14 aprile 1982, 217) vieta l’espulsione del cittadino e l’espulsione collettiva degli<br />

stranieri (artt. 3, 4); il Protocollo n. 7 (del 22 novembre 1984, l. ratifica ed esecuzione 9 aprile<br />

1990, n. 98) riconosce delle garanzie procedurali in caso di espulsione di straniero regolarmente<br />

residente (art. 1).<br />

Alla mancanza di norme ad hoc ha supplito la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,<br />

e in minor misura quella del Comitato dei diritti dell’uomo (istituito in virtù dell’art. 28 del<br />

Patto sui diritti civili e politici, che ha competenza a ricevere, esaminare e pronunciarsi sulle comunicazioni<br />

presentate dagli individui contro lo Stato che ne ha accettato la competenza, secondo<br />

quanto previsto dal Protocollo facoltativo del 16 dicembre 1966, l. ratifica ed esecuzione 25 ottobre<br />

1977, n. 881) 22 . Tale giurisprudenza offre una protezione indiretta o par ricochet del diritto di<br />

asilo, nonché del diritto di soggiorno, e quindi offre una protezione all’individuo destinatario di un<br />

provvedimento di espulsione o di estradizione che rischi di sottoporre l’individuo a misure quali<br />

la privazione arbitraria della vita (pena capitale), la tortura e le pene e i trattamenti inumani o de-<br />

11<br />

FOCUS<br />

20 Cfr. i rilievi di Plender, Mole, Beyond the Geneva Convention cit., 85, nonché Pisillo Mazzeschi, Il diritto cit., 698 (sul carattere<br />

programmatico della norma); Pedrazzi, Il diritto cit., 26 (che ricorda, in senso diverso dall’attribuzione di un carattere programmatico<br />

e a conferma di una tutela più ampia rispetto a quella della Convenzione di Ginevra, la decisione della Commissione interamericana<br />

dei diritti umani, prevista dall’art. 33 della Convenzione, sulla violazione accertata dalla Commissione, tra l’altro, del<br />

“diritto di cercare e ricevere asilo”, nel caso Haitian Interdiction v. United States, rapporto n. 51/96 del 13 marzo 1997). L’art. 22,<br />

par. 6 Convenzione vieta l’espulsione dello straniero legalmente ammesso nel territorio di uno Stato contraente, salvo che in virtù<br />

di una disposizione adottata in conformità della legge; il par. 9 vieta le espulsioni collettive degli stranieri.<br />

21 L’art. 12, par. 2, Carta africana prevede il diritto dell’individuo di lasciare qualsiasi Paese, compreso il proprio e di farvi ritorno;<br />

il par. 4 prevede il divieto di espulsione dello straniero salvo che in virtù di una decisione adottata secondo le disposizioni<br />

di legge; il par. 5 prevede il divieto di espulsioni di massa di stranieri, tali essendo le espulsioni nei confronti di gruppi nazionali,<br />

razziali, etnici o religiosi; sul tema degli esodi di massa, in particolare, si vedano i rilievi di Carella, Esodi di massa e diritto internazionale,<br />

in Rivista di diritto internazionale, 1992, 903 ss. Sulle forme di protezione dei diritti dell’uomo a livello regionale<br />

(Convenzione americana, Carta africana) e sugli organi previsti per la tutela di tali diritti si consenta rinviare, per alcuni rilievi, a<br />

Nascimbene, L’individuo e la tutela internazionale dei diritti umani, in Carbone, Luzzatto, Santa Maria, Istituzioni cit., 392 ss.<br />

22 Sulla rilevanza del Patto, che all’art. 7 vieta la tortura, le punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti e sulla giurisprudenza<br />

del Comitato, Kälin, Limits to expulsion under the International Covenant on Civil and Political Rights, in Salerno (a<br />

cura di), Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione, Padova, 2003, 154 ss. Cfr. anche, sulla possibile violazione del diritto alla<br />

vita, in caso di sottoposizione a pena di morte della persona estradata o espulsa, la prassi ricordata da Pedrazzi, Il diritto cit., 30<br />

s. in relazione alla violazione dell’art. 6, par. 1 Patto e del Secondo protocollo facoltativo sull’abolizione della pena di morte (del<br />

15 dicembre 1989, l. ratifica ed esecuzione 9 dicembre 1994, n. 734); sulla possibile violazione dell’art. 17 Patto, relativo al divieto<br />

di interferenze arbitrarie o illegittime nella vita privata e nella famiglia, Plender, Mole, Beyond the Geneva Convention cit., 99<br />

ss.; Kälin, Limits to expulsion cit., 152 ss.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

gradanti (artt. 2, 3), la violazione del rispetto della vita privata e familiare, in particolare del principio<br />

dell’unità familiare (art. 8) 23 .<br />

Le norme rilevanti sono, oltre agli artt. 2, 3, 8 della Convenzione europea, le norme che specificamente<br />

proteggono il diritto alla vita, quali il Protocollo n. 6 (del 28 aprile 1983, l. ratifica ed esecuzione<br />

2 gennaio 1989, n.8) sull’abolizione della pena di morte e il Protocollo n. 13 (del 3 maggio<br />

2002, l. ratifica ed esecuzione 15 ottobre 2008, 179) sull’abolizione della pena di morte in qualsiasi<br />

circostanza. Il diritto alla vita e il divieto di tortura sono inderogabili, il diritto all’unità familiare,<br />

invece, può subire deroghe (per ragioni di sicurezza nazionale, ordine pubblico, benessere<br />

economico del Paese, prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, protezione dei<br />

diritti e delle libertà altrui, art. 8, par. 2). L’allontanamento, l’espulsione, la consegna, il refoulement,<br />

in questo caso, sono sottoposti a un giudizio di proporzionalità fra (da un lato) il sacrificio che possono<br />

subire la vita privata, i legami familiari, il radicamento in un certo ambiente sociale e (dall’altro)<br />

i fini pubblici perseguiti dallo Stato.<br />

8. La Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato<br />

Il sistema di protezione internazionale dei rifugiati trova la sua espressione specifica nella Convenzione<br />

di Ginevra del 28 luglio 1951 (l. ratifica ed esecuzione 24 luglio 1954, n. 722), nel Protocollo<br />

di New York del 1° gennaio 1967 (l. ratifica ed esecuzione 14 febbraio 1970, n. 95) che ha eliminato<br />

l’applicazione temporale della Convenzione agli eventi verificatisi prima del 1° gennaio<br />

1951 e l’applicazione geografica agli eventi verificatisi in Europa (su quest’ultima applicazione, tuttavia,<br />

gli Stati potevano continuare a mantenere, se già formulata, una riserva, che il nostro Paese<br />

ha mantenuto fino all’approvazione della cosiddetta legge Martelli) 24 .<br />

Il “sistema di Ginevra” ha finalità essenzialmente umanitarie, ampiamente richiamate nel preambolo<br />

della Convenzione che rinvia alla Carta delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione universale, e<br />

che sottolinea la necessità di una cooperazione internazionale fra gli Stati membri delle N.U. Deve,<br />

infatti, essere sempre garantito l’esercizio dei diritti fondamentali, ma si deve anche tener conto,<br />

se si vuole realizzare una cooperazione effettiva, che “dalla concessione del diritto di asilo pos-<br />

23 Sull’orientamento giurisprudenziale in proposito cfr., quanto alla possibile violazione dell’art. 2, la sentenza 12 aprile 2005,<br />

Chamaïev e 12 altri c. Georgia e Russia, n. 36378/02, par. 371 s.; dell’art. 3, le sentenze 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, 26<br />

novembre 1996, n. 70/1995/576/662, Chahal c. Regno Unito (Chahal era sospettato di essere coinvolto in attività terroristiche, ma<br />

il divieto di tortura è, come detto poco oltre nel testo, espresso in termini inderogabili), 29 aprile 1997, H.L.R. c. Francia, n.<br />

11/1996/630/813, parr. 39-41 (il rischio di maltrattamenti rileva anche se questi provengono da privati, nella specie trafficanti di<br />

droga operanti in Colombia, lo Stato non essendo in grado di prevenirle); decisione del 7 marzo 2000, T.I. c. Regno Unito, n.<br />

43884/98 (la protezione deve essere assicurata anche contro il rischio di un allontanamento successivo dal Paese di destinazione<br />

verso un altro Paese dove subisce il rischio di violazione dei diritti fondamentali); 12 maggio 2005 [GC] Oçalan c. Turchia, par.<br />

162 ss. Sulla possibile violazione dell’art. 8 e sulla derogabilità, come è detto poco oltre nel testo, cfr. le sentenze 11 luglio 2002,<br />

Amrollahi c. Danimarca, n. 56811/00 (sul sacrificio della vita familiare, in particolare in presenza di figli minori), 7 agosto 1996,<br />

C. c. Belgio, n. 35/1995/541/627, par. 25 (sul radicamento sociale dell’individuo, in assenza di legami familiari nel Paese di residenza).<br />

Sull’estensione dei princìpi affermati in tema di estradizione all’espulsione, cfr. la sentenza 20 marzo 1991, Cruz Varas c.<br />

Svezia, spec. par. 69 s. Per una disamina della giurisprudenza Malinverni, I limiti all’espulsione secondo la Convenzione europea<br />

dei diritti dell’uomo, in Salerno (a cura di), Diritti dell’uomo cit., 165 ss.; ivi, 97 ss., Starace, Convenzione europea dei diritti dell’uomo<br />

ed estradizione; Nascimbene, La Convenzione, la condizione dello straniero, la giurisprudenza, in Nascimbene (a cura di),<br />

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Profili ed effetti nell’ordinamento italiano, Milano, 2002, 153 ss.; Costa, Expulsion<br />

et réadmission: la protection des libertés fondamentales, in Leanza (a cura di), Le migrazioni. Una sfida per il diritto comunitario<br />

e interno, Napoli, 2005, 143 ss.; Fioravanti, Diniego di riconoscimento dello status di rifugiato e concessione del permesso di soggiorno<br />

per la protezione degli individui dal rischio di tortura, in Zagato (a cura di), Verso una disciplina comune cit., 233 ss.; Mole,<br />

Asylum and European Convention on Human Rights, Strasbourg, 2007, 18 ss. Per alcuni rilievi sul tema cfr. Baratta, Spunti di<br />

riflessione sulle condizioni del migrante irregolare nella giurisprudenza internazionale, in Benvenuti (a cura di), Flussi cit., 13<br />

ss.; per un esame, in generale, dei limiti posti all’espulsione, Kamto, Preliminary Report on the Expulsion of Alìens, A/CN.4/554.<br />

24 La “legge Martelli” è il d.l. 30 dicembre 1989, n. 416 conv. in l. 28 febbraio 1990, n. 39, “Norme urgenti in materia di asilo<br />

politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già<br />

presenti nel territorio dello Stato”. Per alcuni rilievi sulle riserve italiane e il loro ritiro si permette rinviare al nostro Lo straniero<br />

nel diritto italiano, Appendice di aggiornamento, Milano, 1990, 1 ss.<br />

12


sono derivare obblighi eccezionalmente gravosi per determinati paesi” (preambolo, 2° e 4° considerando)<br />

25 .<br />

La Convenzione rappresenta il modello di altre convenzioni internazionali a carattere regionale e<br />

del sottosistema regionale comunitario, costituito dal Trattato UE e Trattato CE, prima, e, oggi, con<br />

l’entrata in vigore, il 1 dicembre 2009, del Trattato di Lisbona (di cui si dirà in prosieguo), dal Trattato<br />

UE (modificato) e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), nonché dal diritto<br />

derivato (regolamenti, direttive, decisioni). È parte integrante del nostro ordinamento non solo,<br />

e in primo luogo, attraverso le leggi di ratifica ed esecuzione, ma anche in virtù dei rinvii operati<br />

da varie norme nazionali (in epoca più recente, i decreti legislativi di recepimento delle direttive<br />

comunitarie), pur in mancanza di una legge organica che avrebbe dovuto dare attuazione alla<br />

riserva assoluta di legge contenuta nell’art. 10, 3° comma Cost.: la norma, invero, riconosce il diritto<br />

di asilo “secondo le condizioni stabilite dalla legge” 26 .<br />

La Convenzione, tuttavia, non riconosce il “diritto di asilo”, bensì disciplina il regime giuridico applicabile<br />

a chi ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato 27 . Nel definire il rifugiato (art.<br />

1), la Convenzione si riferisce alle persecuzioni da cui la persona sfugge e che l’art. 14 della Dichiarazione<br />

universale, come già ricordato, assume quale presupposto del diritto di “cercare e godere”<br />

asilo in altri Paesi. Rifugiato è (art. 1) chi “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi<br />

di razza, religione, nazionalità, appartenendo ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni<br />

politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo<br />

timore, avvalersi della protezione di questo Paese”, o se apolide, non può o non vuole tornare nel<br />

Paese in cui aveva la residenza abituale a causa di detto timore. A questa definizione, salve le integrazioni<br />

di cui si dirà, fanno rinvio le norme di diritto comunitario, e di diritto dell’Unione europea,<br />

e le norme nazionali di recepimento.<br />

La Convenzione vieta qualunque sanzione penale per ingresso o soggiorno irregolari, cioè senza<br />

autorizzazione, con obbligo di presentarsi “senza indugio” alle autorità per giustificare l’ingresso<br />

o presenza irregolari (art. 31); vieta l’espulsione del rifugiato residente regolarmente se non per<br />

cause eccezionali quali i motivi di ordine pubblico o sicurezza nazionale, e comunque nel rispetto<br />

di varie garanzie procedurali (art. 32). Vieta, in particolare, il refoulement, e quindi l’espulsione<br />

o respingimento “in nessun modo” verso Stati ove la vita o libertà sarebbero minacciate per<br />

quelle cause che legittimano la persona a chiedere il rifugio (art. 33, par. 1), con due eccezioni,<br />

rappresentate dalla sussistenza di gravi motivi che fanno ritenere il rifugiato un pericolo per la sicurezza<br />

dello Stato in cui si trova; dalla condanna con sentenza passata in giudicato per un reato<br />

particolarmente grave, il rifugiato rappresentando una minaccia per la comunità di detto Stato (art.<br />

33, par. 2).<br />

9. Il divieto di refoulement e la prassi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati<br />

I “pilastri” del sistema di Ginevra sono la definizione di rifugiato e il principio di non refoulement,<br />

cui si aggiunge la definizione degli obblighi (art. 2, conformarsi a leggi e regolamenti dello Stato<br />

di rifugio) e dei diritti civili, economici, sociali, culturali, cioè la definizione dello statuto del rifu-<br />

13<br />

FOCUS<br />

25 Sul sistema della Convenzione di Ginevra cfr., fra gli altri, Strozzi, Introduzione al capitolo quinto, in Vitta, Grementieri, Codice<br />

degli atti cit., 351 ss.; Benvenuti, La Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, in Pineschi (a cura di), La tutela internazionale<br />

dei diritti umani, Milano, 2006, 151 ss.; cfr. pure Carlier, Et Genève sera... la définition du réfugié: bilan et perspectives,<br />

in AA.VV., La Convention de Genève du 28 juillet 1951 relative au statut des réfugiés 50 ans après: bilan et perspectives, Bruxelles,<br />

2001, 63 ss.; Artini, La Convenzione di Ginevra del 1951 ed il suo ruolo nella attuale realtà dei flussi migratori, in Benvenuti<br />

(a causa di), Flussi cit., 49 ss.; ivi Marchesi, Diritto di asilo e procedure di riconoscimento del diritto all’asilo. Brevi considerazioni,<br />

167 ss. Cfr. pure gli autori citati alla nota 1.<br />

26 Sulle norme comunitarie, ovvero di diritto dell’Unione europea in materia e il recepimento delle stesse, si veda oltre, parte<br />

II. Si veda pure oltre, parte III, sull’art. 10, 3° comma Cost. e la sua attuazione.<br />

27 Sul mancato riconoscimento del diritto di asilo cfr. Pisillo Mazzeschi, Il diritto cit., 697; si vedano anche i rilievi svolti da Nascimbene,<br />

Favilli, Rifugiati, voce in Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. V, Milano, 2006, 5306 ss.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

giato (art. 3 ss., ma soprattutto artt. 12-30), restando comunque salvo il trattamento più favorevole<br />

disposto da altre convenzioni (art. 5).<br />

Rinviando al prosieguo l’esame dello “statuto” 28 , in particolare alla luce delle modifiche introdotte<br />

nel nostro ordinamento dal diritto dell’Unione europea, rileva sottolineare l’ampiezza del divieto di<br />

refoulement. Esso, invero, si estende al respingimento indiretto, cioè verso Paesi nei quali il rifugiato<br />

corre il rischio di essere respinto o espulso in altri Paesi dove subirebbe persecuzioni. Il divieto<br />

di refoulement è giustificato dal fatto che il riconoscimento dello status ha effetti dichiarativi<br />

(non costitutivi) a decorrere dal momento in cui tale riconoscimento viene richiesto. Il procedimento<br />

interno non è disciplinato dalla Convenzione ma dalle legislazioni nazionali, che nel rispetto degli<br />

obblighi generali di cooperazione degli Stati contraenti con le N.U. (artt. 35-36), debbono assicurare<br />

che la cosiddetta eleggibilità al riconoscimento dello status (art. 1) sia effettiva e non vengano<br />

vanificati i diritti sanciti nella Convenzione. Le norme nazionali, insomma, non possono rendere<br />

eccessivamente difficile o complesso il riconoscimento.<br />

Gli Stati hanno inoltre l’obbligo di fare tutto il possibile per prevenire le persecuzioni. Gli atti delle<br />

N.U. successivi alla Convenzione confermano questa impostazione. La Dichiarazione dell’Assemblea<br />

generale sull’asilo territoriale (New York, 14 dicembre 1967) riconosce il diritto di asilo richiamando<br />

quanto previsto dalla Dichiarazione universale, e conferma la natura non politica, ma umanitaria<br />

di tale riconoscimento, non potendo l’atto “essere considerato ostile da parte di qualsiasi altro<br />

Stato” (preambolo, quarta frase). La Dichiarazione conferma altresì l’impostazione tradizionale,<br />

già ricordata, di un diritto “concesso da uno Stato nell’esercizio della sua sovranità” che “deve essere<br />

rispettato da tutti gli altri Stati” (art. 1, par. 1), non già di un diritto dell’uomo in quanto diritto<br />

individuale 29 .<br />

La prassi sviluppata dall’Alto Commissariato delle N.U. per i rifugiati (UNHCR), organo sussidiario<br />

dell’Assembla generale 30 , colma almeno in parte le lacune, considerato che alla Dichiarazione sull’asilo<br />

territoriale non fece seguito una Convenzione con lo stesso oggetto. Una più ampia tutela<br />

umanitaria e una protezione internazionale più estesa rispetto alla Convenzione di Ginevra sarebbero<br />

state realizzate con la Convenzione sull’asilo. L’Alto Commissariato (che si avvale di delegazioni<br />

con competenze territoriali) “assume funzioni di protezione internazionale, sotto gli auspici<br />

delle Nazioni Unite”; coopera con i Governi nazionali, le organizzazioni intergovernative e private;<br />

promuove “soluzioni permanenti del problema dei rifugiati”; facilita il rimpatrio volontario e l’integrazione<br />

dei rifugiati in “nuove comunità nazionali” (art. 1 Statuto), vigilando sull’applicazione<br />

degli strumenti internazionali e riferendone annualmente all’Assemblea generale (artt. 8, 16 Statuto)<br />

31 . Su richiesta del Segretario generale o dell’Assemblea generale delle N.U. esercita azioni umanitarie,<br />

di protezione e assistenza a favore di individui non riconosciuti come rifugiati ma sfollati 32 .<br />

Proprio quest’ultima categoria di persone e, più in generale, quella dei rifugiati di fatto, rifugiati<br />

economici, displaced persons, che non sono riconosciuti rifugiati secondo la Convenzione, ma meritano<br />

comunque protezione, ha posto, a livello internazionale e regionale, un problema di disciplina<br />

giuridica che assicuri allo straniero, in queste condizioni, uno standard di diritto umanitario 33 .<br />

28 Vedi oltre, parte III. Per la disamina di alcuni profili relativi alla definizione di uno status giuridico del diritto d’asilo, alla luce<br />

della “universalizzazione” dei princìpi fondamentali della Convenzione di Ginevra, delle prassi interne e internazionali, della<br />

possibile estensione dell’obbligo di concedere asilo anche nei casi di protezione temporanea necessitata da conflitti armati, ovvero<br />

da situazioni economiche (non generalizzate, ma che mettono in pericolo la vita di una persona), Lenzerini, Asilo cit., 547 ss.<br />

29 Si veda, su questa impostazione, la Risoluzione dell’Institut de droit international, prima ricordata.<br />

30 L’Alto Commissariato venne istituito con risoluzione dell’Assemblea A.G. Ris. 319 [IV] del 3 dicembre 1949; lo Statuto venne<br />

approvato con A.G. Ris. 428 [V] del 14 dicembre 1950.<br />

31 Si vedano i rilievi di Strozzi, Rifugiati cit., 357 sull’Alto Commissariato e sull’accordo stipulato dal Governo italiano con lo<br />

stesso il 2 aprile 1952 (l. ratifica ed esecuzione 15 dicembre 1954, n. 1271). Sull’obbligo degli Stati di fornire cooperazione all’Alto<br />

Commissariato, cfr. l’art. 35 Convenzione e sulla nomina di “rappresentanti” dello stesso, l’art. 16 Statuto.<br />

32 Sull’opera svolta dall’Alto Commissariato Benvenuti cfr. La Convenzione cit., 152. Per alcuni rilievi sulla protezione degli sfollati<br />

cfr. Zorzi Giustiniani, La tutela internazionale degli sfollati, in Benvenuti, Flussi cit., 387 ss.<br />

33 Su questi profili, e la necessità di assicurare una protezione internazionale più ampia di quella prevista dalla Convenzione di<br />

Ginevra, cfr. i riferimenti nelle due note precedenti e Nascimbene, Favilli, Rifugiati, loc. cit.; Lenzerini, Asilo cit., 555 ss. (anche<br />

14


Il diritto dell’Unione europea, di cui si dirà poco oltre, offre un esempio di come possano integrarsi<br />

la cooperazione e le norme internazionali, da un lato, e norme comunitarie dell’Unione europea,<br />

primarie e secondarie, dall’altro.<br />

10. Il diritto comunitario in materia di asilo. Dalle “norme minime” alla “politica comune”<br />

II.<br />

Come cambia, dunque, se cambia, il quadro normativo sull’asilo e sullo statuto del rifugiato in virtù<br />

del diritto dell’Unione europea?<br />

La domanda sembra retorica, perché un diritto in movimento e in divenire, quale è il diritto dell’Unione,<br />

influenza ogni settore del diritto con forza “invasiva” e, dunque, anche quello dei diritti<br />

fondamentali della persona ai quali il diritto di asilo, come si è prima detto, appartiene 34 .<br />

La domanda è, invece, del tutto giustificata se si considera che le norme comunitarie sull’asilo non<br />

appartengono al diritto comunitario classico od originario dei Trattati istitutivi delle Comunità e, anche<br />

quando sono state introdotte con il Trattato di Maastricht che ha istituito l’Unione europea (in<br />

vigore dal 1° novembre 1993), hanno appartenuto al cosiddetto terzo pilastro, caratterizzato dalla<br />

cooperazione intergovernativa. La politica in materia di asilo non esisteva nel Trattato CEE (in vigore<br />

dal 1° gennaio 1958) ed era, comunque, un mero “settore di comune interesse” nel Trattato di<br />

Maastricht (art. K.1 Trattato UE). È solo con il Trattato di Amsterdam (in vigore dal 1° maggio 1999)<br />

che le norme sull’asilo, insieme a quelle sui visti, sull’immigrazione, sulla cooperazione giudiziaria<br />

in materia civile (art. 62 ss., titolo IV Trattato CE) entrano a far parte del cosiddetto primo pilastro<br />

15<br />

FOCUS<br />

su ipotesi de lege ferenda). Per alcuni rilievi di carattere generale sugli obblighi e sulla responsabilità degli Stati, Carella, Esodi cit.,<br />

929 ss.; Pisillo Mazzeschi, Flussi di rifugiati e responsabilità dello Stato di origine, in Rivista di diritto internazionale, 1991, 621<br />

ss.; Plender, Mole, Beyond the Geneva Convention cit., 99.<br />

34 Sulla forza espansiva o invasiva del diritto comunitario è celebre, e ancora attuale, l’affermazione di Lord Denning, in causa<br />

HP Bulmer Ltd v. Bollinger SA (1974), Ch. 401, 408, secondo cui “when we come to matters with a European element, the Treaty<br />

is like an incoming tide. It flows into the estuaries and up the rivers. It cannot be held back”. Sul tema del diritto di asilo e della<br />

politica europea in materia, si vedano più recentemente Nascimbene, Il futuro della politica europea di asilo, ISPI, Working paper<br />

n. 25, giugno 2008 (e con Favilli, Rifugiati cit.); Adinolfi, Riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria:<br />

verso un sistema comune europeo?, in Rivista di diritto internazionale, 2009, 669 ss. In precedenza Cannizzaro, L’armonizzazione<br />

del diritto d’asilo in sede comunitaria e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, in Rivista di diritto internazionale,<br />

2001, 440 ss.; Boccardi, Europe and Refugees: Towards an EU Asylum Policy, The Hague, 2002; Manca, L’immigrazione nel<br />

diritto dell’Unione europea, Milano, 2003, 55 ss.; i vari contributi in Dias Urbano De Sousa, De Bruycker (under the supervision<br />

of), The Emergence of a European Asylum Policy, Bruxelles, 2004; Gilbert, Is Europe Living Up to Its Obligations to Refugees?, in<br />

European Journal of International Law, 2004, 963 ss.; Adinolfi, La libertà di circolazione delle persone, in Strozzi (a cura di), Diritto<br />

dell’Unione europea, parte speciale, Torino, 2005, 70 ss.; i vari contributi in Carlier, De Bruycker (under the supervision of),<br />

Immigration and Asylum Law: Current Debats, Bruxelles, 2005 e in Julien-La Ferrière, Labayle, Edstrom, The European immigration<br />

and asylum policy: critical assessment five years after the Amsterdam Treaty, Bruxelles, 2005; Juss, The Decline and Decay of<br />

European Refugee Policy, in Oxford Journal of Legal Studies, 2005, 749 ss.; Marchisio, Rifugiati, profughi e altre esigenze di protezione<br />

nel diritto comunitario, in Leanza (a cura di), Le migrazioni cit., 327 ss.; Zwaan, UNHCR and European Asylum Law, Nijmegen,<br />

2005; Cellamare, La disciplina dell’immigrazione nell’Unione europea, Torino, 2006, 22 ss; Quadri, Le migrazioni internazionali,<br />

2006, 201 ss.; Feitgen-Colly, The European Union and Asylum: An illusion of protection, in Common Market Law Review,<br />

2006, 1503 ss.; i vari contributi in Zagato (a cura di), Verso una disciplina comune cit.; Bascherini, Immigrazione e diritti<br />

fondamentali, Napoli, 2007, spec. 186 ss.; Benvenuti, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione,<br />

Padova, 2007, 233 ss.; Carlier, La condition des personnes dans l’Union européenne, Paris, 2007, 153 ss.; i contributi di Parisi, Ai<br />

confini d’Europa Politiche migratorie e diritto d’asilo e di Spatti, Richiedenti asilo e “paesi sicuri”. La disciplina comunitaria a confronto<br />

con il diritto internazionale a tutela dei rifugiati e con i diritti fondamentali dell’individuo, in Rinoldi (a cura di), Questioni<br />

di diritto delle migrazioni, Milano, 2007, 45, 181 ss.; Caggiano, Le nuove politiche dei controlli alle frontiere dell’asilo e dell’immigrazione<br />

nello spazio unificato di libertà, sicurezza e giustizia, in Benvenuti (a cura di), Flussi cit., 101 ss.; Galetta, The European<br />

Asylum Policy between myth and reality, in Birkinshaw (ed.), The End of the Post 1992 European Order?, Alphen aan den<br />

Rijn, <strong>2010</strong>, in corso di pubblicazione.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

o pilastro comunitario, caratterizzato dal ben diverso metodo comunitario ovvero metodo dell’integrazione<br />

comunitaria 35 .<br />

La base giuridica rappresentata dagli artt. 61-63 (soprattutto dall’art. 63) ha consentito l’approvazione<br />

di una serie di atti, dal 2000 al 2005, che rappresentano la prima fase della politica comunitaria<br />

o dell’Unione in materia di asilo. La prima fase è delineata in due programmi di durata, ciascuno,<br />

quinquennale (Tampere 1999-2004; L’Aja 2004-2009), cui ne seguirà un terzo di pari durata (Stoccolma,<br />

<strong>2010</strong>-2014).<br />

Insieme i tre programmi tracciano la road map, e quindi anche le linee evolutive della seconda fase,<br />

alla luce degli orientamenti politici contenuti nel “Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo”<br />

(adottato dal Consiglio europeo, 2008) 36 .<br />

Il diritto comunitario in materia è dunque, in primo luogo, di formazione recente; in secondo luogo<br />

è tuttora in corso di approfondimento, alla ricerca di standard più elevati rispetto a quelli internazionali.<br />

L’obiettivo del miglioramento della condizione del rifugiato sarà realizzato una volta in<br />

vigore il Trattato di Lisbona: esso, invero, non si riferisce più all’adozione di “norme minime” (art.<br />

61 Trattato CE) ma alla garanzia, da parte dell’Unione, di realizzare una “politica comune in materia<br />

di asilo”, oltre che in materia di immigrazione e controllo delle frontiere esterne (art. 67 Trattato<br />

sul funzionamento dell’Unione europea-TFUE) 37 .<br />

11. Le direttive e i regolamenti rilevanti<br />

Le norme rilevanti nella materia in esame sono quattro direttive specifiche (sulle condizioni di accoglienza<br />

dei richiedenti asilo, sulla protezione temporanea, sul riconoscimento della qualifica di<br />

rifugiato e sulle procedure per ottenere tale riconoscimento) e alcune disposizioni sul ricongiungimento<br />

familiare contenute in una direttiva di oggetto più ampio quale il ricongiungimento familiare<br />

(direttiva 2003/86), e quattro regolamenti. Questi, precisamente, sono due coppie di regolamenti,<br />

che compongono il cosiddetto sistema di Dublino: il regolamento “Dublino II” sui criteri e meccanismi<br />

di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo<br />

presentata in uno Stato membro (343/2003; ha la sua origine in una Convenzione sottoscritta dagli<br />

Stati membri a Dublino il 15 giugno 1990, denominata “Dublino I”, avente il medesimo oggetto),<br />

completato da un regolamento di applicazione (407/2002); il regolamento Eurodac per il confronto<br />

delle impronte digitali e l’efficace applicazione del predetto regolamento (e, nel passato, della<br />

Convenzione; regolamento 2725/2000) completato da un regolamento di applicazione (1560/2003).<br />

La direttiva accoglienza (2003/9) disciplina le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo. Essa<br />

definisce quali sono i diritti minimi (sostanziali, procedurali, giurisdizionali) che si applicano a chi<br />

chiede asilo secondo la Convenzione di Ginevra. Lo Stato può applicare tali norme anche a forme<br />

di protezione diverse da quella prevista dalla Convenzione di Ginevra, come la protezione sussi-<br />

35 Il metodo viene definito sulla base di quattro caratteristiche, non presenti nella cooperazione internazionale, anche a livello<br />

europeo (come la cooperazione realizzata nell’ambito del Consiglio d’Europa): prevalenza degli organi di individui; prevalenza<br />

del principio maggioritario; ampiezza del potere di adottare atti vincolanti; sottoposizione degli atti adottati a un sistema di controllo<br />

giurisdizionale di legittimità. Un riferimento al metodo o modello comunitario era contenuto nel Trattato che adotta una Costituzione<br />

per l’Europa (art. I-1, secondo cui l’Unione avrebbe esercitato “sulla base del modello comunitario le competenze” attribuite<br />

dagli Stati alla stessa), ma più non compare nel Trattato di Lisbona: si vedano in proposito i rilievi di Daniele, Diritto dell’Unione<br />

europea, 3ª ed., Milano, 2008, 6 ss.<br />

36 Sui programmi ricordati (Tampere e L’Aja) si vedano gli autori citati alla nota 34; sul programma di Stoccolma cfr. le conclusioni<br />

della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 10-11 dicembre 2009, con cui il Consiglio ha adottato il programma,<br />

denominato “Un’Europa aperta e sicura al servizio dei cittadini” (doc. 17024/09 del 2 dicembre 2009); in precedenza, sull’evoluzione<br />

della protezione in materia di asilo, il piano strategico della Commissione “Un approccio integrato in materia di protezione<br />

nell’Unione europea”, COM (2008) 360 del 17 giugno 2008. Sul Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, adottato dal Consiglio<br />

europeo del 16 ottobre 2008, Bertozzi, European Pact on Migration and Asylum: A Stepping store toward Common European<br />

Migration Policy, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2009, 79 ss.<br />

37 Per alcuni rilievi sulle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona si vedano i rilievi di Nascimbene, Il futuro della politica<br />

cit. (e con Favilli, Rifugiati cit.) e di Adinolfi, Riconoscimento dello status di rifugiato cit.<br />

16


diaria prevista dalla direttiva qualifiche (di cui si dirà poco oltre) o quelle altre forme di protezione<br />

previste dalle norme nazionali.<br />

La direttiva protezione temporanea (2001/55) assicura la protezione temporanea di un anno (prorogabile<br />

due volte, al massimo, per sei mesi ciascuna) di una categoria di persone, definite “sfollati”,<br />

più ampia dei rifugiati, ma che può rappresentare una prima forma di protezione in attesa del<br />

riconoscimento dello status di rifugiato. La protezione è prevista quando vi sia un afflusso massiccio<br />

di sfollati e intende promuovere, considerata l’entità del fenomeno di afflusso, un “equilibrio<br />

degli sforzi” fra gli Stati “che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli<br />

stessi”.<br />

Le direttive che sono più strettamente connesse al diritto della Convenzione di Ginevra, contenendo<br />

elementi evolutivi rispetto alla stessa, sono la direttiva qualifiche (2004/83) e la direttiva procedure<br />

(2005/85). La prima riguarda l’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti<br />

bisognosa di protezione internazionale e il contenuto della protezione, per quanto riguarda sia il<br />

rifugiato, sia la persona protetta in via sussidiaria. La protezione sussidiaria è l’aspetto maggiormente<br />

positivo, ma anche la novità, rispetto al diritto tradizionale, rappresentata dalla Convenzione di<br />

Ginevra che viene definita nel preambolo della direttiva (punto 3) “la pietra angolare della disciplina<br />

giuridica internazionale relativa ai rifugiati”. Se, da un lato, si vogliono fissare criteri comuni<br />

per attribuire lo status, assicurando alle persone un livello comune (minimo) di prestazioni, e<br />

dunque evitando il fenomeno dell’asylum shopping ovvero della ricerca dello Stato ove più facile<br />

è ottenere il riconoscimento grazie a norme o prassi nazionali più favorevoli, dall’altro lato si riconosce<br />

che esistono situazioni meritevoli di protezione (sussidiaria o complementare alla protezione<br />

riconosciuta al rifugiato) non ricomprese nella definizione della Convenzione di Ginevra 38 .<br />

La Convenzione non è stata modificata, ma l’azione e la prassi dell’UNHCR sono nel senso di “proteggere<br />

e assistere particolari gruppi di persone, le cui caratteristiche non corrispond[ono] necessariamente<br />

alla definizione presente” nello Statuto dell’Ufficio, conformemente al mandato ricevuto<br />

dall’Assemblea generale e dal Comitato economico e sociale delle Nazioni Unite di estendere ratione<br />

personae la competenza originariamente prevista nello Statuto 39 .<br />

12. La protezione internazionale, in particolare: a) la protezione sussidiaria; b) la procedura di riconoscimento<br />

(anche con riferimento al diritto interno); c) la nozione di Paese terzo sicuro<br />

a) La protezione sussidiaria, che insieme alla protezione temporanea è codificata nel diritto dell’Unione,<br />

con sicuro vantaggio e progresso rispetto al diritto internazionale, è stata peraltro oggetto<br />

di interpretazione da parte della Corte di giustizia su rinvio del giudice amministrativo dei Paesi<br />

Bassi in un caso di richiedenti asilo afgani.<br />

La Corte ha riconosciuto che questa forma di protezione a favore di chi non possiede i requisiti<br />

per essere riconosciuto come rifugiato (perché non subisce la persecuzione che ne caratterizza lo<br />

status), ma nei confronti del quale sussistano fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese<br />

di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un danno grave, è non solo più estesa di<br />

quella offerta dalla Convenzione di Ginevra, ma anche di quella offerta dalla Convenzione europea<br />

dei diritti dell’uomo, in particolare dall’art. 3. Le norme della direttiva (art. 2, lett. e; art. 15, lett.<br />

a, b, c) si riferiscono a un danno grave che comprende espressamente (lett. b) la tortura e il trat-<br />

17<br />

FOCUS<br />

38 Sul significato della protezione sussidiaria, si veda la Nota dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i rifugiati, La protezione sussidiaria<br />

secondo la “Direttiva Qualifiche” nel caso di persone minacciate da violenza indiscriminata, presentata alla Corte di giustizia<br />

delle Comunità europee nella causa C-465/07, Elgafaji, decisa con sentenza del 17 febbraio 2009, in Raccolta, p.-I in corso<br />

di pubblicazione. Per rilievi sulla protezione temporanea e sussidiaria e l’interpretazione evolutiva della Convenzione di Ginevra,<br />

cfr. parte I, parr. 8-9, riferimenti ivi. Su alcuni problemi posti dalla direttiva qualifiche cfr. le cause riunite pendenti avanti alla Corte<br />

di giustizia, Abdulla, Hasan, Adem e Rashi, Jamal, C-175/08, C-176/08, C-178/08, C-179/08, conclusioni dell’avvocato generale<br />

Mazák, in http://curia.europa.eu<br />

39 Su tale estensione cfr. la Nota La protezione cit., 2; cfr. anche quanto si è detto in precedenza, par. 9.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

tamento inumano e degradante, aggiungendo (lett. c) la minaccia grave, e individuale, alla vita o<br />

alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o<br />

internazionale. Per quanto si tratti di formulazione piuttosto dubbia, frutto di compromesso in sede<br />

di approvazione (la formulazione originaria faceva riferimento, genericamente, a persone in fuga<br />

da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o di violazioni sistematiche e generalizzate<br />

dei loro diritti umani, senza indicazioni circa il carattere “individuale” della violenza) 40 , la<br />

Corte ha dato un’interpretazione estensiva della situazione meritevole di protezione. Fatto salvo<br />

l’indiscutibile “rispetto dei diritti fondamentali come garantiti dalla CEDU”, in particolare dall’art.<br />

3, l’interpretazione autonoma, e quindi additiva delle norme della direttiva, ha come risultato che<br />

la minaccia individuale, ovvero il rischio soggettivo che corre il singolo, non deve essere provato<br />

quando il grado di violenza indiscriminata che caratterizza un conflitto è così elevato da ritenere<br />

che la persona, rientrando nel Paese, “correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio [...] un rischio<br />

effettivo di subire la detta minaccia” 41 .<br />

Il singolo, insomma, non è sottoposto all’onere della prova in determinate situazioni, venendo così<br />

facilitato il riconoscimento della qualifica di protezione sussidiaria e favorita l’interpretazione<br />

estensiva di una norma, come si è detto, di dubbia formulazione.<br />

b) La direttiva procedure si propone di stabilire norme procedurali minime sul riconoscimento e<br />

revoca dello status di rifugiato: un “quadro minimo” che dovrebbe (precisa la direttiva, considerando<br />

n. 6) “contribuire a limitare i movimenti secondari dei richiedenti asilo tra gli Stati membri,<br />

nei casi in cui tali movimenti siano dovuti alla diversità delle normative”. La finalità di limitare o<br />

eliminare il fenomeno di asylum shopping, comune alla direttiva qualifiche, è solo in parte realizzato,<br />

poiché la discrezionalità lasciata agli Stati nell’adottare misure di attuazione è assai ampia e il<br />

frequente rinvio a norme e procedure nazionali pregiudica l’uniformità di soluzioni 42 .<br />

Anche il coordinamento con la direttiva qualifiche è carente, perché è lasciata agli Stati la facoltà<br />

di decidere se la procedura relativa al riconoscimento dello status di rifugiato è applicabile anche<br />

per il riconoscimento della protezione sussidiaria (art. 3, par. 3). Il nostro Paese si è avvalso di tale<br />

facoltà e il d.lgs. 25/2008 prevede una procedura unica per tutte le forme di protezione internazionale<br />

(art. 26), consentendo anche l’impugnazione di una decisione che abbia riconosciuto la<br />

protezione sussidiaria anziché lo status di rifugiato (art. 35). A conferma di questa impostazione<br />

unitaria a livello nazionale, il d.lgs. usa le espressioni “domanda di asilo” e “domanda di protezione<br />

internazionale” in modo equivalente (si veda, per esempio, la rubrica dell’art. 26 e il 1° comma<br />

dello stesso articolo, e la diversa denominazione degli organi amministrativi competenti, le<br />

commissioni territoriali essendo denominate di “protezione internazionale” e quella nazionale di<br />

“diritto di asilo”, artt. 4, 5).<br />

La direttiva, che consente di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli (art. 5)<br />

lascia comunque liberi gli Stati di applicarla a qualsiasi altra forma di protezione internazionale (art.<br />

3, par. 4).<br />

Il d.lgs. ricordato prevede una forma autonoma di protezione a favore di chi non abbia ottenuto il<br />

riconoscimento della protezione internazionale, qualora sussistano “gravi motivi di carattere umanitario”<br />

(art. 32; la commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del<br />

permesso di soggiorno, appunto, per motivi di carattere umanitario) 43 .<br />

40 Cfr. per rilievi critici la Nota La protezione cit., 3.<br />

41 Cfr. il punto 43 della sentenza e sul rispetto, comunque, dei diritti fondamentali come garantiti dalla CEDU, il punto 28.<br />

42 Sulla direttiva procedure e sulla recezione nel nostro ordinamento cfr. Marchesi, Diritto di asilo cit., 170 ss.; Bartolini, Osservazioni<br />

in margine alla “direttiva procedure” 2005/85, in Benvenuti (a cura di), Flussi cit., 177 ss., ivi riferimenti.<br />

43 Il rilascio del permesso è, salvo casi eccezionali, atto dovuto, una volta che sia stata accertata da parte della commissione<br />

(non già del Questore) la sussistenza dei motivi: cfr. sul punto Cass. S.U. 19393/09, ricordata oltre, parte III (nota 63, anche per<br />

altri riferimenti). Precisa il d.lgs. art. 34, par. 3 che “il permesso di soggiorno umanitario” rilasciato ai sensi del t.u. immigrazione<br />

(art. 5, 6° comma) viene sostituito, al momento del rinnovo, dal permesso per protezione sussidiaria e comunque, ai titolari del<br />

“vecchio” permesso sono riconosciuti gli stessi diritti dei titolari dello status di protezione sussidiaria (art. 34, apr. 4). Su questo<br />

punto si veda oltre, par. 16.<br />

18


Non vi è dubbio che la direttiva abbia effetti positivi nel:<br />

a) prevedere, per esempio, il diritto di rimanere nello Stato durante l’esame della domanda (art.<br />

7);<br />

b) ribadire, a più riprese, il divieto di refoulement (artt. 26, 27, 36, allegato II);<br />

c) prevedere il diritto all’assistenza e rappresentanza legali (art. 15, seppur con molti limiti quanto<br />

alla gratuità delle stesse quando si tratti di impugnare una decisione negativa);<br />

d) vietare l’arresto per il solo motivo che si tratti di persona che chieda l’asilo (art. 18), anche se<br />

non viene escluso che ciò possa avvenire, salvo precisare che gli Stati devono assicurare “un<br />

rapido sindacato giurisdizionale”.<br />

Contro le decisioni negative deve essere assicurato “un mezzo di impugnazione efficace dinnanzi<br />

a un giudice” (art. 39), ma non è prevista una sospensione automatica della decisione a seguito<br />

dell’impugnazione, venendo formulato un generico impegno degli Stati a prevedere norme nazionali,<br />

conformi agli obblighi internazionali assunti dagli Stati stessi, che consentano ai richiedenti<br />

asilo di rimanere in attesa dell’esito del procedimento giudiziario (art. 39, par. 2 e par. 3) 44 .<br />

c) Uno degli aspetti più problematici della direttiva, che ha causato anche un contenzioso fra Parlamento<br />

europeo e Consiglio, su cui si è pronunciata la Corte di giustizia, riguarda la definizione<br />

di Paesi terzi sicuri 45 .<br />

Il Parlamento aveva ritenute violate le proprie prerogative perché la direttiva prevede, anziché la codecisione,<br />

una decisione del Consiglio, a maggioranza qualificata, previa semplice consultazione del<br />

Parlamento, nelle ipotesi di adozione di un elenco comune minimo di Paesi terzi, considerati Paesi<br />

di origine sicuri (art. 29) e di un elenco di Paesi terzi europei sicuri (art. 36). Criterio fondamentale<br />

per stabilire la fondatezza di una domanda di asilo è la sicurezza del richiedente nel Paese di<br />

origine e la definizione comune di tali Paesi, in modo da presumerne la sicurezza, riconoscendo<br />

al singolo, in ogni caso, il diritto di far venire meno tale presunzione in relazione al proprio caso.<br />

Si tratta di un importante obiettivo della direttiva che vuole preservare i casi particolari di persecuzione<br />

(art. 31, par. 1 sui “gravi motivi” e le “circostanze specifiche” che il singolo può invocare). I<br />

criteri di “sicurezza” (indicati nell’allegato II) consistono nella valutazione dell’inesistenza di persecuzioni,<br />

torture, pene o trattamenti disumani o degradanti, pericolo di violenza indiscriminata. Tale<br />

valutazione deve essere compiuta avendo riguardo<br />

a) alle norme e prassi nazionali;<br />

b) al rispetto dei diritti e libertà tutelati nella CEDU “e/o” nel Patto internazionale sui diritti civili e<br />

politici “e/o” nella Convenzione contro la tortura;<br />

c) al rispetto del principio di non refoulement conformemente alla Convenzione di Ginevra;<br />

d) all’esistenza di un sistema di rimedi efficaci contro la violazione dei diritti e libertà fondamentali.<br />

L’effettività del diritto e la tutela a livello internazionale, attraverso dunque gli strumenti di diritto<br />

internazionale, assumono massimo rilievo.<br />

Una domanda di cittadino (o apolide soggiornante abitualmente) di un Paese di origine (terzo) sicuro<br />

è dunque, in linea di principio, giudicata “infondata” (art. 31, par. 2); se il Paese terzo è europeo,<br />

non si procede all’esame del merito, anzi, precisa la norma, non ha luogo neppure l’esame<br />

19<br />

FOCUS<br />

44 Nel d.lgs. 25/2008 si distinguono i casi di sospensione automatica (casi limitati, anche se sembrerebbe la regola, art. 35, 6°<br />

comma) da quelli, ben più numerosi, in cui la sospensione deve, invece, essere espressamente richiesta (art. 35, 7°, 8°, 12° comma).<br />

La sospensione va dunque richiesta se si tratta di ricorsi contro le decisioni di inammissibilità (per esempio se il riconoscimento<br />

è già stato pronunciato in altro Stato o se si tratta di reiterazione della domanda); contro le decisioni prese quando il richiedente<br />

asilo si è allontanato dal centro di accoglienza senza giustificato motivo; contro le decisioni prese quando il richiedente<br />

si trova in un centro di accoglienza e ha presentato la domanda essendo già destinatario di un provvedimento di espulsione o<br />

di respingimento, oppure quando è trattenuto in un centro di identificazione ed espulsione (per tutti i motivi che richiedono il<br />

trattenimento, per esempio perché condannato o espulso in casi diversi da quelli che consentono la presenza in un centro di accoglienza);<br />

ricorsi in appello contro le decisioni pronunciate dal Tribunale.<br />

45 Corte di giustizia, 6 maggio 2008, causa C-133/06, Parlamento c. Consiglio, in Raccolta, I-3189.


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della domanda (o, afferma la direttiva, art. 36, con espressione di dubbia interpretazione, l’esame<br />

non viene “condotto esaurientemente”).<br />

La pronuncia della Corte di giustizia non ha riguardato il contenuto delle norme in proposito, ma il<br />

procedimento. Viene infatti censurata la “riserva di legge” contenuta nella direttiva a favore del Consiglio,<br />

che ha previsto un fondamento normativo ad hoc anziché adeguarsi, e quindi ricorrere, alla<br />

procedura generale di codecisione ai sensi dell’art. 67. L’annullamento ha avuto come conseguenza<br />

la mancata adozione degli elenchi e, quindi, la non applicazione, sotto questo profilo, della direttiva.<br />

13. Le critiche al sistema vigente e le proposte di modifica: verso un “sistema comune europeo”<br />

Le critiche al sistema, composto (come si è detto) da regolamenti e direttive, hanno determinato la<br />

Commissione ad avviare una fase di revisione normativa, ovvero una seconda fase nella realizzazione<br />

della politica di asilo, ritenendo conclusa la prima fase (avviata con il programma di Tampere<br />

e continuata con quello di Amsterdam). Fra le critiche si possono ricordare l’automatismo nell’applicazione<br />

dei criteri di responsabilità previsti da “Dublino II”, poiché lo Stato competente, cui<br />

viene rinviata la persona, può non essere rispettoso dei diritti fondamentali e, in particolare, della<br />

CEDU. In tal senso si è espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, censurando gli Stati che rinviano<br />

in Grecia e la Grecia stessa, perché vi è il rischio che sottoponga la persona a trattamenti disumani<br />

e degradanti oppure (qualificandosi in tal caso “Stato intermedio”) rinvii a sua volta verso<br />

uno Stato dove la persona può subire tali trattamenti.<br />

L’applicazione delle norme comunitarie in materia di asilo non può comportare la violazione delle<br />

norme sui diritti fondamentali: a maggior ragione in virtù della piena integrazione nel diritto dell’Unione<br />

della Carta dei diritti fondamentali, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona<br />

(la Carta, infatti, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati UE e TFUE, come dispone l’art. 6 TUE vigente).<br />

L’art. 18 della Carta tutela il diritto d’asilo; l’art. 19 il divieto di allontanamento, espulsione,<br />

estradizione se la persona corre il serio rischio di sottoposizione a pena di morte, tortura, altre pene<br />

o trattamenti inumani o degradanti. Le due norme, dunque, possono essere invocate come parametro<br />

di legittimità degli atti dell’Unione e il giudice nazionale potrà farvi riferimento nel riconoscere<br />

al singolo diritti tutelati dalle norme dell’Unione 46 .<br />

Le proposte di modifica verso “un sistema comune europeo” mirano a una procedura uniforme di<br />

esame delle domande di asilo, da instaurare, secondo il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo,<br />

entro il 2012. Le procedure in vigore negli Stati membri sono eccessivamente differenziate, la percentuale<br />

di riconoscimento variando in modo non giustificato neppure in presenza di regole minime,<br />

e il riconoscimento di protezione sussidiaria è di gran lunga superiore al riconoscimento dello<br />

status di rifugiato, con il pericolo, paventato dall’UNHCR, che la Convenzione venga svuotata<br />

del suo significato 47 .<br />

46 Sul significato della Carta, soprattutto sulla sua funzione interpretativa di un atto comunitario quando la Carta è richiamata<br />

dall’atto, a essa conformandosi cfr. Corte di giustizia, 2 giugno 2006, causa C-540/03, Parlamento c. Consiglio, in Raccolta, I-5769,<br />

sottolineando a proposito della direttiva sul ricongiungimento familiare, che “se è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento<br />

giuridico vincolante, il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo ‘considerando’<br />

della direttiva che quest’ultima rispetta i princìpi riconosciuti non solamente dall’art. 8 della CEDU, bensì parimenti<br />

dalla Carta”. Sugli artt. 18 e 19 della Carta cfr. i commenti di Brunelli, Art. 18. Diritto di asilo, in Bifulco, Cartabia, Celotto (a cura<br />

di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Bologna, 2001, 154 ss. Per le “Spiegazioni”<br />

agli artt. 18 e 19, elaborate insieme alla Carta (“Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali”), cfr. Nascimbene,<br />

Unione Europea. Trattati, Torino, <strong>2010</strong>, 379 ss., 386.<br />

47 Si veda la Comunicazione della Commissione Uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia al servizio dei cittadini,<br />

COM(2009)262 del 10 giugno 2009, spec. p. 5, con indicazioni delle percentuali: se la media degli accoglimenti delle domande è<br />

del 25%, vi sono Stati con il 50% e Stati con un numero minimo di accoglimenti. Per una constatazione sui risultati minimi conseguiti<br />

cfr. la Comunicazione sull’applicazione della direttiva, COM(2007)745 del 26 novembre 2007. Sull’aumento dei riconoscimenti<br />

di protezione sussidiaria cfr. il Piano strategico cit. e sulle preoccupazioni dell’UNHCR la Nota La protezione sussidiaria cit.,<br />

ivi riferimenti. Quanto al nostro Paese (sull’attuazione delle norme comunitarie e dell’Unione europea cfr. oltre, parte III), si vedano<br />

i dati e le informazioni contenute nel Rapporto annuale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, Anno<br />

2008/2009, Pomezia, 2009.<br />

20


In un sistema veramente integrato si dovrebbe pretendere, oltre a una procedura, uno status o condizione<br />

uniforme, ispirato al principio del mutuo riconoscimento effettivo. Si dovrebbe ricorrere a<br />

regolamenti, piuttosto che a direttive, ma si potrebbe anche istituire un’autorità europea che compia<br />

un esame centralizzato delle domande. Per ora è prevista l’istituzione di un Ufficio di sostegno<br />

agli Stati, che consenta una maggiore collaborazione e un sistema di solidarietà per la ricollocazione<br />

o redistribuzione dei beneficiari di protezione internazionale sia che si trovino all’interno dell’Unione<br />

europea, cioè sul territorio degli Stati membri, sia che provengano da uno Stato terzo ove<br />

si trovano (cosiddetto Paese di primo asilo) e vengono, appunto, reinsediati in uno Stato membro<br />

che dà la propria disponibilità in tal senso 48 .<br />

Assume dunque rilievo anche la ripartizione degli oneri e, quindi, la necessità di risorse adeguate<br />

la cui mancanza o non corretta distribuzione è stata lamentata, in particolare dal nostro Paese in<br />

occasione degli afflussi di migranti e richiedenti asilo via mare, con particolare riguardo ai più recenti,<br />

che hanno suscitato significative reazioni (come si dirà in prosieguo) anche da parte della<br />

Commissione europea, nel senso vuoi di chiedere ragione del comportamento tenuto dalle autorità<br />

italiane (respingimenti in larga misura), vuoi di proporre, in linea generale, nuove e concrete misure<br />

di redistribuzione interna 49 .<br />

14. La definizione di uno status e di una procedura uniforme. Le difficoltà di attuazione (anche alla luce del<br />

Trattato di Lisbona)<br />

La definizione di una politica europea in materia di asilo rinnovata o rinforzata (piuttosto che nuova)<br />

è contenuta nel Trattato di Lisbona. Da un lato, viene accolta una nozione ampia di politica di<br />

asilo, comprendente quella sussidiaria e quella temporanea, “volta a offrire uno status appropriato<br />

a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire<br />

il rispetto del principio di non respingimento” in conformità alla Convenzione di Ginevra (art. 78<br />

TFUE), ma anche con gli artt. 18, 19 della Carta dei diritti fondamentali; dall’altro, il sistema comune<br />

europeo deve essere fondato sulla solidarietà fra gli Stati membri (“principio di solidarietà e di<br />

equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario”, art. 80<br />

TFUE) e sul partenariato e la cooperazione con i Paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo<br />

o richiedenti protezione sussidiaria e temporanea (art. 78, par. 2 TFUE).<br />

Questi obiettivi, contenuti anche nel programma di Stoccolma sulla politica dell’Unione in materia<br />

di spazio di libertà, sicurezza e giustizia per i prossimi cinque anni 50 , richiedono la determinazione<br />

di modalità attuative, poiché non riguardano soltanto una ripartizione di oneri economici. Si tratta<br />

di verificare vari elementi:<br />

a) se l’Unione europea ha la competenza e la volontà politica di sostituirsi a questo o quello Stato<br />

onerato da afflussi o domande di asilo;<br />

21<br />

FOCUS<br />

48 Cfr. la proposta di regolamento che istituisce l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, COM(2009)66 del 18 febbraio 2009 e<br />

la comunicazione della Commissione sull’istituzione di un programma comune di reinsediamento UE, COM(2009)447 del 2 settembre<br />

2009, anche sulle diverse tipologie di reinsediamento. Si veda pure il Piano strategico cit., par. 5.1.; sullo stanziamento di<br />

risorse cfr. la decisione 573/2007 del Parlamento e del Consiglio del 23 maggio 2007, che istituisce il Fondo europeo per i rifugiati<br />

per il periodo 2008-2013 e sui problemi di finanziamento la comunicazione prima citata.<br />

49 Cfr. il par. 17; in particolare la lettera del Vicepresidente della Commissione europea Barrot al Governo italiano del 15 settembre<br />

2009 e, quanto alle proposte della Commissione, la comunicazione citata alla nota procedente. Per alcuni rilievi in proposito<br />

si rinvia al nostro contributo Il respingimento degli immigrati e i rapporti tra Italia e Unione europea, consultabile in<br />

http://www.iai.it/pdf/DocIAI/IAI0922.pdf; cfr. pure sugli sbarchi e respingimenti De Vittor, Soccorso in mare e rimpatri in Libia:<br />

tra diritto del mare e tutela internazionale dei diritti dell’uomo, in Rivista di diritto internazionale, 2009, 800 ss. Nelle conclusioni<br />

della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 18-19 giugno 2009, si sottolinea la necessità di misure concrete, con<br />

riferimento, in particolare, agli avvenimenti verificatisi a Cipro, Malta, in Grecia e in Italia, ma non si è andati oltre al sollecito di<br />

un “coordinamento delle misure volontarie per la redistribuzione interna”. Sul procedimento pendente avanti alla Corte europea<br />

dei diritti dell’uomo (e sulla sentenza della stessa Corte in tema di espulsioni) cfr. la nota 54.<br />

50 Sul programma di Stoccolma cfr. la nota 36; cfr. anche la comunicazione della Commissione Giustizia, libertà e sicurezza in<br />

Europa. Valutazione del programma d’azione dell’Aja, COM(2009)263 del 10 giugno 2009.


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b) se è possibile assumere atteggiamenti comuni verso quei Paesi terzi, di origine o di transito, che<br />

sono “fornitori” di richiedenti asilo o migranti (i flussi, com’è noto, essendo spesso di carattere<br />

misto);<br />

c) se sono realizzabili forme di “esternalizzazione” delle domande di asilo 51 e quali controlli e garanzie,<br />

anche di carattere giurisdizionale, dovrebbero essere offerti affinché gli standard umanitari<br />

(ed europei) siano rispettati.<br />

A queste difficoltà di concreta realizzazione si aggiungono le esigenze di contemperare le finalità<br />

umanitarie con quelle di sicurezza degli Stati, specie quelle relative al contrasto del terrorismo e<br />

dell’immigrazione clandestina 52 , che pur in presenza di obblighi internazionali, appunto, umanitari,<br />

lasciano spazio alla sovranità dello Stato nell’assumere decisioni a tutela del proprio ordinamento.<br />

Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo (seppur a maggioranza) 53 , esaminando<br />

il possibile contrasto di norme nazionali, come quelle del Regno Unito, che consentono la detenzione<br />

dei richiedenti asilo (si tratta di norme legittime, seppur eccezionali, perché la regola generale<br />

è il diritto alla libertà sancito dall’art. 5, par. 1 CEDU), lo Stato ha un diritto sovrano sul controllo<br />

dell’ingresso e soggiorno degli stranieri, senza dover distinguere i migranti dai richiedenti asilo.<br />

La facoltà di disporre misure detentive è un “corollario” di questo diritto, teso essenzialmente<br />

a impedire l’immigrazione clandestina: il limite che l’autorità nazionale incontra nel disporre tali<br />

misure è nell’arbitrarietà della decisione di restringere la libertà individuale, non già nella misura<br />

in sé.<br />

La presa di posizione della Corte suscita perplessità, perché riproduce una posizione tradizionale<br />

del “diritto di conservazione” degli Stati a tutela delle frontiere (già ricordata nell’esaminare, in precedenza,<br />

par. 3, i lavori dell’Institut de droit international) senza affrontare il tema, a nostro avviso<br />

centrale, della “coerenza” fra obblighi internazionali previsti dalla Convenzione di Ginevra, obblighi<br />

comunitari e obblighi previsti dalla CEDU stessa. Il tema è aperto a nuove riflessioni e approfondimenti<br />

e non vi è dubbio che i casi dei respingimenti in mare operati dal nostro Paese, già<br />

portati all’esame della Corte, ne offriranno l’occasione 54 .<br />

51 Si tratta di forme, peraltro, già realizzate in Tanzania, Ucraina, Bielorussia, in virtù di progetti-pilota, che potrebbero essere<br />

estesi, cfr. la comunicazione della Commissione relativa ai programmi di protezione regionale COM(2005)388 del 1 settembre<br />

2005; sul tema, in generale, Cortese, L’esternalizzazione delle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato: l’approccio<br />

dell’Unione europea, tra prassi degli Stati membri e competenze comunitarie, in Zagato (a cura di), Verso una disciplina comune<br />

cit., 211 ss.<br />

52 Per alcuni rilievi in proposito Adinolfi¸ Politica dell’immigrazione dell’Unione europea e lotta al terrorismo internazionale, in<br />

Diritti umani e diritto internazionale, 2008, 483 ss. (ivi ampi riferimenti); Concolino, L’incidenza delle misure antiterrorismo sulla<br />

tutela dei flussi migratori, in Benvenuti (a cura di), Flussi cit., 375 ss; i vari contributi in Gargiulo, Vitucci, La tutela dei diritti<br />

umani nella lotta e nella guerra al terrorismo, Napoli, 2008, spec. 339 ss. Per rilievi di carattere generale Bonetti, Terrorismo, emergenza<br />

e costituzioni democratiche, Bologna, 2006, 86 ss. e dello stesso, in precedenza, Terrorismo e stranieri nel diritto italiano.<br />

Disciplina legislativa e profili costituzionali. I parte. L’applicazione agli stranieri delle norme sul terrorismo, in Diritto immigrazione<br />

e cittadinanza, n. 3, 2005, 13 ss.; II parte. Il terrorismo nelle norme speciali e comuni in materia di stranieri, immigrazione<br />

ed asilo, in Diritto immigrazione e cittadinanza, n. 4, 2005, 13 ss.<br />

53 Grande Camera, 29 gennaio 2008, Saadi c. Regno Unito, che conferma la sentenza della Camera, 11 luglio 2006, in<br />

http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?item=1&portal=hbkm&action=html&highlight=saadi&sessionid=30432490&skin=hudoc-fr;<br />

cfr. anche l’opinione dissidente di sei giudici (su diciassette componenti la Grande Camera). Per alcuni rilievi critici Ocello,<br />

La detenzione dei richiedenti asilo nel diritto comunitario alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo: il caso Saadi<br />

c. Regno Unito, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2009, 87 ss.<br />

54 Si veda il ricorso pendente avanti alla Corte europea Hirsi et autres c. Italie, n. 27765/09, comunicato al Governo italiano (i<br />

ricorrenti, cittadini eritrei e somali intercettati in acque internazionali al largo di Lampedusa e condotti in Libia dalle autorità italiane<br />

lamentano la violazione degli artt. 3 e 13 CEDU, dell’art. 4 Protocollo n. 4 alla CEDU); per riferimenti cfr. www.asgi.it; cfr.<br />

inoltre, sul caso delle espulsioni di stranieri sbarcati a Lampedusa, la sentenza di detta Corte, 19 gennaio <strong>2010</strong>, Hussun et autres<br />

c. Italie, n. 10171/05, 10601/05/11593/05, 17165/05 (sono stati cancellati dal ruolo tutti i ricorsi, tranne uno per il quale è stata ritenuta<br />

sussistente la violazione dell’art. 34 CEDU sul diritto a un ricorso individuale). Per alcune critiche a tale sentenza Favilli,<br />

Prime riflessioni sulla sentenza della Corte europea dei diritti umani sui respingimenti da Lampedusa del 2005, in www.asgi.it<br />

22


15. L’art. 10, 3° comma Costituzione. Il diritto di asilo e lo status di rifugiato<br />

III.<br />

La mancanza di una legge organica sul diritto d’asilo che dia attuazione all’art. 10, 3° comma Cost.<br />

ha creato non poche difficoltà interpretative nella giurisprudenza e nella dottrina che si è occupata<br />

del tema. La norma prevede, com’è noto, una riserva assoluta di legge e ha uno stretto collegamento<br />

non solo con il 2° comma, che prevede una riserva di legge rinforzata sulla condizione dello<br />

straniero (per così dire “ordinario” rispetto alla “speciale” condizione del rifugiato), ma anche<br />

con il 4° comma sul divieto di estradizione. Il diritto d’asilo è garantito “secondo le condizioni stabilite<br />

dalla legge” qualora allo straniero “sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà<br />

democratiche garantite dalla Costituzione italiana” ed è garantito anche nel caso in cui lo straniero<br />

sia perseguito per reati di natura politica, impedendone l’estradizione.<br />

Il 4° comma (come emerge anche dai lavori preparatori della Costituzione) rappresenta un complemento<br />

del 3° comma, pur non proteggendo, in modo esclusivo, i beneficiari del diritto d’asilo,<br />

considerata l’ampia formulazione della norma. Il 4° comma è anche connesso con l’art. 26, 2° comma<br />

che vieta l’estradizione del cittadino (“non può in alcun caso essere ammessa per reati politici”)<br />

55 .<br />

Un confronto del 3° comma con la Convenzione di Ginevra conferma quanto sia ampia la norma<br />

costituzionale: diversamente dalla norma cardine rappresentata dall’art. 1A della Convenzione di<br />

Ginevra: il diritto d’asilo è infatti riconosciuto a chi proviene da un Paese che nega le libertà fondamentali,<br />

indipendentemente dal fatto (e quindi dalla prova) che lo straniero abbia subìto o tema<br />

di subire, in caso di ritorno, delle persecuzioni.<br />

La norma riconosce un diritto soggettivo, invocabile avanti al giudice ordinario in quanto si tratta<br />

di diritto del singolo a ottenere una sentenza dichiarativa circa tale status: non è soltanto un diritto<br />

di chiedere, ma di ottenere l’asilo qualora sussistano i presupposti indicati dalla norma, anche<br />

in mancanza di una legge che disciplini l’esercizio di tale diritto.<br />

Le iniziative di legge sono state molte nel corso del tempo, determinando anche una certa “confusione”<br />

fra diritto di chiedere e ottenere l’asilo e diritto di chiedere e ottenere lo status di rifugiato<br />

o, più semplicemente, fra asilo e status di rifugiato 56 .<br />

Ne è un esempio la legge Martelli (n. 39/90) il cui titolo si riferisce all’“asilo politico”, ma la rubrica<br />

dell’art. 1 e il suo contenuto si riferiscono ai “rifugiati” (precisamente a quelli disciplinati dalla<br />

Convenzione di Ginevra), mentre il regolamento di attuazione (d.p.r. 15 maggio 1990, n. 136,<br />

23<br />

FOCUS<br />

55 Sui lavori preparatori, sul collegamento fra 3° e 4° comma (le garanzie concesse all’esule politico vengono rafforzate, vietandone<br />

espressamente l’estradizione) e la proposta di Perassi a favore di un comma aggiuntivo sul diritto di asilo (dal contenuto<br />

“Non è ammessa l’estradizione per reati politici”) cfr. Cassese, Commento art. 10, in Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione,<br />

Bologna, 1975, 544 ss., anche sul significato (spec. p. 558) dell’espressione “in nessun caso” di cui all’art. 26, poiché si<br />

distingue il divieto assoluto di estradizione per reati politici da quello relativo per reati comuni, l’estradizione essendo consentita<br />

“ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali”. Cfr. inoltre Chieffi, La tutela costituzionale del diritto di asilo e<br />

di rifugio a fini umanitari, in Diritto immigrazione e cittadinanza, n. 2, 2004, 29 ss. e dello stesso La tutela costituzionale del<br />

diritto di asilo e di rifugio a fini umanitari, in Revenga Sánchez (a cura di), I problemi costituzionali dell’immigrazione in Italia<br />

e Spagna, Valencia, 2005, 173 ss.; Benvenuti, Il diritto cit., 21; Caligiuri, Art. 10, 3° co., in Bifulco, Celotto, Olivetti, La Costituzione<br />

Italiana, Torino, 2007, 253 ss. e, per un commento al 4° comma, Id., Art. 10, 4° co., loc. cit., 258 ss. (ivi riferimenti). Per rilievi<br />

di carattere generale (oltre agli autori citati alle note 1 e 56), D’Orazio, Asilo (diritto di) - II) Diritto costituzionale, in Enciclopedia<br />

giuridica, Roma, 1991, vol. III, 1 ss. e dello stesso, Condizione dello straniero e “società democratica”, Padova, 1994, 94 ss.;<br />

Luciani, Cittadini e stranieri come titolari di diritti fondamentali, in Rivista critica di diritto privato, 1992, 229 ss. Per i profili relativi<br />

all’estradizione cfr. anche i riferimenti alla nota 15.<br />

56 Sulle proposte di riforma cfr. il nostro La condizione cit., 6 s., 67, 87 ss., rifer. ivi (il testo del d.d.l. n. 2425, comunicato al Senato<br />

il 13 maggio 1997, “Norme in materia di protezione umanitaria e di diritto di asilo”, è a p. 527; per i testi di proposte di legge,<br />

nel passato, cfr. il nostro Lo straniero cit., 323, 332; Bonetti, Profili generali e costituzionali del diritto d’asilo nell’ordinamento<br />

italiano, in Nascimbene (a cura di), Diritto degli stranieri, Padova, 2004, 1134 ss., spec. p. 1157 ss.; ivi anche i rilievi di Neri,<br />

Profili sostanziali: lo status di rifugiato, spec. p. 1206 ss.; Cfr. pure Ziotti, Il diritto d’asilo nell’ordinamento costituzionale italiano.<br />

Un’introduzione, Padova, 1988, 198 ss.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

art. 2) istituiva una Commissione centrale competente, appunto, a determinare il riconoscimento<br />

dello status di rifugiato. Anche le modifiche legislative successivamente intervenute confermano<br />

questo orientamento. La cosiddetta legge Bossi-Fini (l. 30 luglio 2002, n. 189) ha inserito nella legge<br />

Martelli gli articoli da 1 bis a 1 septies; un nuovo regolamento di attuazione (d.p.r. 16 settembre<br />

2004, n. 303) ha sostituito il precedente (n. 136/90). La Commissione centrale è divenuta Commissione<br />

nazionale “per il diritto di asilo” e sono state istituite commissioni territoriali “per il riconoscimento<br />

dello status di rifugiato”. Le norme in proposito si riferiscono indifferentemente all’asilo<br />

e al rifugiato, il regolamento addirittura definendo (art. 1 lett. c e d) “richiedente asilo” lo straniero<br />

che chiede il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra<br />

e “domanda di asilo” la domanda di riconoscimento di tale status. Il d.lgs. procedure (25/2008),<br />

già ricordato, mantiene la denominazione e le competenze della Commissione nazionale “per il<br />

diritto di asilo” (in particolare sulla revoca e cessazione dello status e protezione, art. 5), ma rinomina<br />

le commissioni territoriali, ora competenti (art. 4) “per il riconoscimento della protezione<br />

internazionale”.<br />

Nessuna di queste norme faceva e fa riferimento all’art. 10, 3° comma. Un solo riferimento dovrebbe<br />

rinvenirsi nella legislazione vigente, precisamente nella l. 30 settembre 1993, n. 388 di ratifica<br />

ed esecuzione degli Accordi di Schengen. L’art. 17, 2° comma prevede che le disposizioni della<br />

Convenzione (del 19 giugno 1990) di applicazione dell’accordo di Schengen (del 14 giugno 1985)<br />

“relative alle domande ed ai richiedenti asilo non escludono l’obbligo delle competenti autorità nazionali<br />

di esaminare direttamente una domanda di asilo presentata ai sensi dell’articolo 10 della<br />

Costituzione della Repubblica come attuato dalla legislazione vigente”. Il nostro Paese si è voluto,<br />

così, avvalere della possibilità riconosciuta dall’art. 29, par. 4 della Convenzione (“ogni parte contraente<br />

conserva il diritto”) di esaminare una domanda di asilo pur non avendone la competenza,<br />

in presenza di “ragioni particolari attinenti soprattutto alla legislazione nazionale”. La disposizione<br />

conferma l’ampia tutela offerta dall’art. 10 rispetto ad altre norme del nostro ordinamento 57 .<br />

16. La definizione di un diritto soggettivo; le ragioni di diritto umanitario a favore di una protezione più ampia.<br />

a) Il diritto di asilo come diritto fondamentale; b) l’orientamento della giurisprudenza<br />

La tesi, sostenuta in passato, che il diritto d’asilo ex art. 10, 3° comma è un genus che trova varie<br />

specificazioni o species, sembra oggi del tutto fondata, ricevendo conferma in giurisprudenza 58 . La<br />

Convenzione di Ginevra rappresenta dunque una di queste specificazioni o species. Si tratta, più<br />

precisamente, della legge di ratifica ed esecuzione 722/1954 e della legge 39/90, che ha modificato<br />

tali norme di adattamento facendo cessare sia gli effetti della dichiarazione di limitazione geografica<br />

di applicabilità ai cittadini europei (l’applicabilità temporale agli avvenimenti verificatisi prima<br />

del 1° gennaio 1951 era venuta meno con la legge di ratifica ed esecuzione 95/1970 del Protocollo<br />

di New York del 31 gennaio 1967), sia le riserve in materia di attività salariate e lavoro autonomo<br />

(artt. 17, 18 della Convenzione, accettati come semplici raccomandazioni). Nella prassi, in-<br />

57 Tale possibilità è, più recentemente, riconosciuta dal regolamento n. 343/2003 (“Dublino”, già ricordato, che in modo più sintetico<br />

prevede che in deroga ai criteri di competenza previsti nel capo III del regolamento “ciascuno Stato membro può esaminare<br />

una domanda d’asilo presentata da un cittadino di un paese terzo, anche se tale esame non gli compete in base” a detti criteri.<br />

L’acquis di Schengen, in virtù del Protocollo (n. 2) allegato al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità<br />

europea, relativo all’integrazione di Schengen nell’ambito dell’Unione europea “si applica immediatamente” ai Paesi membri<br />

(art. 2 Protocollo, a decorrere dal 1 maggio 1999, data di entrata in vigore del Trattato di Amsterdam; il Protocollo, come la Dichiarazione<br />

poco oltre, sono contenuti nell’Atto finale di detto Trattato). Il Protocollo (n. 29) sull’asilo per i cittadini degli Stati<br />

membri prevede ipotesi eccezionali in cui uno Stato membro è legittimato a esaminare le domande di asilo di cittadini di altri Stati<br />

membri, essendo, questi, “paesi d’origine sicuri”: il potere di esame e decisione di uno Stato, insomma, non è pregiudicato. Il<br />

Belgio ha dichiarato (Dichiarazione n. 6) che procederà comunque all’esame della domanda di cittadini comunitari: anche il Governo<br />

italiano avrebbe potuto, invero, fare la stessa dichiarazione, coerentemente all’art. 17, 2° comma cit.<br />

58 Cfr. i nostri rilievi in La condizione cit., 86 e, negli stessi termini, Cons. Stato, IV, 11 luglio 2002, n. 3874 nonché i rilievi di<br />

Taglienti, Diritto d’asilo e status di rifugiato nell’ordinamento italiano, in http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/<br />

studi_contributi/diritto_asilo.htm<br />

24


vero, il nostro Paese aveva più volte derogato alle riserve, dando piena applicazione alla Convenzione<br />

59 .<br />

Le norme comunitarie e quelle nazionali di recepimento contribuiscono a colmare la lacuna legislativa.<br />

La nozione di asilo contenuta nell’art. 10 e la sfera dei potenziali beneficiari (stranieri ai<br />

quali sia impedito l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione) restano<br />

assai ampie, anche se gli strumenti internazionali e le norme dell’Unione europea forniscono<br />

una protezione internazionale di livello o standard, come si dirà, sufficientemente elevato.<br />

a) Sembra opportuno ricordare, a proposito della tutela di diritti fondamentali quale il diritto di asilo,<br />

che ben può venire in rilievo l’art. 10, 1° comma e, quindi, la tutela attraverso le norme del diritto<br />

internazionale generalmente riconosciute, su cui si è espressa la Corte Costituzionale con riferimento<br />

al diritto alla salute e al divieto di operare discriminazioni nei confronti degli stranieri 60 .<br />

Questa affermazione circa il divieto di discriminazioni dovrebbe valere, a maggior ragione, per chi<br />

è rifugiato o chiede asilo. La stessa Corte, comparando lo straniero cosiddetto ordinario con chi<br />

chiede asilo ai sensi dell’art. 10, 3° comma, ammette la condizione di reciprocità (“è ragionevole”)<br />

per uno straniero che intenda esercitare la professione giornalistica, ma non per lo straniero “che<br />

sia cittadino di uno Stato che non garantisca l’effettivo esercizio delle libertà democratiche e, quindi,<br />

della più eminente manifestazione di queste”, quale la libertà garantita dall’art. 21 Cost.<br />

Il presupposto della reciprocità rischierebbe infatti “di tradursi in una grave menomazione della<br />

libertà di quei soggetti ai quali la Costituzione – art. 10, terzo comma – ha voluto offrire asilo politico<br />

e che devono poter godere almeno in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che<br />

non siano strettamente inerenti allo status civitatis” 61 .<br />

b) La giurisprudenza a favore sia del carattere precettivo, non già programmatico, dell’art. 10, 3°<br />

comma, sia della giurisdizione del giudice ordinario anziché amministrativo trattandosi di diritto<br />

soggettivo, ha la sua prima, importante affermazione in una pronuncia della Corte di Cassazione<br />

(S.U., 26 maggio 1997, n. 4674) che dà atto del diverso, ma datato orientamento della giurisprudenza<br />

amministrativa e dell’opinione della dottrina “pressoché pacifica” circa la natura di diritto perfetto.<br />

Non condivisibile, tuttavia, per la mancata considerazione di altre fonti, è l’affermazione della<br />

Corte secondo cui il contenuto del diritto soggettivo sarebbe limitato al solo diritto di ingresso<br />

nel territorio dello Stato, mentre al rifugiato sarebbe garantito lo status di particolare favore previsto<br />

dalla Convenzione di Ginevra. Si tratta di affermazione non corretta, perché al diritto di ingresso,<br />

corrispondente in negativo al divieto di refoulement, si accompagnano sicuramente quei diritti<br />

che derivano da strumenti di diritto umanitario e che riguardano la vita, la dignità, il trattamento<br />

della persona, essendo vietato qualunque trattamento disumano o degradante ovvero la tortura.<br />

Dovrà, dunque, essere garantito allo straniero un soggiorno almeno temporaneo, affinché possa far<br />

valere quei diritti essenziali che le norme internazionali e interne gli riconoscono 62 .<br />

L’orientamento a favore del diritto soggettivo è stato successivamente ribadito dalla Corte di Cassazione<br />

adita in sede di regolamento di giurisdizione, venendo in rilievo, appunto, la questione<br />

25<br />

FOCUS<br />

59 Si vedano i nostri rilievi in Lo straniero cit., 115 ss.; fra i casi di deroga più noti si ricordano l’asilo accordato ai circa mille cileni<br />

rifugiatisi nell’ambasciata italiana di Santiago e di circa tremilacinquecento cittadini del Sud-Est asiatico (cambogiani, laotiani,<br />

sudvietnamiti). Sui provvedimenti adottati, in situazioni di emergenza, a seguito dell’afflusso di cittadini albanesi, cittadini dell’ex<br />

Jugoslavia, cittadini somali cfr. il nostro La condizione cit., 6 s. e i contributi di Pedrazzi e Trucco ivi, 95 ss.<br />

60 Sentenza 30 luglio 2008, n. 306; sull’orientamento della Corte in materia di trattamento dello straniero e immigrazione, cfr.<br />

Onida, Randazzo (a cura di), Viva Vox Constitutionis 2008, Milano, 2009, 439, 448 ss.<br />

61 Corte Cost., 23 marzo 1968, n. 11.<br />

62 Cfr. in particolare i rilievi di Gaja, Diritto dei rifugiati e giurisdizione ordinaria, in Rivista di diritto internazionale, 1997, 791<br />

s. anche sul d.d.l. in materia di asilo, n. 2425 cit., auspicando che soltanto il giudice ordinario abbia competenza a giudicare sia<br />

sul diritto d’asilo, sia sullo status di rifugiato (la competenza era, all’epoca, di un organo amministrativo, la Commissione centrale<br />

istituita dal d.p.r. n. 136/1990). Sul contenuto necessario del diritto di asilo (cioè sul bene giuridico fondamentale tutelato dalla<br />

norma ovvero sul contenuto essenziale e minimo tutelato dalla stessa), e sulla giurisprudenza rilevante, Benvenuti, Il diritto cit.,<br />

173, 181 ss.; in precedenza Ziotti, Il diritto cit., 95 ss.; Chieffi, La tutela cit., 29 ss.; Caligiuri, Art. 10, 3° co. cit., 253 ss.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

della giurisdizione del giudice ordinario o di quello amministrativo a seconda della qualificazione<br />

dell’asilo o rifugio come diritto soggettivo o interesse legittimo e valorizzando sia le modifiche apportate<br />

alla l. 39/90 dal t.u. immigrazione, sia quelle derivanti dalle norme di recepimento delle<br />

norme di diritto dell’Unione, che tutelano diritti soggettivi 63 .<br />

Nel lungo “percorso” giurisprudenziale che ha accompagnato la definizione del diritto di asilo, vale<br />

la pena ricordare quanto fosse anticipatore dell’attuale orientamento, e assai liberale, quel giudice<br />

di merito 64 che dava massimo rilievo alle finalità di carattere umanitario nel riconoscere lo status<br />

anche a coloro che all’epoca, non essendo stata ritirata la riserva geografica da parte del nostro<br />

Paese, non godevano della protezione della Convenzione (cosiddetti rifugiati de jure), ma soltanto<br />

di quella dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (cosiddetti rifugiati de facto) ai quali veniva<br />

rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo in attesa di emigrazione in altro Paese. Si riteneva<br />

insoddisfacente, e anzi contraria all’art. 10, 3° comma, la prassi di negare lo status di rifugiato<br />

a chi potesse essere ricondotto alla categoria dei beneficiari di tale norma, piuttosto che della<br />

Convenzione di Ginevra; si sottolineava come il diritto d’asilo dovesse essere riconosciuto ogniqualvolta<br />

emergesse da una qualunque “situazione” o “circostanza di fatto che l’effettivo esercizio<br />

delle libertà democratiche garantito dalla nostra Costituzione [fosse] impedito”.<br />

L’impostazione umanitaria prevale in epoca più recente, insieme a una corretta valutazione di atti<br />

internazionali rilevanti, della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, delle opinioni<br />

della dottrina. Nel noto caso Oçalan, leader del PKK (partito dei lavoratori del Kurdistan), il Tribunale<br />

di Roma riconosceva il diritto di asilo, accertando la violazione effettiva, in Turchia, di varie<br />

libertà democratiche riconosciute dalla Costituzione italiana 65 .<br />

L’abrogazione, disposta dal t.u. immigrazione della norma della l. 39/90 (art. 5) che attribuiva al<br />

giudice amministrativo la competenza a decidere sul diniego dello status di rifugiato, ma anche l’attribuzione<br />

(in virtù dello stesso t.u.), allo stesso giudice ordinario, a decidere sui provvedimenti di<br />

espulsione (salvo nel caso di espulsione disposta dal Ministro dell’Interno), “consolidavano” la giurisdizione<br />

del giudice ordinario nel dichiarare il riconoscimento del diritto d’asilo. Si afferma, dunque,<br />

che “tutte le controversie concernenti lo status delle persone rientrano nella giurisdizione del<br />

giudice ordinario” e che i provvedimenti in materia “hanno natura meramente dichiarativa e non<br />

costitutiva” 66 . Il giudice ordinario ha competenza sul diritto di asilo, sulla protezione internazionale<br />

definita dalle norme comunitarie e da quelle di recepimento, sulla protezione umanitaria che le<br />

commissioni territoriali possono riconoscere in mancanza dei requisiti che consentono la protezione<br />

internazionale 67 .<br />

63 Le pronunce più recenti delle Sezioni Unite sono la n. 27310 del 17 novembre 2008, in Diritto immigrazione e cittadinanza,<br />

n. 1, 2009, 127, con commento ivi, 79 ss. di Acierno, Il riconoscimento dello status di rifugiato politico: il procedimento e l’onere<br />

della prova al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione; la n. 11535 del 19 maggio 2009 in www.cortedicassazione.it/notizie/GiurisprudenzaCivile/SezioniUnite;<br />

la n. 19393 del 9 settembre 2009, in Guida al diritto, n. 41, 2009, 86; ivi, 93 s. il commento di Piselli,<br />

Il permesso di soggiorno per motivi umanitari non si può rimettere al potere discrezionale della Pa; per rilievi sull’orientamento<br />

della giurisprudenza e della prassi, D’Ascia, Diritto degli stranieri e immigrazione, Milano, 2009, 233 ss. Le sentenze citate<br />

delle Sezioni Uniti sono ricordate da Cass. I, 15 dicembre 2009, n. 26253, che riconosce al richiedente asilo, “per definizione<br />

soggetto debole”, il diritto di presentare istanza per il riconoscimento dello status e di rimanere nel territorio nazionale fino alla<br />

definizione della procedura; cfr. la sentenza in www.asgi.it.<br />

64 Corte d’Appello di Milano, 27 novembre 1964, in Foro it., 1965, II, 122; il riconoscimento dello status di rifugiato era oggetto<br />

di accertamento incidentale in un giudizio penale ai fini della sussistenza, o non, dello stato di necessità ex art. 54 cod. pen.<br />

65 Trib. Roma, 1 ottobre 1999, in Diritto immigrazione e cittadinanza, n. 3, 1999, 101 ss. (con scheda a cura della redazione);<br />

per un commento Pisillo Mazzeschi, Il caso Oçalan cit., 364 ss.<br />

66 Cfr. Cass. S.U. 17 dicembre 1999, n. 907 che conferma Cass. S.U. 4674/1997 (ma quest’ultima era precedente al t.u. immigrazione,<br />

approvato con d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286). L’art. 47 t.u. abroga l’art. 5; l’art. 13 t.u. prevede la competenza, in materia di<br />

espulsione, del giudice ordinario (pretore, all’epoca del d.lgs. 286/98, poi tribunale e infine giudice di pace), l’art. 47 avendo abrogato<br />

gli artt. 2 ss. della legge Martelli (che prevedeva la competenza del giudice amministrativo).<br />

67 Cfr. sui requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari da parte del Questore (art. 32, d.lgs. 25/2008,<br />

art. 5 d.lgs. 286/98), Cass. 11535/2009; Cons. Stato, VI, 18 settembre 2009, n. 5619. La giurisprudenza più recente ha voluto giustificare<br />

il diverso, precedente orientamento a favore della giurisdizione del giudice amministrativo, alle commissioni territoriali non<br />

essendo riconosciuta la competenza introdotta con la legge Bossi-Fini a decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento<br />

di attuazione, d.p.r. 303/2004, in vigore dal 20 aprile 2005, competenza confermata dal d.lgs. 25/08. Al Questore non spetta più,<br />

26


17. L’incidenza del diritto comunitario e internazionale circa la definizione dello status di rifugiato e gli obblighi<br />

dello Stato. a) L’onere probatorio; b) il divieto di refoulement<br />

Le norme comunitarie e quelle nazionali di recepimento hanno contribuito in modo significativo a<br />

ridisegnare lo status del rifugiato e gli obblighi dello Stato.<br />

a) Sotto il primo profilo si ricorda il recente orientamento della giurisprudenza sull’onere probatorio<br />

relativo alle condizioni presupposte al riconoscimento formale. Si osserva, in proposito, che i criteri<br />

previsti dalla direttiva qualifiche (2004/83) e dal relativo d.lgs. (251/2007) si fondano sulla credibilità<br />

di chi chiede la protezione internazionale, sulla concreta possibilità di fornire i riscontri probatori<br />

necessari, sul dovere del giudice (e della commissione territoriale prima) di cooperare al fine<br />

dell’accertamento delle condizioni e sulla valorizzazione dei poteri istruttori officiosi. All’autorità che<br />

esamina la domanda è affidato “un ruolo attivo ed integrativo” nell’attività istruttoria, “disancorato<br />

dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti<br />

processuali” 68 . Il giudice dispone di ampi poteri, la “diligenza” e “buona fede” del richiedente asilo<br />

sostanziandosi “in elementi di integrazione dell’insufficiente quadro probatorio con un chiaro rivolgimento<br />

delle regole ordinarie sull’onere probatorio” contenute nell’art. 2697 c.c. Il principio affermato<br />

valorizza le norme comunitarie e il principio dell’interpretazione conforme del diritto nazionale<br />

poiché la direttiva qualifiche (qui rilevante), e i relativi criteri, avrebbero dovuto trovare applicazione<br />

anche prima della scadenza del termine di adeguamento della direttiva, considerato il carattere<br />

incondizionato e la precisione del contenuto delle disposizioni sul regime della prova. Principio<br />

che (secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia ricordata dallo stesso giudice nazionale)<br />

avrebbe dovuto condurre a una valutazione diversa, applicando il diritto interno “in modo da non<br />

addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva” e (quindi) il diritto comunitario,<br />

ovvero dell’Unione, che finiscono per incidere anche sul diritto processuale nazionale 69 .<br />

b) Gli episodi e prese di posizione sui respingimenti in mare verso la Libia da parte delle autorità<br />

italiane sollevano nuovi profili di interesse circa gli obblighi dello Stato.<br />

La Commissione europea ha chiesto spiegazioni al Governo italiano sul comportamento tenuto in<br />

occasione dei respingimenti, ricordando il valore, in generale, del principio di non refoulement,<br />

l’obbligo di garantire i diritti fondamentali, di rispettare gli impegni internazionali, previsti dalla<br />

Convenzione di Ginevra e dalla CEDU, oltre che gli obblighi che derivano dal diritto comunitario.<br />

Pur non ricordandolo espressamente, una violazione di tali obblighi (indipendentemente dal signi-<br />

27<br />

FOCUS<br />

come nel passato, la discrezionalità valutativa che era stata riconosciuta da Cass. S.U., ordinanza 7933/2008, nonché da Cass. S.U.,<br />

5089/2008, ricordata da Cass. S.U. 11535/2009 (che ricorda pure il diverso orientamento del Cons. Stato, 3835/2005 e 2868/2006).<br />

Ritiene Cass. 11535/2009 che il permesso sia un istituto “ad esaurimento” poiché i permessi umanitari già rilasciati in passato vengono<br />

sostituiti con i permessi per protezione sussidiaria e che ai titolari di tali permessi è comunque garantita “una entità di diritti<br />

pari a quella garantita dalla nuova protezione”, cioè quella sussidiaria (in tal senso l’art. 34, 4° e 5° comma d.lgs. 251/2007).<br />

Cfr. sul punto Bonetti, Il diritto d’asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato<br />

e di protezione sussidiaria, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1, 2008, 13 ss.; dello stesso si vedano i rilievi in La<br />

proroga del trattenimento e i reati di ingresso e permanenza irregolare nel sistema del diritto degli stranieri: profili costituzionali e<br />

rapporti con la Direttiva comunitaria sui rimpatri, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4, 2009, 100 ss., in particolare quanto<br />

ai problemi più recentemente posti dalle modifiche alle norme sulla condizione dello straniero introdotte dalla legge 15 luglio<br />

2009, n. 94 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”; il 6° comma dell’art. 10 bis t.u. delle disposizioni concernenti la disciplina<br />

dell’immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero prevede la sospensione del procedimento penale per ingresso<br />

e permanenza illegali se lo straniero presenta domanda di protezione internazionale e, se la protezione è riconosciuta ovvero<br />

viene rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere).<br />

68 In questi termini Cass. 27310/2008.<br />

69 Cass. 27310/2008. Nella fattispecie veniva cassata la pronuncia di merito perché non era stata ritenuta ammissibile la prova<br />

testimoniale richiesta in secondo grado, in quanto non articolata per capitoli separati, ed era stata rigettata la domanda di riconoscimento<br />

dello status di rifugiato, ritenendo insufficienti le dichiarazioni del richiedente (cittadino iracheno di etnia curda e religione<br />

musulmana sciita) in ordine alla professione religiosa, sciita, e all’appartenenza alla minoranza, curda, nonostante l’attestata<br />

conoscenza della lingua curda. Era stato rigettato anche il riconoscimento dell’asilo ex art. 10, 3° comma e la domanda di rilascio<br />

di permesso umanitario.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

ficato politico della contestazione) potrebbe condurre all’avvio da parte della Commissione di una<br />

procedura di infrazione ai sensi dell’art. 258 TFUE (già 226 Trattato CE) 70 .<br />

Il diritto di asilo, ma anche la sola possibilità di chiederlo va garantito, nel rispetto di quelle norme<br />

di diritto internazionale che sono richiamate negli accordi conclusi fra Italia e Libia, in particolare<br />

nel Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, del 30 agosto 2008, artt. 1, 6, ove, appunto,<br />

sono espressamente richiamati i princìpi e le norme del diritto internazionale generalmente riconosciuti<br />

e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Agli impegni internazionali si aggiungerebbero<br />

quelli di diritto interno, il t.u. immigrazione ribadendo la vincolatività della garanzia dei diritti<br />

fondamentali (art. 2, 1° comma) e vietando il respingimento. Non solo in caso di asilo politico, riconoscimento<br />

dello status di rifugiato, adozione di misure di protezione temporanea per motivi<br />

umanitari (t.u., art. 10, 4° comma), e quindi in tutti i casi in cui sia necessaria quella protezione internazionale,<br />

in senso ampio, di cui si è detto, ma anche quando l’espulsione o il respingimento<br />

possano, comunque, esporre lo straniero al rischio di persecuzione, sia nello Stato verso cui viene<br />

respinto o allontanato, sia in un altro Stato verso cui quest’ultimo lo respinga o allontani.<br />

Il complesso degli obblighi da osservare da parte dello Stato, soprattutto di derivazione internazionale<br />

e dell’Unione, conferisce al diritto di asilo una significativa tutela.<br />

18. Gli standard di trattamento e lo statuto del rifugiato. a) La Convenzione di Ginevra; b) una valutazione<br />

complessiva: l’applicabilità degli standard del trattamento nazionale e del trattamento dello straniero<br />

La diversa combinazione o concorso delle norme e, quindi, degli obblighi a carico dello Stato e<br />

dei diritti a favore del singolo consente alcune riflessioni sullo statuto del rifugiato, precisamente<br />

sugli standard di trattamento previsti dalle norme internazionali e dell’Unione.<br />

a) In linea di principio (considerata la particolare condizione) al rifugiato è riservato un trattamento<br />

più favorevole di quello previsto per lo straniero cosiddetto ordinario. La Convenzione di Ginevra<br />

prevede standard di trattamento diversi a seconda dei diritti in questione, restando inteso che<br />

tali standard sono sempre derogabili in senso più favorevole al rifugiato. Si tratta degli standard:<br />

a) del trattamento nazionale;<br />

b) del trattamento della nazione più favorita;<br />

c) del trattamento non meno favorevole di quello riservato agli stranieri in generale, nelle stesse<br />

condizioni.<br />

Il primo è il trattamento riservato ai cittadini. I diritti così garantiti, a parità con il cittadino, dalla<br />

Convenzione sono in materia di libertà di culto, protezione della proprietà industriale e intellettuale,<br />

accesso ai Tribunali, razionamento di prodotti di cui vi sia penuria, istruzione primaria, assistenza<br />

e sicurezza sociale (salve alcune eccezioni), imposizione fiscale (artt. 4, 14, 16, 20, 22, par. 1,<br />

23, 24, 29 par. 1). Il secondo è il trattamento della nazione più favorita: esso assume come riferimento<br />

quello più favorevole accordato, nelle stesse circostanze, ai cittadini di un Paese straniero.<br />

I diritti così garantiti sono il diritto di associazione, l’esercizio di attività salariata (art. 15, art. 17,<br />

par. 1). Il terzo è il trattamento previsto per gli stranieri in generale. È il meno favorevole dei tre,<br />

anche se non è consentito un trattamento deteriore. I diritti così garantiti sono il diritto di proprietà,<br />

l’esercizio di attività autonoma e di libera professione, l’accesso all’alloggio, l’istruzione secondaria,<br />

la libertà di circolazione (art. 13, 18, 19, 21, 22 par. 2, 26).<br />

Non sono previsti standard di trattamento per lo status personale, la Convenzione contenendo una<br />

norma uniforme di conflitto che dispone l’applicabilità non già della legge del Paese di appartenenza,<br />

ma di quella del domicilio o, in mancanza, di quella del Paese di residenza (art. 12). Non<br />

70 Cfr. le contestazioni del Vicepresidente della Commissione europea Barrot, del 15 luglio 2009 cit. e il nostro Il respingimento<br />

cit., ivi i riferimenti alle norme comunitarie oggetto di possibile violazione, quale la direttiva accoglienza e il Codice frontiere<br />

Schengen (adottato con regolamento 562/2006 del 15 marzo 2006); cfr. pure De Vittor, Soccorso cit., loc. cit.; sul ricorso pendente<br />

avanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo cfr. la nota 54.<br />

28


sono previsti standard, ma in genere facilitazioni, in materia di assistenza amministrativa, rilascio di<br />

documenti di identità e di viaggio, trasferimento dei beni, naturalizzazione (artt. 25, 27, 28, 34).<br />

b) La Convenzione di Ginevra resta il punto di riferimento, come si è ricordato, per la disciplina di<br />

diritto dell’Unione. Quest’ultima, tuttavia, è di più ampia applicazione, sia perché assicura la protezione<br />

sussidiaria, sia perché si applica a materie, come il ricongiungimento familiare, non contemplate<br />

nella Convenzione 71 .<br />

Per quanto riguarda il primo profilo si osserva che la direttiva (artt. 20-34) garantisce ai beneficiari<br />

della protezione sussidiaria lo stesso trattamento dei rifugiati, salvo sia diversamente previsto. Un<br />

esempio di disciplina diversa è la durata del permesso di soggiorno (più breve, ma non inferiore<br />

a un anno) e il rilascio di documenti di viaggio (che non sono di carattere internazionale, ma nazionale,<br />

rilasciabili quando la persona non possa ottenere un passaporto dal proprio Paese). Tale<br />

diversità è riscontrabile nelle norme nazionali di recepimento, la durata del permesso essendo di<br />

cinque anni per il rifugiato e di tre per il beneficiario della protezione sussidiaria (art. 23 d.lgs. qualifiche,<br />

art. 24 direttiva qualifiche). Per quanto riguarda il ricongiungimento familiare o “mantenimento<br />

del nucleo familiare” (art. 22 d.lgs. qualifiche, artt. 2 e 23 direttiva qualifiche) sembra adottata<br />

dal legislatore nazionale una definizione restrittiva di familiari, consentendo ai beneficiari della<br />

protezione sussidiaria il ricongiungimento con il coniuge e i figli minori, anziché anche con i figli<br />

maggiorenni e i genitori (a carico), come invece è previsto per i rifugiati e gli stranieri in generale<br />

(artt. 29 e 29 bis t.u. immigrazione). Si tratta di un probabile difetto di coordinamento normativo,<br />

non essendovi una ragione giustificatrice per trattare i beneficiari della protezione sussidiaria<br />

in modo deteriore, non solo rispetto ai rifugiati, ma anche agli stranieri 72 . Le categorie di persone<br />

protette come familiari dovrebbero dunque essere quattro, senza operare distinzioni 73 . Nessuna distinzione,<br />

inoltre, dovrebbe essere fatta in tema di condizione di minori non accompagnati, dovendo<br />

sempre essere assicurato il prevalente interesse del minore 74 .<br />

29<br />

FOCUS<br />

71 Sulla direttiva qualifiche e il suo recepimento cfr. Bonetti, Il diritto d’asilo cit., 48 ss.<br />

72 L’art. 29 sul ricongiungimento familiare definisce i familiari e l’art. 29 bis dispone in materia di “ricongiungimento familiare<br />

dei rifugiati” rinviando all’art. 29. L’art. 29, più recentemente modificato dal d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160 (che a sua volta ha modificato<br />

il d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5 recante attuazione della direttiva 2003/86 sul ricongiungimento familiare) prevede due categorie<br />

di familiari non contemplate dal d.lgs. qualifiche che, all’art. 2, definisce i beneficiari: i figli maggiorenni a carico “qualora<br />

per ragioni oggettive non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che comporti<br />

invalidità totale”; i genitori a carico “qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza” oppure si tratti<br />

di “genitori ultrasessantacinquenni qualora gli altri figli sino impossibilitati al loro sostentamento per documentati, gravi motivi<br />

di salute”. Peraltro l’art. 2 si riferisce genericamente al coniuge, mentre l’art. 29 (così come modificato dal d.lgs. 160/08) si riferisce<br />

al coniuge “non legalmente separato e di età non inferiore ai diciotto anni” e, quanto ai minori, l’art. 2 si riferisce ai “minori<br />

non sposati e a carico del beneficiario della protezione internazionale”, equiparando ai figli legittimi quelli naturali, adottati o affidati<br />

o sottoposti a tutela, mentre l’art. 29 prevede che si possa trattare anche dei figli “del coniuge o nati fuori dal matrimonio,<br />

non coniugati, a condizione che l’altro genitore qualora esistente, abbia dato il suo consenso”. L’art. 22 d.lgs. qualifiche, per gli<br />

stranieri ammessi alla protezione sussidiaria, rinvia agli artt. 29 e 29 bis; l’art. 2 non contiene alcun rinvio circa la definizione di<br />

familiari dei beneficiari, sia della protezione sussidiaria, sia dello status di rifugiato. La direttiva qualifiche, peraltro, consente<br />

l’estensione della sfera dei familiari, lasciando agli Stati membri decidere se comprendere beneficiari diversi dal coniuge e dai figli<br />

minori (artt. 2, 23). Il d.lgs. 160/08 è successivo ai decreti legislativi 251/07 (qualifiche) e 5/07 (ricongiungimento familiare) e<br />

ben avrebbe potuto formalmente prevedere l’estensione contenuta nel t.u. e nel d.lgs. 5/07.<br />

73 Si può dunque ritenere (come si è detto nella nota precedente) che, anche se nel recepimento della direttiva qualifiche il nostro<br />

Paese non ha previsto espressamente l’estensione consentita dalla direttiva, tale estensione si applichi nei termini di cui al<br />

t.u. immigrazione (il d.lgs. qualifiche, peraltro, rinvia agli artt. 29, 29 bis e 30 t.u. immigrazione, e quindi alla disciplina prevista<br />

in materia di rifugiati: facilitazione in materia probatoria e rilascio di permesso di soggiorno a familiare irregolare rispettivamente<br />

previsti dall’art. 29 bis, 2° comma e art. 30, 1° comma lett. c). Si ricorda, ancora, che mentre per il riconoscimento del rifugiato<br />

si prescinde, perché così espressamente prevede l’art. 29 bis, 2° comma, nonché l’art. 29, 3° comma, dalla disponibilità di un<br />

alloggio e di un reddito annuo, nulla è detto per i beneficiari di protezione sussidiaria, ai quali è riconosciuto il diritto “ai sensi<br />

e alle condizioni previste dall’art. 29” (così l’art. 22, 4° comma d.lgs. qualifiche). Una tale diversità di trattamento sarebbe incongrua,<br />

anche se la direttiva consente (art. 23, par. 2) una diversità di benefici: un adeguato tenore di vita della famiglia, senza distinzioni<br />

fra categorie di soggetti, dovrebbe comunque essere garantito.<br />

74 La direttiva qualifiche (art. 30) e il d.lgs. qualifiche (art. 28) non operano alcuna distinzione, ma nel t.u. immigrazione si prevede<br />

la sola ipotesi di minore rifugiato che ha diritto a farsi ricongiungere con gli ascendenti diretti di primo grado (art. 29 bis,<br />

3° comma): il trattamento deve ritenersi comune ai minori beneficiari della protezione sussidiaria (il d.lgs. 160/08, peraltro, ben<br />

avrebbe potuto precisare tale estensione).


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

c) Convenzione di Ginevra e diritto dell’Unione (e norme di recepimento) si integrano, dunque, nella<br />

definizione degli standard, con un risultato che può coincidere o variare a seconda delle materie.<br />

La parità di trattamento in virtù del diritto dell’Unione (dunque un trattamento più favorevole rispetto<br />

alla fonte internazionale) è prevista per l’esercizio di lavoro subordinato e autonomo, iscrizione<br />

agli albi professionali, formazione professionale e tirocinio sul luogo di lavoro (art. 25 d.lgs.);<br />

un’eccezione è l’accesso al pubblico impiego, perché lo standard è quello dei cittadini dell’Unione<br />

europea e ne sono esclusi i beneficiari di protezione sussidiaria (parificati agli stranieri “ordinari”:<br />

una distinzione, rispetto ai rifugiati, che appare priva di ragionevole giustificazione).<br />

Lo standard previsto dalla Convenzione di Ginevra è adottato dal diritto dell’Unione (e norme di<br />

recepimento) in materia di:<br />

a) accesso all’istruzione (art. 26 d.lgs.), distinguendo la primaria (per i minori) da quella di carattere<br />

generale e di aggiornamento (per i maggiorenni), per la prima valendo il trattamento nazionale,<br />

per la seconda quello riservato agli stranieri;<br />

b) assistenza sanitaria e sociale (art. 27 d.lgs., in cui è previsto il trattamento nazionale);<br />

c) libera circolazione, integrazione e alloggio (art. 29 d.lgs.) in cui è previsto, considerato il rinvio<br />

alle norme del t.u. immigrazione, il trattamento riservato agli stranieri.<br />

d) Una valutazione complessiva degli standard di trattamento, alla luce dell’adeguamento al diritto<br />

dell’Unione, è positiva, essenzialmente per due ragioni.<br />

La prima riguarda l’estensione dei beneficiari. La protezione internazionale, infatti, garantisce diritti<br />

non solo ai beneficiari dello status di rifugiato, ma anche ai beneficiari della protezione sussidiaria.<br />

Il contenuto di tali diritti e la misura degli stessi è la medesima, salvo che sia diversamente previsto<br />

dalla direttiva, lasciando agli Stati la discrezionalità di applicare, comunque, ai beneficiari della<br />

protezione sussidiaria un trattamento più favorevole, e quindi lo stesso trattamento dei rifugiati<br />

(artt. 3, 20 direttiva) 75 .<br />

La seconda riguarda lo standard di trattamento. Il trattamento nazionale, come si è prima ricordato<br />

(per effetto della Convenzione di Ginevra e del diritto comunitario) è infatti la regola in materia<br />

di lavoro, subordinato (salvo il pubblico impiego) e autonomo, di condizioni di lavoro, di sicurezza<br />

sociale e assistenza sanitaria; di accesso all’istruzione primaria, riconoscimento di diplomi,<br />

certificati e altri titoli stranieri. Per effetto della (sola) Convenzione di Ginevra, il trattamento nazionale<br />

è pure la regola in materia di libertà di culto o religione, di protezione di proprietà intellettuale<br />

e industriale, di accesso ai tribunali, di imposizione o carichi fiscali 76 .<br />

Il trattamento dello straniero è invece la regola in materia di istruzione generale e aggiornamento,<br />

di libera circolazione nello Stato, di accesso all’alloggio, di accesso agli strumenti di integrazione.<br />

Per effetto della (sola) Convenzione di Ginevra, in materia di diritto di proprietà (precisamente acquisto,<br />

locazione e diritti connessi, di bene mobili e immobili) 77 .<br />

Quale che sia la materia, considerato lo status del rifugiato, che merita particolare o speciale protezione,<br />

può ritenersi sempre giustificato un trattamento più favorevole nel diritto interno (nel nostro in particolare),<br />

rispetto a quello previsto dalle norme internazionali e dell’Unione ricordate. Un favor, insomma,<br />

sempre giustificato se si considerano le valutazioni di diritto umanitario che rappresentano il fondamento<br />

e “quadro” giuridico del diritto d’asilo, a livello internazionale ed europeo, oltre che interno.<br />

75 Il trattamento diverso per i beneficiari della protezione sussidiaria è previsto dalla direttiva, come già si è ricordato, in materia di<br />

permesso di soggiorno (art. 24) e di documenti di viaggio (art. 25). Può essere diverso in materia di “condizioni applicabili ai benefici<br />

relativi ai familiari”, ma gli Stati devono assicurare “che i benefici offerti garantiscano un adeguato tenore di vita” (art. 23). Per l’“accesso<br />

all’occupazione”, ovvero per l’attività dipendente e autonoma, la formazione occupazionale per adulti, la formazione professionale<br />

e il tirocinio sul luogo di lavoro è lasciata una certa discrezionalità agli Stati, diversamente che per i rifugiati, per i quali è previsto<br />

il trattamento nazionale (art. 26). In materia di “assistenza sanitaria”, diversamente dai rifugiati, esso può essere limitata alle prestazioni<br />

essenziali (art. 29); in materia di “accesso agli strumenti di integrazione” è lasciata agli Stati la facoltà di consentire anche ai beneficiari<br />

di protezione sussidiaria l’accesso “ai programmi d’integrazione” (art. 33). Nelle tre ipotesi da ultimo ricordate (artt. 26, 29, 33<br />

direttiva) il nostro ordinamento, come si è detto nel testo, assicura la più favorevole parità di trattamento (artt. 25, 26, 27, 29 d.lgs.).<br />

76 Si vedano, rispettivamente, gli artt. 4, 14, 16, 29 Convenzione.<br />

77 Cfr. art. 13 Convenzione; la clausola della nazione più favorita è prevista in materia di “diritti di associazione” (art. 15, che si<br />

riferisce alle associazioni apolitiche e non lucrative e ai sindacati).<br />

30


1. Premessa<br />

Se l’immigrazione è un fenomeno spesso “sotto i riflettori” dei media e dell’opinione pubblica, ciò<br />

può essere facilmente compreso considerando l’aumento esponenziale che ha avuto, negli ultimi<br />

vent’anni, il numero di cittadini stranieri immigrati nel nostro Paese e l’impatto che tale fenomeno<br />

ha, e avrà sempre più, sulla nostra società.<br />

Assai più difficile è comprendere come possa essere “spendibile” politicamente la paura dell’abuso<br />

del diritto di asilo. Per intere settimane, alcuni mesi orsono, ci si è infatti occupati, sulle pagine dei<br />

giornali e nei telegiornali nazionali, dei respingimenti in mare, delle procedure per concedere o meno<br />

l’asilo, della mancata ratifica da parte della Libia della Convenzione di Ginevra e delle polemiche<br />

tra l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e il Governo.<br />

Tale attenzione non si comprende per almeno due ragioni. La prima è semplicemente l’esigua consistenza<br />

del fenomeno: l’Alto Commissariato stima che in Italia risiedano circa 47.000 rifugiati (compresi<br />

in tale numero i titolari di protezione sussidiaria e di permesso di soggiorno per motivi umanitari),<br />

pari quindi a circa allo 0,07% della popolazione...<br />

Il secondo motivo, come meglio si vedrà più avanti, è la stretta connessione dell’istituto del diritto<br />

di asilo con il diritto delle persone non solo alle libertà fondamentali o alla sicurezza personale, ma<br />

spesso anche alla vita stessa; un istituto giuridico che sin dall’antichità ha inteso proteggere – senza<br />

eccezioni – il diritto delle persone alla salvezza dai propri persecutori meriterebbe quindi, a parere<br />

di chi scrive, di essere sottratto alla quotidiana polemica politica.<br />

Di seguito si cercherà di esaminare, in sintesi e limitandosi a pochi punti fondamentali, la disciplina<br />

che il nostro Paese, nel corso degli anni, ha elaborato per regolare tale istituto giuridico.<br />

All’interno del diritto degli stranieri, la disciplina del diritto di asilo presenta caratteri del tutto speciali,<br />

che consentono di ritenerla materia a sé stante e che impongono una trattazione separata rispetto<br />

alla più generale disciplina dell’ingresso e del soggiorno sul territorio nazionale.<br />

Ciò per più di una ragione.<br />

Anzitutto perché il destinatario di tale disciplina, sussistendo i requisiti di legge, è ritenuto titolare<br />

di un diritto soggettivo al diritto di asilo 1 e non di un mero interesse legittimo al rispetto della normativa<br />

sull’ingresso e il soggiorno, come invece lo straniero migrante. Tale diversa condizione giuridica,<br />

rispetto allo straniero immigrato, trova certamente origine nel fondamento stesso del diritto<br />

di asilo: negli Stati democratici moderni, infatti, la disciplina del diritto d’asilo è ispirata al più ampio<br />

riconoscimento dei diritti fondamentali della persona e in questi termini va letta la norma costituzionale<br />

di riferimento, l’art.10, co. 3 2 : il Costituente infatti (come si vedrà meglio più avanti) con<br />

31<br />

FOCUS<br />

IL DIRITTO D’ASILO IN ITALIA: DALLA DISCIPLINA COSTITUZIONALE ALL’ATTUAZIONE<br />

DELLE DIRETTIVE COMUNITARIE<br />

Livio Neri<br />

Avvocato del Foro di Milano, referente della sezione Lombardia dell’ASGI, Associazione per gli<br />

Studi Giuridici sull’Immigrazione<br />

1 Cfr. Cass. civ., SS.UU. 4674/1997 e Cass. civ., SS.UU. 907/1999.<br />

2 “lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana,<br />

ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

tale norma ha evidentemente voluto manifestare la precisa intenzione di non limitare il riconoscimento<br />

delle libertà fondamentali sancite nella Carta ai soli cittadini; il “disegno” implicito nell’elencazione<br />

di tali diritti fondamentali è quello di estenderli universalmente: se quindi si è voluto sancire<br />

solennemente il diritto alla pari dignità sociale, ad esempio, si è anche stabilito che tale diritto<br />

dovrà essere anche riconosciuto, proprio tramite il diritto di asilo, a chi nel proprio – anche remoto<br />

– Paese non possa goderne.<br />

Altro aspetto, che differenzia l’asilante dall’immigrato e che giustifica una distinta disciplina dei due<br />

fenomeni (asilo e immigrazione), è quello relativo al “processo decisionale”: se infatti il secondo (di<br />

regola) ha deciso di lasciare il Paese di origine per migliorare le proprie condizioni di vita e generalmente,<br />

per fare ciò, ha programmato gli aspetti più importanti della propria emigrazione (costi,<br />

destinazione, modalità di ingresso, possibilità di “regolarizzazione” eccetera), il primo vi è stato costretto<br />

dalle circostanze e quindi, nella generalità dei casi, non ha avuto il tempo e il modo di definire<br />

un preciso e proficuo percorso migratorio. Da tale differenza discende il diverso approcio che<br />

il legislatore ha nel regolare l’ingresso sul territorio degli appartenenti alle due categorie (visto di ingresso,<br />

termini per la richiesta del permesso di soggiorno, eccetera per l’immigrato; sostanziale libertà<br />

di “tempi e forme” per colui che richieda e ottenga il riconoscimento del diritto all’asilo).<br />

Fatte tali premesse, occorre esaminare quali siano nel nostro ordinamento le fonti normative del diritto<br />

d’asilo.<br />

2. Fonti costituzionali e internazionali<br />

Il diritto di asilo nel nostro ordinamento, prima che dalla disciplina attuativa delle direttive comunitarie<br />

di cui si dirà, è regolato da due norme fondamentali: una contenuta nella Costituzione, l’altra<br />

nella Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951.<br />

Il rapporto tra tali due norme è oggetto di discordanti opinioni in dottrina e nella giurisprudenza;<br />

tuttavia, prima di dar conto di tali contrasti, occorre soffermarsi sul contenuto delle due disposizioni.<br />

La Costituzione – come detto – prevede, all’art. 10, comma 3, il diritto soggettivo perfetto all’asilo<br />

nel territorio della Repubblica allo straniero al quale, nel suo Paese, sia impedito l’effettivo esercizio<br />

delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.<br />

Perché si realizzi la fattispecie è quindi necessario, anzitutto, che vi sia un impedimento all’esercizio<br />

delle libertà democratiche nel Paese di origine del richiedente l’asilo. Con tale termine vanno intesi<br />

fatti o atti dalla natura assai diversa che incidano sulla sfera personale ed esistenziale del richiedente<br />

asilo, anche in assenza di provvedimenti individualmente e concretamente persecutori, il che<br />

si verifica, ad esempio, in situazioni di disordine generalizzato, di conflitto, di guerra civile o in situazioni<br />

di violenza grave e persistente di uno o più diritti fondamentali.<br />

Il riferimento all’effettivo esercizio comporta poi che, ai fini del riconoscimento del diritto di asilo,<br />

rilevi non la disciplina normativa del Paese di origine, bensì il concreto atteggiarsi delle sue autorità<br />

nei confronti del richiedente asilo.<br />

In ordine alle libertà democratiche, il cui effettivo esercizio deve essere impedito al richiedente asilo,<br />

si consideri come con esse si alluda a tutte le libertà fondamentali garantite dalla Costituzione e<br />

quindi sicuramente, tra le principali: la libertà personale (art. 13 Cost.); la libertà di associazione (art.<br />

18); la libertà di religione (art. 19); la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa<br />

(art. 20); il diritto di non essere privato per ragioni politiche dalla capacità giuridica, della cittadinanza<br />

e del nome (art. 22); il diritto di agire in giudizio per tutelare i propri diritti e interessi e a difendersi<br />

in ogni stato e grado di giudizio (art. 24); il diritto a un giudice naturale precostituito e a essere<br />

punito soltanto in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso (art. 25); il diritto<br />

al voto personale, uguale, libero e segreto (art. 48); il diritto ad associarsi in partiti politici (art.<br />

49); il diritto ad accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza con<br />

gli altri (art. 51); il diritto al “giusto processo” (art. 111); il divieto di essere sottoposto a pene che<br />

consistano in trattamenti inumani o alla pena di morte (art. 27); il diritto a ricevere cure gratuite in<br />

32


caso di indigenza e a non essere sottoposto a trattamenti sanitari illegali o contrari al senso di umanità<br />

(art. 32); la libertà di organizzazione sindacale (art. 39); il diritto di sciopero (art. 40). Non sono<br />

invece configurabili quali impedimenti che legittimino l’asilo quelli che derivino dal semplice stato<br />

di disoccupazione nel Paese di provenienza, non comportando il diritto al lavoro sancito dall’art. 4<br />

Cost. il diritto al conseguimento di un’occupazione, o dal mancato godimento di quei diritti costituzionali<br />

di prestazione in materia sociale, la cui realizzazione è lasciata alla discrezionalità del legislatore<br />

che può determinarne le condizioni anche sulla base delle disponibilità organizzative e finanziarie.<br />

Il contenuto del diritto di asilo, come previsto dalla Costituzione, consiste in una serie di diritti che<br />

così possono essere individuati, in sintesi: nel diritto a essere ammesso sul territorio italiano; a soggiornarvi<br />

esercitandovi quelle libertà democratiche fondamentali garantite dalla Costituzione italiana;<br />

a essere protetto dal rischio di subire eventuali atti ostili provenienti da soggetti pubblici o privati<br />

del Paese di origine; a non essere allontanato dal territorio italiano.<br />

La definizione di rifugiato, la determinazione delle condizioni per l’attribuzione del relativo status e<br />

dei diritti e obblighi scaturenti da tale condizione giuridica sono oggetto della Convenzione relativa<br />

allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 (ratificata con legge 24 luglio 1954 n. 722).<br />

La definizione di rifugiato prevista dalla Convenzione, all’art. 1, sezione A, n. 2, è la seguente: “colui<br />

che, a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951, temendo a ragione<br />

di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato<br />

gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non<br />

può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che,<br />

non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito<br />

di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra (...)”. Alla sezione B del<br />

medesimo articolo si aggiunge poi che “ai fini della presente Convenzione, le parole ‘avvenimenti<br />

verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951’ potranno essere interpretate nel senso di: a) ‘avvenimenti<br />

verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951 in Europa’ oppure nel senso di: b) ‘avvenimenti<br />

verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951 in Europa o altrove’; ed ogni Stato contraente – al momento<br />

della firma, della ratifica o della adesione – preciserà con una dichiarazione la portata che<br />

intende riconoscere a questa espressione dal punto di vista degli obblighi da esso assunti in virtù della<br />

presente Convenzione”.<br />

Due pertanto sono le limitazioni che la Convenzione prevedeva nell’applicazione da parte degli Stati<br />

contraenti dello status di rifugiato: l’una è di carattere “temporale” (gli avvenimenti a seguito dei<br />

quali il soggetto chiede di essere riconosciuto rifugiato dovevano essersi verificati prima del 1° gennaio<br />

1951) e l’altra di ordine geografico (tali avvenimenti – se questa opzione veniva scelta dallo<br />

Stato contraente – dovevano essersi verificati in Europa).<br />

Solo con la sottoscrizione del Protocollo di New York del 1967 la “riserva” temporale fu eliminata e<br />

la Convenzione di Ginevra acquistò pertanto una funzione di tutela realmente generalizzata del rifugiato,<br />

impegnando gli Stati contraenti a riconoscere tale status anche a soggetti che abbiano lasciato<br />

il Paese di origine successivi alla data del 1° gennaio 1951.<br />

La limitazione geografica contenuta nella sezione B dell’art. 1, per quanto riguarda il nostro ordinamento<br />

interno è invece venuta meno solamente con l’approvazione della legge n. 39/1990 la quale<br />

all’art. 1 – tuttora vigente – ha sancito l’opzione più ampia prevista dalla Convenzione: i fatti che inducono<br />

il rifugiato ad abbandonare il proprio Paese possono quindi ora essere avvenuti “in Europa<br />

o altrove”.<br />

Le due norme primarie che si sono commentate descrivono quindi, evidentemente, due differenti<br />

fattispecie: quella costituzionale intende proteggere la persona che non goda nel Paese di origine<br />

dell’effettivo esercizio delle libertà democratiche, quella convenzionale attribuisce invece lo status<br />

di rifugiato a colui che tema di essere perseguitato per uno dei motivi elencati nell’art. 1 della Convenzione<br />

stessa.<br />

La dottrina maggioritaria ha e ha sempre considerato l’insieme dei titolari dello status come un sottoinsieme<br />

dalla più ampia cerchia degli aventi diritto all’asilo costituzionale; l’art. 10, co. 3, Cost. non<br />

richiede infatti certo che, per ottenere il riconoscimento del diritto di asilo, si debba essere perse-<br />

33<br />

FOCUS


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

guitati, ma la persecuzione (come intesa nella giurisprudenza e nella dottrina interna e internazionale)<br />

è sicuramente negazione di libertà democratiche.<br />

Tale ultima interpretazione del rapporto tra le due norme commentate, inizialmente condivisa dalla<br />

giurisprudenza di legittimità 3 , è stata tuttavia successivamente messa in discussione dalla Suprema<br />

Corte. Un indirizzo della recente giurisprudenza della Corte di Cassazione 4 ha infatti impostato il coordinamento<br />

tra le due fonti secondo una differente (e non del tutto convincente) prospettiva: il diritto<br />

all’asilo come previsto dalla Costituzione non costituirebbe, secondo tale indirizzo, nulla più del<br />

diritto all’ingresso sul territorio nazionale ai fini di proporre domanda di asilo (consistente, sempre<br />

secondo tale indirizzo, nella domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. Non esisterebbero<br />

pertanto due diverse fattispecie (l’una più ampia dell’altra, come visto, secondo la dottrina), bensì<br />

un diritto “provvisorio” e strumentale (quello all’ingresso e alla proposizione della domanda, sancito<br />

dall’art. 10, co. 3, Cost.) e uno “definitivo” (allo status di rifugiato come previsto dalla Convenzione<br />

di Ginevra).<br />

Non si può tuttavia concludere sul punto senza rilevare come la ricostruzione sistematica da ultimo<br />

suggerita dalla Corte di Cassazione (oltre che incompatibile con l’intenzione del legislatore: il Costituente<br />

non poteva infatti certo voler sancire un diritto strumentale ad altro che nemmeno era stato<br />

ancora sancito a livello internazionale...) confligge evidentemente con il dato letterale: la norma costituzionale<br />

prevede infatti in modo chiaro che venga riconosciuto il diritto di asilo, come più volte<br />

ricordato, a colui che non goda dell’effettivo esercizio delle libertà democratiche; assai diversa è la<br />

situazione di chi tema di essere perseguitato. Non si vede pertanto come la prima disciplina possa<br />

essere ridotta a un mero strumento per l’accesso alla seconda, che peraltro non necessita affatto di<br />

tale diritto strumentale (la Convenzione di Ginevra già prevede infatti, all’art. 33, il cosiddetto divieto<br />

di respingimento del rifugiato che, quindi, deve avere libero e facile accesso alle procedure di riconoscimento).<br />

3. L’attuazione delle direttive comunitarie<br />

Il nostro ordinamento interno per quasi quarant’anni non ha sostanzialmente previsto altro, in materia<br />

di diritto di asilo, delle due norme fondamentali sopra indicate. Solamente con la l. 39/1990<br />

(cosiddetta “legge Martelli”) il nostro legislatore ha ritenuto di stabilire, per quanto in modo assai lacunoso<br />

(e dichiaratamente provvisorio), procedure e condizioni per il riconoscimento dello status<br />

di rifugiato.<br />

Nel 2002 poi, con l’approvazione della l. 189 (cosiddetta “legge Bossi-Fini”), la norma del 1990 è<br />

stata integrata da disposizioni che hanno sostituito alla Commissione centrale con sede in Roma (sino<br />

ad allora competente per tutte le domande presentate sul territorio) Commissioni territoriali decentrate,<br />

hanno disciplinato una procedura “semplificata” e previsto, in taluni casi, il trattenimento<br />

dei richiedenti asilo.<br />

Tale ultima normativa (entrata in vigore solamente con l’approvazione nel 2004 del relativo regolamento<br />

attuativo, contenuto nel d.p.r. 303/2004), ha disciplinato la materia (perseguendo essenzialmente<br />

lo scopo di combattere l’abuso del diritto, più che di regolarne l’esercizio) solamente sino a<br />

quando il nostro ordinamento ha dovuto adeguarsi a quello comunitario.<br />

Scadendo di anno in anno i termini per il recepimento delle relative direttive, infatti, il legislatore<br />

delegato ha approvato i seguenti decreti che ora finalmente (a cinquant’anni dall’approvazione della<br />

Costituzione) costituiscono un corpo normativo completo e attuativo dell’art. 10, co. 3, Cost.; si<br />

tratta dei seguenti provvedimenti: d.lgs. 140/2005 (attuazione della direttiva 2003/9/CE sull’accoglienza<br />

dei richiedenti asilo), d.lgs. 85/2003 (attuativo della direttiva 2001/55/CE relativa alla protezione<br />

temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati) ma, soprattutto, del d.lgs. 251/2007 (attuativo<br />

della direttiva 2004/83/CE, che stabilisce le qualifiche e, quindi, le categorie di soggetti me-<br />

3 Cfr. pronunce a SS.UU. della Corte di Cassazione già indicate nella nota 1.<br />

4 Cfr. Cass. civ., sez. I, 25028/2005, e Cass. civ., sez. I, 18549/2006.<br />

34


itevoli di protezione) e del d.lgs. 25/2008 (attuativo del d.lgs. 2005/85/CE, che regola le procedure<br />

per il riconoscimento delle diverse forme di protezione.<br />

In estrema sintesi, pare utile accennare ad alcuni tra gli aspetti più rilevanti degli ultimi due decreti<br />

citati (il 251, relativo alle qualifiche, e il 25, sulle procedure).<br />

Innanzitutto, il d.lgs. 251/2007 introduce nell’ordinamento, a fianco dello status di rifugiato, della<br />

protezione temporanea e di quella umanitaria (di natura residuale e consistente in sostanza nel rilascio<br />

di un permesso di soggiorno di durata annuale nei casi in cui non si possa o si ritenga inopportuno<br />

procedere all’espulsione o al respingimento dell’interessato), una nuova forma di protezione,<br />

quella “sussidiaria” 5 .<br />

Se la condizione per ottenere il riconoscimento dello status è il timore di essere perseguitato per i<br />

motivi elencati nella Convenzione di Ginevra (politici, religiosi, etnici eccetera), quella per accedere<br />

alla protezione sussidiaria è invece il timore di subire un “danno grave” che, secondo il decreto<br />

251, può consistere alternativamente: nella sottoposizione alla pena capitale, alla tortura o ad altra<br />

forma di pena o trattamento inumano o degradante (con definizione mutuata da quella contenuta<br />

nell’art. 3 CEDU) o alla “minaccia grave e individuale alla vota o alla persona di un civile derivante<br />

dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” 6 .<br />

Ebbene, dalla lettura delle norme di riferimento emerge come, a distinguere chiaramente le due figure<br />

(titolare di diritto allo status di rifugiato e del diritto alla protezione sussidiaria) sia soprattutto<br />

la necessità che le conseguenze temute in caso di rimpatrio forzato (qualificate come persecuzione<br />

in un caso, “danno grave” nell’altro) siano o meno motivate dalle ragioni elencate nell’art. 1A della<br />

Convenzione di Ginevra e meglio esplicate nell’art. 8 d.lgs. 251/07: se l’interessato teme quindi di<br />

subire gravi conseguenze per motivi politici, religiosi, di appartenenza nazionale o etnica o per il<br />

proprio orientamento sessuale avrà diritto al riconoscimento dello status di rifugiato, se invece teme<br />

di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o addirittura alla pena capitale,<br />

ma per motivi estranei a quelli elencati, avrà diritto alla protezione sussidiaria.<br />

Altra norma di particolare rilevanza contenuta nel d.lgs. 251 è quella relativa all’“esame dei fatti e delle<br />

circostanze”. L’art. 3 del decreto infatti, dopo aver elencato gli elementi che devono essere presi<br />

in considerazione nell’esame della domanda (fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine, dichiarazioni<br />

dell’istante e documentazione da questi allegata, sue condizioni personali e sociali), prevede<br />

che “qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale<br />

non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere<br />

sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare<br />

la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita<br />

una idonea motivazione della eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni<br />

del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni<br />

generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda<br />

di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato<br />

motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.<br />

Tale ultima norma consolida e rafforza 7 l’affermazione nella presente materia di un “alleggerimento”<br />

in capo al richiedente asilo dell’onere della prova, tanto nella fase amministrativa volta al rico-<br />

35<br />

FOCUS<br />

5 Nel decreto legislativo per protezione internazionale si intende l’insieme delle due qualifiche dello status di rifugiato e della<br />

protezione sussidiaria.<br />

6 Con sentenza 17 febbraio 2009, causa C-465/07, la Corte di giustizia, Grande Sezione, ha precisato come, ai fini del riconoscimento<br />

della protezione sussidiaria, non si possa pretendere dal richiedente la prova di essere stato interessato in modo specifico,<br />

a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, dal conflitto in atto nel Paese di provenienza.<br />

7 Un “alleggerimento” dell’onere probatorio, anche prima dell’entrata in vigore del citato decreto legislativo, era infatti già stato<br />

sancito, in considerazione della peculiarità di un diritto fondato su uno stato soggettivo (il timore di essere perseguitato), del tenore<br />

letterale della previgente l. 39/1990 (che prevedeva la presentazione di una domanda motivata e “in quanto possibile” documentata)<br />

e infine dall’approvazione della direttiva 2004/83/CE anche prima della sua attuazione, dalla giurisprudenza di merito; cfr. TAR<br />

FVG, 22 ottobre 1998, est. Savoia; Corte d’Appello di Catania, 1/22 marzo 2002, est. Morgia; Tribunale di Lucca, 16 dicembre 2003,<br />

est. Terrosi; Tribunale di Milano, 16/28 dicembre 2006, est. Marangoni; Tribunale di Milano, 19 gennaio-7 febbraio 2006, est. Gandolfi.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

noscimento della protezione, quanto (introducendo così una deroga al principio civilistico di cui all’art.<br />

2697 c.c.) nell’eventuale fase giudiziale di impugnazione del diniego. Sul punto sono intervenute,<br />

da ultimo, anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali, con sentenza 27310 del<br />

17 novembre 2008, interpretano il dettato dell’art. 3 sopra trascritto nel senso di ritenere che, in materia<br />

di protezione internazionale, si configuri una vera e propria inversione dell’onere della prova<br />

(si legge infatti in tale pronuncia: “la diligenza e la buona fede si sostanziano in elementi di integrazione<br />

dell’insufficiente quadro probatorio, con un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull’onere<br />

probatorio dettate dalla normativa codicistica vigente in Italia”).<br />

Il d.lgs. 25/2008 stabilisce invece, anzitutto, quali siano le autorità amministrative competenti per le<br />

varie fasi del procedimento (la Questura per la ricezione della domanda e la sua trasmissione alla<br />

Commissione territoriale competente per l’esame nel merito 8 , la Commissione nazionale per il diritto<br />

di asilo 9 , con sede a Roma, per il coordinamento delle commissioni territoriali, la formazione dei<br />

membri delle stesse e per l’adozione dei provvedimenti di revoca o cessazione della protezione,<br />

l’Unità Dublino presso il Ministero dell’Interno per l’applicazione del Regolamento comunitario<br />

343/2003, relativo alla determinazione dello Stato competente per l’esame di ogni domanda di asilo<br />

presentata sul territorio dell’Unione). Il medesimo decreto descrive poi la procedura per l’esame<br />

delle istanze (in estrema sintesi: presentazione presso le autorità di frontiera o direttamente presso<br />

la Questura del luogo ove lo straniero dimori, rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno<br />

per richiesta di asilo, o suo trattenimento/accoglienza in appositi centri nei casi previsti, audizione<br />

da parte della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione<br />

internazionale e notifica da parte del Questore del provvedimento che definisce la procedura).<br />

Il provvedimento della Commissione, come anticipato, potrà essere di quattro tipi: riconoscimento<br />

dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria, diniego della protezione internazionale ma trasmissione<br />

degli atti al Questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, diniego.<br />

Salvo che nel caso di riconoscimento dello status, naturalmente, l’interessato potrà quindi proporre<br />

ricorso giurisdizionale per vedersi accertato il diritto del quale si ritiene meritevole. La fase giurisdizionale<br />

è regolata dall’art. 35 del d.lgs. 25 e, tra gli aspetti più significativi di tale procedura giudiziale,<br />

si segnalano il termine decadenziale di trenta giorni per l’azione 10 , la competenza del Tribunale<br />

che ha sede nel capoluogo di distretto in cui ha sede la Commissione territoriale che ha emesso<br />

il provvedimento impugnato, l’applicazione del procedimento camerale non contenzioso (per<br />

quanto con riforma contenuta nel d.lgs. 159/2008 si sia attribuita al Ministero dell’Interno, oltre che<br />

al p.m., la facoltà di proporre reclamo avverso la decisione di primo grado), l’effetto sospensivo automatico<br />

del provvedimento impugnato a seguito della proposizione del ricorso 11 (il ricorrente ha<br />

pertanto diritto di conservare il titolo di soggiorno per tutta la durata del giudizio), la reclamabilità<br />

del provvedimento entro dieci giorni dalla sua comunicazione e la ricorribilità per cassazione della<br />

decisione del reclamo nel termine di trenta giorni.<br />

8 Le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale sono dieci (con sedi in Bari, Crotone, Caserta,<br />

Foggia, Gorizia, Milano, Roma, Siracusa, Torino e Trapani) e sono costituite da un funzionario della carriera prefettizia con funzioni<br />

di presidente, da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza<br />

Stato-città e autonomie locali e da un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.<br />

9 La Commissione nazionale è presieduta da un Prefetto ed è costituita da un dirigente presso la Presidenza del Consiglio dei<br />

Ministri, da un funzionario della carriera prefettizia e da un dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno;<br />

alle riunioni della Commissione partecipa, senza diritto di voto, un membro dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite<br />

per i rifugiati.<br />

10 Il termine è ridotto a quindici giorni in caso di richiedente trattenuto in centro di identificazione ed espulsione o accolto in<br />

una casa di accoglienza per richiedenti asilo di cui all’art. 20 d.lgs. 25/2008.<br />

11 La sospensione è tuttavia disposta dal Tribunale, su istanza di parte, qualora si impugni un provvedimento che dichiari la domanda<br />

inammissibile o manifestamente infondata, nel caso di richiedente che sia stato trattenuto in centro di identificazione ed<br />

espulsione o accolto in una casa di accoglienza per richiedenti asilo, che sia stato precedentemente espulso o che abbia presentato<br />

domanda di protezione dopo essere stato fermato dalle autorità di p.s. per avere eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera<br />

o per la propria condizione di irregolarità.<br />

36


4. I diritti dei rifugiati e dei titolari di altre forme di protezione. In particolare: il diritto all’unità familiare<br />

Il d.lgs. 251/2007 di cui si è detto, oltre che distinguere le diverse forme di protezione, si occupa di<br />

“dare contenuto” a tali qualifiche, determinando per esse differenti standard di trattamento: stabilisce<br />

cioè di quali diritti debbano godere i titolari dello status di rifugiato e i destinatari della protezione<br />

sussidiaria.<br />

Diversa è in primo luogo la durata del titolo di soggiorno (tre anni per la protezione sussidiaria, cinque<br />

per i rifugiati 12 ); il documento di viaggio 13 è rilasciato automaticamente ai rifugiati, solo nel caso<br />

in cui sussistano fondate ragioni che non consentano al titolare della protezione di rivolgersi all’autorità<br />

del proprio Paese per i destinatari di protezione sussidiaria 14 ; tanto per gli uni quanto per<br />

gli altri vige il principio di parità di trattamento con il cittadino italiano con riferimento all’accesso<br />

all’istruzione 15 e all’attività lavorativa 16 (come peraltro per gli immigrati regolarmente soggiornanti 17 )<br />

e lo stesso in materia di assistenza sanitaria e sociale 18 .<br />

Pare tuttavia opportuno, nella presente sede, soffermarsi più diffusamente sulla tutela riservata dalla<br />

normativa in vigore al diritto dei titolari della protezione internazionale all’unità familiare.<br />

È evidente nel decreto 251 (come nel Testo unico sull’immigrazione) il favore con il quale il legislatore<br />

tratta tale diritto: anzitutto (ma questo solo per il rifugiato, non anche per il titolare della protezione<br />

sussidiaria), per esercitare il diritto al ricongiungimento o alla coesione familiare non è necessario<br />

che l’interessato disponga di un particolare reddito o di un alloggio che sia ritenuto idoneo<br />

a ospitare il familiare ricongiunto. Così, mentre il cittadino straniero immigrato per ottenere il ricongiungimento<br />

deve disporre, per ogni familiare da ricongiungere, di un reddito minimo annuo pari<br />

ad una volta e mezza l’importo annuo dell’assegno sociale e di un alloggio conforme ai requisiti<br />

igienico-sanitari e di idoneità abitativa accertati dai competenti uffici comunali, il rifugiato deve limitarsi<br />

a dimostrare il proprio legame familiare con il soggetto con il quale intende ricongiungersi.<br />

È proprio in ordine alla dimostrazione del legame familiare che è prevista la norma di maggior favore<br />

per rifugiati e titolari di protezione sussidiaria con riferimento al diritto all’unità familiare: ai<br />

sensi dell’art. 29 bis d.lgs. 286/1998, infatti, nel caso in cui l’interessato non disponga di “documenti<br />

ufficiali” che provino i suoi vincoli con il familiare (in ragione della sua condizione di perseguitato<br />

dalle autorità del Paese di origine o per l’assenza di autorità che possano rilasciare tali documenti),<br />

questi potranno essere sostituiti da certificazioni rilasciate dalle nostre autorità consolari sulla base<br />

delle verifiche che possano effettuare in loco. In ogni caso, conclude la disposizione, “il rigetto<br />

della domanda non può essere motivato unicamente dall’assenza di documenti probatori”.<br />

Ebbene, dai diritti che l’ordinamento riconosce loro emerge quale sia, nella normativa vigente, l’“immagine”<br />

del rifugiato e le prospettive che si ritiene gli debbano essere garantite: contrariamente all’immigrato<br />

per motivi economici, generalmente non segue una “catena migratoria”, non arriva quindi<br />

nel nostro Paese per raggiungere un amico o un parente che l’ha preceduto, ma arriva spesso all’improvviso<br />

senza aver potuto programmare il proprio espatrio (e anche in tale ottica va visto il favore<br />

per il suo ricongiungimento familiare); inoltre, salvo radicali cambiamenti nel Paese di origine,<br />

è un soggetto che rimarrà stabilmente nel nostro Paese e che prima o poi ne diverrà cittadino (i termini<br />

per la richiesta della cittadinanza sono peraltro dimezzati per il rifugiato): ciò spiega la sua sostanziale<br />

parificazione al cittadino italiano sotto quasi tutti i profili.<br />

37<br />

FOCUS<br />

12 Cfr. art. 23 d.lgs. 251/2007.<br />

13 La Convenzione di Ginevra prevede che ai rifugiati sia rilasciato, in sostituzione del passaporto del Paese di origine, un “documento<br />

di viaggio” con il quale questi possano circolare liberamente (salvo eventuale obbligo di visto), in tutti i Paesi con l’eccezione<br />

di quello di provenienza.<br />

14 Cfr. art. 24 d.lgs. 251/2007.<br />

15 Cfr. art. 26 d.lgs. 251/2007.<br />

16 Cfr. art. 25 d.lgs. 251/2007.<br />

17 Ciò per quanto disposto dalla Convenzione OIL 143/1975 e dall’art. 2, co. 3, d.lgs. 286/1998.<br />

18 Cfr. art. 27 d.lgs. 251/2007.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

IL PUNTO DELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO SUL DIRITTO D’ASILO,<br />

SUL RICONOSCIMENTO DELLO STATO DI RIFUGIATO E SU ALTRE FORME<br />

DI PROTEZIONE UMANITARIA<br />

Report dell’intervento della d.ssa Franca Mangano, giudice del Tribunale Ordinario di Roma, tenuto al<br />

Seminario della Formazione decentrata del Consiglio Superiore della Magistratura, Immigrazione e diritti<br />

fondamentali, il rifugio a fini umanitari, il diritto d’asilo e il congiungimento familiare: prospettiva italiana<br />

e sovranazionale, Roma 15 aprile <strong>2010</strong>, a cura del dott. Alessandro Pesce, M.O.T. presso il Tribunale<br />

di Roma.<br />

Franca Mangano<br />

Giudice del Tribunale Ordinario di Roma<br />

È necessario premettere che si tratta di un ambito nel quale le pronunce dei giudici sono caratterizzate<br />

da un grado di indeterminatezza e di varietà piuttosto elevato. Ciò è dovuto anzitutto, all’origine<br />

della legislazione che disciplina la materia, spesso di emergenza e contingente, nonché all’intersecarsi<br />

di vari livelli di normazione, sovranazionale e nazionale, primaria e regolamentare.<br />

Difficoltà acuite anche dalle particolarità di un processo in cui vi sono due parti, l’una, pubblica,<br />

che spesso è solo formalmente presente; l’altra, quella richiedente protezione internazionale, connotata<br />

da una condizione di debolezza sociale che indubbiamente pesa sullo svolgimento del processo.<br />

Tale assetto ostacola una ricostruzione sistematica e sintetica della giurisprudenza di merito in materia.<br />

Questa relazione, pertanto, si propone essenzialmente di offrire un contributo di conoscenza<br />

delle principali e più urgenti questioni critiche, che si presentano ai giudici che si occupano di<br />

controversie in materia di protezione internazionale.<br />

A tale scopo, il Tribunale di Roma rappresenta un osservatorio molto significativo, poiché è l’ufficio<br />

giudiziario nel quale si concentrano il maggior numero di controversie in materia di immigrazione<br />

e di diritti fondamentali degli stranieri. A fronte di tale ingente carico di lavoro, tuttavia, le<br />

disponibilità di mezzi e di competenze specializzate è inadeguata, al punto che appare concreto il<br />

rischio di una risposta giudiziaria insufficiente rispetto alla gravità e sensibilità del tema.<br />

I giudici della prima sezione del Tribunale civile di Roma, per questo motivo, hanno intrapreso un<br />

percorso volto all’elaborazione di un protocollo, finalizzato all’individuazione di prassi e criteri di<br />

valutazione condivisi; ciò per garantire, nei limiti del possibile, parametri uniformi di giudizio per<br />

una migliore tutela dei diritti fondamentali che pervadono la materia in argomento.<br />

Allo stato, il confronto sui principali nodi problematici che caratterizzano la quotidianità del lavoro<br />

nelle aule giudiziarie ha portato all’individuazione di numerose criticità, riferibili essenzialmente<br />

a tre diverse aree di interesse:<br />

1. la gestione del processo;<br />

2. la tipologia delle decisioni e la connessa questione dei possibili criteri di valutazione condivisi;<br />

3. la giurisdizione e i poteri del giudice, con riferimento a competenze particolari.<br />

Per ciò che riguarda le questioni di ordine processuale, anzitutto, si deve rilevare come la Cassazione,<br />

ben prima delle Sezioni Unite del 2008, ha ritenuto che il quadro normativo di riferimento<br />

consente di ravvisare, pur in difetto di una specifica regolamentazione del rito, l’opzione del legislatore<br />

per il modello camerale 1 .<br />

1 Cass. n. 18353/2006.<br />

38


Il rito camerale è ritenuto connaturale alla trattazione dei diritti fondamentali, attese le caratteristiche,<br />

proprie del modello processuale, di celerità e semplicità 2 . L’affermazione va verificata alla luce<br />

della prassi attuale.<br />

Quanto alla celerità, si ricorda che effettivamente l’art. 35 del d.lgs. 25/08 prevede tempi di impugnazione<br />

e di decisione piuttosto rapidi: 30 giorni, a pena di inammissibilità, per l’impugnazione<br />

del provvedimento di rigetto della Commissione; 5 giorni dal deposito del ricorso, per la fissazione<br />

dell’udienza di comparizione; 3 mesi dalla presentazione del ricorso, per l’adozione della sentenza<br />

conclusiva del procedimento.<br />

È quasi superfluo sottolineare che tale scansione temporale difficilmente può essere rispettata, attesi<br />

i carichi di lavoro. Attualmente i ricorsi ex art. 35 pendenti presso il Tribunale di Roma sono<br />

circa 1.800, nel 2009 sono stati circa 1.400 e, considerando le pendenze registrate alla fine del 2008,<br />

risulta che solo il 60% circa di tali ricorsi è stato smaltito, con facile prognosi di incremento per<br />

l’anno in corso, atteso che le sopravvenienze del primo trimestre <strong>2010</strong> sono quasi 500.<br />

Quanto alla semplicità, il modello camerale è un rito deformalizzato, adeguato al disposto del comma<br />

10 dell’art. 35, che prefigura un iter istruttorio piuttosto snello. L’assenza di preclusioni e decadenze<br />

nello svolgimento del processo rende maggiormente compatibile il modello camerale anche<br />

con il principio dell’onere della prova attenuato, precisato nella richiamata sentenza delle Sezioni<br />

Unite della Cassazione del 2008 e che, dal punto di vista del giudice, equivale all’esercizio di ampi<br />

poteri officiosi.<br />

Tuttavia, alla prassi si richiede di configurare gli atti processuali attraverso i quali si dà attuazione<br />

al principio cristallizzato dall’art. 3 del d.lgs. 251/07, vale a dire il principio di cooperazione nell’esame<br />

e nella valutazione di tutti gli elementi e della documentazione necessaria a motivare la<br />

domanda di protezione internazionale, dettato per le Commissioni territoriali ma che è anche regola<br />

imprescindibile della valutazione del giudice circa la fondatezza dei motivi di ricorso.<br />

Atto fondamentale nell’esercizio della richiamata cooperazione del giudicante nell’onere di allegazione<br />

e di prova preteso nei confronti del richiedente la protezione internazionale è l’audizione del<br />

ricorrente, funzionale alla verifica dei requisiti e delle condizioni necessarie per aver accesso al sistema<br />

di tutela previsto dalla normativa in oggetto. Ossia, in via del tutto preliminare, l’accertamento<br />

dell’identità personale e nazionale, ovvero della provenienza del ricorrente, della sua religione<br />

ed etnia, quindi, l’accertamento delle condizioni concrete nelle quali è fuggito dal suo Paese e delle<br />

vicende di cui è stato protagonista, allo scopo di accertare il permanere attuale di situazioni di<br />

rischio e pericolo per la sua incolumità. Inoltre, l’audizione del ricorrente appare atto funzionale<br />

alla necessaria individualità dell’esame della domanda di protezione internazionale (art. 3 comma<br />

3 del d.lgs. n. 251/2007).<br />

Quasi sempre i soggetti richiedenti non parlano la lingua italiana e ciò comporta, di conseguenza,<br />

la necessaria assistenza di un interprete, condizione non soltanto di validità dell’atto processuale,<br />

ma, anche, di effettività dell’acquisizione degli elementi di valutazione necessari al giudice. Gli interpreti,<br />

però, in molti casi omettono di comparire, rendendo vana l’udienza fissata per l’esame,<br />

con gli effetti di disservizio facilmente immaginabili.<br />

Tre sono le ipotesi di soluzione proposte a questo problema, corrispondenti ad altrettanti diversi<br />

livelli di approccio alla questione.<br />

La prima possibilità è quella di consentire l’audizione alla presenza degli interpreti presentati dalle<br />

parti richiedenti protezione. In genere, persone della medesima nazionalità allegata dal ricorrente,<br />

alle quali si richiede la titolarità di un permesso di soggiorno valido. L’attribuzione a tali persone<br />

del ruolo di interpreti, potrebbe intendersi conforme al disposto dell’art. 122 c.p.c. che, a differenza<br />

di quanto previsto per i consulenti tecnici dall’art. 61 c.p.c., non richiede che normalmente<br />

la scelta debba avvenire tra gli iscritti all’apposito albo speciale.<br />

La seconda soluzione non è alternativa a quella sopra esposta, bensì con essa concorrente, in modo<br />

da considerare il ricorso all’interprete “di parte” come scelta sussidiaria, alla mancata compari-<br />

2 Cass. S.U. n. 27310/2008.<br />

39<br />

FOCUS


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

zione dell’interprete nominato dall’ufficio. Va previsto, nell’agenda del giudice, che alcune udienze<br />

siano destinate all’audizione dei richiedenti la protezione, in modo da:<br />

1) nominare uno o due interpreti per udienza in relazione a più procedimenti riguardanti persone<br />

provenienti dallo stesso Paese o con lo stesso idioma;<br />

2) incentivare la comparizione dell’interprete con la previsione di un incarico più remunerativo, in<br />

quanto plurimo;<br />

3) scongiurare il rischio di udienze “a vuoto”;<br />

4) favorire la valutazione complessiva di situazioni simili. Tale soluzione comporta: a) che l’audizione<br />

del ricorrente non avviene alla prima udienza, come vorrebbe la regola del modello camerale,<br />

ma all’udienza fissata ad hoc dal giudice; b) che il giudice valuta la rilevanza dell’audizione<br />

in relazione alla decisione della causa, prima di fissare l’udienza.<br />

Quest’ultimo effetto introduce la terza (ed estrema) soluzione, allo stato, oggetto di valutazione: ossia<br />

l’eventuale omissione dell’audizione personale dello straniero richiedente e, soprattutto, l’indicazione<br />

di criteri condivisibili per l’individuazione dei casi nei quali si ritenga superflua l’audizione<br />

stessa.<br />

Un primo criterio prescinde dalla valutazione della rilevanza funzionale dell’audizione rispetto alla<br />

decisione di merito: l’audizione è superflua quando i fatti allegati nel ricorso ex art. 35 sono perfettamente<br />

sovrapponibili a quelli già esposti dall’interessato nel corso dell’audizione davanti alla<br />

Commissione territoriale. Il secondo criterio, viceversa, è funzionale alla decisione di merito: l’audizione<br />

è superflua e, quindi, può essere omessa, in conseguenza della manifesta infondatezza o<br />

inammissibilità del ricorso, secondo la disciplina dettata dagli artt. 29, 30, 32 del d.lgs. 25/08. Si<br />

tratta, in quest’ultimo caso, di una soluzione, in linea di principio, contraria al disposto dell’art. 12<br />

del d.lgs. 25/08, a norma del quale, al contrario, la Commissione territoriale può omettere l’audizione<br />

del richiedente solo quando ritiene di avere sufficienti motivi per accogliere la domanda di<br />

protezione internazionale, non per rigettarla. Tuttavia, questo secondo criterio può recuperare un<br />

valore di conformità al sistema, laddove si acceda a una interpretazione sistematica secondo cui il<br />

principio di cooperazione sancito dall’art. 3 del d.lgs. 251/07, che, per quanto detto vincola l’operato<br />

del giudice, deve essere bilanciato con il principio dell’onere di allegazione e di completezza<br />

dei fatti che grava in capo al richiedente protezione (art. 3 cit., comma 1, prima proposizione).<br />

Il secondo nodo critico, nell’ambito dell’area relativa alla gestione del processo e alle questioni processuali,<br />

riguarda la valutazione della documentazione prodotta a sostegno dei ricorsi.<br />

Nelle controversie relative ai provvedimenti in materia di ricongiungimento familiare, si è posto il<br />

problema dell’individuazione dei criteri di valutazione della documentazione anagrafica proveniente<br />

da Paesi esteri, con riguardo alla particolare efficacia probatoria di tali certificazioni. Nelle controversie<br />

in esame, trattandosi di soggetti che, nella grande maggioranza dei casi, sono sprovvisti<br />

di documenti di identità, il problema riguarda la valutazione di documenti diversi, formati nei Paesi<br />

di origine, ai quali si riconnette un valore, quantomeno indiziario, dell’identità del richiedente.<br />

A tale proposito, l’orientamento emerso è quello di far riferimento alla disciplina dettata dal d.p.r.<br />

445/2000 in materia di documenti ritenuti sufficienti per l’iscrizione anagrafica dello straniero. L’art.<br />

3, comma 1 del d.p.r. 445/2000 allude a una definizione di documento di riconoscimento, che è<br />

nozione più ampia rispetto a quella di documento di identità, dovendosi intendere come idoneo<br />

al riconoscimento dell’interessato e quindi sufficiente per la sua iscrizione anagrafica, il documento<br />

provvisto di fotografia rilasciato da autorità o enti del Paese di provenienza del richiedente. È<br />

così legittimo valutare, ai fini dell’accertamento dell’identità del richiedente tessere di partito, tessere<br />

di associazioni sportive e anche, pur essendo documenti privi di fotografia, certificati di battesimo;<br />

tutti documenti suscettibili di formare oggetto di valutazione da parte del giudice quando,<br />

in concorso con altri dati, atti o fatti deducibili dal procedimento e dai provvedimenti impugnati,<br />

possono fornire riscontri in ordine all’identità del soggetto richiedente. Per ciò che riguarda la prova<br />

testimoniale, atto saliente nell’istruttoria dei procedimenti in oggetto, si ripropongono gli stessi<br />

problemi, già evidenziati in relazione all’audizione del richiedente, circa la reperibilità degli interpreti,<br />

perché nella grande maggioranza dei casi i testi sono persone straniere, che hanno la stessa<br />

nazionalità del richiedente e che non parlano la lingua italiana. L’organizzazione dell’agenda del<br />

40


giudice, al fine di economizzare la convocazione dell’interprete nominato dal giudice e il ricorso,<br />

quantomeno sussidiario, all’interprete portato dal ricorrente, sono, anche in questo caso, rimedi<br />

praticabili per i segnalati problemi organizzativi.<br />

Quanto all’articolazione in capitoli della prova stessa, è la stessa Cassazione 3 che autorizza una certa<br />

elasticità, nella valutazione di ammissibilità della prova. Non si esige una capitolazione rigorosamente<br />

dettagliata, dando ingresso nel procedimento a prove testimoniali che, nell’ambito di un<br />

giudizio civile ordinario, sarebbero certamente colpite dalla sanzione dell’inammissibilità, per la genericità<br />

della capitolazione. L’ammissione di prove testimoniali formulate in modo generico, comporta<br />

che, nel corso dell’espletamento della prova, il giudice svolga una funzione integrativa della<br />

prova stessa. In realtà più che di testimoni, si è in presenza di informatori, le cui dichiarazioni sono<br />

valutate in bilanciamento con altri elementi emersi dal giudizio, al fine della valutazione della<br />

fondatezza del ricorso.<br />

Un fondamento importantissimo nell’elaborazione della decisione, è rappresentato dalle informazioni<br />

precise e aggiornate sulla situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti,<br />

che devono essere poste a disposizione del giudice chiamato a pronunciarsi sulle impugnazioni<br />

dei provvedimenti di rigetto delle domande di protezione internazionale.<br />

A tale proposito, l’art. 8 co. 3 del d.lgs. 25/08 istituisce un canale privilegiato, prevedendo che tali<br />

informazioni siano elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’ACNUR<br />

e dal Ministero degli Affari Esteri; la Commissione nazionale cura, poi, che le informazioni così elaborate<br />

siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali e altresì fornite agli organi giurisdizionali.<br />

Si tratta però di un canale poco efficiente, poiché le richieste non vengono evase tempestivamente,<br />

quando non restano addirittura prive di risposta. Ci si avvale allora di fonti di informazioni<br />

alternative. Il giudice, infatti, molto spesso reperisce le informazioni utili ai fini della decisione<br />

dei ricorsi, utilizzando lo strumento telematico, vale a dire adoperando le informazioni reperibili<br />

su vari siti internet, dandone, poi, atto nella motivazione.<br />

La conclusione, all’esito dell’esame dei principali nodi critici connessi alla celebrazione dei giudizi<br />

relativi al riconoscimento della protezione internazionale è che si tratta di giudizi certamente deformalizzati,<br />

coerentemente con il modello processuale camerale, ma sicuramente non semplici,<br />

quanto all’attività istruttoria richiesta e che, inoltre, per l’assenza di mezzi e competenze specifiche<br />

a disposizione del giudice, raramente possono esaurirsi in un’unica udienza, con conseguente negazione<br />

del requisito di celerità nella definizione, richiesto dalla legge.<br />

Ultimo argomento di rilievo processuale è quello afferente al patrocinio a spese dello Stato, normativa<br />

di grande rilevo in queste controversie, nelle quali le parti ricorrenti sono normalmente impossidenti<br />

e prive di reddito. In passato, infatti, tale materia aveva creato difficoltà legate alla valutazione<br />

delle norme applicabili, non essendovi alcuno specifico rinvio alla relativa disciplina. In particolare,<br />

era l’art. 119 del d.p.r. 30 maggio 2002 n. 115, a porre problemi di applicabilità della normativa<br />

alle controversie in oggetto, nella parte in cui equipara al cittadino, ai fini dell’estensione<br />

del trattamento previsto dalle norme in esame, soltanto “lo straniero regolarmente soggiornante sul<br />

territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare...”.<br />

A oggi, la problematica risulta superata, poiché l’art. 16, co. 2, del d.lgs. 25/08, fa espresso rinvio<br />

al d.p.r. 115/02 in materia di gratuito patrocinio, peraltro, confermando implicitamente, per le controversie<br />

instaurate prima del 2008, i dubbi di applicabilità esposti. In ogni caso, consegue che, almeno<br />

a oggi, anche per le controversie in materia di diritto di asilo, si applica la norma del t.u. sul<br />

patrocinio a spese dello Stato nella sua interezza.<br />

Ciò comporta, quindi, che anche l’art. 74 comma 2, possa trovare applicazione, con la conseguente<br />

ipotizzabilità che la pronuncia di rigetto del ricorso, ai sensi dell’art. 29 (casi di inammissibilità<br />

e manifesta infondatezza), determini la revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio.<br />

Passando a considerare le questioni comprese nella seconda area di interesse, volta a selezionare e<br />

3 Cass. S.U. n. 27310/2008.<br />

41<br />

FOCUS


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

possibilmente rintracciare criteri condivisi di giudizio nella diversa tipologia di decisioni, si osserva,<br />

preliminarmente, che le norme del 2007 e 2008 offrono regole di giudizio molto dettagliate, in ordine<br />

alle nozioni fondamentali (atti di persecuzione, motivi di persecuzioni...), che certamente agevolano<br />

la selezione dei casi concreti. Tuttavia permangono difficoltà e criticità, in relazione alla valutazione<br />

delle situazioni di confine, sia tra le due diverse forme di protezione internazionale, sia<br />

per le ipotesi nelle quali, respinta la domanda di protezione internazionale, si ritenga che possano<br />

sussistere gravi e seri motivi di carattere umanitario, legittimanti la richiesta al Questore per l’eventuale<br />

rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25<br />

luglio 1998, n. 286, sia, infine, per quei casi concreti insuscettibili di alcuna forma di protezione internazionale.<br />

Da questo punto di vista, le questioni più problematiche portate all’esame del Tribunale sono quelle<br />

di rilievo meramente locale o di costume, ma prospettate dal ricorrente come la causa determinante<br />

di una conflittualità caratterizzata dall’uso della violenza, nell’ambito del territorio, della tribù,<br />

del villaggio o della stessa famiglia, che porta, conseguentemente, il soggetto a fuggire dal Paese<br />

di origine.<br />

Laddove le situazioni familiari prospettate dal richiedente attengano alla condizione della donna<br />

ovvero del minore, ad esempio facendo riferimento ad usanze tribali che possano mettere in pericolo<br />

l’incolumità della persona o che comunque possano portare a una grave violazione della libertà<br />

matrimoniale e sessuale, soccorre, come norma generale, il disposto dell’art. 19 del d.lgs.<br />

251/07 a norma del quale si deve tener conto della specifica situazione delle persone vulnerabili<br />

– quali, fra le altre, minori, donne in stato di gravidanza, persone che hanno subito torture, stupri<br />

o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale –, per ritenere integrati i presupposti<br />

della protezione internazionale.<br />

Disposizioni più specifiche, per tali ipotesi, si rinvengono nell’art. 7 lett. b) e f) d.lgs. n. 251/2007.<br />

In tali casi diverso è il trattamento dell’ipotesi (più rara) in cui il ricorrente, anche attraverso elementi<br />

indiziari univoci, giunge a provare che, per motivi di costume o culturali contrari ai diritti<br />

fondamentali di libertà sessuale o matrimoniale, egli sia concretamente oggetto di persecuzione nel<br />

suo Paese, rispetto al caso nel quale il rischio di persecuzione ai suoi danni, ancorché concreto,<br />

derivi esclusivamente dalla sua appartenenza a un genere o a una categoria. In tali ultime ipotesi<br />

ci si interroga se ciò configuri un danno grave ai sensi dell’art. 14 per accordare la protezione sussidiaria<br />

ovvero se sia comunque una fattispecie tutelabile con lo status di rifugiato. Analoghe considerazioni<br />

valgono anche per il caso dei conflitti locali, la cui considerazione come motivo per il<br />

riconoscimento della protezione internazionale deve essere accompagnata dalla prova che il richiedente<br />

non può sottrarvisi, trasferendosi in un’altra zona del Paese (arg. ex art. 8, comma 1 Dir. n.<br />

2004/83/CE).<br />

Quando però, anche attraverso le informazioni diffuse dalla stampa, risulta conclamata la violenza<br />

e la frequenza degli scontri tra tribù e gruppi etnici (come, ad esempio nel Delta del Niger), la giurisprudenza<br />

di merito è incline a configurare tali situazioni, come quelle di violenza indiscriminata<br />

richiamate dall’art. 14, lett. C) del d.lgs. 251/07, quale presupposto necessario, quanto meno, ai<br />

fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.<br />

Altra questione è se, nelle ipotesi rientranti nel disposto di cui all’art. 7, lett. b) del d.lgs. 251/07,<br />

quando lo straniero istante allega situazioni di detenzione che configurano una grave violazione<br />

dei diritti umani fondamentali, ovvero che è stato sottoposto a processo senza l’assistenza di un<br />

difensore, l’indagine debba spingersi al motivo della detenzione o del processo, al fine di accertare<br />

le eventuali fattispecie di esclusione della protezione internazionale (artt. 10 e 16 d.lgs. n.<br />

251/2007).<br />

È sufficientemente condivisa la posizione secondo cui, nel caso in cui lo straniero richiedente alleghi<br />

situazioni di natura familiare, attinenti ad esempio a controversie legate a questioni di natura<br />

ereditaria o a controversie per la definizione di confini con famiglie vicine, ci si trova al cospetto<br />

di un disagio non meritevole di protezione internazionale, nemmeno nella forma della protezione<br />

umanitaria di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/1998.<br />

Allo stesso modo la fattispecie del cosiddetto rifugio economico, perseguito allo scopo di sottrarsi<br />

42


a una condizione di povertà e indigenza generalizzata, è esclusa dalla protezione internazionale e<br />

umanitaria.<br />

Resta, tuttavia, il problema dell’incerta delimitazione dell’area sussumibile nei “gravi motivi di carattere<br />

umanitario”. In primo luogo (e tanto più a seguito della Cass. S.U. n. 11535/09 che ha attribuito<br />

la competenza al giudice ordinario), ci si chiede se l’art. 32, comma 3 del d.lgs. n. 25/2008<br />

(“Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere<br />

gravi motivi di carattere umanitario...”) attribuisca al giudice dell’impugnazione un analogo<br />

potere officioso di valutazione residuale dei presupposti per il permesso di soggiorno per motivi<br />

umanitari, anche in difetto di domanda. Quanto all’aspetto fondamentale, della selezione delle fattispecie<br />

meritevoli del permesso di soggiorno per motivi umanitari, si ritiene che si tratti di situazioni<br />

accomunate da condizioni di particolarità, legate alla persona del richiedente o al Paese di<br />

provenienza.<br />

Tra le pronunce più recenti della sezione si rileva una sentenza del Tribunale di Roma che ha riconosciuto<br />

la protezione umanitaria alla prostituta albanese che ha denunciato lo sfruttatore, testimoniando<br />

anche contro di lui, il quale, guardia del corpo di un potente uomo politico locale, presumibilmente<br />

potrà dare seguito alle minacce di ritorsione già espresse.<br />

Anche i motivi di persecuzione sopravvenuti, che nell’art. 4 del d.lgs. n. 251/2007 sono valutati come<br />

suscettibili di protezione internazionale, allorché difettano del requisito di consequenzialità ivi<br />

richiesto (“... quando sia accertato che le attività addotte costituiscono l’espressione e la continuazione<br />

di convinzioni ed orientamenti già manifestati nel Paese di origine...”), potrebbero rilevare ai fini<br />

della protezione umanitaria: i casi di uomini di spettacolo o personaggi dello sport che si rifiutano<br />

di fare ritorno nel Paese di origine, nel quale erano pienamente integrati, successivamente a<br />

trasferte all’estero della squadra o della rappresentazione.<br />

Ulteriore questione critica attiene ai criteri di valutazione in ordine alla concessione della sospensione<br />

giudiziale del provvedimento impugnato, normalmente sospeso per effetto della proposizione<br />

del ricorso ai sensi dell’art. 35, comma 6.<br />

Nei casi previsti dal comma 7 dell’art. 35 del d.lgs. 25/08, l’effetto sospensivo non si produce ex lege,<br />

ma solo a seguito di un provvedimento giurisdizionale, se ricorrono gravi e fondati motivi. In<br />

ordine all’individuazione dei gravi e fondati motivi, si ritiene che questi debbano essere fatti coincidere,<br />

ancorché meramente delibati, con quegli stessi motivi che legittimerebbero la protezione<br />

internazionale e umanitaria.<br />

Tra i casi in cui non si produce automaticamente l’effetto sospensivo vi sono quelli in cui lo straniero<br />

richiedente è ospitato nei CARA (Centri accoglienza richiedenti asilo), a norma dell’art. 20,<br />

co. 2, lett. B) e C), del d.lgs. 25/08, salvo che l’accoglienza in tali strutture sia determinata dal solo<br />

fine di accertare l’identità del soggetto, secondo quanto previsto dalla lett. A) dello stesso articolo,<br />

nel qual caso, invece, l’effetto sospensivo è automatico. Ora occorre rilevare una prassi delle<br />

Questure che indicano, quale motivazione della permanenza dei richiedenti protezione presso i<br />

CARA, anche alternativamente, quella di cui alle lettere B) e C) sopra richiamate, mediante moduli<br />

privi di motivazioni concrete riferite al singolo richiedente. In questi casi, provvedendo sulla richiesta<br />

di sospensione, in assenza di prove concrete circa la sussistenza di condotte configuranti<br />

le fattispecie genericamente e alternativamente invocate, la giurisprudenza tende a riconoscere la<br />

configurabilità anche della ipotesi di cui alla lett. A), poiché si tratta sempre di persone sicuramente<br />

sprovviste di documenti di identità. In ogni caso, nel concorso delle lett. A), B) e C) si dà prevalenza<br />

alla prima ipotesi, dichiarando l’efficacia sospensiva del ricorso ex lege.<br />

L’ultimo gruppo di questioni si riconduce ai limiti della giurisdizione del giudice ordinario e ai conseguenti<br />

poteri di intervento.<br />

La più importante questione, riguarda il diniego da parte della Questura del rilascio del permesso<br />

di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/98, nell’ipotesi<br />

in cui gli atti siano stati a questa trasmessi dalla Commissione territoriale in conformità al disposto<br />

dell’art. 32, co. 3, del d.lgs. n. 25/08.<br />

L’interrogativo che si pone in questi casi è duplice: se sussista la giurisdizione del giudice ordinario<br />

in relazione all’impugnazione del diniego da parte del richiedente e quale sia la tipologia di de-<br />

43<br />

FOCUS


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

cisione da adottare, ossia annullamento del diniego oppure ordine di rilasciare il permesso di soggiorno.<br />

Il dilemma, dopo la risoluzione affermativa data dalla Cassazione sulla scorta del d.lgs. n.<br />

25/2008, riguarda le fattispecie di rifiuto precedenti al 2008 e alle motivazioni che riconoscono la<br />

giurisdizione del giudice ordinario anche in questi casi.<br />

Infine, l’ultima questione, posta sulla scorta di una prassi recentissima della Questura di Roma, riguarda<br />

la competenza in ordine all’impugnazione del decreto di espulsione, emesso in pendenza<br />

del procedimento relativo alla domanda di emersione. Lo straniero richiedente la cosiddetta emersione<br />

ai sensi della l. n. 78/2009, revoca, all’atto della presentazione della domanda, la domanda<br />

di protezione internazionale al fine di avere accesso alla procedura di emersione. Contestualmente,<br />

però, gli viene notificato il decreto di espulsione, in violazione della disciplina afferente la domanda<br />

di emersione, in base alla quale in pendenza di tale domanda non può farsi luogo a espulsione<br />

(art. 1 ter commi 8 e 13).<br />

Si pone quindi il problema se sull’impugnazione di tale atto, la giurisdizione sia da attribuire al giudice<br />

amministrativo, trattandosi di atto illegittimo, oppure al giudice ordinario, per l’abnormità del<br />

provvedimento attinente lo status dello straniero, adottato in carenza di potere.<br />

44


MINORI STRANIERI RIFUGIATI: IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO<br />

Marco Grazioli<br />

Avvocato del Foro di Roma<br />

Valeria de Cesare<br />

Avvocato del Foro di Roma<br />

1. Premessa<br />

Nel linguaggio comune si è soliti parlare indistintamente di minori stranieri, minori non accompagnati,<br />

minori rifugiati e, riguardo a tale ultima accezione, si fa normalmente riferimento sia ai minori<br />

che si sono visti riconoscere dalla Commissione lo status di rifugiato, sia quanti hanno semplicemente<br />

fatto richiesta in tal senso.<br />

La commistione di tanti diversi termini se può servire nel linguaggio parlato a indicare genericamente<br />

i minori non italiani e, spesse volte, non comunitari presenti sul territorio nazionale, non<br />

rende certamente giustizia al significato umano, prima ancora che giuridico, celato dietro ciascuna<br />

storia di vita.<br />

Le differenze non sono di poco conto e non posso essere ignorate.<br />

Del resto, se è vero che per minori stranieri si intendono le persone minori d’età presenti sul territorio<br />

nazionale, senza cittadinanza italiana e neppure di un Paese comunitario, è vero pure che<br />

non tutti i minori stranieri possono dirsi anche non accompagnati.<br />

Per minori non accompagnati, infatti, devono intendersi tutti quei ragazzi, in qualsiasi modo giunti<br />

nel nostro Paese e di età inferiore ai diciotto anni, i quali siano sprovvisti dei genitori o di figure<br />

comunque titolari della potestà genitoriale nei loro confronti e che, pertanto, necessitano della<br />

nomina di un tutore che ne curi i diritti e gli interessi sul territorio italiano.<br />

Ancora diverso è il caso dei minori richiedenti asilo (e/o rifugio) e, ancora, di coloro che hanno ottenuto<br />

per provvedimento amministrativo o giudiziario lo status di rifugiato, che è la categoria di<br />

cui trattiamo in questo contributo.<br />

Il riconoscimento dello status di rifugiato in capo a un minore straniero è soggetto alla medesima<br />

disciplina del riconoscimento di tale status in capo a un soggetto maggiore d’età e, tuttavia, inevitabilmente<br />

si arricchisce dei princìpi e delle norme volti alla tutela dei minori di cui sono costellati<br />

sia le leggi nazionali che il diritto comunitario e internazionale pattizio.<br />

2. I requisiti per lo status<br />

Le categorie giuridiche dello status di rifugiato e del diritto di asilo sono, seppure in qualche modo<br />

compenetrate, profondamente diverse e, ciononostante, anche nel linguaggio giuridico spesso<br />

diviene difficile distinguere i contorni dell’una e dell’altra.<br />

Rifugiato è colui che fugge dal proprio Paese a causa del fondato timore di subire persecuzioni o,<br />

avendone già subite, di poter essere vittima di persecuzioni ulteriori per motivi attinenti alla sua<br />

razza, religione, appartenenza a una determinata classe o gruppo sociale e, pertanto, non può farvi<br />

più ritorno, salvo radicali cambiamenti storico-sociali 1 .<br />

45<br />

FOCUS<br />

1 La puntuale definizione di rifugiato è contenuta all’art. 1, Convenzione di Ginevra del 1951, a norma del quale il rifugiato è<br />

“colui che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

L’immediata conseguenza su di un piano giuridico-procedurale è l’attivarsi nei suoi confronti del<br />

principio internazionale del non refoulement (non respingimento), in base al quale vige il divieto<br />

di respingere alla frontiera uno straniero che chieda di essere accolto, avanzando questa specifica<br />

richiesta.<br />

Da un punto di vista squisitamente concettuale, il rapporto status di rifugiato/diritto di asilo può essere<br />

definito un rapporto da species a genus 2 , volendosi intendere che il primo può certamente essere<br />

ricondotto al secondo, ma non assorbe per intero lo spettro delle ipotesi riconducibili all’asilo.<br />

Lo status di rifugiato, infatti, ha una portata più limitata del diritto di asilo, potendosi riconoscere<br />

solo in presenza di determinate condizioni soggettive in capo al richiedente, mentre il diritto di asilo<br />

richiama anche situazioni – potremmo dire – più vaste e generalizzate 3 .<br />

La normativa in materia di status di rifugiato affonda le proprie radici nel diritto internazionale e<br />

nel diritto comunitario, ai quali si deve il merito di aver sollecitato e provocato, con l’ausilio dell’intervento<br />

della giurisprudenza anche italiana, la produzione delle norme nazionali vigenti nel nostro<br />

Paese.<br />

Invero, sino a qualche anno fa, in mancanza di puntuali interventi legislativi nazionali volti a dare<br />

attuazione al riconoscimento di questo specifico “status”, le situazioni soggettive a esso riconducibili<br />

facevano ingresso nel nostro ordinamento esclusivamente attraverso la norma contenuta all’art.<br />

10, 3° comma della nostra Costituzione 4 .<br />

Se anche tale norma non fa riferimento esplicito allo status di rifugiato e al fondato timore, si riteneva<br />

che l’eccezionalità della situazione del richiedente rifugio rientrasse nell’alveo delle ipotesi richiamate<br />

dalla Costituzione e fosse, pertanto, meritevole di tutela nel nostro ordinamento 5 .<br />

Ciò che assume rilevanza ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, come detto, è che il<br />

soggetto avverta il fondato timore di subire persecuzioni o, avendone già subite, che queste si ripetano.<br />

Per comprendere appieno il termine “persecuzioni” occorre partire dal combinato disposto degli<br />

artt. 1 e 33, 1° comma 6 , della Convenzione di Ginevra: esse devono consistere in un “attentato grave<br />

alla libertà o all’integrità fisica del richiedente”.<br />

Anche la Direttiva CE 2004/83, la quale trova fondamento nello stesso Trattato di Ginevra del 1951,<br />

fornisce preziose indicazioni su cosa debba essere considerato come “persecuzione”: le azioni temute<br />

o subite devono essere intenzionali, continue o sistematiche e devono essere sufficientemente<br />

gravi; anche azioni discriminatorie, che singolarmente non sarebbero idonee a costituire persecuzione,<br />

se ripetute possono dar luogo ad una valida domanda per il riconoscimento dello status<br />

di rifugiato per motivi cumulativi.<br />

Inoltre, allo scopo di fornire una definizione, la più possibile puntuale, del termine “rifugiato”, la<br />

gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo<br />

timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui<br />

aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. Invero, nel<br />

corso degli anni, tale definizione si è arricchita in ragione di ulteriori situazioni soggettive esplicitamente ricondotte alle possibili<br />

ragioni di fondato timore di persecuzioni. In tal senso, la Direttiva 2003/9/CE, che aggiunge la violenza sessuale e altre forme<br />

di violenza derivanti dall’appartenenza a uno dei due sessi; nonché la Direttiva 2004/83/CE, cosiddetta Direttiva qualifiche, che<br />

all’art. 9 (Atti di persecuzione) e all’art. 10 (Motivi di persecuzione) amplia dettagliatamente il significato dei termini contenuti all’art.<br />

1 della Convenzione di Ginevra.<br />

2 In tal senso, Cons. di Stato, sez. IV, 11 luglio 2002, n. 3874.<br />

3 A tal proposito basti pensare alla definizione generica che del diritto d’asilo offre la nostra Carta Costituzionale, a norma della<br />

quale ha il diritto di chiedere asilo in Italia lo straniero “al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche<br />

garantite dalla Costituzione italiana” (art. 10, 3° comma).<br />

4 La norma costituzionale in questione recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà<br />

democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite<br />

dalla legge”.<br />

5 In tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 8048.<br />

6 L’art. 33, rubricato “Divieto di espulsione e di rinvio al confine”, al suo 1° comma recita: “1. Nessuno Stato Contraente espellerà<br />

o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate<br />

a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue<br />

opinioni politiche”.<br />

46


stessa Direttiva CE, dopo aver ribadito il primato dell’art. 1 della Convenzione internazionale del<br />

1951, ne traccia un profilo oggettivo e uno soggettivo, inscindibili l’uno dall’altro nella valutazione<br />

della singola richiesta di riconoscimento.<br />

Dal punto di vista soggettivo, in base a quanto riportato dalla Direttiva, occorre valutare il timore<br />

di essere perseguitato del soggetto richiedente in considerazione della situazione individuale e delle<br />

circostanze personali del soggetto stesso.<br />

Dal punto di vista oggettivo, invece, a venire in rilievo è la fondatezza di quel timore di persecuzioni,<br />

da desumersi attraverso un’indagine accurata, la quale potrà e dovrà tener conto di tutti gli<br />

elementi forniti a supporto della richiesta.<br />

Il timore, infatti, indica che la persona crede o prevede di essere soggetta a persecuzioni; la fondatezza,<br />

invece, richiede vi siano quantomeno “buone ragioni” alla base di quel timore 7 .<br />

È, pertanto, evidente la rilevanza della “componente psicologica” afferente la condizione del richiedente<br />

rifugio; proprio a tal proposito sono intervenuti i principali organismi internazionali e nazionali<br />

competenti in materia, i quali hanno a più riprese ricostruito i presupposti e il contenuto di tale<br />

singolare e delicata condizione personale, fornendo importanti elementi necessari a poter effettuare<br />

una valutazione delle richieste, il più possibile congruente ed equa, da parte dei diversi organi<br />

giudicanti di volta in volta chiamati a decidere 8 .<br />

Sulla scorta di tali interventi, nel 2005 la Commissione nazionale per il Diritto di Asilo, di concerto<br />

con il Ministero degli Interni, ha emanato le “Linee Guida per la valutazione delle richieste di<br />

riconoscimento dello status di rifugiato”, volte a puntualizzare i criteri in base ai quali si debbano<br />

considerare la fondatezza del timore di persecuzioni, le circostanze soggettive del richiedente, nonché<br />

i parametri cui fare riferimento in relazione al Paese d’origine 9 .<br />

In caso di rigetto da parte della Commissione territoriale competente della richiesta di riconoscimento<br />

dello status di rifugiato, il richiedente può peraltro ricorrere in sede giudiziale al fine di far<br />

modificare il provvedimento.<br />

In passato, la materia dello status di rifugiato veniva considerata materia amministrativa e, dunque,<br />

di competenza esclusiva dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato 10 .<br />

47<br />

FOCUS<br />

7 A tal proposito può essere significativo sottolineare che la Direttiva CE in esame stabilisce addirittura che “è irrilevante che il<br />

richiedente possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione,<br />

purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni” (art. 10, 2° comma).<br />

8 A tal proposito rileva senza dubbio quanto evidenziato dall’UNHCR, nel paragrafo 43 del manuale sulle “Procedure e sui criteri<br />

per la determinazione dello status di rifugiato”, in base al quale il timore di persecuzioni in capo al richiedente ben può derivare<br />

dalla circostanza che lo stesso abbia visto perseguitare, e magari uccidere, parenti, amici o persone del proprio gruppo sociale<br />

e/o razziale. Ancora, circa la condizione psicologica del richiedente rifugio, la “Posizione dell’UNHCR sulla richiesta del riconoscimento<br />

dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951, relativa allo status dei rifugiati motivato da un timore di persecuzioni<br />

per ragioni legate all’appartenenza di un individuo in questione ad una famiglia o ad un clan coinvolti in una faida”, stilata<br />

il 17 marzo 2006, specifica ulteriormente quanto già stabilito nel manuale sopra richiamato attraverso la puntualizzazione di altre<br />

possibili e concrete situazioni di fatto, nelle quali il timore di subire persecuzioni può e deve riconoscersi come fondato. Vi si<br />

legge, innanzitutto, che nel contesto specifico delle faide “... è anche necessario tenere presente il contesto culturale della faida, nel<br />

quale le minacce sono interminabili” (paragrafo 5) e si sottolinea che “... il nesso causale... può venire stabilito o attraverso la motivazione<br />

dei perpetratori del danno oppure dalla mancanza discriminatoria di protezione statale...” e che “... è sufficiente che una<br />

delle ragioni indicate dalla Convenzione rappresenti un fattore rilevante ai fini della persecuzione perpetrata. Non è necessario che<br />

costituisca l’unica causa o la principale” (paragrafo 13). Dopo tali premesse, l’UNHCR dichiara che “In caso di faide, un individuo<br />

non viene attaccato indiscriminatamente, ma diviene bersaglio in quanto membro di una determinata famiglia e sulla base di un<br />

codice consolidato nel tempo... gli individui che temono di essere perseguitati nell’ambito di una faida non diventano bersaglio a<br />

causa delle loro azioni, ma a causa di responsabilità attribuite ai loro familiari (vivi o morti che siano)” (paragrafo 14).<br />

9 In base a quanto ivi stabilito, occorre che la valutazione della fondatezza del timore di persecuzioni venga compiuta attraverso<br />

la considerazione delle “circostanze personali del richiedente, come anche di tutti gli elementi riguardanti il Paese d’origine”<br />

(p. 55). La Commissione, inoltre, specifica dapprima in cosa constano le circostanze personali del richiedente, includendovi<br />

“il suo passato, le esperienze, la personalità ed ogni altro fattore personale che potrebbe esporlo a persecuzione” (p. 55). Successivamente,<br />

elenca cosa, invece, debba essere tenuto in considerazione rispetto agli elementi di fatto riguardanti il suo Paese d’origine.<br />

Questi ultimi, si legge nel documento, includono “anche la situazione sociale generale, nonché le condizioni economiche,<br />

la situazioni dei diritti umani la legislazione del Paese, le politiche e le pratiche degli agenti di persecuzione, in particolare verso<br />

le persone nelle stesse condizioni del richiedente” (p. 55).<br />

10 L’art. 5 del decreto legge n. 416/89 prevedeva infatti espressamente la giurisdizione del giudice amministrativo avverso i provvedimenti<br />

di diniego di riconoscimento. Tale norma veniva dapprima abrogata dall’art. 46 della legge n. 40 del 1998 e, successivamente,<br />

l’abrogazione veniva confermata dall’art. 47 del testo unico sull’immigrazione.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

Oggi, invece, i ricorsi avverso le decisioni della Commissione per il riconoscimento dello status di<br />

rifugiato sono divenuti materia di competenza esclusiva del giudice civile, a seguito dell’intervenuta<br />

abrogazione della norma che ne stabiliva la competenza al giudice amministrativo, dell’autorevole<br />

giurisprudenza espressasi sul punto, nonché del risolutivo intervento del legislatore nel 2002 11 .<br />

Va da sé che ogni qual volta il richiedente rifugio sia un minore (accompagnato o non accompagnato)<br />

la valutazione dovrà, a maggior ragione, tener conto della particolare condizione psico-fisica,<br />

anche attraverso l’esame di parametri legati all’età, alla percezione della realtà e alla maturità<br />

del minore richiedente.<br />

3. I richiedenti in età minorile<br />

Come detto, accanto alla normativa generale in materia di rifugiati, laddove il richiedente non abbia<br />

ancora raggiunto la maggiore età, viene in rilevo il copioso impianto giuridico nazionale e sovranazionale<br />

costruito intorno alla tutela dei minori.<br />

La prima norma in tal senso rilevante è l’art. 22 della Convenzione di New York del 1989 sui diritti<br />

del fanciullo, in base alla quale gli Stati aderenti al Trattato si impegnano a garantire ai minori<br />

che richiedano lo stato di rifugiato la protezione necessaria a far sì che possano godere di tutti i diritti<br />

riconosciuti ai minori dalla Convenzione, nonché a collaborare con le organizzazioni internazionali<br />

competenti nella ricerca dei familiari dei minori rifugiati per consentirne il ricongiungimento<br />

con essi. In mancanza di tale ultima possibilità, dovrà essere comunque garantita la protezione<br />

offerta a qualunque altro fanciullo 12 .<br />

È naturale che l’attenzione rivolta ai minori richiedenti rifugio o dichiarati rifugiati diventi ancor più<br />

stringente – e la necessità di tutela si manifesti con maggior forza – nel caso in cui i minori stranieri<br />

siano anche non accompagnati, dunque privi di figure di riferimento responsabili, investite<br />

della loro cura e protezione.<br />

Ciò può ricavarsi, in primis, dall’analisi comparata di altre norme della Convenzione di New York,<br />

le quali possono tutte ricondursi a quella garanzia di protezione richiamata dal citato art. 22: garantire<br />

nella più ampia misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo (art. 6, 2° comma);<br />

assicurare che il fanciullo possa godere del diritto di esprimersi liberamente, dando alle opinioni<br />

dello stesso il giusto peso in relazione alla sua età e al suo grado di maturità (art. 12, 1° comma);<br />

rispettare il diritto del fanciullo alla sua libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 14, 1°<br />

comma); adottare ogni misura appropriata di natura legislativa, amministrativa, sociale ed educati-<br />

11 All’alba dell’entrata in vigore del t.u. imm. nel 1998 e della citata conferma di abrogazione della norma sulla competenza amministrativa<br />

in materia di provvedimenti della Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato, sorgeva infatti contrasto<br />

tra la Suprema Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato. La Cassazione (SS. UU. del 17 dicembre 1999, n. 907) si era pronunciata<br />

nel senso di dover considerare quale diritto soggettivo lo status di rifugiato, facendone discendere in tal modo la competenza<br />

in capo al Tribunale Ordinario. Il Consiglio di Stato (Cons. di Stato, sez. IV, 29 agosto 2002, n. 4336), invece, richiamando<br />

la natura discrezionale del potere da parte dell’amministrazione nell’apprezzamento dei fatti e della loro rilevanza per il riconoscimento<br />

dello status di rifugiato, sosteneva la perdurante competenza del giudice amministrativo in materia. Il contrasto veniva<br />

definitivamente risolto dal legislatore con l’art. 32 della legge n. 189/2002, a norma del quale i ricorsi avverso gli atti della Commissione<br />

territoriale competente per il riconoscimento dello status di rifugiato, sono presentati al Tribunale in composizione monocratica<br />

territorialmente competente.<br />

12 Testualmente, l’art. 22 della Convenzione di New York del 1989 recita: “Gli Stati Parti adottano misure adeguate affinché un<br />

fanciullo, il quale cerca di ottenere lo statuto di rifugiato [...] solo o accompagnato dal padre e dalla madre o da ogni altra persona,<br />

possa beneficiare della protezione e della assistenza umanitaria necessarie per consentirgli di usufruire dei diritti che gli sono<br />

riconosciuti dalla presente Convenzione e dagli altri strumenti internazionali relativi ai diritti dell'uomo o di natura umanitaria<br />

di cui detti stati sono parti. A tal fine, gli Stati Parti collaborano, a seconda di come lo giudichino necessario, a tutti gli sforzi compiuti<br />

dall'organizzazione delle Nazioni Unite e le altre organizzazioni intergovernative o non governative competenti che collaborano<br />

con l'organizzazione delle Nazioni Unite, per proteggere ed aiutare i fanciulli che si trovano in tale situazione e per ricercare<br />

i genitori o altri familiari di ogni fanciullo rifugiato al fine di ottenere le informazioni necessarie per ricongiungerlo alla sua<br />

famiglia. Se il padre, la madre o ogni altro familiare sono irreperibili, al fanciullo sarà concessa, secondo i principi enunciati nella<br />

presente Convenzione, la stessa protezione di quella di ogni altro fanciullo definitivamente oppure temporaneamente privato del<br />

suo ambiente familiare per qualunque motivo”.<br />

48


va per proteggere il fanciullo contro qualsiasi forma di violenza, danno o brutalità fisica o mentale,<br />

abbandono o negligenza (art. 19, 1° comma, prima parte) e, ancor più, riconoscere il diritto di<br />

ogni fanciullo a un livello di vita atto a garantire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale<br />

e sociale (art. 27, 1° comma).<br />

Non ultimo, poi, l’art. 30, il quale puntualizza che “Negli Stati parti in cui esistano minoranze etniche<br />

religiose o linguistiche o persone di origine autoctona, il fanciullo che appartenga ad una di queste<br />

minoranze o che sia autoctono, non deve essere privato del diritto di avere la propria vita culturale,<br />

di professare o praticare la religione o di avvalersi della propria lingua in comune con gli altri<br />

membri del suo gruppo”.<br />

Anche la Convenzione europea su “L’esercizio dei diritti del fanciullo” di Strasburgo del 1996, come<br />

noto, riconosce il diritto del minore, almeno dai dodici anni in poi, di ricevere ogni informazione<br />

pertinente, di essere consultato ed esprimere la propria opinione, di essere informato delle eventuali<br />

conseguenze di tale opinione, come anche di essere informato circa ogni decisione che lo riguardi,<br />

sia nei provvedimenti dinanzi all’autorità giudiziaria che in quelli dinanzi ad altri organi 13 .<br />

L’UNHCR nelle “Linee guida sulle policy e le procedure in materia di minori richiedenti asilo”, stilate<br />

nel febbraio del 1997, ha voluto operare uno specifico riferimento ai minori richiedenti rifugio<br />

non accompagnati, dando indicazioni che nelle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato<br />

venga applicato il criterio dell’esistenza di un “fondato timore” e si presuma che una persona di<br />

sedici o più anni abbia una maturità sufficiente per provare un fondato timore di persecuzione.<br />

Immediatamente dopo tali assunti, il documento specifica ulteriormente che la maturità di un minore<br />

deve normalmente essere valutata tenendo conto dei fattori personali, familiari e culturali inerenti<br />

il caso.<br />

Nel caso di minori stranieri migranti e non accompagnati, spesso sono proprio i familiari ad adoperarsi<br />

affinché i ragazzi lascino il proprio Paese, nella speranza di dar loro una reale possibilità di<br />

salvezza.<br />

Specie in tali circostanze, pertanto, il minore non può non percepire e fare proprio anche il timore<br />

manifestato dai propri genitori e familiari circa le condizioni di pericolo in cui vivrebbe se rimanesse<br />

o fosse rimpatriato nel suo Paese d’origine, come peraltro ribadito anche al Paragrafo 218 14<br />

del manuale sulle “Procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato” dell’UNHCR.<br />

4. Il quadro normativo interno<br />

In Italia, l’attenzione per la protezione dei minori stranieri richiedenti rifugio – e tra questi in particolare<br />

quelli non accompagnati – può ravvisarsi nella legislazione di attuazione delle direttive comunitarie,<br />

nella produzione di direttive e circolari ministeriali, nonché nelle pronunce giurisprudenziali<br />

attraverso le quali si sono negli anni disegnati – e tuttora si stanno disegnando – i contorni<br />

giuridici di tale tutela.<br />

Sono stati istituiti specifici Centri di accoglienza alle frontiere per i richiedenti asilo, con speciali<br />

misure di intervento e tutela in presenza di richieste presentate da minorenni.<br />

Nel testo unico sull’immigrazione – d.lgs. 286/98 e successive modifiche – l’art. 10 dà piena efficacia<br />

al principio di non refoulement escludendo dalle ipotesi di respingimento i soggetti richiedenti<br />

asilo politico [e rifugio, ndr], mentre l’art. 11, comma 5°, prevede l’istituzione di servizi di accoglienza<br />

“ad hoc”. Tale ultima norma, peraltro, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 140 del<br />

2005, attuativo della Direttiva CE 2003/9, è stata affiancata dall’art. 8, commi 3 e 4 di tale decreto,<br />

49<br />

FOCUS<br />

13 Cfr. artt. 3 e 11, Convenzione europea su “L’esercizio dei diritti del fanciullo” di Strasburgo del 1996.<br />

14 Nel paragrafo 218 del manuale sulle “Procedure e sui Criteri per la Determinazione dello status di rifugiato” dell’UNHCR si<br />

legge: “Se vi è motivo di ritenere che i genitori desiderano che il loro bambino viva fuori del Paese di origine, perché temono a ragione<br />

che possa essere perseguitato, si può presumere che il bambino stesso condivida questa paura”.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

in base al quale sono stati attivati interventi mirati di accoglienza per i richiedenti asilo con particolari<br />

esigenze, nonché speciali programmi di protezione per i minori stranieri non accompagnati<br />

richiedenti rifugio.<br />

Significativa, poi, è la procedura istituzionale prevista dall’art. 2, comma 5, del d.p.r. n. 303/2004 15 ,<br />

per il caso di richiesta di asilo e rifugio da parte di minore non accompagnato: in tali casi, infatti,<br />

è prevista la sospensione della domanda ai fini dell’attivazione del procedimento volto alla nomina<br />

di un tutore pubblico per il minore, vietando al contempo il trattenimento dei soggetti non ancora<br />

maggiorenni presso i centri di identificazione o di permanenza temporanea previsti per gli<br />

adulti, in favore di un percorso di protezione e assistenza presso centri di prima accoglienza e comunità<br />

ad hoc.<br />

In attuazione della Direttiva CE 2004/86/CE recante “Norme minime sull’attribuzione, a cittadini di<br />

paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,<br />

nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”, il d.lgs. 251/2007<br />

prevede, agli artt. 26 e 28, il diritto all’istruzione per i minori rifugiati alla pari dei minori di cittadinanza<br />

italiana, nonché al ricongiungimento, se possibile, presso propri familiari o, se non accompagnati,<br />

all’inserimento presso comunità per minori accreditate, richiamando al contempo quanto<br />

previsto circa la cooperazione tra i diversi organismi competenti per la ricerca dei familiari dei minori<br />

stranieri non accompagnati e riconosciuti rifugiati.<br />

In data 3 marzo 2007, inoltre, il Ministero dell’Interno d’intesa con il Ministero della Giustizia ha<br />

emanato la Direttiva su “I minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo”, volta a favorire l’inserimento<br />

dei minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo e rifugio, subito dopo la presa in<br />

carico da parte del Giudice Tutelare, nel Sistema Nazionale di Protezione per Richiedenti Asilo<br />

(PNA) 16 e non, come invece accaduto sino a quel momento, presso una qualsiasi struttura disponibile<br />

sul territorio sino al successivo (tardivo) inserimento nel PNA.<br />

Peraltro, nella stessa Direttiva è posto l’accento anche sulla necessità che il minore straniero venga<br />

informato della possibilità di chiedere asilo e rifugio 17 .<br />

Inoltre, in attuazione della Direttiva 2005/85/CE recante “Norme minime per le procedure applicate<br />

negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”, il d.lgs. n.<br />

25 del 28 gennaio 2008 e successive modifiche ha previsto una serie di norme specifiche per i minori<br />

stranieri richiedenti, al fine di regolarne l’accesso alla presentazione delle domande e al colloquio<br />

dinanzi alla Commissione territoriale competente.<br />

Al riguardo, particolare attenzione va prestata al possibile accertamento dell’età in capo al (sedicente)<br />

minore richiedente asilo.<br />

Il decreto legislativo del 2008, come noto, rappresenta la summa non soltanto delle normative comunitarie<br />

e internazionali, ma anche delle varie direttive e circolari ministeriali che negli ultimi anni<br />

erano state emanate a diversi livelli e con un ritmo a volte incalzante.<br />

15 Il d.p.r. n. 303/2004, “Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato”, infatti, all’art. 2,<br />

comma 5, prevede: “5. Qualora la richiesta di asilo sia presentata da un minore non accompagnato, l’autorità che la riceve sospende<br />

il procedimento, dà immediata comunicazione della richiesta al Tribunale per i minorenni territorialmente competente ai<br />

fini dell’adozione dei provvedimenti di cui agli articoli 346 e seguenti del codice civile, nonché di quelli relativi all’accoglienza del<br />

minore e informa il Comitato per i minori stranieri presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il tutore, così nominato,<br />

conferma la domanda di asilo e prende immediato contatto con la competente questura per la riattivazione del procedimento. In<br />

attesa della nomina del tutore, l’assistenza e accoglienza del minore sono assicurate dalla pubblica autorità del Comune ove si<br />

trova. I minori non accompagnati non possono in alcun caso essere trattenuti presso i centri di identificazione o di permanenza<br />

temporanea”.<br />

16 Il Programma Nazionale Asilo (PNA) – istituito nel luglio 2001 dal Ministero dell’Interno, dall’Alto Commissariato delle Nazioni<br />

Unite per i rifugiati (UNHCR) e dall’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI) – ha lo scopo precipuo di fornire un’adeguata<br />

risposta di assistenza e protezione ai richiedenti asilo e ai rifugiati giunti nel nostro Paese. Può essere considerata la base<br />

del sistema pubblico di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, grazie anche a una rete di progetti territoriali di accoglienza<br />

gestiti da enti locali e del terzo settore coordinati da una Segreteria centrale.<br />

17 L’art. 1 della Direttiva citata, infatti, prevede che al suo arrivo il minore straniero sia messo a conoscenza della possibilità “...<br />

di richiedere asilo...” e invitato “... ad esprimere la propria opinione al riguardo” e a tal fine, prosegue la norma, occorre sia garantita<br />

“... l’assistenza di un mediatore culturale o di un interprete che parli la sua lingua d’origine o quella da lui conosciuta”.<br />

50


L’art. 19 del decreto in esame prevede disposizioni particolari per i minori non accompagnati, ribadendo<br />

la necessità della nomina di un tutore pubblico che affianchi il minore anche per tutta la<br />

durata della procedura dinanzi alla Commissione, prevedendo, se del caso, il rispetto del diritto alla<br />

difesa anche nell’eventuale fase giudiziale 18 . Inoltre, circa la possibilità di sottoporre il minore a<br />

esami non invasivi per il rilevamento dell’età anagrafica, viene stabilita la necessità che lo stesso<br />

ne venga tempestivamente informato, anche al fine di raccogliere il suo consenso, puntualizzando<br />

che un eventuale rifiuto di sottoporsi all’esame non potrà essere ostativo al rigetto della domanda.<br />

Il successivo art. 26, inoltre, conferma la volontà del legislatore di riunire in un unicum le disposizioni<br />

promulgate in passato in materia, riprendendo quasi pedissequamente quanto previsto dall’art.<br />

2, comma 5, del d.p.r. 303/2004, circa l’attivazione della tutela pubblica e del divieto di trattenimento<br />

presso i centri di trattenimento per adulti.<br />

In materia, poi, di ricerca dei propri parenti ed eventuale ricongiungimento del minore rifugiato<br />

con i familiari, il d.lgs. n. 5 del 2007, in attuazione della Direttiva CE 2003/86, ha previsto l’inserimento<br />

nel t.u. sull’immigrazione di una disposizione aggiuntiva: l’art 29 bis, il quale, posto immediatamente<br />

dopo la pur novellata norma sul ricongiungimento familiare tout court, detta lo speciale<br />

regime per il ricongiungimento familiare dei rifugiati.<br />

La norma precisa che la procedura per ricongiungere un proprio familiare da parte di soggetto riconosciuto<br />

rifugiato segue lo stesso iter amministrativo di ogni altro straniero regolarmente soggiornante.<br />

Tuttavia il rifugiato, ai fini dell’ottenimento del nulla osta al ricongiungimento, non dovrà<br />

provare né i requisiti di reddito, né quelli di carattere igienico-sanitario e di idoneità alloggiativa.<br />

È poi previsto un regime probatorio “agevolato” rispetto all’accertamento della parentela con<br />

il familiare che si chiede di ricongiungere. Inoltre, laddove il richiedente sia un minore di diciotto<br />

anni, è consentito l’ingresso e il soggiorno anche degli ascendenti diretti di primo grado, senza le<br />

limitazioni previste dall’art. 29 nel caso di ricongiungimento con i genitori.<br />

5. Riflessioni<br />

Questo breve excursus normativo consente di affermare che nel nostro ordinamento si sta cercando,<br />

almeno su un piano formale, di rendere la tutela dei minori stranieri richiedenti asilo e rifugio<br />

il più possibile rispondente ai princìpi internazionali e comunitari.<br />

L’assunto appare ancor più importante laddove si rifletta sulla circostanza che negli ultimi anni il<br />

fenomeno migratorio minorile è andato aumentando in misura esponenziale e che, pertanto, sono<br />

sempre di più i minori stranieri non accompagnati che giungono nel nostro Paese e chiedono asilo<br />

e rifugio.<br />

Basti pensare, a tal proposito, che nel triennio 2006-2008 le variazioni annuali di richieste di asilo<br />

e rifugio da parte di minori non accompagnati sono state del 250% 19 , con un forte aumento d’incidenza<br />

percentuale sul totale dei minori stranieri presi in carico 20 e notevole aggravio di lavoro delle<br />

Commissioni territoriali di tutto il Paese.<br />

Il dato, in ogni caso, non può – o non dovrebbe – stupire alla luce dei cruenti conflitti mondiali<br />

in corso, specie in Africa e Asia Minore, che costringono centinaia di bambini e ragazzi a fuggire<br />

a causa dei gravi pericoli di torture e abusi, spesse volte aiutati proprio dai loro genitori angosciati<br />

e spaventati.<br />

51<br />

FOCUS<br />

18 Il minore straniero, accompagnato o meno, cui venga rigettata dalla competente Commissione la richiesta di status di rifugiato,<br />

ha infatti il diritto di ricorrere all’Autorità giudiziaria competente per il territorio. Naturalmente, se il minore è accompagnato<br />

dovrà farlo per il tramite dei propri genitori o del parente che ne ha la tutela; se, invece, è non accompagnato sarà onere del tutore<br />

pubblico nominato dal Giudice Tutelare ad adoperarsi al fine di ottenere le necessarie autorizzazioni a ricorrere.<br />

19 Così, in Dipartimento Immigrazione ANCI, Minori stranieri non accompagnati. Terzo Rapporto ANCI 2009, 105-106, pubblicato<br />

a marzo <strong>2010</strong>. Il documento è scaricabile all’indirizzo http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/rapporto_anci_2009<br />

20 Cfr. ibidem, nota 14.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

Non è un caso, del resto, che i maggiori Paesi di provenienza siano la Nigeria, la Somalia, l’Eritrea,<br />

l’Afghanistan e la Costa d’Avorio.<br />

Tuttavia, a fronte del significativo aumento registrato circa le richieste di asilo e rifugio da parte di<br />

minori stranieri non accompagnati, non può non rilevarsi che l’impegno del legislatore non sempre<br />

riesce a tradursi in una concreta attuazione dell’impianto normativo di riferimento, dovendosi<br />

piuttosto riscontrare, nelle prassi di ogni giorno, non poche incongruenze a vari livelli nell’operato<br />

degli addetti ai lavori.<br />

I dati che si registrano in proposito possono apparire preoccupanti nell’ottica delle garanzie di tutela<br />

e protezione tanto declamate a livello sovranazionale. Nei confronti dei minori “più soli” presenti<br />

sul nostro territorio.<br />

Nel 2° Rapporto Supplementare del Gruppo CRC 21 , vengono riportati diversi casi di minori richiedenti<br />

asilo respinti alla frontiera 22 , oltre a grandi difficoltà sul territorio italiano a far accedere i minori<br />

alla procedura d’asilo.<br />

Si tratta di segnalazioni molto gravi operate da diverse organizzazioni di settore le quali hanno fornito<br />

informazioni, anche di recente, al Ministero dell’Interno sia rispetto alla carenza di personale<br />

preparato all’accoglienze di minori stranieri che rispetto alla mancata garanzia del beneficio del dubbio<br />

e alla sommarietà delle visite mediche per gli accertamenti anagrafici; nonché rispetto al rischio<br />

di mancata garanzia di attivazione della procedura, a fronte di richieste verbali di protezione presentate<br />

alle nostre frontiere da ragazzi pur giunti in condizioni ai limiti dell’umana sopravvivenza.<br />

In alcuni casi, le aberranti conseguenze sono state anche quelle di espellere presunti minorenni,<br />

in seguito accertati come tali 23 .<br />

Le criticità sono ancora molte, anche perché princìpi ormai universalmente riconosciuti almeno sulla<br />

carta non riescono spesso a trovare la debita applicazione nelle singole situazioni a causa di evidenti<br />

limiti strutturali e, a volte, culturali riscontrati ai diversi livelli istituzionali.<br />

21 Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in<br />

Italia. 2° Rapporto Supplementare alle Nazioni Unite sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’ infanzia e dell’adolescenza<br />

in Italia, Roma, settembre 2009.<br />

22 È il caso di minori afgani richiedenti asilo che, all’inizio del 2009, come riportato dai mezzi di informazione, sono stati respinti<br />

alle frontiere dei porti italiani per essere rimandati in Grecia, dove peraltro avvengono conclamate e notorie violazioni dei<br />

più elementari diritti umani anche nei confronti dei minori.<br />

23 Cfr. Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, I diritti dell’infanzia cit., cap VIII “Misure<br />

speciali per la tutela dei minori”, 149-150.<br />

52


IL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO NEI PROCEDIMENTI DI RICHIESTA<br />

DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE<br />

Giuseppina Menicucci<br />

Avvocato del Foro di Roma<br />

Chiara Lisanti<br />

Avvocato del Foro di Roma<br />

Il nostro ordinamento giuridico riconosce il diritto di difesa, alla stregua delle numerose convenzioni<br />

sui diritti dell’uomo, meritevole di essere tutelato a prescindere dalla nazionalità del soggetto che<br />

intende esercitarlo. La nostra Costituzione dedica a questo tema l’art. 24 che con chiarezza stabilisce:<br />

“tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è un<br />

diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi<br />

istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni<br />

e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.<br />

Proprio a garanzia di tale fondamentale diritto la legge italiana ha istituito il patrocinio a spese dello<br />

Stato che consente alle persone che non hanno adeguate risorse economiche di usufruire dell’assistenza<br />

legale, ponendo a carico dello Stato il pagamento delle relative spese legali e processuali,<br />

così come liquidate dal giudice al termine del processo. L’istituto del gratuito patrocinio è attualmente<br />

disciplinato dal d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, ovvero dal testo unico delle disposizioni legislative<br />

e regolamentari in materia di spese di giustizia 1 .<br />

L’ambito di applicazione dell’istituto si estende alle cause civili, penali, amministrative, contabili, tributarie;<br />

agli affari di volontaria giurisdizione, quali la separazione personale, l’affidamento dei figli,<br />

i provvedimenti in materia di regolamentazione della potestà genitoriale, le cause relative alla fase<br />

dell’esecuzione; ai processi relativi all’applicazione di misure di sicurezza, di prevenzione e nei procedimenti<br />

di competenza del Tribunale di sorveglianza.<br />

Per quanto attiene, invece, al limite reddituale previsto al momento per l’ammissione al gratuito<br />

patrocinio, la legge stabilisce che, per beneficiarne, l’interessato non debba disporre di un reddito<br />

superiore a Euro 10.628,16 (considerato il reddito imponibile Irpef risultante dall’ultima dichiarazione)<br />

2 .<br />

Relativamente alle categorie di soggetti che possono accedere al trattamento, la legge assicura tale<br />

diritto non soltanto ai cittadini italiani, ma anche ai cittadini comunitari e alle persone provenienti<br />

da Paesi extra UE, nonché agli apolidi 3 .<br />

È importante, per il tema che ci interessa, riportare quanto stabilisce l’art. 119 del sopra citato d.p.r.<br />

115/2002 che dispone “Il trattamento previsto per il cittadino italiano è assicurato, altresì, allo straniero<br />

regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del<br />

53<br />

FOCUS<br />

1 Lazzaro, Di Marzio, Le spese nel processo civile, Milano, <strong>2010</strong>; Spinzo, Palombari, Manuale pratico a spese dello Stato, Santarcangelo<br />

di Romagna, 2009.<br />

2 Decreto del Ministero della Giustizia del 20 gennaio 2009, in Gazzetta Ufficiale, 27 marzo 2009, n. 72.<br />

3 Algostino, Il diritto di difesa dello straniero non abbiente: una legislazione incerta ed inadeguata rispetto ai nuovi flussi migratori,<br />

in Giurisprudenza italiana, I, 1996; Potetti, L. n. 134 del 2001: patrocinio a spese dello Stato a favore dello straniero, in<br />

Cass. pen. 2002, n. 154; Potetti, Lo straniero e l’apolide nella L. n. 217 del 1990, in Cass. pen. 2000, n. 11; Pizzicati, Alpa, Gazzola,<br />

Vademecum in materia di patrocinio a spese dello Stato a cura della Commissione per il patrocinio a spese dello Stato, Forlì,<br />

2009.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

fatto oggetto del processo da instaurare e all’apolide, nonché ad enti o associazioni che non perseguono<br />

scopi di lucro e non esercitano attività economica” 4 .<br />

Di recente la normativa introdotta in attuazione della Direttiva comunitaria 2005/85 sulle procedure<br />

di asilo, ovvero il d.lgs. n. 25 del 28 gennaio 2008, ha regolamentato espressamente le ipotesi di applicazione<br />

dell’istituto in questione. All’art. 16, infatti, il decreto recita: “Il cittadino straniero può farsi<br />

assistere, a proprie spese, da un avvocato. Nel caso di impugnazione delle decisioni in sede giurisdizionale,<br />

il cittadino straniero è assistito da un avvocato ed è ammesso al gratuito patrocinio ove<br />

ricorrano le condizioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.<br />

Tale previsione va senza dubbio interpretata alla luce di quanto già stabilito da carte e convenzioni<br />

di carattere internazionale in materia di diritto alla difesa e alla difesa gratuita.<br />

In particolare si richiama la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà<br />

fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con legge n. 848 del 4 agosto<br />

1955) che all’art. 6, comma 3, lettera c) dispone che “ogni accusato ha diritto di difendersi personalmente<br />

o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un<br />

difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi<br />

della giustizia”.<br />

Anche l’art. 14, comma 3, lettera d) del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (reso<br />

esecutivo in Italia con legge n. 881 del 25 ottobre 1977) stabilisce ugualmente il diritto dell’imputato<br />

ad avere assegnato per legge un difensore d’ufficio gratuitamente, qualora non disponga di mezzi<br />

sufficienti per remunerarlo personalmente.<br />

Dall’esame della normativa comunitaria e italiana appare, pertanto, pacifico il tenore costituzionale<br />

del diritto alla difesa e di conseguenza prioritaria la previsione di strumenti utili al suo reale ed effettivo<br />

esercizio. Va da sé che l’effettività del riconoscimento allo straniero del diritto alla tutela giurisdizionale<br />

dipende in buona parte dalla disciplina sul gratuito patrocinio.<br />

Tale principio, se già ampiamente riconosciuto su un piano teorico, in realtà necessiterebbe di una<br />

maggiore tutela proprio in quei casi in cui risultano gravemente compromessi i diritti fondamentali<br />

delle persone straniere, quale il diritto alla salvaguardia della propria vita e incolumità fisica, ovvero<br />

ricorrano situazioni di grave pericolo e minaccia alla persona umana.<br />

Tali condizioni di rischio interessano, per lo più, gli stranieri richiedenti asilo e protezione umanitaria,<br />

una categoria particolare di individui per i quali il nostro ordinamento prevede un espresso divieto<br />

di espulsione in quanto persone “che possono essere oggetto di persecuzione per motivi di razza,<br />

sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche di condizioni personali e sociali” (art. 19<br />

d.lgs. n. 286 del 1998) e, per tali ragioni, soggetti particolarmente a rischio se non specificamente<br />

tutelati 5 .<br />

L’attuale quadro normativo italiano contempla diverse misure di protezione internazionale, anche su<br />

espressa previsione comunitaria, nei riguardi di tale tipologia di persone.<br />

I richiedenti protezione internazionale, infatti, anche se in precedenza destinatari di un provvedimento<br />

di espulsione o di respingimento, costituiscono una categoria protetta di immigrati, anche ai<br />

fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato 6 .<br />

Ciò si evince chiaramente dal testo dell’art. 16 del d.lgs. n. 25 del 2008, che oggi riconosce al richiedente<br />

protezione internazionale uno status legale di soggiorno e attribuisce espressamente allo stesso,<br />

qualora abbia ricevuto un diniego, l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che lo straniero<br />

deve richiedere secondo modalità specifiche, anche in deroga alle disposizioni generali contenute<br />

nel d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115.<br />

L’art. 26, comma 4, del d.lgs. n. 25 del 28 gennaio 2008 prevede innanzitutto che “Il Questore, nei<br />

4 Così anche il d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998 e l’art. 16, co. 1, l. 91/1992 che dispone “l’apolide che risiede legalmente nel territorio<br />

della Repubblica è soggetto alla legge italiana per quanto si riferisce all’esercizio dei diritti civili ed agli obblighi del servizio<br />

militare”.<br />

5 Zanrosso, Diritto dell’immigrazione, Napoli, 2008<br />

6 D’Ascia, Diritto degli stranieri e immigrazione, Milano, 2009.<br />

54


casi di trattenimento o di accoglienza rilascia l’attestato nominativo che certifica la qualità di richiedente<br />

protezione internazionale, ovvero negli altri casi un permesso di soggiorno valido per tre mesi<br />

rinnovabile”.<br />

Detta normativa consente ai richiedenti asilo di non sottostare ai medesimi requisiti formali previsti<br />

per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato per i cittadini e per gli stranieri regolarmente residenti<br />

con un diverso titolo di soggiorno, in particolare possono derogare alle disposizioni sulla<br />

produzione della documentazione necessaria ad accertare la veridicità di quanto indicato dal richiedente<br />

ai fini dell’ammissione all’istituto, almeno fino a quando non si è definita la procedura e la<br />

successiva fase dei ricorsi giurisdizionali.<br />

Tale deroga muove dalla constatazione che il rigore procedurale nel pretendere l’esibizione di una<br />

certificazione dettagliata da parte del rifugiato costringerebbe lo stesso a rivolgersi alle autorità diplomatiche<br />

o consolari del Paese di origine da cui è fuggito per cause gravi, ostacolando di fatto il<br />

suo diritto di difesa.<br />

Il richiedente di regola motiva la stessa istanza di protezione internazionale sulla base di una grave<br />

e comprovata sfiducia, e il più delle volte un vero e proprio timore, verso le autorità del proprio<br />

Paese di origine, a causa del quale lo straniero avrebbe grandi e giustificate difficoltà a contattarle<br />

ai fini della produzione documentale. Spesso, infatti, sono proprio le istituzioni di provenienza a impedire<br />

allo straniero l’esercizio delle libertà democratiche per le quali il richiedente invoca la tutela<br />

e la protezione del Paese di accoglienza.<br />

Proprio in tale prospettiva va interpretata la recente circolare emessa il 22 marzo <strong>2010</strong> dal Ministero<br />

della Giustizia, con la quale si è escluso l’obbligo a carico dell’autorità giudiziaria e dell’autorità<br />

di pubblica sicurezza di informare la rappresentanza diplomatica o consolare più vicina della pendenza<br />

di un provvedimento in materia di libertà personale ove si tratti di persone che abbiano presentato<br />

una domanda di asilo, di stranieri ai quali sia stato riconosciuto lo status di rifugiato o nei<br />

cui confronti sono state adottate misure di protezione temporanea per motivi umanitari 7 .<br />

La stessa Corte Costituzionale ha sottolineato la specificità della tutela dei richiedenti asilo stabilendo<br />

per gli stessi, con l’ordinanza n. 144 del 2004, l’esclusione dell’onere di allegare alla domanda di<br />

ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato il documento di identità, attraverso documenti<br />

rilasciati dai Paesi di provenienza, ritenendo invece sufficiente l’indicazione delle generalità anagrafiche<br />

e la dimostrazione delle condizioni di reddito tramite semplici autodichiarazioni sostitutive 8 .<br />

I princìpi espressi dalla Corte Costituzionale costituiscono una novità importante rispetto a quanto<br />

in precedenza previsto dal d.p.r. 115/2002 di cui la Corte ha decretato l’illegittimità costituzionale<br />

laddove, all’art. 76, stabiliva quale causa di inammissibilità della domanda di gratuito patrocinio la<br />

mancanza dell’indicazione del codice fiscale dello straniero o di quello dei suoi familiari.<br />

La Corte, argomentando ampiamente la sua decisione con chiari riferimenti a princìpi sia di rango<br />

costituzionale che a norme internazionali largamente condivise, ha sottolineato che “la disposizione<br />

censurata, inoltre, si porrebbe in contrasto con due carte fondamentali dei diritti umani, così violando<br />

indirettamente l’art. 10 della Costituzione, giacché, nel subordinare all’indicazione del codice<br />

fiscale la fruizione del beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato anche per i soggetti<br />

introdottisi irregolarmente nel territorio della Repubblica (non in grado di adempiere a tale onere),<br />

essa violerebbe il diritto previsto in favore di ‘ogni accusato’ – dall’art. 6, terzo comma, lettera c),<br />

della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma<br />

il 4 novembre 1950, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – a ‘poter essere assistito<br />

gratuitamente da un avvocato di ufficio’, pregiudicando altresì il diritto dell’imputato ‘a vedersi assegnato<br />

un difensore d’ufficio gratuitamente, qualora non abbia i mezzi per pagarlo’, contemplato<br />

dall’art. 14, terzo comma, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, reso<br />

esecutivo dalla legge 25 ottobre 1977, n. 881” (...).<br />

55<br />

FOCUS<br />

7 Circolare del Ministero della Giustizia del 22 marzo <strong>2010</strong>, Dipartimento per gli affari di giustizia-Direzione generale della giustizia<br />

penale Prot. m_dg.DAG.22/03/<strong>2010</strong>.0042893.U.<br />

8 Corte Cost., ordinanza n. 144/2004.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

Inoltre secondo il Tribunale di Roma 9 , che ha rimesso al vaglio della Corte la questione, ricorrerebbe<br />

“anche una duplice violazione dell’art. 3 della Costituzione, giacché sotto un primo profilo – individuandosi<br />

quale tertium comparationis la disciplina prevista dall’art. 142 del medesimo d.p.r. n.<br />

115 del 2002 per ‘l’ammissione al gratuito patrocinio’ dello straniero nel procedimento amministrativo<br />

di espulsione – sussisterebbe una ‘palese disparità di trattamento’ rispetto all’ipotesi in cui questi<br />

sia sottoposto a procedimento penale, in quanto, mentre ‘allo straniero irregolare è assicurata<br />

una difesa tecnica a spese dello Stato per difendersi da un provvedimento che, se confermato, ne<br />

provocherebbe, al massimo, la definitiva espulsione dallo Stato’, nel processo penale, in cui ‘gli interessi<br />

in gioco sono molto più consistenti’ (venendo in rilievo una sanzione che potrebbe portare<br />

l’interessato ad essere privato anche della libertà personale), al medesimo ‘non è assicurato analogo<br />

trattamento’”.<br />

La Corte Costituzionale, in ragione di tali presupposti, ha ritenuto opportuno che la domanda di ammissione<br />

al gratuito patrocinio per il cittadino straniero sia da considerarsi vincolata soltanto all’indicazione<br />

degli elementi di cui all’art. 4 d.p.r. n. 605/1973, ovvero del cognome, nome, luogo e data<br />

di nascita, sesso, domicilio fiscale estero.<br />

L’indirizzo della Corte ha trovato spazio e conferma in diverse successive pronunce di merito. Anche<br />

di recente il Tribunale di Catania, con un decreto di gennaio <strong>2010</strong> 10 , intervenendo su un provvedimento<br />

di rigetto del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di una domanda di ammissione al gratuito<br />

patrocinio presentata da un richiedente asilo sulla base di una asserita mancanza di documentazione<br />

di riconoscimento dello stesso, ha sottolineato che “i cittadini extracomunitari richiedenti<br />

asilo o protezione umanitaria si trovano sovente in condizioni tali da dover fuggire dai paesi di provenienza<br />

senza trovar seco documenti di sorta, trovandosi in stato di necessità o addirittura possono<br />

non avere nessuna possibilità di possedere documenti provenenti da una qualsivoglia organizzazione<br />

statale”.<br />

Con la stessa pronuncia il Tribunale di Catania ha rammentato che “le previsioni contenute negli artt.<br />

3, 20 21 e 26 del d.lgs. n. 25/2008 contemplano espressamente il diverso trattamento degli stranieri<br />

richiedenti asilo privi di documenti o sin anche in possesso di documenti falsi prevedendone il trattenimento<br />

nei centri per il tempo necessario, appunto, all’identificazione e che regolamentano proprio<br />

la situazione di mancanza di documenti attestanti le generalità allo scopo di consentire allo<br />

straniero extracomunitario di accedere dapprima alle procedure amministrative e poi a quelle giurisdizionali<br />

previste dal decreto legislativo più volte richiamato, in vista della tutela dei loro diritti<br />

umani fondamentali riconosciuti alla persona umana in quanto tale (Corte Cost. 306/2008) nell’ambito<br />

dei quali va ricompreso lo status (...) sicché si impone un’interpretazione di tali norme costituzionalmente<br />

orientata che tenga conto della peculiare situazione in cui versano gli extracomunitari<br />

richiedenti lo status o quelli di protezione sussidiaria ed umanitaria al momento dell’arrivo<br />

nel territorio della Repubblica italiana”.<br />

Anche la giurisprudenza amministrativa più recente, seppure con riferimento a casi decisi sulla base<br />

della normativa relativa alle procedure di asilo e protezione sussidiaria precedenti al 3 marzo<br />

2008, e dunque prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 25 del 2008, ha riconosciuto l’ammissione<br />

al patrocinio a spese dello Stato disposta dai Consigli dell’Ordine in favore di richiedenti asilo dopo<br />

il diniego 11 .<br />

Nonostante tali enunciati siano ampiamente riconosciuti sulla carta, non sempre trovano una piena<br />

ed effettiva realizzazione in quelle situazioni ove i diritti di difesa della persona umana in quanto<br />

tale richiederebbero la massima estensione.<br />

Spesso, infatti, proprio la rapidità delle procedure di espulsione e di riesame dei dinieghi delle istanze,<br />

le difficoltà di reperire un’adeguata rappresentanza legale, l’assenza di mediatori culturali nei luo-<br />

9 Tribunale di Roma, ordinanza del 15 luglio 2003 nel procedimento penale a carico di Rimbu Juliano, iscritta al n. 897 del registro<br />

ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2003.<br />

10 Tribunale di Catania, I sez. civ., decreto del 28 gennaio <strong>2010</strong>, relativamente alla causa iscritta al n. 6176/09 R.G.<br />

11 TAR Puglia, sez. Lecce, 19 maggio 2008.<br />

56


ghi di ricezione e trattazione delle domande di asilo, nonché l’immediatezza dell’esecuzione delle<br />

decisioni di rimpatrio forzato, impediscono di fatto un esercizio tempestivo da parte dei richiedenti<br />

lo status dei loro diritti di difesa e un rapido accesso al patrocinio a spese dello Stato.<br />

Va peraltro precisato che l’ammissione al gratuito patrocinio con riferimento ai richiedenti asilo rimane<br />

tutt’oggi limitato alla fase di impugnazione dinanzi alle autorità giurisdizionali, intendendosi<br />

escluso in quella precedente di prima istanza alla Commissione territoriale per il riconoscimento dello<br />

status di rifugiato ove lo straniero è per lo più solo e sprovvisto di fatto di assistenza legale 12 .<br />

Alla luce di ciò si comprende bene come, sebbene nello specifico la disciplina in materia di gratuito<br />

patrocinio abbia subìto negli ultimi anni sostanziali correttivi sia grazie all’intervento della Corte<br />

Costituzionale, sia attraverso le modifiche normative in attuazione delle direttive comunitarie, rimangano<br />

tuttora numerose le problematiche legate più in generale all’accesso e all’effettività della difesa<br />

tecnica in relazione alla procedura della richiesta di asilo.<br />

57<br />

FOCUS<br />

12 Relativamente alle nuove disposizioni introdotte in materia vedi Morozzo della Rocca, Immigrazione e cittadinanza. Profili<br />

normativi e orientamenti giurisprudenziali, Torino, 2008.


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

GENERE, STRATIFICAZIONE CIVICA E DIRITTO ALL’UNITÀ FAMILIARE: LINEE<br />

DI TENDENZA IN EUROPA, TRA INTEGRAZIONE E CONTROLLO 1<br />

Paola Bonizzoni<br />

Ricercatrice presso il Dipartimento di Studi sociali e politici dell’Università degli Studi di Milano<br />

La migrazione familiare sta ricevendo un’attenzione crescente in ambito comunitario e rivela un<br />

aspetto strategico sia nelle politiche d’integrazione che nella disciplina dei flussi in ingresso, così<br />

come nel fervente dibattito sul multiculturalismo.<br />

In molte discussioni correnti (in ambito accademico, politico e nel discorso pubblico) la famiglia<br />

immigrata tende sempre più a essere vista come un ostacolo – più che come una risorsa – per l’integrazione:<br />

sede di tradizioni patriarcali e relazioni di genere o problematiche intergenerazionali<br />

(specie nelle migrazioni iniziate da uomini), incapace di fornire adeguata cura e supporto ai propri<br />

membri deboli (specie nelle migrazioni iniziate da donne).<br />

Le famiglie migranti diventano così attori, almeno in parte responsabili del fallimento educativo e<br />

scolastico dei propri figli, e delle traiettorie criminali o devianti 2 a cui tendono spesso a essere associati<br />

i giovani di origine straniera.<br />

A questo genere di visioni se ne contrappone una opposta, che tende invece a celebrare la supposta<br />

maggiore coesione sociale espressa dalle famiglie straniere (e che si riflette nei loro contenuti<br />

tassi di separazione e divorzio, nella loro vivace fertilità...), che fa da contraltare e argine al<br />

“declino” della famiglia “tradizionale” a cui si assiste in Occidente 3 .<br />

Per la sua rilevanza numerica la migrazione familiare è sempre più spesso percepita come migrazione<br />

“non richiesta” e accettata a malincuore, in quanto – si suppone – composta da migranti non<br />

qualificati, e dunque sempre più in contraddizione con politiche migratorie selettive in termini di<br />

specifiche esigenze di particolari settori del mercato del lavoro.<br />

Non è dunque una coincidenza se molte delle “nuove” politiche di integrazione sperimentate in<br />

Europa (quali corsi o test di integrazione obbligatori) tendano sempre più a focalizzarsi sui familiari<br />

ricongiunti: più che fornire un supporto di tipo pratico o di orientamento, questo genere di<br />

misure è più che altro volto alla promozione di una certa idea di “buon cittadino” 4 .<br />

Questo trend (non equamente diffuso in tutti i Paesi dell’Unione) trova uno dei suoi pionieri nell’Olanda<br />

che, con l’introduzione di test d’integrazione “preventivi”, ha espresso la necessità di “preparare”<br />

i familiari al Paese ricevente, legittimando tali misure come strumenti di lotta contro i ma-<br />

1 L’articolo, la cui pubblicazione è autorizzata dall’Autrice, è tratto da Bonizzoni, Kraler, Gender, civic stratification and the right<br />

to family life: problematising immigrants’ integration in the EU, in International Review of Sociology, vol. 20, 1/<strong>2010</strong>.<br />

2 Qualcuno forse ricorderà le affermazioni del presidente Sarkozy che, commentando le violente rivolte nelle banlieu parigine,<br />

ne rintracciò le origini sociali nella poligamia e in simili usanze tribali proprie delle famiglie immigrate in Francia (Nava, I violenti di<br />

Parigi? Figli della poligamia, in “Corriere della Sera”, 17 novembre 2005; è consultabile all’indirizzo http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/11_Novembre/17/poligami.shtml).<br />

3 Fukuyama, Immigrants and family values. Crossing borders: an international reader, 1998, 450.<br />

4 Schmidt, Good Citizens, Good Subjects and Good Lives: Transnational Marriages and Marriage Migration Policy in Denmark.<br />

Relazione tenuta alla IMISCOE Cluster B3 conference “Domestic Politics beyond Borders: Political Transnationalism in Contexts of<br />

Migration”, Varsavia, 23-25 April 2007.<br />

58


trimoni forzati. Queste si rivolgono proprio a quei futuri sposi identificati come “a rischio”, cioè<br />

quelli meno dotati di capitale culturale ed economico: i test d’integrazione si rivelano così un efficace<br />

strumento di selezione dei flussi in ingresso, dietro il malcelato scopo di limitare gli aspetti<br />

negativi della migrazione familiare.<br />

La migrazione familiare deriva gran parte della sua rilevanza dal suo essere diventata uno dei principali<br />

(in alcuni casi, l’unico) canale di ingresso legale in molti Paesi europei: nei Paesi del Nord<br />

Europa (a eccezione del Regno Unito, che ancora applica il reclutamento di un ingente numero di<br />

lavoratori dall’estero) è ormai di fatto l’unica modalità di ingresso legale accessibile, ma anche nei<br />

Paesi dell’Europa meridionale (che più frequentemente risentono dell’andamento altalenante delle<br />

regolarizzazioni di ingenti quantità di manodopera irregolare) gli ingressi per ricongiungimento<br />

hanno mostrato una crescita esponenziale.<br />

La migrazione familiare è però un fenomeno assai diversificato. Nei Paesi di più antica immigrazione,<br />

la migrazione matrimoniale (cioè la formazione di nuove famiglie con un partner giunto dall’estero)<br />

ha ormai superato la forma più “classica” del ricongiungimento di famiglie già formate e<br />

separate dalla partenza del “primo migrante”. Al contrario, in Europa meridionale la migrazione matrimoniale,<br />

spesso praticata da seconde (o terze) generazioni è (ancora?) molto meno significativa<br />

e il ricongiungimento riveste una maggiore rilevanza. L’aumento della migrazione matrimoniale è<br />

poi frutto sia della crescita dei matrimoni transnazionali (tra immigrati e partner provenienti dal<br />

Paese d’origine) che di quella dei matrimoni misti (quindi tra persone prive di un background migratorio<br />

e partner provenienti dall’estero).<br />

Il diritto all’unità familiare: un diritto contestato<br />

CONTRIBUTI<br />

Il diritto all’unità familiare è stato spesso considerato uno strumento volto alla promozione del benessere<br />

e dell’integrazione dei migranti nelle società ospiti, anche in virtù di considerazioni di carattere<br />

umanitario 5 . In quanto diritto, il ricongiungimento incarna una concezione di famiglia come<br />

bene superiore che gli Stati sono tenuti in qualche modo a tutelare. Pertanto, l’obbligo da parte di<br />

questi di garantire e promuovere la vita e l’unità familiare di cittadini e migranti è ampiamente sancito<br />

nella legislazione internazionale, ad esempio nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo<br />

(1948), nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo (1950), nel Trattato internazionale sui<br />

diritti civili e politici (1966), e così via. L’affermazione del diritto al ricongiungimento nell’ambito<br />

della legislazione comunitaria limita la capacità degli Stati di contrastare questo tipo di ingressi: come<br />

nel caso dei rifugiati, i princìpi liberali interferiscono così con l’autorità degli Stati nel controllare<br />

i propri confini e la composizione della propria popolazione.<br />

Eppure, solo in ambito comunitario il diritto al ricongiungimento è riconosciuto come un vero e<br />

proprio diritto, sottoposto a minime condizionalità. Nel caso dei cittadini di Paesi terzi, gli Stati dispongono<br />

ancora di un notevole margine di controllo, esercitato attraverso l’imposizione di una serie<br />

di condizioni espresse in termini di requisiti di integrazione, in primis reddito e alloggio. Al contrario<br />

di quanto molti si aspettavano, la legislazione europea ha fallito nel promuovere una crescente<br />

armonizzazione delle politiche degli Stati membri e tanto meno li ha spinti ad applicare standard<br />

meno rigidi.<br />

La Direttiva europea sui ricongiungimenti familiari (2003/86/EC), con le sue 27 clausole di deroga,<br />

fonda standard comuni estremamente deboli e, ironicamente, ha addirittura portato molti Paesi a<br />

irrigidire ulteriormente i propri requisiti per conformarsi alla direttiva stessa.<br />

5 ILO, International Labour Conference, 87th Session, Migrant Workers, Report III (1B), Ginevra, giugno 1999, para 472; è<br />

consultabile all’indirizzo http://www.ilo.org/public/english/standards/relm/ilc/ilc87/r3-1b6.htm#Section%20II.%20Migration%20and%20the%20family;<br />

Lahav, National, Regional and International Constraints to Family Reunification: A European Response,<br />

relazione presentata al Meeting of Experts “Family Reunification in European Union and the USA”, tenutosi presso la<br />

University of Konstanz Center for International and European Law on Immigration and Asylum, giugno 1999. È consultabile all’indirizzo<br />

http://migration.uni-konstanz.de/content/index.php?lang=en<br />

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AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

Il diritto al ricongiungimento che ne emerge è ancora molto lontano dagli standard applicati ai cittadini<br />

comunitari (consolidati nella direttiva 2004/38/EC), diritto che si fonda peraltro su una definizione<br />

di famiglia assai più ampia. I cittadini comunitari che non stanno vivendo (o non hanno<br />

recentemente vissuto) in uno Stato membro, non sono però tutelati da questa direttiva, né da quella<br />

che tutela i cittadini di Paesi terzi.<br />

Di conseguenza vi è uno scarto tra differenti categorie di cittadini che godono di un set di diritti<br />

differenziato, una frammentazione delle appartenenze e dei diritti che Morris 6 chiama “stratificazione<br />

civica”. Contrariamente da quanto auspicato da coloro i quali intravedevano una configurazione<br />

postnazionale della cittadinanza 7 , espressa in quel set di diritti sociali e politici che viene concesso<br />

a prescindere dello status di cittadino, la cittadinanza a pieno titolo ancora conta. Il caso del<br />

diritto all’unità familiare mostra proprio come diritti fondamentali della persona continuino a essere<br />

mediati dalla cittadinanza nazionale, più che garantiti a prescindere da questa.<br />

Cosa fanno gli Stati per regolare la migrazione familiare?<br />

Nel regolare la migrazione familiare, gli Stati non si limitano a esercitare un controllo di tipo quantitativo<br />

sui flussi in ingresso. Al contrario, contribuiscono attivamente a definire e a disciplinare la<br />

stessa vita familiare dei migranti, distinguendo chi è considerato un membro legittimo da chi non<br />

lo è, oltre che fissando una pluralità di standard che i richiedenti (e i destinatari delle domande di<br />

ricongiungimento) devono rispettare. I familiari ricongiungibili si limitano, in genere, ai soli membri<br />

della famiglia nucleare (coniuge legalmente sposato e figli minori) anche se, su questo aspetto,<br />

le regole variano significativamente da Paese a Paese, oltre che in ragione dello status legale<br />

del richiedente 8 .<br />

Le condizioni poste ai richiedenti sono molteplici, e vanno dalla necessità di disporre di un reddito<br />

e di un alloggio adeguato (che varia al variare del numero di persone che si vogliono introdurre<br />

nel Paese), alla dimostrazione dell’effettiva coabitazione futura così come del fatto che i legami<br />

sociali siano “attivi” (ad esempio, in alcuni Paesi può risultare problematico effettuare un ricongiungimento<br />

dopo separazioni eccessivamente prolungate).<br />

Il concetto di dipendenza è cruciale nelle politiche migratorie familiari e viene definita prevalentemente<br />

in tre modi: una dipendenza di natura legale, che si esercita rendendo il migrante ricongiunto<br />

“legato” allo status del suo sponsor; una dipendenza di natura finanziaria, che si esprime nella<br />

necessità, da parte del richiedente (più che della famiglie stessa), di disporre di un reddito minimo<br />

o addirittura (anche se questo tende a diventare sempre meno comune), proibendo l’accesso<br />

al mercato del lavoro da parte del familiare ricongiunto; infine, la dipendenza formulata in termini<br />

di dipendenza sociale (esigenze di cura), nella misura in cui definisce i bambini ricongiungibili<br />

sotto una certa soglia d’età, o limitando l’ingresso dei genitori anziani a quei casi in cui questi non<br />

abbiano altri mezzi di supporto o parenti in grado di sostenerli.<br />

Queste politiche si fondano sulla previa classificazione dei richiedenti in categorie (migranti di breve<br />

o lungo periodo, cittadini nazionali, comunitari o di Paesi terzi, rifugiato o titolari di protezione<br />

temporanea...) attiva nel Paese ricevente, che porta a una stratificazione del diritto al ricongiungimento.<br />

La stratificazione dei diritti che discende dalla pluralità di status descritta bene da Morris 9 ,<br />

6 Morris, Managing migration: Civic stratification and migrants’ rights, Londra, 2002.<br />

7 Soysal, Limits of citizenship: Migrants and postnational membership in Europe, Chicago, 1994.<br />

8 Anche se un numero crescente di Stati membri ha offerto al possibilità di ricongiungere anche partner non sposati coinvolti<br />

in un’unione stabile, così come coppie dello stesso sesso, la relazione matrimoniale rimane la definizione più comunemente accettata<br />

di relazione legittima. Per figli si intendono in genere i figli biologici, quelli adottati e i figli del partner, ma in alcuni Paesi<br />

questi non possono essere ricongiunti se hanno più di 15 anni (Danimarca) o 16 (Germania). Se però lo sponsor è un cittadino<br />

europeo che gode dei diritti di mobilità, la famiglia legittima si allarga, includendo, ad esempio, anche gli ascendenti e i figli<br />

sino ai 21 anni.<br />

9 Morris, Managing migration, cit., parla di stratificazione civica come di quella gerarchia di diritti stratificati che derivano da<br />

processi di inclusione ed esclusione frutto delle politiche migratorie.<br />

60


genera dunque più diritti al ricongiungimento: non c’è un unico diritto al ricongiungimento a cui<br />

tutti i migranti hanno accesso, al contrario, i familiari ricongiungibili, così come i requisiti imposti,<br />

variano – a livello formale – al variare della nazionalità e dello status del richiedente ma anche –<br />

a livello informale – al variare di altri vettori di stratificazione sociale, come il genere o la classe.<br />

Condizioni e restrizioni in termini di politiche migratorie vincolano le scelte dei migranti e hanno<br />

concrete ricadute sulle loro strategie migratorie e relazioni familiari, ricadute che non si limitano<br />

alle loro più ovvie e scontate conseguenze (poter vivere o meno con alcuni membri della propria<br />

famiglia). Questi condizionamenti, al contrario, operano spesso in modo molto più sottile e indiretto.<br />

Ad esempio, la necessità di disporre di un reddito minimo può scoraggiare i migranti nel tentare<br />

traiettorie di mobilità professionale o geografica (arrischiandosi a cambiare lavoro, città o a lavorare<br />

part-time). Inoltre, il prolungamento della separazione (che deriva dalla difficoltà a maturare<br />

i requisiti richiesti) può comportare conseguenze sgradevoli sulla qualità della vita familiare stessa,<br />

specie quando a sperimentare la separazione sono familiari bisognosi di cure come gli anziani<br />

e i bambini, come mostrano molte recenti ricerche sociali sulle esperienze di vita familiare transnazionale<br />

e di cura a distanza 10 . Di fatto, la vita familiare transnazionale si presenta ormai come un<br />

assetto diffuso e stabile in molti Paesi europei, specie in quelli dell’area mediterranea: in questo<br />

senso, il tema del ricongiungimento dei figli in età avanzata e dopo prolungate separazioni solleva<br />

importanti questioni in termini di integrazione.<br />

Le politiche migratorie hanno, dunque, importanti ricadute sulla vita familiare: da un lato in quanto<br />

impattano sul modo in cui la vita familiare è concretamente vissuta, dall’altro perchè offrono importanti<br />

indicazioni circa il modo in cui questa invece “debba” essere vissuta 11 . Queste ricadute devono<br />

poi essere lette alla luce delle relazioni, dei ruoli e degli stereotipi di genere, un aspetto che,<br />

però, sinora ha ricevuto molta poca attenzione. Il concetto di dipendenza espresso da queste politiche<br />

presume spesso un partner femminile, secondo un modello di ricongiungimento “tradizionale”<br />

che non trova però più corrispondenza con la realtà migratorie di Paesi che hanno visto aumentare<br />

in questi anni le donne migranti per ragioni di lavoro 12 . Anche se numericamente parlando<br />

sono ancora più le donne a essere titolari di permessi di soggiorno di tipo familiare, sono molti<br />

gli uomini che ormai migrano a seguito delle mogli, anche se non necessariamente secondo procedure<br />

di ricongiungimento formale. Nonostante l’attenzione che la riflessione femminista ha da<br />

sempre dedicato all’arbitraria distinzione tra sfera produttiva e riproduttiva, questa continua a informare<br />

le politiche migratorie e di ricongiungimento, anche se in maniera meno diretta ed esplicita<br />

che in passato 13 : le migrazioni familiari sono etichettate come “improduttive” e un potenziale<br />

peso per le finanze dello Stato, mal si conciliandosi poi con le crescenti esigenze di selezione professionale<br />

(mirate a ben specifiche esigenze di certi segmenti del mercato del lavoro) a cui molti<br />

Paesi stanno iniziando a orientare le proprie politiche di migrazione lavorativa.<br />

Mutamenti e tendenze nella migrazione familiare contemporanea<br />

CONTRIBUTI<br />

Una delle più rilevanti e recenti tendenze nella migrazione familiare dei nostri giorni è l’aumento<br />

dei matrimoni misti e transnazionali.<br />

Questo aumento riflette chiaramente la transizione di gran parte degli Stati riceventi da una fase di<br />

reclutamento a una di insediamento, che si accompagna alla crescita delle seconde (e talvolta terze)<br />

generazioni. L’aspettativa tacita (in parte informata da una prospettiva di tipo assimilazionista)<br />

era che il tasso di matrimoni misti sarebbe aumentato nel tempo e che, al contrario, quella di ma-<br />

10 Vedi, ad esempio, Bonizzoni, Famiglie Globali. Le frontiere della maternità, Torino, 2009.<br />

11 Strasser et al., Doing Family. Responses to the constructions of ‘the migrant family’ across Europe, in The History of the Family<br />

14, 2, 2009, 165-176.<br />

12 Bhabha, Shutter, Women’s movement: women under immigration, nationality and refugee law, Stoke-on-Trent, 1994.<br />

13 van Walsum, Spijkerboer, Women and immigration law: new variations on classical feminist themes, Londra, 2007.<br />

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AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

trimoni endogami e transnazionali sarebbe andata verso un progressivo esaurimento. Anche se un<br />

certo aumento dei matrimoni interetnici può di certo essere osservata tra le seconde generazioni,<br />

questo è molto meno significativo del previsto. In particolare, la continua preferenza, da parte di<br />

alcuni gruppi etnico-nazionali, nel praticare unioni matrimoniali con partner conosciuti all’estero<br />

(invece che coetnici conosciuti sul territorio) è una fonte di controversia politica.<br />

Il matrimonio transnazionale è un fenomeno contestato perché si innesta su catene migratorie non<br />

ancora spente in grado di mobilitare un numero significativo di ingressi (vi è dunque una preoccupazione<br />

di tipo quantitativo), ma anche perché contraddittorio sul piano dell’integrazione: sintomo<br />

di mancata integrazione relazionale e associato a pratiche pericolose ed esotiche – quali il matrimonio<br />

combinato o forzato – incompatibili con gli orientamenti culturali vigenti. Il fatto che i matrimoni<br />

combinati o forzati siano spesso confusi (rispetto alla definizione del grado di coercizione<br />

che di volta in volta li caratterizza) nel discorso (e nell’azione) pubblica, ha fatto sì che il tema dei<br />

“matrimoni etnici” diventasse un tema di crescente controllo in diversi Paesi dell’Unione: così le<br />

politiche migratorie diventano il principale strumento di lotta contro i matrimoni forzati o combinati<br />

14 . Di nuovo, emerge il genere come istanza intorno a cui si gioca il dilemma multiculturale: la<br />

lotta contro i matrimoni forzati si legittima, infatti, in termini di protezione ed emancipazione di<br />

giovani donne vittime del controllo patriarcale visto come tipico di certe culture.<br />

I matrimoni binazionali, che coinvolgono coniugi provenienti dall’estero e cittadini dei Paesi membri,<br />

sono a loro volta significativamente aumentati nel tempo, come effetto di processi di globalizzazione<br />

che coinvolgono in misura crescente carriere scolastiche e professionali, del turismo e dello<br />

sviluppo di agenzie di intermediazione che contribuiscono a creare un vero e proprio mercato<br />

matrimoniale globale.<br />

Di nuovo il genere caratterizza questi matrimoni che coinvolgono donne “ordinate per posta”, spesso<br />

inquadrate in una prospettiva di trafficking. Al contempo i matrimoni binazionali sono spesso<br />

sospettati di frode, tanto più nel caso in cui i migranti sono uomini, le cui relazioni con donne native<br />

tendono a essere più frequentemente interpretate come migrazioni da lavoro mascherate.<br />

Conclusioni<br />

I risultati del progetto comparato europeo da cui abbiamo tratto queste riflessioni 15 mostrano come<br />

la capacità da parte dei migranti di ricostituire le proprie famiglie all’estero e di riprodursi a livello<br />

transnazionale sia sempre più stratificata: in questo senso, le politiche di ricongiungimento debbono<br />

essere viste in relazione alla proliferazione, frammentazione e polarizzazione degli status che<br />

vengono attribuiti ai migranti e a quel coacervo di diritti loro garantiti (in termini di ammissione,<br />

lavoro, continuità della residenza, diritti sociali, protezione dall’espulsione e così via).<br />

Le condizioni di natura economica imposte ai fini del ricongiungimento, la definizione restrittiva<br />

dei legami familiari considerati ammissibili e la concretezza delle pratiche burocratiche necessarie<br />

all’attivazione della procedura rendono il godimento di questo diritto estremamente ineguale. Nell’elaborare<br />

le condizioni che permettono ai migranti di ricongiungersi ai propri familiari andrebbe<br />

posta una maggiore attenzione alla diversa posizione sociale di coloro i quali ne fanno richiesta:<br />

in particolare, il requisito delle risorse ha diverse ricadute per donne e uomini, in modo particolare<br />

quando queste hanno bimbi piccoli al Paese.<br />

14 Ad esempio l’età al matrimonio per sponsor e coniuge è stata elevata in Danimarca, Germania, Olanda e Regno Unito dietro<br />

il fine dichiarato di proteggere le ragazze da matrimoni forzati. Di fatto, questo ha permesso di ridurre significativamente la quota<br />

di ingressi per ragioni familiari.<br />

15 I risultati del progetto comparato “Civic Stratification, Gender, and Family Migration Policies in Europe” possono essere consultati<br />

sul sito http://research.icmpd.org/<br />

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1. Premessa<br />

Il diritto all’unità familiare relativo ai cittadini extracomunitari ha trovato completa regolamentazione<br />

nel testo unico sull’immigrazione (in seguito t.u. imm.) – d.lgs. 286/98 e successive modifiche –<br />

sin dalla l. 40/98 (poi confluita nel citato t.u.), che si era posta l’obiettivo di dar vita a una normativa<br />

organica in materia di immigrazione.<br />

Il testo unico, infatti, dedica l’intero suo titolo IV al “Diritto all’unità familiare e tutela dei minori”<br />

(artt. 28-33), oltre ad altre importanti norme, sparse nell’intero articolato, poste a presidio delle famiglie<br />

e dei minori immigrati.<br />

Naturalmente le menzionate disposizioni sono state dettate nel solco dei princìpi costituzionali, comunitari<br />

e internazionali in materia (peraltro in continua evoluzione).<br />

Tuttavia hanno sofferto – come del resto tutta la disciplina sull’immigrazione – di significative deroghe<br />

a opera delle numerosissime circolari ministeriali che, a fisarmonica, hanno (ampliato ma) più<br />

spesso ristretto, per contingenze anche più strettamente “politiche”, la portata del diritto in violazione<br />

dell’art. 10 c. 2 Costituzione, che riserva alla legge la condizione giuridica dello straniero, in conformità<br />

delle norme e dei trattati internazionali.<br />

Nell’ultimo decennio le direttive comunitarie e la giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte<br />

europea dei diritti dell’uomo hanno plasmato significativamente la materia, mettendone in luce<br />

l’insieme dei diritti fondamentali dell’uomo che la caratterizza. Contemporaneamente il legislatore<br />

nazionale, riformando a più riprese il t.u. imm. (in particolare con la l. 189/02), ha messo mano anche<br />

alle norme in esame, e non solo per uniformarle alla legislazione europea, realizzando una successione<br />

di leggi di non facile applicazione e interpretazione, come conferma anche l’oscillante giurisprudenza<br />

sia di legittimità che di merito.<br />

Il risultato è un quadro frammentario che, da ultimo, sembra far prevalere le istanze di sicurezza e<br />

di ordine pubblico e di controllo delle frontiere anche sul delicatissimo terreno della famiglia e dei<br />

minori.<br />

2. Le fonti del diritto all’unità familiare e il superiore interesse del minore<br />

CONTRIBUTI<br />

IL DIRITTO ALL’UNITÀ FAMILIARE DEI CITTADINI EXTRACOMUNITARI E LA TUTELA DEI<br />

MINORI (CENNI) DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEL “PACCHETTO SICUREZZA”,<br />

CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA L. 94/09, ALLE CIRCOLARI MINISTERIALI<br />

APPLICATIVE E ALLA RECENTE GIURISPRUDENZA<br />

Paolo Oddi<br />

Avvocato del Foro di Milano e membro dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione (A.S.G.I.)<br />

Oltre ai fondamentali princìpi sanciti dalla Costituzione italiana (artt. 29-31), dalla Convenzione europea<br />

per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 8) – ratificata e resa<br />

esecutiva con l. 848/55 –, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 7 e 9), dalla<br />

Convenzione sui diritti del fanciullo – ratificata e resa esecutiva con l. 176/91 –, rilevano le menzionate<br />

disposizioni contenute nel t.u. imm., in particolare quelle del titolo IV (artt. 28-33), nonché<br />

l’art. 4, c. 4, ultimo periodo (limiti all’ingresso per lo straniero per il quale è stato chiesto il ricongiungimento);<br />

l’art. 5, c. 5 e c. 5 bis (limiti in materia di revoca e rinnovo del permesso di soggiorno<br />

per famiglia); l’art. 13, c. 2 bis (obbligo di bilanciamento in caso di adozione di decreto di espul-<br />

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AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

sione nei confronti rumenodi straniero che ha esercitato il diritto all’unità familiare) e c. 13 (non necessità<br />

dell’autorizzazione al reingresso per lo straniero espulso ex art. 13, c. 2, lettere a e b, poi beneficiario<br />

del ricongiungimento familiare).<br />

Con riferimento a queste ultime disposizioni va sottolineato che le stesse hanno subìto significative<br />

modifiche a seguito del recepimento della Direttiva 2003/86/CE – recepita con d.lgs. 5/2007 – in tema<br />

di ricongiungimento familiare; normativa comunitaria questa che costituisce un primo tentativo<br />

di armonizzare le norme dei singoli ordinamenti dei Paesi membri nel senso di garantire maggiormente<br />

la stabilizzazione delle famiglie di immigrati in territorio europeo.<br />

Altre due disposizioni meritano di essere qui segnalate per la loro valenza generale e di principio.<br />

L’art. 19, c. 2, lettere a), c) e d), stabilisce un espresso divieto di espulsione nei confronti dei minori<br />

di anni 18, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi (lett. a); nei confronti degli stranieri<br />

convinti con parenti entro il secondo grado (vedi infra, modifiche ex l. 94/09) o con il coniuge<br />

di nazionalità italiana (lett. c); delle donne in stato di gravidanza (e dei loro mariti conviventi dopo<br />

la sent. 376/00 Corte Cost.) o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono (lett. d).<br />

Di grande importanza – a dimostrazione di come il legislatore del 1998 ritenesse assolutamente prioritaria<br />

la tutela dei minori – riveste l’art. 28 c. 3 t.u. imm., secondo cui “in tutti i procedimenti amministrativi<br />

e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all’unità familiare e riguardanti<br />

i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del minore,<br />

conformemente a quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del<br />

fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della l. 27 maggio 1991, n. 176”.<br />

Infine vanno considerati in particolar modo gli artt. 143, 144, 116 codice civile – con riferimento a<br />

quest’ultimo ha pesantemente inciso la riforma ex l. 94/09, introducendo l’obbligo di essere in possesso<br />

del permesso di soggiorno per contrarre matrimonio in Italia (vedi infra) –; l’art. 33 della l.<br />

218/95; il d.p.r. 399/99 (regolamento di attuazione del t.u. imm.), come modificato dal d.p.r. 334/04<br />

(in particolare art. 6 -Visti per ricongiungimento familiare e familiare al seguito).<br />

Si precisa che oggetto del presente articolo è la disciplina dell’unità familiare dei cittadini extracomunitari,<br />

poiché ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro della UE si applicano<br />

le disposizioni del d.lgs. 6 febbraio 2007 n. 30 (attuazione della Direttiva 2004/38/CE relativa al<br />

diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari – a prescindere dalla loro nazionalità – di circolare<br />

e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), successivamente modificato in<br />

senso restrittivo (dopo il grave fatto di cronaca dell’autunno 2007 a Roma che vide protagonista un<br />

cittadino romeno 1 ) con d.lgs. n. 32/08. Brevemente si aggiunga che in ogni caso il principio comunitario<br />

della libera circolazione dei cittadini dei Paesi membri della UE si riflette positivamente anche<br />

sui loro familiari, qualunque sia la loro provenienza, e che, essenzialmente, anche questi ultimi<br />

godono di maggiori garanzie rispetto ai familiari dei cittadini extracomunitari.<br />

3. Titolari e beneficiari del diritto all’unità familiare. Il procedimento, le garanzie e le azioni esperibili<br />

in caso di “impedimenti” all’unità familiare<br />

a) Il diritto all’unità familiare e i suoi titolari<br />

Per l’art. 28 c. 1 t.u. imm. “il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti<br />

dei familiari stranieri è riconosciuto, alle condizioni previste dal presente testo unico, agli stranieri<br />

titolari di carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo,<br />

cfr art. 9) o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno rilasciato per motivi di<br />

lavoro subordinato o autonomo, ovvero per asilo, per studio, per motivi religiosi o per motivi familiari”.<br />

Gli ingressi per motivi di famiglia non sono “contingentati” come quelli per lavoro subordinato, au-<br />

1 Il 30 ottobre 2007 il caso di Giovanna Reggiani, violentata e uccisa da un romeno nei pressi della stazione ferroviaria di Tor<br />

di Quinto, sconvolse l’opinione pubblica e sollevò polemiche sulla sicurezza in città.<br />

64


CONTRIBUTI<br />

tonomo o studio, nell’ambito delle politiche d’ingresso attraverso i decreti flussi, di emanazione governativa,<br />

a loro volta strutturati nelle cosiddette quote d’ingresso.<br />

Titolari sono anche i genitori naturali residenti all’estero con i figli minori già regolarmente soggiornanti<br />

in Italia (art. 28 c. 5 t.u. imm., cosiddetto ricongiungimento a rovescio). Se nella formulazione<br />

originaria di detta norma si consentiva al genitore di dimostrare di essere in possesso dei requisiti<br />

(oggettivi) di alloggio e reddito (di cui al c. 3 dell’art. citato) entro un anno dall’ingresso in Italia (disposizione<br />

quest’ultima in linea con la sent. 203/97 Corte Cost. che rimarcava il diritto al soggiorno<br />

del genitore straniero extracomunitario per ricongiungersi al figlio, considerato minore secondo la<br />

legislazione italiana, legalmente residente e convivente in Italia con l’altro genitore, ancorché non<br />

unito al primo in matrimonio), l’ultimo atto del “pacchetto sicurezza” – e cioè la l. 94/09 – modifica<br />

detta disposizione, prevedendo che detto ingresso sia subordinato alla preventiva dimostrazione<br />

del possesso dei requisiti di cui all’art. 29 c. 3, con la precisazione che a tal fine “si tiene conto del<br />

possesso di tali requisiti da parte dell’altro genitore”.<br />

Il ricongiungimento familiare dei rifugiati è disciplinato opportunamente da apposita disposizione<br />

(art. 29 bis t.u. imm), introdotta nel t.u. imm. dal d.lgs. 5/07 (di recepimento della direttiva europea<br />

sul ricongiungimento) che, se per quanto riguarda i beneficiari rinvia alla norma generale (vedi infra),<br />

per ciò che concerne i requisiti oggettivi stabilisce che non si debba applicare l’art. 29 c. 3 cit.,<br />

e cioè non è richiesta la dimostrazione del possesso dell’alloggio e del reddito. Tale norma di favore<br />

tiene conto delle maggiori difficoltà in cui versano i rifugiati e dell’oggettivo pericolo che corrono<br />

i loro familiari rimasti nei Paesi di origine, motivo per cui si cerca di agevolare il procedimento<br />

di ricongiungimento che li riguarda.<br />

Anche l’eventualità che il rifugiato non possa fornire documenti ufficiali attestanti i vincoli familiari,<br />

in ragione del suo status, ovvero della mancanza di un’autorità riconosciuta o della presunta inaffidabilità<br />

dei documenti rilasciati dall’autorità locale, è considerata dalla norma (art. 29 bis c. 2), che<br />

in tali casi consente alle nostre rappresentanze consolari di rilasciare “certificazioni ai sensi dell’art.<br />

49 d.p.r. 5 gennaio 1967, n. 200, sulla base di verifiche ritenute necessarie, effettuate a spese degli<br />

interessati. Può essere fatto ricorso, altresì, ad altri mezzi atti a provare l’esistenza del vincolo familiare,<br />

tra cui elementi tratti da documenti rilasciati da organismi internazionali ritenuti idonei dal<br />

Ministero degli esteri”. Viene altresì precisato che il rigetto della domanda “non può essere motivato<br />

unicamente dall’assenza di documenti probatori”.<br />

Infine, se il rifugiato è un minore non accompagnato, è consentito l’ingresso e il soggiorno, ai fini<br />

del ricongiungimento, degli ascendenti diretti di primo grado (art. 29 bis c. 3).<br />

b) I beneficiari del diritto all’unità familiare<br />

È proprio il novero dei cosiddetti “ricongiungibili” che ha subìto più modifiche dall’entrata in vigore<br />

del t.u. imm. a oggi, nel senso di una progressiva riduzione dei familiari per i quali si può avviare<br />

la pratica del ricongiungimento.<br />

In particolare il d.lgs 160/08 (parte del “pacchetto sicurezza”) è intervenuto – restringendone la portata<br />

– sul d.lgs 5/07 che aveva parzialmente ri-allargato le maglie dei familiari beneficiari, a seguito<br />

del recepimento della direttiva europea sui ricongiungimenti familiari (la 2003/86/CE).<br />

Il d.lgs 160/08 ha modificato l’art. 29, comma 1, t.u.imm. stabilendo che possono essere ricongiunti:<br />

a. il coniuge non legalmente separato e di età non inferiore ai 18 anni;<br />

b. i figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l’altro<br />

genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso;<br />

c. figli maggiorenni, qualora per ragioni oggettive non possano provvedere alle proprie indispensabili<br />

esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che comporti invalidità totale;<br />

d. genitori a carico qualora non abbiano altri figli nel Paese d’origine o di provenienza, ovvero genitori<br />

ultrasessantacinquenni, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati<br />

gravi motivi di salute.<br />

Il c. 2 precisa che si considerano minori ai fini del ricongiungimento i figli di età inferiore ai 18 an-<br />

65


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

ni al momento della presentazione dell’istanza. I minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono<br />

equiparati ai figli.<br />

Chiaramente non ricongiungibili sono i partner non sposati, uniti nelle varie forme di convivenza riconosciute<br />

da molti Paesi della UE o da altri Paesi, siano essi di sesso diverso o dello stesso sesso;<br />

ma qui rileva la totale assenza di una legislazione in materia nel nostro Paese, malgrado i timidi tentativi<br />

(falliti) di riforme in tal senso 2 .<br />

La micro-riforma operata dal d.lgs. 160/08 introduce, all’art. 29, il comma 1 bis, di notevole portata,<br />

per il quale qualora gli stati familiari, di cui al c. 1, lett. b), c) e d), non possano essere documentati<br />

mediante certificati o attestazioni rilasciati da competenti autorità straniere, in ragione della mancanza<br />

di un’autorità riconosciuta o comunque quando sussistono fondati dubbi sull’autenticità della<br />

predetta documentazione, le rappresentanze diplomatico-consolari devono procedere al rilascio<br />

delle certificazioni sulla base del Dna, effettuato a spese degli interessati.<br />

Detta norma lascia alquanto perplessi, sollevando dubbi di costituzionalità in ordine alla concezione<br />

“riduttivistica” – e cioè meramente biologica – della famiglia, subordinando il ricorso obbligatorio<br />

al test del Dna in presenza anche solo di “dubbi” circa la validità della documentazione estera<br />

prodotta (con profili di contrarietà anche alla disciplina di cui alla l. 218/95) e attribuendo un largo<br />

margine di discrezionalità alla PA in materia di diritti soggettivi.<br />

Infine va segnalata un’ipotesi di rilascio di visto di ingresso per familiare al seguito – art. 29 c. 4 –,<br />

di scarsissima applicazione pratica a causa delle “resistenze” frapposte dalle nostre rappresentanze<br />

(sic!), secondo cui è consentito l’ingresso al seguito dello straniero titolare di carta di soggiorno o<br />

di un visto d’ingresso per lavoro subordinato relativo a contratto di durata non inferiore a un anno,<br />

o per lavoro autonomo non occasionale, o per studio o per motivi religiosi, dei familiari con i quali<br />

è possibile attuare il ricongiungimento, a condizione che ricorrano i requisiti di disponibilità di alloggio<br />

e di reddito di cui al comma 3.<br />

c) Le condizioni e il procedimento di ricongiungimento<br />

Le condizioni oggettive per poter accedere all’istituto del ricongiungimento sono disciplinate dall’art.<br />

29 c. 3, e consistono essenzialmente nell’essere il richiedente in possesso di idoneo alloggio e di<br />

reddito sufficiente al mantenimento del familiare.<br />

Circa il primo requisito (art. 29, c. 3, lett. a), la l. 94/09 interviene riformulando la norma in oggetto,<br />

prevedendo che lo straniero che chiede il ricongiungimento debba dimostrare la disponibilità di<br />

un alloggio “conforme ai requisiti igenico-sanitari, nonché di idoneità abitativa, accertati dai competenti<br />

uffici comunali”. Rispetto al passato si abroga il riferimento ai “parametri previsti dalle leggi<br />

regionali di edilizia residenziale pubblica”, attribuendo ai soli uffici comunali (non più anche alle<br />

Asl) il compito di accertare sia “l’idoneità igenico-sanitaria” sia quella “abitativa”. Tuttavia, circa<br />

quest’ultima, l’assenza di riferimenti a criteri oggettivi e verificabili (i parametri minimi previsti dalle<br />

leggi regionali) comporta una totale discrezionalità in capo agli enti locali in ordine alla sua definizione.<br />

Circa il requisito del reddito, il comma 2, lettera b), del citato articolo è stato novellato dal d.lgs<br />

160/08 e attualmente prevede che sia “non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale per ogni<br />

familiare da ricongiungere. Per il ricongiungimento di due o più figli di età inferiore agli anni 14 o<br />

per il ricongiungimento di due o più familiari dei titolari dello status di protezione sussidiaria è richiesto,<br />

in ogni caso, un reddito non inferiore al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale. Ai<br />

fini della determinazione del reddito si tiene conto anche del reddito annuo complessivo dei familiari<br />

conviventi con il richiedente”.<br />

E sempre con il citato d.lgs. 160/08 viene aggiunta una norma (comma 3 bis) per il solo ricongiungimento<br />

del genitore ultrasessantacinquenne, ovvero l’essere quest’ultimo titolare di un’assicurazione<br />

sanitaria o di altro titolo idoneo a garantire la copertura di tutti i rischi nel territorio nazionale,<br />

2 Cfr. Bonini-Baraldi, Convivente di fatto e permesso di soggiorno per motivi familiari: fenomenologia di una discriminazione,<br />

in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2/2009, 79 ss.<br />

66


CONTRIBUTI<br />

ovvero la sua iscrizione al S.S.N. previo pagamento di un contributo il cui importo è da determinarsi<br />

da parte dei Ministeri competenti e da aggiornarsi con cadenza biennale.<br />

Il procedimento amministrativo di ricongiungimento familiare – art. 29 c. 7 t.u. imm. – si definisce<br />

“a formazione complessa”, poiché caratterizzato dall’insieme di diversi sub-procedimenti: la prima<br />

fase ha inizio con l’inoltro – oggi per via telematica (i moduli sono disponibili sul sito del Ministero<br />

dell’Interno, www.interno.it) – della domanda di nulla osta al ricongiungimento familiare allo<br />

Sportello unico per l’immigrazione presso la Prefettura del luogo di dimora del richiedente.<br />

Compito di detto Sportello è, da un lato, acquisire dalla Questura il parere sull’insussistenza dei motivi<br />

ostativi all’ingresso dello straniero nel territorio nazionale, dall’altro, di verificare la sussistenza<br />

dei requisiti di cui al citato comma 3 (alloggio, reddito, assicurazione/iscrizione al S.S.N. per il genitore<br />

con più di 65 anni).<br />

In ordine ai “motivi ostativi” all’ingresso per lo straniero per il quale è richiesto il ricongiungimento,<br />

l’art. 4, comma 3, ultimo periodo – come modificato dal d.lgs. 5/07 – stabilisce che non è ammesso<br />

in Italia “quando rappresenta una minaccia concreta e attuale per l’ordine e la sicurezza<br />

dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli<br />

alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”.<br />

L’aggiunta di questo periodo se, da una parte, ha attenuato l’estrema severità dei motivi che ostano<br />

all’ingresso da parte degli extracomunitari in generale (basta, ad esempio, l’avere riportato in Italia<br />

una sola condanna anche “patteggiata” per uno dei reati di cui all’art. 380, commi 1 e 2, c.p.p. per<br />

vedersi negare il visto d’ingresso) – circoscrivendo all’attualità e alla concretezza della minaccia che i<br />

potenziali ricongiunti determinano per l’Italia o un Paese dell’area Schengen –, dall’altra, ha attribuito<br />

un enorme potere discrezionale alla PA nello stabilire quando si è in presenza di detta fattispecie.<br />

La prima fase si conclude con il rilascio (o il diniego) del nulla osta al ricongiungimento.<br />

La seconda fase compete alla nostra rappresentanza consolare nel Paese di residenza del familiare da<br />

ricongiungere che, a fronte dell’esibizione del nulla-osta da parte di quest’ultimo, rilascia il visto d’ingresso<br />

per ricongiungimento familiare, subordinandolo “all’effettivo accertamento dell’autenticità (...)<br />

della documentazione comprovante i frapporti di parentela, coniugio, minore età o stato di salute”.<br />

All’autorità consolare – come chiarito anche dall’art. 6 del d.p.r. 394/99, dopo le modifiche introdotte<br />

dal d.p.r. 334/04 – compete dunque la mera verifica dell’autenticità dei documenti attestanti i rapporti<br />

di parentela.<br />

Sul punto, oltre alle complesse problematiche che il sopra citato art. 29, comma 1 bis, t.u. imm. (ricorso<br />

obbligatorio a spese degli interessati, in certi casi, al test del Dna) introduce, va evidenziata<br />

la spinosa questione di diritto inter-temporale circa le istanze pendenti al momento dell’entrata in<br />

vigore delle menzionate modifiche.<br />

Sul punto alcune interessanti e recenti pronunce evidenziano come “la fase consolare sia del tutto<br />

estranea all’accertamento dei requisiti sostanziali per poter accedere al ricongiungimento, ponendosi<br />

questo come diritto soggettivo perfetto esercitato nel momento di presentazione dell’istanza” 3 .<br />

Lo stesso Ministero dell’Interno, d’intesa con il Ministero degli Affari Esteri, con circolare esplicativa<br />

n. 4660 del 28 ottobre 2008 ha stabilito, con riferimento all’entrata in vigore del d.lgs. 160/08, che<br />

in assenza di norme transitorie le domande già istruite prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo<br />

ricadono del decreto nella disciplina previgente.<br />

d) Le garanzie procedimentali e le azioni esperibili in caso di “impedimenti” all’unità familiare.<br />

Il divieto di espulsione ex art. 19 c. 2 t.u. imm.<br />

L’originario comma 8 dell’art. 29 prevedeva che, trascorsi 90 giorni dalla richiesta di nulla osta, l’interessato<br />

– in caso di silenzio dello Sportello unico – potesse ottenere il visto d’ingresso direttamente<br />

dalle rappresentanze consolari, dietro esibizione della copia degli atti contrassegnata dal medesimo<br />

ufficio, da cui risultasse la data di presentazione della domanda e della relativa documentazione.<br />

3 Vedi Corte d’Appello di Firenze, sentenza 12 giugno 2009 (proc. 283/09 V.G.); Corte d’Appello di Milano, decreto 8 gennaio<br />

<strong>2010</strong> (proc. n. 753/09).<br />

67


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

L’importanza di quest’unica ipotesi di silenzio-assenso prevista dal t.u. imm., non casualmente associata<br />

al fondamentale diritto all’unità familiare, aveva trovato significative “resistenze” nell’amministrazione;<br />

tuttavia con i provvedimenti del “pacchetto sicurezza” esplicitamente si interviene per<br />

“svuotarla”, prima raddoppiando da 90 a 180 i giorni previsti per il rilascio del nulla osta, poi con<br />

la l. 94/09 abrogando definitivamente detta fondamentale garanzia a presidio dei tempi certi del procedimento.<br />

A complicare quest’ultimo – e proprio in ordine alla sua durata – si aggiunga l’introduzione della<br />

procedura telematica di inoltro delle domande, che anziché accelerarlo ha finito per renderlo ancor<br />

più lento e “macchinoso” (infatti una volta inoltrata via internet la domanda è necessario attendere<br />

la prenotazione di un appuntamento davanti allo Sportello unico al solo fine di depositare la richiesta<br />

documentazione).<br />

Invariata, fortunatamente, la previsione di cui all’art. 30, c. 6, t.u. imm. in base alla quale, in caso di<br />

impedimenti in materia di unità familiare (diniego di nulla osta, di permesso di soggiorno per motivi<br />

familiari, di visto per ricongiungimento, “nonché contro gli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa<br />

in materia di diritto all’unità familiare”), l’interessato può presentare ricorso al Tribunale<br />

in composizione monocratica del luogo in cui risiede, il quale provvede, sentito l’interessato,<br />

nei modi di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. Decisiva la previsione secondo cui il decreto che accoglie<br />

il ricorso può disporre il rilascio di visto anche in assenza del nulla osta. Va ricordato che gli atti del<br />

procedimento sono esenti da imposta di bollo e di registro e da ogni altra tassa. In quanto azione<br />

volta all’accertamento di diritto soggettivo, il contestato provvedimento non è sottoposto a termine<br />

di impugnazione 4 .<br />

Infine, la previsione di cui all’art. 19 (Divieti di espulsione e di respingimento), secondo cui sono<br />

inespellibili, oltre ai minori e alle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita<br />

del figlio (cfr. supra sub 1), “gli stranieri conviventi con i parenti entro il secondo grado o con il coniuge,<br />

di nazionalità italiana”. Nella formulazione procedente alla modifica apportata a questa norma<br />

dalla l. 94/09 erano tutelati dal rischio espulsione i parenti “entro il quarto grado”, poiché si riconosceva<br />

l’indiscutibile dato sociologico delle cosiddette catene micro-migratorie e per questo si<br />

riteneva dovesse essere prevalente la stabilizzazione delle famiglie “allargate”, anche a garanzia dell’integrazione<br />

dei singoli cittadini extracomunitari.<br />

e) Il permesso di soggiorno per motivi familiari<br />

Questa tipologia di permesso è disciplinata dall’art. 30, c. 1, t.u. imm. È rilasciato dalla Questura:<br />

a. allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto d’ingresso per ricongiungimento familiare o<br />

con visto d’ingresso al seguito del proprio familiare, nei casi previsti dall’art. 29, o con visto d’ingresso<br />

per ricongiungimento con figlio minore;<br />

b. agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto<br />

matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o comunitari, ovvero con cittadini stranieri<br />

regolarmente soggiornanti;<br />

c. al familiare straniero regolarmente soggiornante, in possesso dei requisiti per il ricongiungimento<br />

con cittadino italiano, comunitario, o straniero regolarmente soggiornante. In tal caso il permesso<br />

di soggiorno del familiare è convertito in permesso di soggiorno per motivi familiari. La<br />

conversione può essere richiesta entro un anno dalla data di scadenza del titolo di soggiorno originariamente<br />

posseduto dal familiare.<br />

Quest’ultima ipotesi, che si definisce “coesione familiare”, rappresenta un’importante garanzia a tutela<br />

del familiare che potrebbe aver perso la regolarità del soggiorno e al quale tuttavia è consentito<br />

il mantenimento.<br />

Qualora detto cittadino sia un rifugiato, si prescinde dal possesso di un valido permesso di soggiorno<br />

da parte del familiare.<br />

4 Per maggiori approfondimenti si permetta di rinviare a Oddi, Diritto all’unità familiare dal Testo unico immigrazione fino al<br />

“pacchetto sicurezza”, in Ventiquattrore avvocato, Monografia Immigrazione, dic. 2009, 25.<br />

68


Il permesso di soggiorno per famiglia è rilasciato altresì al genitore straniero, anche naturale, di minore<br />

italiano residente in Italia (art. 30, c. 1, lett. d), a condizione che non sia stato privato della potestà<br />

genitoriale secondo la legge italiana.<br />

La questione del matrimonio tra cittadino straniero e cittadino italiano è affrontata dall’art. 30, c. 1<br />

bis, e, dall’agosto scorso, anche dalla l. 94/09 (art. 1, c. 15, vedi infra).<br />

Ai sensi del citato comma – introdotto nel t.u. dalla l. 189/02 – il permesso di soggiorno rilasciato<br />

ex art. 30, c. 1, lett. b) “è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è<br />

seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole”. Anche il d.lgs. 5/07 è intervenuto<br />

in proposito, aggiungendo che “la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno<br />

di cui al comma 1, lettera a), è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che<br />

il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare<br />

nel territorio dello Stato”.<br />

Le preoccupazioni del legislatore (italiano ed europeo) di contrastare i cosiddetti matrimoni di comodo<br />

o le strumentalizzazioni degli ingressi per motivi familiari si sono tuttavia tradotte in norme<br />

di discutibile fattura, poiché generiche e prive di disposizioni attuative; norme la cui interpretazione<br />

sta dando luogo a un non indifferente contenzioso davanti ai Tribunali (attraverso il menzionato<br />

ricorso ex art. 30, c. 6, vedi supra) 5 .<br />

4. Altre novità introdotte dalla l. 94/09<br />

CONTRIBUTI<br />

a) La regolarità del soggiorno per potersi sposare<br />

Una significativa modifica a opera dell’art. 1, c. 15, l. 94/09 incide sull’art. 116 c.c., imponendo allo<br />

straniero che voglia contrarre matrimonio in Italia, oltre al nulla osta al matrimonio, “un documento<br />

attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano”.<br />

Tale previsione subordina l’esercizio di un fondamentale diritto civile al possesso di un’autorizzazione<br />

amministrativa (il permesso di soggiorno), sollevando legittimi dubbi sulla sua costituzionalità.<br />

La circolare del Ministero dell’Interno n. 19/09, chiarisce alcuni aspetti della riforma di cui alla l. 94/09<br />

dando “indicazioni in materia di anagrafe e stato civile”. Sul punto si specifica espressamente che,<br />

dall’entrata in vigore della legge, il matrimonio dello straniero (extracomunitario) “è subordinato alla<br />

condizione che lo stesso sia regolarmente soggiornante sul territorio nazionale” e che “tale condizione<br />

deve sussistere all’atto della pubblicazione e al momento della celebrazione del matrimonio. In<br />

assenza della suddetta condizione l’ufficiale dello stato civile non può compiere gli atti richiesti”.<br />

La circolare in esame elenca analiticamente i documenti che attestano la regolarità del soggiorno, ricomprendendo<br />

anche la “ricevuta rilasciata dall’ufficio postale attestante l’avvenuta presentazione<br />

della richiesta del permesso di soggiorno” – stante la notoria durata del procedimento di rilascio –<br />

nonché “la ricevuta della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno”, per le identiche menzionate<br />

ragioni.<br />

b) L’espresso divieto di ricongiungimento per coppie poligamiche<br />

La l. 94/09 interviene anche con un espresso divieto di ricongiungimento per le coppie poligamiche,<br />

peraltro sin qui escluso per contrarietà all’ordine pubblico, con l’aggiunta all’art. 29 di un nuovo<br />

comma, il comma 1 ter, per il quale “non è consentito il ricongiungimento dei familiari di cui alle<br />

lettere a) – coniuge – e d) – genitori – comma 1, quando il familiare di cui si chiede il ricongiungimento<br />

è coniugato con un cittadino straniero regolarmente soggiornante con altro coniuge nel territorio<br />

nazionale”; parallelamente il nuovo comma 5 ter dell’art. 5 chiude il cerchio stabilendo “che<br />

il permesso di soggiorno è rifiutato o revocato quando si accerti la violazione del divieto dei cui all’art.<br />

29, comma 1 ter”.<br />

5 Tra le tante si veda Corte d’Appello di Venezia, decreto 23 marzo 2009, est. Zacco, che affronta il tema del rilascio di carta di<br />

soggiorno a un cittadino coniuge di una extracomunitaria che ha fatto ingresso in Italia senza visto; Tribunale di Reggio Emilia, decreto<br />

27 dicembre 2008, est. Baraldi, sul difetto di convivenza e sui riflessi sul permesso di soggiorno del coniuge extracomunitario.<br />

69


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

c) Esibizione del permesso di soggiorno e dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione:<br />

la circolare che lo vieta<br />

L’entrata in vigore della l. 94/09 ha mutato il complessivo scenario in materia di immigrazione a causa<br />

dell’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale – art. 10 bis t.u. imm. –, scelta normativa<br />

i cui riflessi e implicazioni non sono ancora appieno valutabili.<br />

Senza dubbio grande incertezza detta disposizione l’ha creata in rapporto alla norma di cui all’art.<br />

6 t.u. imm., rubricato “Facoltà e obblighi inerenti al soggiorno”, anch’essa novellata dalla l. 94/09, con<br />

riferimento al comma 2 che ora recita “fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attività sportive<br />

e ricreative a carattere temporaneo, per quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui<br />

all’art. 35 e per quelli attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie, i documenti inerenti il soggiorno<br />

di cui all’art. 5, comma 8, devono essere esibiti gli uffici della pubblica amministrazione ai<br />

fini del rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero<br />

comunque denominati”.<br />

Sgombrato il campo dall’ipotesi di obbligare i medici e i sanitari a segnalare lo straniero irregolare<br />

– per il quale, dunque, continua a essere vigente il divieto di segnalazione ex art. 35 t.u. imm. (norma<br />

stralciata grazie al successo dell’ampia mobilitazione della società civile denominata “No ai medici<br />

spia!”) – e mantenuto fermo il divieto per ciò che concerne l’ambito scolastico, sussistevano ancora<br />

dubbi sull’obbligo di segnalazione in capo ai pubblici dipendenti relativamente alle dichiarazioni<br />

di nascita e di riconoscimento di filiazione. Si era cioè inizialmente temuto il diffondersi della<br />

paura tra gli immigrati irregolari a effettuare dichiarazioni in tal senso, con il conseguente rischio di<br />

avere “neonati fantasma”.<br />

Fortunatamente la circolare in oggetto ha espressamente e inequivocabilmente chiarito che “per lo<br />

svolgimento delle attività riguardanti le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione<br />

(registro di nascita dello stato civile) non devono essere esibiti documenti inerenti al soggiorno<br />

trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza<br />

delle situazioni di fatto”.<br />

5. Cenni alla tutela del minore, in particolare con riferimento all’art. 31, c. 3. Le ultime preoccupanti<br />

oscillazioni della giurisprudenza di merito e di legittimità in materia<br />

La tutela del minore e la disciplina in suo favore, contenuta nel medesimo Titolo IV del t.u. imm.,<br />

viene qui solo accennata con particolare riferimento all’art. 31, c. 3, del citato t.u., per i suoi riflessi<br />

diretti in materia di diritto all’unità familiare.<br />

Secondo detta disposizione “a favore dei minori” – mai modificata dall’entrata in vigore della l. 40/98<br />

– il Tribunale per i Minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto<br />

dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova in territorio italiano, può autorizzare l’ingresso<br />

o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle<br />

altre disposizioni del presente testo unico. Detta autorizzazione è revocata quando vengono a cessare<br />

i gravi motivi che ne giustificano il rilascio o per attività del familiare incompatibili con le esigenze<br />

del minore o con la permanenza in Italia.<br />

Il ruolo attribuito dal legislatore ai giudici minorili è di sicura rilevanza, stante il loro chiaro ruolo di<br />

incidere nella rigida disciplina sull’immigrazione, sulla base della sola valutazione su quale sia il migliore<br />

interesse del bambino (funzione cui sono precipuamente chiamati a svolgere).<br />

Tuttavia, l’oscillante interpretazione della norma – soprattutto da parte della Suprema Corte di Cassazione<br />

– e la “resistenza” dell’amministrazione degli interni ad accettare una “diminutio” del proprio<br />

potere in materia (è “solo” la PA di sicurezza, a eccezione di detta deroga, a rilasciare i titoli<br />

che autorizzano il soggiorno degli immigrati) hanno fortemente contrassegnato questi primi quasi<br />

dodici anni di applicazione della stessa.<br />

Un’interpretazione che ha sempre messo al centro il superiore interesse del minore – alla luce di<br />

tutte le convenzioni internazionali, della Costituzione e dei princìpi che informano il nostro ordinamento<br />

–, espressa con convinzione da molti Tribunali per i Minorenni (tra cui Milano), si è scontra-<br />

70


ta negli ultimi anni con un approccio più propenso a ritenerla “norma eccezionalissima” da parte di<br />

alcune Corti d’Appello (tra cui Milano, da qui l’aspra divergenza interpretativa con i giudici minorili<br />

di primo grado) e della Corte di Cassazione.<br />

Con riferimento alla Suprema Corte si era pensato che la sentenza a Sezioni Unite n. 22216 del 16<br />

ottobre 2006 avesse definitivamente fatto chiarezza, distinguendo tra autorizzazione all’ingresso e<br />

quella alla permanenza, e in particolare con riferimento a quest’ultima, evidenziando il dovere per<br />

il giudice minorile di accertare in concreto anche il grave pregiudizio che deriverebbe al minore dalla<br />

perdita improvvisa del familiare per effetto della sua espulsione. Si tratta di casi frequenti in cui<br />

uno dei due genitori è regolare e l’altro no; ed è nell’interesse del figlio che il genitore sprovvisto<br />

di soggiorno fa istanza al Tribunale per i Minorenni, affinché garantisca il diritto alla bigenitorialità,<br />

stante il rischio che la sua espulsione possa arrecare un irreparabile danno allo sviluppo psicofisico<br />

del minore.<br />

Malgrado le S.U., la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha continuato pericolosamente<br />

a oscillare, mantenendo un quadro di totale incertezza a discapito proprio dei minori.<br />

Da ultimo, due assai discutibili sentenze della Corte di Cassazione, I Sezione civile, nn. 5856/<strong>2010</strong><br />

e 5857/<strong>2010</strong>, con identica motivazione, hanno riaperto il dibattito (anche sulla stampa), ritenendo<br />

“bilanciabile” l’interesse superiore del minore con “il più generale interesse della tutela delle frontiere”<br />

(sic!), in una ricostruzione della norma totalmente non condivisibile, vista come “disposizione<br />

che rischia di strumentalizzare l’infanzia”.<br />

L’orientamento restrittivo espresso da queste pronunce, lungi dall’interpretare correttamente il tenore<br />

di detta delicata disposizione – come invece assai analiticamente effettuato, spesso, dalla giurisprudenza<br />

di merito 6 –, tradisce una lettura “politica”, sull’onda del momento, introducendo parametri<br />

non contenuti né nella stessa norma, né in Costituzione, né nelle molteplici Convenzioni internazionali,<br />

e nemmeno nelle precedenti pronunce della stessa Suprema Corte.<br />

Basti qui, infine, augurarsi un ulteriore e più meditato “ripensamento” da parte della Cassazione dell’intera<br />

disposizione, che rimetta realmente al centro il superiore interesse dei minori – da tenere<br />

strettamente connesso al loro diritto di vivere in famiglia – e che ribadisca l’esclusivo compito della<br />

magistratura minorile nel valutare, caso per caso, quale sia detto migliore interesse.<br />

Corte di Cassazione 16 ottobre 2009, n. 22808 - Pres. Carnevale, Est. Dogliotti<br />

L’articolo 31 del d.lgs 286/1998 non tratta di situazioni eccezionali o eccezionalissime necessariamente<br />

collegate alla salute del minore, bensì di “gravi motivi” connessi con lo sviluppo psicofisico<br />

che vanno valutati tenendo conto della situazione di salute dell’età del minore e del<br />

suo diritto alla bigenitorialità; in presenza di tali “gravi motivi”, il Tribunale minorile è tenuto<br />

a rilasciare al familiare che ne faccia richiesta l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza<br />

in Italia per il periodo ritenuto necessario.<br />

Corte di Cassazione 10 marzo <strong>2010</strong>, n. 5857<br />

CONTRIBUTI<br />

Le esigenze di tutela del minore che si trovi nel territorio dello Stato italiano legittimanti, ex<br />

art. 31 d.lgs. n. 286 del 1998, la permanenza del suo nucleo familiare per un periodo di tempo<br />

determinato, possono ritenersi sussistenti nella sola ipotesi in cui i gravi motivi connessi<br />

con lo sviluppo psicofisico del minore concretino una situazione di emergenza, rappresentata<br />

come conseguenza della mancanza o dell’allontanamento improvviso, di carattere eccezionale<br />

e temporaneo, la quale ponga in grave pericolo lo sviluppo normale della personalità del minore,<br />

sia fisico che psichico, tanto da richiedere la presenza del genitore nel territorio dello<br />

Stato.<br />

6 Cfr. tra le tante Tribunale per i Minorenni di Milano, decreto 9 luglio 2008, est. Domanico, in cui si argomenta anche con riferimento<br />

al contrario orientamento della locale Corte d’Appello.<br />

71


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

DIRITTI DEL MINORE STRANIERO: LA CASSAZIONE SCONFESSA SE STESSA<br />

Alberto Figone<br />

Avvocato del Foro di Genova, Docente di Diritto costituzionale e diritto pubblico presso la Facoltà<br />

di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Genova<br />

È assai frequente (e, in sostanza, fisiologico alla giurisprudenza) il contrasto e l’interpretazione discorde<br />

di una norma positiva, tra i giudici di merito, ma pure nell’ambito della Suprema Corte (e,<br />

del resto, l’intervento delle Sezioni Unite è previsto proprio, tra l’altro, per risolvere contrasti giurisprudenziali).<br />

Assai più raro è di contro che una pronuncia della Suprema Corte, invece di tendere a dimostrare<br />

il suo assunto, giustificando così il suo decisum, si limiti (almeno per gran parte) a criticare, quasi<br />

al limite dell’attacco personale, altra pronuncia di tenore opposto, quasi a voler cancellare una macchia,<br />

a esorcizzare un timore... Non è certo questo il compito di una sentenza ma semmai quello<br />

di un eventuale commentatore, che peraltro sarebbe probabilmente ben più moderato. Ci si riferisce<br />

all’interpretazione dell’art. 31 d.lgs. n. 286/1998 in base al quale il Tribunale per i Minorenni<br />

può autorizzare l’ingresso o la permanenza in Italia, per un periodo di tempo determinato, del familiare<br />

di un minore, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico di quest’ultimo.<br />

Dunque la seconda pronuncia che si commenta (n. 5857/<strong>2010</strong>), in relazione alla pronuncia anteriore<br />

(n. 22080/2009) parla di contrasto inconsapevole (sic!) con un consolidato indirizzo di isolato<br />

arresto, di lettura “riduttiva” (sic!) in quanto orientata “alla sola salvaguardia delle esigenze del minore”.<br />

E aggiunge la pronuncia del corrente anno, connotata da una valenza più ideologica che<br />

giuridico-formale, che il diritto del minore straniero all’unità familiare deve cedere di fronte “al più<br />

generale interesse della tutela delle frontiere” e “alla superiore esigenza di legalità”.<br />

Con un semplice tratto di penna, i giudici della Suprema Corte cancellano (si spera temporaneamente)<br />

decenni di cultura giuridica minorile, ignorando, nella sostanza, documenti internazionali<br />

rilevantissimi, cui pure fanno formale riferimento, come la Convenzione di New York che, all’art.<br />

3, attribuisce efficacia preminente all’interesse del fanciullo. Dunque – secondo la pronuncia – i<br />

gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore devono concretare una situazione di<br />

“emergenza” eccezionale e temporanea, tale da richiedere la presenza del genitore nel territorio<br />

dello Stato.<br />

Assai più condivisibile la sentenza anteriore più rispettosa della lettera e della ratio dell’art. 31 d.lgs.<br />

n. 286/98; ci si deve riferire non tanto a “situazioni eccezionali o eccezionalissime”, quanto piuttosto<br />

a “gravi motivi” connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, che vanno valutati tenendo<br />

conto delle condizioni di salute, dell’età del minore e del suo diritto alla bigenitorialità.<br />

Quale ampiezza di respiro presenta la prima pronuncia rispetto alle ristrettezze della seconda! Si<br />

richiamano i princìpi costituzionali e i diritti del minore che emergono con chiarezza da un percorso<br />

interpretativo che va dagli artt. 2 e 3 agli artt. 30 e 31 Cost., nonché vari e rilevantissimi documenti<br />

internazionali (ivi compreso il recente Trattato di Lisbona), e si offre un’acuta e approfondita<br />

disamina della Convenzione di New York, tutti profili che la seconda pronuncia sostanzialmente<br />

ignora.<br />

Ma la sentenza anteriore non si ferma certo a essi. E qui – duole rilevarlo – la seconda pronuncia<br />

pare mostrare una scarsa onestà intellettuale: non è vero che il precedente sia del tutto isolato e,<br />

men che meno, che sia in “inconsapevole contrasto con l’indirizzo consolidato”. La prima pronun-<br />

72


CONTRIBUTI<br />

cia richiamando, tra l’altro, una sentenza della Sezioni Unite (Cass. n. 22216/2006), cui l’altra pronuncia<br />

in commento al riguardo non fa alcun riferimento, correttamente distingue due ipotesi, del<br />

resto già individuate dal citato art. 31: l’autorizzazione all’ingresso del genitore in Italia ovvero la<br />

preminenza di questo che già si trovi nello Stato, da cui potrebbe derivare una diversa valutazione<br />

dei “gravi motivi”. La presenza di questi dovrebbe essere puntualmente dedotta e accertata, solo<br />

nella prima ipotesi; ciò non varrebbe sempre nella seconda, in quanto i “gravi motivi” potrebbero<br />

essere dedotti, quale possibile conseguenza dell’improvviso allontanamento del genitore, soprattutto<br />

nel caso, come nella specie, di un minore in tenerissima età.<br />

Ma il “generale interesse alla tutela delle frontiere” come affermato nella seconda pronuncia, non<br />

è del tutto trascurato dalla sentenza anteriore (pur attribuendo netta preminenza all’interesse del<br />

minore) che diventa quindi assai più equilibrata: si precisa infatti che l’art. 31 citato riconosce allo<br />

straniero adulto la possibilità di ottenere un permesso necessariamente temporaneo che non può<br />

convertirsi in permesso per motivi di lavoro.<br />

Due sentenze: una rigida, angusta e non del tutto onesta intellettualmente, l’altra di amplissimo respiro<br />

e di notevolissimi orizzonti culturali, ma pure estremamente sensibile (è una qualità che in<br />

materia familiare e minorile va richiesta in forza a tutti i giudici, anche quelli della Cassazione). A<br />

questo punto sembra d’obbligo l’intervento delle Sezioni Unite, e speriamo che la decisione sia<br />

quella giusta.<br />

73


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

MATRIMONI “MISTI” E ACQUISTO DELLA CITTADINANZA<br />

Luigi Mughini<br />

Avvocato del Foro di Firenze e vice presidente dell’Associazione “Progetto Arcobaleno Onlus”,<br />

Firenze<br />

1. Il fenomeno dei “matrimoni misti”<br />

“Il comportamento matrimoniale costituisce un indicatore chiave per studiare l’integrazione socio<br />

culturale dei diversi gruppi di immigrati presenti in un determinato Paese. Attraverso lo studio dei<br />

cosiddetti ‘matrimoni misti’, ovvero delle coppie in cui almeno uno dei coniugi è straniero, è possibile<br />

ricavare un indicatore significativo del grado di integrazione delle comunità immigrate. I comportamenti<br />

matrimoniali (endogamici o esogamici) dei distinti gruppi nazionali presenti nel nostro<br />

Paese costituiscono, infatti, una sorta di laboratorio culturale per le analisi di cross-cultural shock<br />

o adaptation, segnatamente nello studio delle relazioni etniche, culturali e religiose fra comunità<br />

ospitanti ed ospitate” 1 .<br />

Lo scritto di Gatti coglieva l’essenza del fenomeno proprio ai suoi primi albori, considerato che, in<br />

Italia, non è dato rinvenire studi sul fenomeno precedenti al 1984.<br />

Del resto è proprio alla metà degli anni Ottanta che in Italia si verifica, per la prima volta, un saldo<br />

positivo di immigrati rispetto agli emigrati dall’Italia ed è solo dalla metà degli anni Ottanta che<br />

l’Italia, da Paese di emigranti diventa Paese di immigrazione: ricordiamo, in proposito, che la prima,<br />

flebile normativa in materia di immigrazione è la legge 30 dicembre 1986, n. 943.<br />

Ma dagli anni Ottanta il fenomeno dei “matrimoni misti”, con tutto il bagaglio di implicazioni etniche,<br />

culturali e religiose, è andato sviluppandosi costantemente, negli ultimissimi anni addirittura<br />

in modo quasi esponenziale.<br />

Mentre in Italia l’istituto del matrimonio sta attraversando una fortissima crisi, nel 1972 erano stati<br />

celebrati 419.000 matrimoni, mentre nel 2008 ne sono stati celebrati 246.613 2 , le nozze delle coppie,<br />

in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza straniera, sono passate dal 4,8% del totale<br />

nel 1995 al 15% del 2008, cioè 36.918 matrimoni.<br />

I matrimoni misti (in cui uno sposo è italiano e l’altro straniero) rappresentano la parte più consistente<br />

dei matrimoni con almeno uno sposo straniero, con una quota del 66,5% di questa tipologia<br />

di nozze, per oltre 24.000 celebrazioni nel 2008.<br />

La frequenza dei matrimoni con almeno uno sposo straniero è più elevata nelle aree in cui è più<br />

stabile e radicato l’insediamento delle comunità straniere, pertanto sono più diffusi al Nord e al<br />

Centro, dove superano il 20% delle unioni complessive. Al Sud e nelle Isole, al contrario, i matrimoni<br />

con almeno uno sposo straniero sono l’8,1% e il 6,2% del totale delle unioni 3 .<br />

1 Gatti, Prime riflessioni dei matrimoni misti tra italiani e stranieri in Sardegna 1984 -1989, in Studi Emigrazione, 102, Roma,<br />

1991, 146.<br />

2 Istat, Il matrimonio in Italia, anno 2008, Statistiche in breve, <strong>2010</strong> (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/<strong>2010</strong>0408_00/).<br />

3 Istat, La popolazione straniera residente in Italia, Statistiche in breve, 2009 (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20091008_00/).<br />

74


Se incrociamo i dati dei matrimoni misti con quelli delle richieste di cittadinanza elaborati dal Ministero<br />

dell’Interno 4 si evidenzia un aumento delle richieste di cittadinanza a seguito di matrimonio<br />

con cittadino italiano, passate da 19.756 nel 2004 a 25.373 nel 2009, dunque con un aumento<br />

del 28%, dato comunque ben inferiore all’aumento delle richieste di cittadinanza per naturalizzazione<br />

passate da 10.841 nel 2004 a 35.963 nel 2009, con un incremento di ben il 231%.<br />

Questo ultimo dato, pur mettendo ben in evidenza la portata del fenomeno dei matrimoni misti,<br />

anche per gli effetti sull’acquisto della cittadinanza, dimostra come il principale percorso, in assoluto,<br />

per l’acquisto della cittadinanza sia attraverso la naturalizzazione, ossia la legale residenza in<br />

Italia da almeno dieci anni.<br />

2. L’acquisto della cittadinanza per matrimonio<br />

CONTRIBUTI<br />

La normativa sull’acquisto della cittadinanza per matrimonio, contenuta essenzialmente nella legge<br />

3 febbraio 1992, n. 91, “Nuove norme sulla cittadinanza”, è stata novellata dalla recente legge 15<br />

luglio 2009, n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, il cosiddetto “pacchetto sicurezza”<br />

5 .<br />

Il legislatore, preoccupato dei possibili intenti speculativi dei “matrimoni misti”, particolarmente<br />

quelli dove uno dei coniugi è straniero e l’altro italiano, finalizzati a ottenere sia la regolarità della<br />

presenza del cittadino straniero sul territorio dello Stato, sia la cittadinanza italiana, è intervenuto<br />

in vario modo sulla materia, modificando anche l’art. 116 del c.c. riguardante il matrimonio dello<br />

straniero nella Repubblica.<br />

Prima di procedere all’esame della specifica normativa in materia di acquisto della cittadinanza per<br />

matrimonio riteniamo dunque doveroso iniziare proprio dalla novella dell’art. 116 c.c.<br />

Il testo codicistico previgente stabiliva che lo straniero intenzionato a contrarre matrimonio in Italia,<br />

oltre ad essere soggetto, come l’italiano, alle disposizioni di cui agli artt. 85 e ss. del c.c., doveva<br />

dimostrare, tramite dichiarazione della propria autorità consolare che, secondo le leggi del<br />

proprio Paese, nulla ostava al matrimonio.<br />

Ferme restando dette previsioni, con l’art. 1, comma 15, della legge 94/2009 6 , è stato stabilito che<br />

lo straniero deve dimostrare la regolarità del soggiorno in Italia.<br />

Dunque, con effetto dall’8 agosto 2009, data di entrata in vigore della legge 94/2009, lo straniero<br />

può contrarre matrimonio in Italia con altro straniero, o con il cittadino italiano, dimostrando la<br />

propria condizione di stato libero e la regolarità della presenza sul territorio.<br />

Si ricorda che l’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286/98, testo unico delle disposizioni concernenti<br />

la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, stabilisce il divieto<br />

di espulsione del cittadino straniero coniuge di cittadino italiano: la norma, collegata all’art. 28<br />

del d.p.r. 31 agosto 1999, n. 394, “Regolamento recante norme di attuazione testo unico delle disposizioni<br />

concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”,<br />

consente al coniuge straniero il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari.<br />

Fino all’entrata in vigore della legge 94/2009, essendo consentita la possibilità di contrarre matrimonio<br />

anche al cittadino straniero presente irregolarmente in Italia, il combinato disposto degli artt.<br />

19 d.lgs. n. 286/98 e 28 d.p.r. 394/99 si poteva, in effetti, prestare a un escamotage per l’ottenimen-<br />

4 Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione-Direzione Centrale per i diritti civili, la cittadinanza e le minoranze, Cittadinanza<br />

italiana, statistiche 2004-2009 (sito Ministero dell’Interno http://212.14.136.135/dipim/site/it/documentazione/statistiche/diritti_civili/I_dati_definitivi_del_2009.html).<br />

5 Per un ulteriore esame della nuova normativa e dell’iter amministrativo per l’acquisto della cittadinanza per matrimonio si segnala:<br />

Olivetti, Bonetti (scheda pratica a cura di), Acquisto della cittadinanza italiana a seguito di matrimonio con cittadino italiano,<br />

aggiornata al 30 gennaio <strong>2010</strong> (consultabile all’indirizzo http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=documenti&id=1777&l=it); Furlan,<br />

La normativa sulla cittadinanza italiana e le modifiche apportate dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, in Diritto immigrazione<br />

e cittadinanza, 4/2009, 210.<br />

6 Art. 1, comma 15, della l. 94/2009: “All’art. 116, primo comma, del Codice civile, sono aggiunte, infine le seguenti parole: ‘nonché<br />

un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano’”.<br />

75


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

to, nell’immediato, di un permesso di soggiorno e, come meglio vedremo, per ottenere in seguito<br />

la cittadinanza.<br />

L’integrazione all’art. 116 c.c. suscita però dubbi di legittimità costituzionale in quanto tendente a<br />

limitare un diritto costituzionalmente garantito, quale quello della famiglia fondata sul matrimonio,<br />

art. 29 Cost., ponendo un limite basato sulla condizione personale, regolarità del soggiorno, in violazione<br />

del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione.<br />

Vediamo ora come è cambiata la normativa in materia di acquisizione della cittadinanza per matrimonio<br />

e quali sono le attuali condizioni e l’iter per detto ottenimento.<br />

L’acquisto della cittadinanza italiana da parte di uno straniero, a seguito di matrimonio con un cittadino<br />

italiano, avviene con la presentazione di specifica istanza da parte del coniuge straniero:<br />

l’istanza è presentata al Prefetto della provincia in cui il richiedente risiede7 , oppure al Console italiano<br />

competente per lo Stato estero di residenza8 .<br />

L’art. 5 della legge 91/92, come modificato dalla legge n. 94/20099 , stabilisce due requisiti per la<br />

presentazione della domanda:<br />

1) matrimonio con un cittadino italiano;<br />

2) due anni di residenza legale ininterrotta nel territorio della Repubblica (un anno se vi sono figli<br />

nati o adottati dai coniugi), dopo il matrimonio, oppure dopo tre anni dal matrimonio (18 mesi<br />

se vi sono figli nati o adottati dai coniugi) se non residenti in Italia.<br />

L’art. 5, legge n. 91/92, stabilisce altresì che, fino al momento dell’adozione del decreto di conferimento<br />

della cittadinanza, non deve essere intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione<br />

degli effetti civili del matrimonio, né la separazione personale dei coniugi.<br />

Due le novità rispetto al testo previgente: l’ampliamento da sei mesi a due anni del termine per la<br />

presentazione della domanda per i residenti in Italia e che, alla data di adozione del provvedimento<br />

di conferimento della cittadinanza, non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione<br />

degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi, condizioni<br />

che, precedentemente, erano limitate al momento della presentazione della domanda.<br />

Sono modifiche che, da un punto di vista temporale, hanno non poca rilevanza se si considera che,<br />

ai sensi dell’art. 8, comma 2, legge n. 91/92, il Ministero dell’Interno dalla presentazione della domanda<br />

ha un termine di due anni per l’emanazione del provvedimento e che, per prassi amministrativa,<br />

i tempi di risposta del Ministero dell’Interno sono mediamente di circa tre anni: dunque<br />

l’iter per l’acquisto della cittadinanza, stanti le nuove disposizioni, non si conclude prima di circa<br />

cinque anni dalla celebrazione del matrimonio.<br />

Proprio in ragione dei tempi di evasione delle domande, il Ministero dell’Interno ha stabilito10 che<br />

per i decreti di conferimento della cittadinanza italiana per matrimonio, adottati dopo l’8 agosto<br />

2009, occorre procedere all’integrazione della documentazione e perciò ha disposto che, con l’atto<br />

di convocazione per la notifica del decreto di conferimento della cittadinanza, le Prefetture devono<br />

invitare gli interessati a produrre la seguente documentazione aggiornata alla data di adozione<br />

del provvedimento:<br />

1) atto integrale di matrimonio;<br />

2) certificato di esistenza in vita del coniuge italiano: il decesso del coniuge, ai sensi dell’art. 149<br />

c.c. determina infatti lo scioglimento del matrimonio e la cessazione dei suoi effetti civili.<br />

In tal senso il Ministero dell’Interno ha altresì precisato che, qualora gli Ufficiali di stato civile o le<br />

7 Art. 1, comma 1, d.p.r. 18 aprile 1994, n. 362.<br />

8 Art. 45, comma 2, d.p.r. 5 gennaio 1967, n. 18.<br />

9 Art. 5, legge n. 91/92: 1. Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo<br />

il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio<br />

se residente all’estero, qualora, al momento dell’adozione del decreto di cui all’articolo 7, comma 1, non sia intervenuto<br />

lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi.<br />

2. I termini di cui al comma 1 sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi.<br />

10 Ministero dell’Interno, circolare K.60.1 del 7 ottobre 2009.<br />

76


CONTRIBUTI<br />

Autorità diplomatico-consolari venissero successivamente a conoscenza di una separazione o divorzio<br />

intervenuti tra i coniugi prima della data di adozione del decreto, ma non ancora annotati<br />

e trascritti a quel momento, essi devono comunicarlo alla Direzione centrale per i diritti civili, la<br />

cittadinanza e le minoranze del Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione del Ministero<br />

dell’Interno per la revoca del provvedimento.<br />

Per quanto riguarda le domande pendenti all’8 agosto 2009, e ancora in istruttoria, il Ministero dell’Interno<br />

ha stabilito11 , con qualche perplessità in ordine al principio generale “tempus regit actum”,<br />

che:<br />

1) alle istanze già presentate e ancora in istruttoria per le quali, alla data di entrata in vigore delle<br />

nuove disposizioni normative introdotte dalla legge n. 94/2009, risulti decorso il termine biennale<br />

per la conclusione del procedimento, deve essere applicata la normativa vigente al momento<br />

della presentazione della domanda, essendo già maturata la posizione di diritto soggettivo<br />

dell’istante. Per conseguenza, la domanda non deve essere integrata con documentazione<br />

aggiuntiva, rispetto a quella già prodotta.<br />

2) Le istanze per le quali, alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni normative introdotte<br />

dalla legge n. 94/2009, non sia ancora decorso il termine biennale previsto per la conclusione<br />

del procedimento, ricadranno nell’applicazione delle nuove disposizioni, atteso che il richiedente,<br />

in tali casi, non risulta essere in possesso di un diritto soggettivo pieno.<br />

Per dette fattispecie dovrà dunque essere verificato se, alla data di entrata in vigore della nuova<br />

legge, l’interessato era in possesso dei due anni di residenza legale dopo il matrimonio (o altri termini<br />

stabiliti dalla norma) nonché accertare se il vincolo matrimoniale non sia cessato al momento<br />

dell’adozione del provvedimento, acquisendo la relativa documentazione.<br />

La sussistenza del matrimonio e l’inesistenza di separazione personale dei coniugi, annullamento<br />

o scioglimento del matrimonio sono dunque requisiti essenziali ai fini dell’acquisto della cittadinanza<br />

per matrimonio e, come abbiamo visto, devono perdurare fino al decreto di concessione.<br />

Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato il requisito del matrimonio per l’acquisto della<br />

cittadinanza italiana consiste non soltanto nel dato formale della celebrazione, ma anche nella conseguente<br />

instaurazione di un effettivo rapporto coniugale, con il rispetto dei conseguenti doveri<br />

civili di fedeltà, assistenza, collaborazione e coabitazione, previsti dall’art. 143 c.c., perdurante per<br />

il tempo prescritto e tale da dimostrare l’integrazione dello straniero nel tessuto sociale e civile nazionale12<br />

.<br />

Deve essere ricordato che il legislatore, già prima dell’intervento del luglio 2009, aveva stabilito che<br />

la cessazione della convivenza, in assenza di prole, costituisce presupposto di revoca del permesso<br />

di soggiorno per motivi familiari rilasciato allo straniero non comunitario coniugatosi col cittadino<br />

italiano13 , il che farebbe venir meno il presupposto del regolare soggiorno, necessario ai fini<br />

dell’ottenimento della cittadinanza per matrimonio dopo i due anni di celebrazione, allorché lo straniero<br />

si trovi sul territorio italiano.<br />

Ai sensi dell’art. 6, comma 2, legge n. 91/1992, ulteriore presupposto per richiedere la cittadinanza<br />

per effetto del matrimonio contratto con cittadino italiano è la trascrizione dell’atto di matrimonio<br />

negli appositi registri di stato civile del Comune italiano competente.<br />

Ulteriore conseguenza dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio è che i figli minori, se conviventi<br />

con il genitore14 , acquisiscono in modo automatico la cittadinanza.<br />

Infine deve essere precisato che, ai sensi dell’art. 6, legge n. 91/92 precludono l’acquisto della cittadinanza<br />

per matrimonio:<br />

a) la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice pe-<br />

11 Circolare Ministero dell’Interno, 6 agosto 2009.<br />

12 Consiglio di Stato, sez. VI, 18 dicembre 2007, n. 6526.<br />

13 Art. 30, comma 1 bis, d.lgs. n. 286/98, introdotto con l’art. 29 della legge 20 luglio 2002, n. 189, la cosiddetta Bossi-Fini.<br />

14 Art. 14 della legge n. 91/1992.<br />

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AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

nale: delitti contro la personalità internazionale dello Stato (artt. 241-275 c.p.), contro la personalità<br />

interna dello Stato (artt. 276-293 c.p.) e contro i diritti politici del cittadino (art. 294 c.p.);<br />

b) la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore<br />

nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero la condanna per un reato non politico a<br />

una pena detentiva superiore a un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando<br />

la sentenza sia stata riconosciuta in Italia;<br />

c) la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica.<br />

Il procedimento amministrativo si conclude, in caso positivo, con il decreto del Ministero dell’Interno<br />

che conferisce la cittadinanza al coniuge di cittadino italiano. Il decreto è trasmesso all’autorità<br />

che ha ricevuto l’atto, che deve provvedere alla notifica all’interessato15 .<br />

Pur non trattandosi di un conferimento della cittadinanza per concessione, può essere richiesta la<br />

prestazione di un giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le<br />

leggi dello Stato16 .<br />

3. Conclusioni<br />

Nonostante la diffidenza dimostrata dal legislatore, in particolare con gli ultimi interventi, verso le<br />

coppie e i matrimoni misti, possiamo ritenere che questo fenomeno sia una fedele anticipazione<br />

della società che ci attende. Si tratta, a parte marginali speculazioni, di un fisiologico cambiamento<br />

della nostra società. Segna il mutamento di una società inevitabilmente e ineluttabilmente multietnica,<br />

con tutte le conseguenze negli incontri, negli amori e, perché no, negli interessi speculativi<br />

sul matrimonio (tale concetto è ben precedente al fenomeno dell’immigrazione in Italia), e contro<br />

il quale nessun atteggiamento politico/legislativo restrittivo potrà opporsi.<br />

“La vita fa il suo corso. La vita con i suoi ritmi e i suoi riti, s’impone. La vita, e nient’altro” 17 .<br />

15 Art. 7 legge n. 91/1992, art. 4 d.p.r. n. 362/1994.<br />

16 Art. 10 legge n. 91/1992.<br />

17 Guolo, Il marito musulmano, in “La Repubblica”, 15 gennaio 2007, 1.<br />

78


1. Premessa<br />

CONTRIBUTI<br />

NUOVA LEGGE SULLA CITTADINANZA, OVVERO IL MINIMALISMO DEL COMPROMESSO<br />

Stefano Rossi<br />

Avvocato del Foro di Bergamo, cultore di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di<br />

Bergamo<br />

Scriveva Gian Enrico Rusconi che “una nazione può cessare d’esserlo. La nazione infatti non è una<br />

struttura statuale fissa ed indistruttibile. Non è neppure un dato etnico disancorato dalle sue forme<br />

politiche storiche. La nazione democratica, in particolare, è una costruzione sociale delicata e complicata,<br />

fatta di culture e storie condivise, di consenso manifesto e corrisposto, basato sulla reciprocità<br />

tra i cittadini. È un vincolo di cittadinanza, motivato da lealtà e da memorie comuni” 1 .<br />

Analizzare tale vincolo, valutarne le condizioni, definirne le forme significa incidere nella carne viva<br />

dei rapporti sociali, in quanto, stabilire “chi è dentro e chi è fuori” dal cerchio della cittadinanza<br />

2 , ha come conseguenza l’attribuzione o la negazione di determinati diritti civili e sociali 3 .<br />

Tuttavia queste brevi riflessioni rinunciano programmaticamente a sviluppare un “discorso sulla cittadinanza”<br />

4 , sia sotto il profilo dell’indagine di teoria generale del diritto, che in termini politologici<br />

o, ancor più, filosofici e antropologici, consapevoli di quanto il percorso diverrebbe complesso<br />

se si sconfinasse dall’alveo ove lo si vuol condurre 5 .<br />

1 Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Bologna, 1996, 7.<br />

2 Grosso, Una nuova disciplina della cittadinanza italiana, in GI, 1992, 7 per cui “Il diritto della cittadinanza è, per definizione,<br />

un diritto di esclusione, poiché ripartisce le persone fisiche in due categorie, i cittadini e gli stranieri, i cui diritti sono ineguali.<br />

Tale ripartizione verrà poi condotta, dai singoli ordinamenti, su basi differenti, a seconda delle diverse concezioni dello status<br />

di cittadino cui i legislatori dei singoli Stati intenderanno fare riferimento. Negli ordinamenti giuridici moderni si confrontano<br />

due concezioni opposte: una etnica e una elettiva. Secondo la prima concezione la nazione preesiste agli individui, che ne sono il<br />

prodotto: il cittadino non può essere tale che per effetto della sua genealogia. Secondo tale modello il diritto della cittadinanza, al<br />

fine di preservare l’identità etnica e culturale della nazione, deve assumere come criterio principale, se non esclusivo, di attribuzione<br />

della cittadinanza quello che con un’espressione assai carica di significato simbolico si è soliti definire jus sanguinis, il diritto<br />

del sangue: per essere cittadini occorre essere figli di cittadini, in modo che la nazione possa perpetuare attraverso le generazioni<br />

il legame iniziale e preservare in tal modo la propria identità originale. Secondo la concezione elettiva della cittadinanza,<br />

invece, la nazione non esiste che grazie all’adesione di coloro che la compongono. Essa è una comunità aperta, pronta ad accogliere<br />

tutti coloro che, a condizione che presentino con essa qualche legame oggettivo, manifestino la volontà di entrare a farne<br />

parte. La traduzione giuridica di tale concezione consiste nel subordinare l’attribuzione della cittadinanza ad un atto di volontà<br />

del soggetto che presenti con lo Stato un minimo di legame oggettivo, quale la nascita o la residenza”.<br />

3 Pezzini, Lo statuto costituzionale del non cittadino: i diritti sociali, relazione tenuta al convegno dell’Associazione italiana dei<br />

costituzionalisti, Cagliari, 16-17 ottobre 2009, in www.astrid-online.it, 5 ss.<br />

4 Costa, Storia della cittadinanza in Europa. L’età dei totalitarismi e della democrazia, IV, Roma-Bari 2001, 485 ss.; Grosso, Le<br />

vie della cittadinanza, Padova, 1997, 12 ss.; Cerrone, La cittadinanza e i diritti, in Nania, Ridola (a cura di), I diritti costituzionali,<br />

I, Torino, 2006, 277 ss.<br />

5 In questo senso Caravita di Toritto, I diritti politici dei non cittadini. Ripensare la cittadinanza: comunità e diritti politici, relazione<br />

tenuta al convegno dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Cagliari 16-17 ottobre 2009, in www.astrid-online.it, 11<br />

per cui “Il concetto di cittadinanza, che costituisce il riferimento tradizionale per il riconoscimento dei diritti politici, non è più<br />

fondato sul concetto identitario di nazione ed è oggetto di profondi mutamenti in ragione delle molteplici modalità con le quali le<br />

persone circolano tra gli ordinamenti giuridici e fanno parte di ciascun ordinamento. Per usare le parole di Seyla Benhabib, siamo<br />

di fronte alla ‘disaggregazione della cittadinanza’: ‘siamo giunti al punto dell’evoluzione politica delle comunità umane nel<br />

quale il modello unitario di cittadinanza che accomunava la residenza in un solo territorio con l’assoggettamento ad una amministrazione<br />

burocratica comune, in grado di rappresentare una popolazione che era percepita come un’entità più o meno coesa,<br />

è ormai alla fine’; gli ‘sviluppi istituzionali scorporano le tre dimensioni costitutive della cittadinanza, cioè l’identità collettiva, i<br />

privilegi dell’appartenenza politica e il titolo a fruire dei diritti sociali e dei relativi vantaggi’”.<br />

79


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

Si deve comunque sottolineare come, da un punto di vista concettuale, la nozione di cittadinanza,<br />

a cui si ricollegano determinati diritti, abbia assunto un significato che va oltre la sua tradizionale<br />

accezione giuridica. Storicamente, infatti, la cittadinanza si profilava come uno status soggettivo<br />

volto a indicare l’appartenenza a una comunità etnico-culturale, il che garantiva l’acquisizione della<br />

titolarità di una serie di diritti, riconosciuti e garantiti dalla comunità stessa 6 .<br />

A questa accezione della cittadinanza, basata sull’appartenenza, si è progressivamente affiancata una<br />

visione che tende a porre in rilievo l’importanza della dimensione della partecipazione, in tal modo<br />

mutando la portata del concetto stesso di cittadinanza in linea con un’evoluzione dei diritti di cittadinanza<br />

corrispondente alle nuove esigenze manifestate dalla società civile. Il concetto di cittadinanza<br />

si riempie quindi di un contenuto relazionale che consiste nella partecipazione, ancorché di fatto, alla<br />

vita della comunità e sempre in misura minore da caratteri culturali-identitari di stampo nazionale.<br />

La cittadinanza implica, dunque, in questa rinnovata accezione, l’appartenenza a una comunità politica<br />

e ha come conseguenza la titolarità di una serie di diritti. In tal senso, la dottrina ha attribuito<br />

alla cittadinanza due significati opposti ma tra loro complementari, considerandone, da un lato,<br />

la dimensione statica o verticale, intesa come qualità personale del soggetto che designa un rapporto<br />

tra quest’ultimo e lo Stato e che viene assunta dall’ordinamento per individuare i destinatari<br />

di determinate prescrizioni; dall’altro, la dimensione dinamica od orizzontale, per cui la cittadinanza<br />

viene a coincidere con l’esercizio pieno ed effettivo dei diritti e delle libertà democratiche consacrate<br />

nella costituzione ed esercitate nell’ambito di una comunità politica 7 .<br />

Segnali di questa ormai acquisita consapevolezza della complessità e polisemia del concetto si desumono<br />

anche da alcuni passaggi della giurisprudenza costituzionale più avanzata, come nel caso<br />

di quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 172 del 1999 nella quale si definisce<br />

la comunità statale come “comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella<br />

fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto, che accoglie e accomuna tutti coloro che,<br />

quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta<br />

dall’art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo<br />

l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame<br />

stretto di cittadinanza” 8 .<br />

Non si può tuttavia affermare – con superficialità – che la Corte Costituzionale abbia fatto propria una<br />

compiuta elaborazione in merito a una nuova idea di comunità, in quanto permane attuale (e consolidata<br />

anche nella prassi amministrativa) quella ricostruzione secondo cui la cittadinanza si caratterizza<br />

essenzialmente per la condizione di appartenenza tra Stato e cittadino. “In tal guisa appare corretto<br />

assumere che la relazione [tra lo Stato e il singolo uomo, volta ai fini della sua inclusione nella comunità<br />

ordinamentale come cittadino] si struttura sulla base di una condizione di appartenenza fissata<br />

e determinata, come mera situazione giuridica, in via esclusiva dall’ordinamento statale” 9 .<br />

6 Lepore, Le nuove frontiere della cittadinanza: il ruolo delle città e delle amministrazioni locali, Cittalia-Fondazione Anci Ricerche,<br />

maggio 2009, 19, per cui “in una società multietnica, quale la nostra, la cittadinanza tradizionalmente intesa da strumento<br />

di garanzia dei diritti per gli individui diventa uno strumento di discriminazione nei confronti di coloro che, pur essendo<br />

parte attiva da un punto di vista economico-sociale della comunità di riferimento, si vedono esclusa la possibilità di partecipare<br />

all’adozione delle decisioni pubbliche. Le forti ondate migratorie degli ultimi decenni hanno fatto registrare una tendenza contraddittoria:<br />

il contenuto della cittadinanza ha continuato a farsi più denso e articolato per i cittadini, mentre è diventata più ampia<br />

la parte di soggetti esclusi dal godimento di alcuni di questi diritti, in quanto stranieri”.<br />

7 Ivi, 10 ss.; Cuniberti, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e libertà del cittadino nella costituzione italiana, Padova, 1997, 153;<br />

Cerrone, La cittadinanza e i diritti cit., 280; Pizzolato, Sul senso della cittadinanza, in AA.VV., Democrazia competitiva e cittadinanza<br />

comune, Roma, 150 ss.;. Helzel, Il diritto ad avere diritti. Per una teoria normativa della cittadinanza, Padova, 2005, 88-<br />

94; Grosso, Le vie della cittadinanza cit., 37 che sottolinea come si possano distinguere “quattro diverse definizioni di cittadinanza:<br />

cittadinanza come ‘insieme di diritti’, come ‘somma di doveri’, come ‘vincolo’ orizzontale tra consimili politicamente organizzati<br />

e su un piano di parità tra di loro, infine come rapporto verticale, ancorché bilaterale, tra l’individuo e il Sovrano”; Belvisi,<br />

Cittadinanza, in Barbera (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari, 1998, 117; Castorina, Introduzione allo<br />

studio della cittadinanza. Profili ricostruttivi di un diritto, Milano, 1997 e anche Rossi, La porta stretta: prospettive della cittadinanza<br />

post-nazionale, in www.forumcostituzionale.it, 23 aprile 2008.<br />

8 Corte Cost., 18 maggio 1999, n. 172, in MFI, 1999; Corte Cost., 15 aprile 2001, n. 131, in Gcost., 2001, 2.<br />

9 Stancati, Lo statuto costituzionale del non cittadino: le libertà civili, relazione tenuta al convegno dell’Associazione italiana dei<br />

costituzionalisti, Cagliari, 16-17 ottobre 2009, in www.astrid-online.it, 13.<br />

80


Limitarsi a ribadire la persistenza del tratto statico della cittadinanza, sarebbe però come disconoscere<br />

che quella “comunità allargata”, prospettata nella sentenza del 1999, sia ormai una realtà sociale,<br />

prima che giuridica, inevitabilmente destinata a crescere a seguito dei flussi migratori. Se poi<br />

a ciò si aggiunge il progressivo rafforzarsi dell’integrazione europea, la trasformazione delle comunità<br />

economiche in Unione, e la conseguente libertà di circolazione e stabilimento, la previsione<br />

esplicita di una cittadinanza europea sussidiaria rispetto a quelle nazionali, e infine la riforma del<br />

Titolo V della Costituzione in ordine ai livelli delle prestazioni pubbliche, si giunge a comprendere<br />

come mai cominci a imporsi l’idea di “cittadinanza costituzionale”, integrata dai contenuti delle<br />

libertà e dei diritti direttamente dovuti per Costituzione, indifferentemente ai cittadini e non 10 .<br />

Tale situazione impone di recuperare quella dimensione di complessità che caratterizza la cittadinanza,<br />

nella quale ogni soggetto è titolare di un patrimonio minimo di diritti (civili, sociali e politici)<br />

che può svilupparsi e arricchirsi a partire dal progressivo riconoscimento, sulla base della regolare<br />

residenza, di diverse costellazioni di diritti e doveri: in questo senso il contesto nazionale<br />

diviene solo uno (anche se primario) degli ambiti in cui la cittadinanza si incarna e si sviluppa, in<br />

quanto a ciascun individuo potranno essere riconosciuti livelli diversi di cittadinanza, a seconda del<br />

tipo di comunità cui fanno capo i singoli diritti di cui è riconosciuto titolare o i singoli doveri il cui<br />

adempimento è richiesto 11 .<br />

In conclusione, integrando il dato ordinamentale con le indicazioni provenienti dal sostrato politico-sociale,<br />

è possibile identificare le motivazioni che sono alla base della cittadinanza, ovvero rispondere<br />

alla domanda “chi è cittadino?”, più che a quella “cos’è un cittadino?”, quesito il primo<br />

che appare preliminare all’analisi e al commento della disciplina legislativa positiva, ossia delle regole<br />

per l’acquisto e la conservazione dello status multiforme di cittadino.<br />

2. La legge 5 febbraio 1992, n. 91<br />

CONTRIBUTI<br />

L’interazione tra diritto della cittadinanza e politica migratoria è stata particolarmente intensa nel<br />

caso dell’Italia, nel corso del XX secolo 12 . L’imponente emigrazione italiana – quella transoceanica<br />

in particolare – iniziata nella seconda metà del XIX secolo e durata fino agli anni Settanta di quello<br />

successivo, ha agito come una determinante fondamentale delle scelte legislative in materia di<br />

cittadinanza, in occasione di entrambe le riforme di portata generale effettuate nel secolo scorso (a<br />

distanza di ottant’anni l’una dall’altra: nel 1912 e nel 1992). Quanto all’immigrazione da Paesi stranieri,<br />

fenomeno sociale statisticamente rilevante in Italia solo a partire dalla seconda metà degli anni<br />

Settanta, i suoi riflessi sulla disciplina del diritto di cittadinanza sono stati, sino ad oggi, limitati,<br />

ma estremamente significativi.<br />

Se tra i problemi cui la nuova legge avrebbe dovuto dare soluzione si elencavano la piena realizzazione<br />

dell’uguaglianza tra uomo e donna, l’attuazione delle istanze provenienti dalle comunità<br />

italiane all’estero e, soprattutto, l’esigenza di dare risposta alle nuove prospettive aperte dal feno-<br />

10 Forte, Appunti per una base costituzionale della cittadinanza, consultabile all’indirizzo http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/site/it-it/Rubriche/Amministrazioni_Pubbliche/Note_e_Commenti/Documento/forte_cittadinanza.html<br />

11 Bascherini, L’immigrazione e i diritti, in Nania, Ridola (a cura di), I diritti costituzionali cit., 474.<br />

12 Pastore, Nationality Law and International Migration: The Italian Case, in Hansen, Weil (a cura di), Towards a European Nationality.<br />

Citizenship, Immigration and Nationality Law in the EU, Basingstoke, 2001, 4. Sottolineare l’importanza dei fenomeni migratori<br />

come fattore evolutivo del diritto italiano della cittadinanza non deve portarci a dimenticare il peso di altre determinanti sociali,<br />

culturali e politiche delle trasformazioni di questa branca del diritto. In particolare, va messo in evidenza il profondo impatto<br />

che ha avuto in questo campo il valore dell’uguaglianza tra uomo e donna all’interno della famiglia, affermatosi progressivamente<br />

all’interno della società italiana nel secondo dopoguerra ed elevato a principio normativo di rango costituzionale dalla Costituzione<br />

repubblicana (1948). Con un certo ritardo rispetto ai principali Paesi europei, e grazie al fondamentale ruolo di impulso svolto<br />

dalla Corte Costituzionale (vedi, in particolare, le sentenze 16 aprile 1975, n. 87 e 9 febbraio 1983, n. 30), il principio di parità<br />

ha, infatti, determinato profonde modificazioni nella disciplina legislativa della cittadinanza (vedi, soprattutto, la l. 19 maggio 1975,<br />

n. 151, e la l. 21 aprile 1983, n. 123). Si è così pervenuti al pieno superamento del dogma ottocentesco dell’unità politica della famiglia<br />

(unicità della cittadinanza al suo interno) e alla piena equiparazione della donna all’uomo, sia con riferimento all’incidenza<br />

del matrimonio sulla cittadinanza dei coniugi, sia con riferimento alla capacità di trasmettere la cittadinanza stessa ai figli.<br />

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AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

meno dell’immigrazione, non si può che constatare come la l. n. 91/1992 abbia ricalcato in gran<br />

parte l’impianto della legislazione previgente, riducendosi le innovazioni introdotte in una semplice<br />

ricezione degli strumenti normativi elaborati dal legislatore nel ventennio precedente sulla scorta<br />

delle indicazioni giurisprudenziali 13 , in alcune facilitazioni dell’acquisto della cittadinanza da parte<br />

dei cittadini comunitari e infine in una maggior tutela della conservazione della cittadinanza italiana<br />

da parte degli italiani all’estero 14 .<br />

Proprio alla luce dell’approvazione, nel 1990, della “legge Martelli”, la legge di riforma dell’acquisizione<br />

della cittadinanza poteva essere (e in molti si aspettavano che fosse) un completamento necessario<br />

della legge sull’immigrazione, nell’ambito di una riforma complessiva in grado di dare una<br />

prospettiva nuova e positiva, in particolare alle persone immigrate regolarmente soggiornanti. In<br />

altre parole poteva essere un’occasione per dare un messaggio di inclusione, ma così non è stato:<br />

al contrario si sono peggiorati alcuni aspetti della legge precedente, a partire dai dieci anni anziché<br />

cinque di residenza per l’acquisto della cittadinanza il che ha contribuito a rendere più difficile<br />

l’integrazione delle persone immigrate 15 .<br />

Quindi, mentre nel 1992 si consolidava l’immigrazione da Paesi non appartenenti all’Unione europea<br />

verso l’Italia, il legislatore dell’epoca scriveva un testo immaginando che gli italiani emigrassero<br />

ancora in grandi numeri: al punto che, durante l’iter della stessa, il relatore della legge n. 91/1992<br />

definì l’immigrazione extracomunitaria in Italia un’“ipotesi residuale”.<br />

Evidentemente il legislatore del 1992, premesso che i disegni di legge in materia (del Governo e<br />

del Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige) risalivano al dicembre 1988-luglio 1989 e perciò a<br />

poco prima dell’approvazione della cosiddetta legge Martelli (d.l. 30 dicembre 1989, n. 416 conv.<br />

in l. 28 febbraio 1990, n. 39), non aveva ancora una visione corretta e obiettiva del fenomeno immigratorio,<br />

tanto meno una previsione lungimirante 16 .<br />

Allora dominante era la considerazione dell’emigrato italiano ovvero la preoccupazione della tutela<br />

o rivitalizzazione delle “radici italiane” che, per il fatto dell’emigrazione, si erano troncate a seguito<br />

della perdita dello status civitatis; prevalente era anche la necessità di consacrare in norme<br />

compiute quei princìpi che avevano ispirato la riforma del diritto di famiglia, la parità fra i coniugi<br />

e fra i sessi, fra discendenza paterna e materna 17 .<br />

Tale adeguamento della normativa ha comportato, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale<br />

circa la salvaguardia della volontà del singolo in tema di diritti personali, l’eliminazione di qualunque<br />

automatismo nell’acquisto o perdita dello status civitatis, ovvero la subordinazione di tali<br />

effetti a condizioni rigide, connesse a un comportamento del singolo da cui si deducesse, direttamente<br />

o indirettamente, comunque in modo inequivocabile, la sua volontà.<br />

13 In particolare quelle legate alla riforma del diritto di famiglia, in seguito alla quale si è eliminato il principio della perdita della<br />

cittadinanza italiana per la donna che sposasse un cittadino straniero acquistandone la cittadinanza (l. 19 maggio 1975, n. 151<br />

che recepisce il contenuto della sentenza della Corte Costituzionale n. 87/1975) e quelle introdotte dalla l. 123/1983 volta all’eliminazione<br />

di ogni automatismo e delle disparità di trattamento tra uomo e donna connesse all’acquisto della cittadinanza per iuris<br />

communicatio.<br />

14 Bariatti, La disciplina giuridica della cittadinanza italiana, vol. II, Milano, 1996; Clerici, La cittadinanza nell’ordinamento<br />

giuridico italiano cit.; Cuniberti, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e libertà del cittadino nella costituzione italiana cit.; Grosso,<br />

Una nuova disciplina della cittadinanza italiana, in GI, IV, 1992; Menghetti, L’acquisto della cittadinanza per matrimonio: il fenomeno<br />

dei matrimoni fittizi, in Gli Stranieri. Rassegna di studi, giurisprudenza e legislazione in materia di stranieri, n. 1/1998;<br />

Nascimbene, La condizione giuridica dello straniero. Diritto vigente e prospettive di riforma, Padova, 1997.<br />

15 Nascimbene, Promemoria sulla cittadinanza, Atti del convegno “Riformare la legge sulla cittadinanza”, Roma, 22 febbraio<br />

1999.<br />

16 Farfan, Naturalizzazione italiana: la via della cittadinanza per gli stranieri, in Tutela, 2/3, 1995.<br />

17 Bonetti, Ammissione all’elettorato e acquisto della cittadinanza: due vie dell’integrazione politica degli stranieri. Profili costituzionali<br />

e prospettive legislative, in www.federalismi.it. Ciò nonostante la relazione presentata all’Assemblea dalla Commissione<br />

Affari Costituzionali recitasse: “Il problema della normativa in fatto di cittadinanza è tra i più importanti e delicati dell’ordinamento<br />

di un Paese; soprattutto di un Paese come l’Italia, che ha visto nei decenni trascorsi momenti di massiccia emigrazione e vive<br />

oggi, e probabilmente vivrà ancor più domani, momenti di immigrazione. Di fronte a tali fenomeni, l’esigenza di una risposta<br />

legislativa che, a poco meno di ottanta anni dalla l. 13 giugno 1912, n. 555, ridisegnasse, in modo organico, la normativa sulla<br />

cittadinanza, era, ed è, ampiamente avvertita... Essa si pone nella linea della migliore tradizione legislativa dalla quale, purtroppo,<br />

Governo e Parlamento si discostano troppo spesso, proponendo riforme parziali ed aggiustamenti contingenti che non hanno<br />

il pregio della chiarezza e determinano difficoltà e complicazioni per gli utenti, ivi compresi gli stessi operatori del diritto”.<br />

82


CONTRIBUTI<br />

All’epoca, quindi, nel tentativo di adattare la legislazione allo spirito democratico ed egualitario<br />

contenuto nel preambolo dell’Atto unico europeo, il legislatore, pur provvedendo ad adeguare la<br />

normativa sulla cittadinanza al dettato costituzionale e ai mutamenti di costume sotto il profilo della<br />

parità di sesso, ha finito per accentuare il divario tra cittadini “comunitari” e “non comunitari”,<br />

aumentando per questi ultimi, da cinque a dieci anni il periodo di residenza necessario per l’acquisizione<br />

del nostro status civitatis18 .<br />

Conseguenza di tale impostazione è che, nella legge del ‘92, il principio dello jus sanguinis è ancora<br />

dominante, mentre lo jus soli ha rilievo assai modesto e trova applicazione in casi limitati19 ,<br />

in particolare:<br />

A) persona nata in Italia qualora a) entrambi i genitori siano ignoti oppure b) siano apolidi; c) il<br />

figlio non segua la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale essi appartengono<br />

(cfr. art. 1, 1° co., lett. b; un accertamento in tal senso è richiesto dall’art. 2 del d.p.r. n.<br />

572/93, ponendo peraltro limiti discutibili, che dipendono dalla legge straniera dei genitori: l’acquisto<br />

jure soli è impedito se tale legge richiede una dichiarazione espressa del genitore o<br />

l’adempimento di formalità amministrative da parte dello stesso).<br />

B) Persona nata in Italia (straniero, quindi, alla nascita perché figlio di straniero) che abbia risieduto<br />

legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari di voler<br />

acquistare la cittadinanza italiana entro un anno da tale data. In tal caso l’acquisto della cittadinanza<br />

italiana non è automatico, ma è richiesta una specifica manifestazione di volontà (cfr.<br />

art. 4, 1° co., lett. c).<br />

C) Persona nata in Italia ma che, diversamente dall’ipotesi precedente, non abbia maturato il periodo<br />

di residenza richiesta, bensì soltanto un periodo di residenza legale di almeno tre anni. In tal<br />

caso l’acquisto della cittadinanza si verifica a seguito di decreto di concessione del Presidente<br />

della Repubblica, e perciò in virtù del procedimento di naturalizzazione (cfr. art. 9, lett. a).<br />

D) Persona “trovata” in Italia (e pertanto nata nel territorio nazionale ovvero all’estero), che sia figlia<br />

di ignoti e non venga provato il possesso di altra cittadinanza (cfr. art. 1, 2° co.).<br />

In termini generali, si può affermare che la legge vigente ha introdotto norme più severe e restrittive<br />

rispetto a quelle contenute nella l. 13 giugno 1912, n. 555, per quanto concerne l’applicazione<br />

dello jus soli, consentendo l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte degli stranieri solo<br />

in presenza del requisito della residenza continuativa nel Paese dal momento della nascita fino alla<br />

maggiore età (art. 4, 2° co.).<br />

Infatti il requisito della residenza legale e ininterrotta, se interpretato rigidamente, tende a escludere<br />

dal beneficio un numero considerevole di giovani, nati in Italia e privi di legami diretti con il<br />

Paese d’origine dei genitori, i quali però, per esempio, abbiano ottenuto un regolare titolo di soggiorno<br />

(o siano stati registrati sul titolo di soggiorno di uno dei genitori) solo in epoca successiva<br />

alla nascita, per effetto di un provvedimento di regolarizzazione20 .<br />

18 Relazione accompagnatoria al disegno di legge governativo comportante Modifiche alla l. 5 febbraio 1992, n. 91 recante nuove<br />

norme sulla cittadinanza, A.C. n. 1607.<br />

19 Come detto, mentre il criterio dello jus sanguinis, tipico dell’Europa continentale, fa perno sull’idea che la cittadinanza derivi<br />

da una comunità di razza, nella visione secondo cui gli individui non sono che il prodotto della nazione (Lippolis, Aderire ai valori<br />

della nazione è il principio fondante dell’essere cittadini, in Amministrazione civile, 2008, 6, 18), il diverso criterio dello jus<br />

soli si incentra sul rapporto tra cittadino e territorio, indipendentemente dalla discendenza dei propri avi, valorizzando la tensione<br />

volontaristica, ossia l’adesione da parte del singolo al contratto sociale che è connesso allo status di cittadino. Raramente si riscontra<br />

nei diversi ordinamenti la presenza di uno solo dei criteri citati, essendo invece costante l’azione in combinato disposto tra i<br />

due, con la prevalenza a volte dell’uno, a volte dell’altro, il che definisce il tratto etnico-culturale ovvero politico-volontaristico che<br />

caratterizza la cittadinanza in un determinato ordinamento.<br />

20 A tal proposito si rammenta come, secondo quanto dichiarato dall’allora ministro Boniver (in “La Repubblica”, 16 gennaio<br />

1992), le nuove norme sulla naturalizzazione avrebbero fatto sí che “nel giro di una generazione anche l’Italia sarebbe divenuta<br />

una società multietnica, multirazziale, multiculturale”. Non si riesce a comprendere come tale effetto possa essere connesso alla<br />

nuova disciplina, dal momento che ottenere la naturalizzazione sarà d’ora in poi ben più difficile di un tempo e che pertanto se<br />

di novità si tratta, essa va proprio nel senso, opposto a quello pubblicizzato dal ministro, di evitare, o quantomeno di posticipare<br />

nel tempo, il formarsi di una società multirazziale. Infatti, se con la legge del 1912 era sufficiente una stabile e legale residenza sul<br />

territorio italiano di cinque anni, con la nuova legge ne saranno necessari dieci, mentre vengono conservate tutte le garanzie che<br />

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Soffermandosi poi, in particolare, sulla disciplina della naturalizzazione (art. 9), introdotta con la<br />

legge del 1992, non si può non rilevare come il legislatore, adottando un approccio dotato di una<br />

certa originalità nel panorama europeo, ha istituito una sorta di dettagliata gerarchia tra diverse categorie<br />

di stranieri, fissando per ciascuna di esse un periodo di residenza legale diverso, come condizione<br />

necessaria per poter presentare istanza di naturalizzazione. Così, il periodo di “anticamera”<br />

necessario per poter aspirare alla cittadinanza è stabilito equivalente a tre anni per lo “straniero<br />

del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati<br />

cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica”; è invece di quattro anni per il<br />

“cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee”; sale a cinque anni per lo “straniero maggiorenne<br />

adottato da cittadino italiano”, per lo “straniero che ha prestato servizio [...] alle dipendenze<br />

dello Stato” e per l’apolide; diventa, infine, di ben dieci anni, nel caso del semplice “straniero”<br />

(nel senso di cittadino di Stato non membro delle Comunità europee). Per quest’ultima categoria<br />

di non-cittadini – che comprende, ovviamente, la quasi totalità degli immigrati – il tempo di residenza<br />

necessario per poter chiedere la naturalizzazione risulta raddoppiato rispetto alla legislazione<br />

previgente21 .<br />

Una delle più importanti innovazioni introdotte dalla legge del 1992 riguarda la disciplina dei casi<br />

di doppia cittadinanza: a norma dell’art. 11 “il cittadino che possiede, acquista o riacquista una<br />

cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o stabilisca<br />

la residenza all’estero”. Secondo la disciplina previgente, il cittadino che acquistava una cittadinanza<br />

straniera perdeva la cittadinanza italiana, e in particolare per i casi di doppia cittadinanza<br />

di un minore era prevista l’opzione obbligatoria entro un anno dal raggiungimento della maggiore<br />

età. In tali disposizioni era chiaramente riscontrabile un atteggiamento di sfavore verso la<br />

possibilità di mantenere più di una cittadinanza. Tale impostazione è stata completamente rovesciata<br />

dalla legge di riforma, che ha stabilito un principio fortemente innovatore, abrogando l’istituto<br />

dell’opzione e introducendo la possibilità di mantenere in ogni caso la doppia o la plurima<br />

cittadinanza. L’abolizione dell’opzione ha risolto molte incertezze interpretative cui la normativa<br />

precedente lasciava spazio, che andavano dall’infelice impiego del termine, alla presentazione di<br />

tale scelta come un obbligo, al dubbio se la mancata opzione conducesse alla perdita della cittadinanza<br />

italiana22 .<br />

Ma vi sono anche molti altri punti critici nella legislazione vigente, che necessitano di un ripensamento<br />

e che possono essere sintetizzati attraverso il riferimento agli snodi fondamentali della normativa:<br />

a) la permanenza di discriminazioni fra uomo e donna (marito o padre, e moglie o madre) nell’acquisto<br />

e riacquisto della cittadinanza (i figli nati da madre che abbia riacquistato la cittadinanza<br />

italiana ai sensi dell’art. 219 della l. n. 151/75 di riforma del diritto di famiglia, o i figli nati prima<br />

del 1948 da madre italiana sono tuttora ritenuti stranieri);<br />

b) il mancato rispetto della volontà del singolo e la presenza di effetti automatici estranei alla volontà,<br />

peraltro censurati dalla Corte Costituzionale (sentenze del 16 aprile 1975, n. 87 e del 9 febbraio<br />

1983, n. 30; si ricorda, per esempio, l’automatico riacquisto della cittadinanza italiana da<br />

parte di chi l’abbia perduta e abbia risieduto in Italia per un anno, ex art. 13, 1° co., lett. d);<br />

già la precedente normativa prevedeva circa il margine di discrezionalità che lo Stato mantiene su ogni singola concessione. Evidente,<br />

pertanto, l’intento protettivo al quale è ispirata la nuova normativa, ostile a una rapida assimilazione di tutta quella popolazione<br />

che, dopo aver beneficiato della “corsia preferenziale” rappresentata dalla cosiddetta “sanatoria Martelli”, risiede oggi legalmente<br />

sul territorio italiano e che dovrà attendere dieci anni prima di poter aspirare alla naturalizzazione. Cfr. Grosso, Una nuova<br />

disciplina della cittadinanza italiana cit.<br />

21 Pastore, Nationality Law and International Migration: The Italian Case, in Hansen-Weil (a cura di), Towards a European Nationality<br />

cit., 22. Senza tener conto del fatto che, per giurisprudenza consolidate (da ultimo Cons. Stato 25 marzo 2009, n. 1788),<br />

al fine di ottenere la cittadinanza ai sensi dell’art. 9. 1° co., lett. f) l. 91/1992 non sia sufficiente la residenza da almeno dieci anni,<br />

ma subentri anche un giudizio di meritevolezza basato sulla ligia condotta dello straniero e sulla sua integrazione nel tessuto sociale<br />

italiano.<br />

22 Grosso, Una nuova disciplina della cittadinanza italiana cit.<br />

84


c) l’eccessiva durata del procedimento di concessione della cittadinanza per naturalizzazione ovvero<br />

di acquisto a seguito di matrimonio con cittadino italiano;<br />

d) la condizione di residenza in Italia per un periodo eccessivamente lungo, ai fini della naturalizzazione,<br />

considerata sia la condizione privilegiata dei cittadini comunitari e la previsione nel<br />

Trattato sull’Unione europea dello specifico istituto della “cittadinanza dell’Unione” (artt. 8 ss.);<br />

sia l’introduzione del “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo” ex art. 9<br />

t.u. in materia di immigrazione, che è segno distintivo della sostanziale parità di diritti fra stranieri<br />

e cittadini (pur con alcuni, discutibili limiti) e che si ottiene dopo cinque anni di residenza<br />

in Italia (la naturalizzazione ex lege n. 91/92, art. 9, 1° co., lett. d, f si ottiene dopo quattro<br />

anni per i comunitari e dieci per gli extracomunitari);<br />

e) l’incertezza di previsioni circa la disponibilità di redditi richiesta ai fini della naturalizzazione;<br />

f) la previsione dello “svincolo” dalla cittadinanza originaria (posto come condizione della naturalizzazione)<br />

da parte dello Stato di appartenenza dello straniero;<br />

g) la necessità di semplificare la produzione di documenti (in particolare da parte dei rifugiati) 23 .<br />

L’analisi critica proposta mette in rilievo come la materia della cittadinanza non possa più essere<br />

disciplinata se non a partire dall’esigenza centrale di assicurare, anche attraverso le norme sull’acquisto<br />

e la perdita della cittadinanza, la tutela della libertà e dei diritti individuali e come, nell’elaborazione<br />

della legge vigente, si sia persa un’importante occasione per tentare una riflessione approfondita<br />

sul ruolo della cittadinanza nell’attuale contesto costituzionale.<br />

Infatti se “la determinazione delle condizioni alle quali sussiste, si instaura e si estingue il rapporto<br />

fondamentale tra uno Stato e le persone, oggetto di una legge sulla cittadinanza, comporta invero<br />

una scelta di valori rispondente alle concezioni che sono alla base della stessa comunità nazionale<br />

e del suo diritto, si tratta, da un lato, di stabilire i presupposti giuridici per la stessa individuazione<br />

di tale comunità: da essi verrà poi a dipendere la regolamentazione di un complesso di situazioni,<br />

nel senso che l’ordinamento vigente potrà riferirle ai soli cittadini ovvero disciplinarle in modo<br />

diverso nei confronti di questi e degli stranieri” 24 . La legislazione italiana purtroppo, a differenza<br />

di quella di molti altri Paesi europei, risultava ancora totalmente priva di un solido impianto teorico-sistematico<br />

idoneo a chiarire a quale “concezione” di comunità si è inteso aderire, il che lascia<br />

l’interprete privo di un orizzonte verso il quale indirizzarsi.<br />

3. Il testo unificato Bertolini di riforma della legge sulla cittadinanza<br />

CONTRIBUTI<br />

I progetti di legge in materia di riforma della legge sulla cittadinanza durante la XVI legislatura sono<br />

numerosi, tuttavia è possibile schematizzarne i contenuti generali attraverso i due paradigmi<br />

classici che contraddistinguono la materia in esame:<br />

a) alcuni progetti tendono a rafforzare il requisito dello jus soli ai fini dell’acquisizione della cittadinanza:<br />

in particolare ddl. AC n. 457/2008 (Bressa) 25 , n. 2670/2009 (Sarubbi, Granata) 26 e n.<br />

2684/2009 (Mantini, Tassone);<br />

23 Nascimbene, Promemoria sulla cittadinanza cit., 8.<br />

24 Kojanec, Su di un nuovo ordinamento della cittadinanza italiana, in Scritti in onore di E. Tosato, Milano, 1982, 3.<br />

25 Tre sono le principali innovazioni iscritte in tale proposta: a) agevolazioni per l’acquisto della cittadinanza da parte di stranieri<br />

nati sul territorio della Repubblica; b) un nuovo regime per l’acquisizione della cittadinanza da parte dei minori stranieri; c) un<br />

nuovo percorso per l’acquisizione della cittadinanza denominato “attribuzione”, che configura un iter nel quale esiste un vero e<br />

proprio diritto soggettivo all’acquisizione della cittadinanza da parte dello straniero, anche se condizionato alla residenza legale nel<br />

territorio italiano per almeno cinque anni, alla verifica dell’integrazione linguistica e sociale dello straniero. Si deve sottolineare che<br />

preclusiva all’accesso a tale percorso è la condanna definitiva per reati di particolare disvalore. Tali soluzioni normative erano tutte<br />

già parte del Testo unificato Bressa, approvato nella XV legislatura.<br />

26 La proposta di legge poggia su due capisaldi: da un lato mira a fare sì che il minore nato in Italia da un nucleo familiare stabile<br />

acquisisca i pari diritti dei coetanei con i quali affronta il percorso di crescita e il ciclo scolastico; in tal modo si evita il crearsi<br />

di una “terra di mezzo”, dove i bambini nati da genitori non italiani crescano con un senso di estraniazione dal loro contesto,<br />

85


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b) altri progetti, in senso contrario, realizzano un irrigidimento dello jus sanguinis, proponendo in<br />

alcuni casi un ritorno a una versione chiusa ed etnica del concetto di cittadinanza: in particolare<br />

nn. 103 e 104 (Angeli), 718 (Fedi), 995 (Merlo), 2006 (Paroli) e 1592 (Cota) 27 .<br />

Il testo unificato, approvato dalla Commissione Affari Costituzionali in sede referente in data 17 dicembre<br />

2009, risulta dal coordinamento delle diverse proposte di legge, unificate dall’idea comune<br />

per cui la cittadinanza non deve essere un acquisto automatico a seguito della permanenza sul<br />

territorio italiano per un determinato numero di anni, ma deve costituire il riconoscimento di un’effettiva<br />

integrazione: una cittadinanza basata dunque non su un fatto quantitativo, bensì su un fatto<br />

qualitativo.<br />

Il provvedimento è costituito da 5 articoli: l’art. 1, modificando l’art. 4, 2° co., l. n. 91/1992, aggiunge<br />

ai requisiti già previsti dalla legislazione vigente per lo straniero che sia nato in Italia e voglia<br />

divenire cittadino italiano (residenza legale ininterrotta fino al raggiungimento della maggiore età),<br />

quello ulteriore di aver frequentato con profitto scuole riconosciute dallo Stato italiano e di aver<br />

assolto il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Come attualmente previsto, la dichiarazione<br />

di volontà deve essere espressa entro un anno dal raggiungimento della maggiore età. Il diritto-dovere<br />

all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento<br />

di una qualifica entro il diciottesimo anno di età è stato previsto dall’art. 2, 1° co., lett. c),<br />

l. n. 53/2003 e successivamente disciplinato dal d.lgs. n. 76/2005, emanato in attuazione di quest’ultima.<br />

L’art. 2 – sostituendo all’art. 9, 1° co., lett. f) – subordina la concessione della cittadinanza allo straniero,<br />

che risieda stabilmente e legalmente da almeno dieci anni nel territorio italiano, allo svolgimento<br />

del percorso di cittadinanza come definito nel successivo articolo 3.<br />

Tale percorso si sostanzia in una serie di condizioni alla cui sussistenza è subordinata l’acquisizione<br />

della cittadinanza dello straniero legalmente soggiornante in Italia da almeno dieci anni.<br />

Tali condizioni sono (novellato art. 9 ter, 1° co.):<br />

a) possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo28 ;<br />

b) frequentazione di un corso di formazione di un anno volto ad approfondire la conoscenza della<br />

storia e della cultura italiana ed europea, dell’educazione civica e dei princìpi della Costituzione<br />

italiana29 ;<br />

c) effettivo grado di integrazione sociale e rispetto, anche in ambito familiare, delle leggi statali e<br />

dei princìpi della Costituzione;<br />

d) rispetto degli obblighi fiscali;<br />

pericoloso per il futuro processo di integrazione e di inserimento sociali del minore. Questo si ottiene passando dall’attuale principio<br />

dello jus sanguinis, sul quale è basata la legislazione vigente, al principio dello jus soli, temperato e condizionato dalla stabilità<br />

del nucleo familiare in Italia o dalla partecipazione del minore a un ciclo scolastico-formativo. L’altro caposaldo della proposta<br />

di legge prevede una svolta paradigmatica nella concezione del meccanismo di attribuzione della cittadinanza in Italia, passando<br />

da un’ottica “concessoria e quantitativa” a un’ottica “attiva e qualitativa”. La cittadinanza deve diventare per lo straniero adulto<br />

un processo certo, ricercato e formativo; il punto di arrivo di un percorso di integrazione sociale, civile e culturale e il punto di<br />

partenza per il suo continuo approfondimento. L’idea fondamentale è, da un lato, quella di fornire tutti gli strumenti idonei a favorire<br />

il processo che porta al pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza a chi dimostri di volersi integrare nel tessuto sociale<br />

e civile della nazione che lo ospita; dall’altro, quella di non far scattare automatismi laddove questa volontà non sia espressa esplicitamente.<br />

27 Bolognino, Le nuove frontiere della cittadinanza nel confronto tra “cittadinanza legale” e “cittadinanza sociale”: verso una riforma<br />

della legge 5 febbraio 1992, n. 91, in http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/site/it-it/Rubriche/Amministrazioni_Pubbliche/Note_e_Commenti/Documento/cittadinanza_bolognino.html,<br />

44.<br />

28 Il “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo”, prima del 2007 denominato “carta di soggiorno”, è il titolo<br />

di soggiorno riservato agli stranieri non comunitari presenti stabilmente nel nostro Paese. È rilasciato a richiesta dell’interessato ed<br />

è condizionato al possesso del permesso di soggiorno, da almeno cinque anni. A differenza del permesso di soggiorno che dura<br />

al massimo due anni, è a tempo indeterminato.<br />

29 Tra i contenuti del corso di formazione non è incluso l’approfondimento della conoscenza della lingua italiana, nella misura<br />

in cui il cosiddetto “pacchetto sicurezza” ha già introdotto un test di conoscenza della lingua italiana, il cui superamento è condizione<br />

essenziale per l’ottenimento del permesso di soggiorno CE (art. 1, 22° co., lett. i), l. n. 94/2009 che ha modificato l’art. 9 d.lgs.<br />

n. 286/1998), che a sua volta è condizione per l’accesso alla cittadinanza.<br />

86


CONTRIBUTI<br />

e) requisiti di reddito, alloggio e assenza di carichi pendenti, necessari per ottenere il permesso di<br />

soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, di cui all’art. 9 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 30 .<br />

Tale aggravio di condizioni per l’accesso alla cittadinanza, dopo una residenza decennale e regolare<br />

nel territorio italiano ai fini dell’acquisto della cittadinanza, viene giustificata con la necessità<br />

di verificare che tale permanenza sia stabile. Questo, al fine di evitare che possa accedere alla cittadinanza<br />

lo straniero che, pur avendone la possibilità, non abbia chiesto il permesso di soggiorno<br />

comunitario per soggiornanti di lungo periodo, ma si sia avvalso, invece, di permessi di soggiorno<br />

temporanei. Si ritiene, infatti, che la richiesta di un permesso di soggiorno di lunga durata<br />

sia un segno evidente e tangibile della volontà di far parte stabilmente della comunità italiana.<br />

L’art. 4, modificando l’art. 10 della legge sulla cittadinanza, prevede che il decreto di attribuzione<br />

o di concessione della cittadinanza acquisti efficacia con il giuramento che deve essere prestato dinanzi<br />

al prefetto della provincia di residenza. La disposizione indica la formula del giuramento<br />

(“Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi,<br />

riconoscendo la pari dignità sociale di tutte le persone”) e prevede che in occasione del giuramento<br />

venga consegnata all’interessato una copia della Costituzione italiana 31 .<br />

Si deve sottolineare, nel proporre una rapida analisi del progetto di riforma, come l’impostazione<br />

di fondo che se ne ricava, possa essere ben sintetizzata dalle seguenti affermazioni del relatore: “la<br />

cittadinanza non rappresenta un mezzo per una migliore integrazione, ma rappresenta la conclusione<br />

di un percorso di integrazione già avvenuta” 32 .<br />

Si tratta di un approccio minimalista che non tiene conto della funzione “di sistema” che la disciplina<br />

della cittadinanza viene a svolgere nell’ambito degli ordinamenti statali 33 .<br />

Se infatti la cittadinanza viene intesa come un atto di volontà del singolo, che impegna lo Stato a<br />

verificarne la solidità e accompagnarne lo sviluppo fino all’attribuzione di un diritto soggettivo, se<br />

pure affievolito, l’interrogativo sul carattere iniziale o conclusivo dell’attribuzione della cittadinanza<br />

nell’ambito del processo di integrazione risulta completamente infondato.<br />

La cittadinanza è l’attribuzione di un diritto da parte dello Stato a una persona che vuole essere<br />

partecipe a pieno titolo della comunità nazionale, per cui la legge che ne propone la disciplina<br />

non deve pertanto essere confusa con altri provvedimenti relativi all’immigrazione o con le politiche<br />

necessarie a garantire un’integrazione compiuta. La cittadinanza rappresenta, infatti, un tassello<br />

rispetto a un più ampio panorama, che prevede il diritto di voto alle elezioni amministrative e<br />

la definizione di politiche d’integrazione concernenti la casa, il lavoro, il welfare e soprattutto la<br />

scuola, provvedimenti che devono affiancare la legge, evitando di considerare la cittadinanza strumento<br />

regolatore dei flussi migratori.<br />

30 Ai sensi del 2° co. del nuovo articolo 9 ter, l’accesso al corso annuale, funzionale alla verifica del percorso di cittadinanza, può<br />

avvenire dopo otto anni di permanenza in Italia. A seguito della richiesta dello straniero di accedere al corso, l’amministrazione<br />

competente deve verificare, entro 120 giorni, la sussistenza del permesso di soggiorno CE, l’adempimento degli obblighi fiscali, la<br />

permanenza dei requisiti di reddito, alloggio e assenza carichi pendenti. Il procedimento amministrativo relativo al percorso di cittadinanza<br />

deve concludersi entro due anni dalla presentazione della richiesta di iscrizione al corso annuale stesso, fermo restando<br />

il requisito dei dieci anni di permanenza in Italia per l’ottenimento della cittadinanza (comma 3). È previsto inoltre (comma 4) che<br />

il Governo ponga in essere, con il concorso delle Regioni, iniziative e attività finalizzate a sostenere il percorso di integrazione linguistica,<br />

culturale e sociale dello straniero.<br />

31 Attualmente si prevede che il decreto di concessione della cittadinanza non abbia effetto se la persona a cui si riferisce non<br />

presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di essere fedele alla Costituzione<br />

e alle leggi dello Stato. Le modalità di prestazione del giuramento sono poi previste dall’art. 7 del decreto del Ministero<br />

dell’Interno del 27 febbraio 2001 (in materia di tenuta dei registri dello stato civile nella fase antecedente all’entrata in funzione degli<br />

archivi informatici).<br />

32 Relazione della I Commissione permanente (Affari Costituzionali) della Camera dei deputati, presentata in data 17 dicembre<br />

2009, relative alle proposte di legge in tema di riforma della cittadinanza AC 103-A e abbinate, 9.<br />

33 Appare emblematico il caso della Francia. La fonte principale del diritto francese della nazionalità è un vero e proprio “Codice<br />

della cittadinanza”, composto di oltre 150 articoli (Code de la nationalité del 19 ottobre 1945, profondamente modificato e integrato<br />

dalla l. 9 gennaio 1973 e ss. mm.). Esso presenta una struttura sistematica assai raffinata, che permette un facile approccio e notevoli<br />

semplificazioni nell’attività interpretativa. Inoltre sembra particolarmente attento a collegare ogni singola opzione giuridica a<br />

un impianto teorico generale coerente con alcune precise premesse definitorie: dopo aver chiarito che può ambire alla dignità di<br />

cittadino francese soltanto chi è in possesso di determinate caratteristiche indispensabili per potersi riconoscere in quella comunità,<br />

la legge delinea una serie di ipotesi diverse, a seconda del grado di avvicinamento delle singole situazioni al modello tipico.<br />

87


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In questo senso la mens legis, che impronta il testo unificato, è orientata a rendere più difficile l’ottenimento<br />

della cittadinanza, in palese controtendenza rispetto alla riforma della legislazione in materia<br />

nei principali Paesi europei che, pur nel quadro di opzioni specifiche che restano piuttosto<br />

differenziate, sono tutte orientate ad attenuare impostazioni basate sullo jus sanguinis accogliendo,<br />

in via tendenziale, lo jus soli e abbreviando i tempi per richiedere la cittadinanza a seguito di<br />

un periodo di prolungata residenza dello straniero sul territorio nazionale.<br />

Gli aggravi imposti dal testo rispetto all’acquisizione della cittadinanza possono essere rapidamente<br />

sintetizzati:<br />

a) nel tratto marcatamente concessorio della disciplina34 , che rimane fondato su un meccanismo di<br />

stampo quantitativo. Sostanzialmente la proposta tende a incrementare la discrezionalità della<br />

pubblica amministrazione per la concessione della cittadinanza, che viene ancorata a requisiti<br />

indeterminati, a fenomeni largamente opinabili, la cui concretizzazione è affidata al regolamento<br />

di attuazione della legge35 ;<br />

b) la previsione del carattere condizionante del possesso del permesso per soggiornanti di lungo<br />

periodo (e del suo mantenimento anche successivamente alla presentazione della domanda per<br />

la cittadinanza) reintroduce surrettiziamente il requisito reddituale, già oggetto di stringenti critiche<br />

in dottrina36 ;<br />

c) l’obbligo di frequenza di un corso annuale di educazione civica e linguistica, previsione condivisibile,<br />

se non si risolvesse in un’ulteriore onere, anziché in un incentivo per il richiedente, come<br />

invece avviene in altri Paesi (penso ad esempio alla Germania) dove la partecipazione consente<br />

di accorciare i tempi per la naturalizzazione.<br />

Vi è poi il problema delle cosiddette “seconde generazioni”, oggetto di scontri ideologici tra le due<br />

fazioni dell’attuale maggioranza, che tuttavia non viene né affrontato, né risolto. Anzi sembra che<br />

il legislatore voglia ex iure deletur factum: non si regola il fenomeno sociale, culturale e antropologico<br />

dei nuovi italiani (forse perché troppo complesso), ma si tenta di annullarlo, dichiararlo inesistente<br />

con la forza del diritto.<br />

In questo senso l’art. 1 del testo unificato appare come un potente incubatore di estraniazione per<br />

chi, nato su suolo italiano, è costretto a vivere formalmente da straniero sino al raggiungimento<br />

della maggiore età, senza che gli sia concessa per tempo – nell’età della costruzione della propria<br />

identità personale, che è anche identificazione con modelli valoriali, culturali e sociali – la possibilità<br />

di amare il Paese dove vive e vivrà37 .<br />

È indubbio che favorire l’acquisizione della cittadinanza italiana per i bambini e i ragazzi che nascono<br />

in Italia significa prevenire conflitti e consentire l’integrazione e la coesione sociale.<br />

Per eterogenesi rispetto alle finalità proclamate, l’art. 1 del testo analizzato conferma i vincoli insiti<br />

nella normativa vigente, che si appalesa tra le più severe in Europa con i figli di stranieri nati nel<br />

territorio dello Stato, in quanto – rispetto alla precedente legge del 1912 – prevede il requisito, dif-<br />

34 L’introduzione – da parte dell’art. 3 del testo unificato – del percorso descritto nel nuovo art. 9 ter, al cui svolgimento è subordinata<br />

l’acquisizione della cittadinanza, sembra inserire nella legge vigente un meccanismo di tipo automatico, che tuttavia contrasta<br />

con l’art. 9 della l. 91/1992 (che permane sostanzialmente immutato) il quale configura l’atto di conferimento come provvedimento<br />

discrezionale di natura concessoria.<br />

35 Si richiede così l’accertamento di un effettivo grado di integrazione sociale, oppure il rispetto, anche in ambito familiare, delle<br />

leggi e della Costituzione e ancora, aver pagato le tasse. Criteri già di per sé passibili di diverse e ampiamente discrezionali interpretazioni:<br />

e allora sarà integrato chi va allo stadio la domenica o chi va a messa o ancora chi va a fare una scampagnata con i<br />

compagni di lavoro o di condominio?<br />

36 Si vedano le opinioni espresse da Bonetti, Rossano e Morozzo della Rocca nel corso dell’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione<br />

Affari Costituzionali della Camera dei Deputati in data 17 marzo 2007.<br />

37 La cittadinanza (nel suo aspetto romantico) è, in primo luogo, esercizio di un atto di volontà profonda, solenne e consapevole,<br />

tuttavia è anche una parte della coscienza di ciascuno, in formazione progressiva, determinata dalle relazioni esistenziali e dai<br />

tratti culturali. Così, ad esempio, nel caso di un bambino arrivato in Italia all’età di due anni e che a dieci o dodici tifa per l’Inter,<br />

mangia la pizza o gli spaghetti, frequenta tutte le settimane amici di origine italiana, vive e si forma una cultura nell’ambito delle<br />

nostre scuole, è irrealistico dire che non rappresenti, nella sua esperienza esistenziale, un cittadino.<br />

88


ficile da provare e da rispettare, della residenza continuativa 38 . Ciò in controtendenza rispetto ad<br />

altre legislazioni: ad esempio quella inglese o portoghese che consente l’acquisizione su richiesta<br />

addirittura alla nascita ai nati sul territorio da genitori che abbiano un permesso di soggiorno permanente<br />

o dopo dieci anni di residenza. Dall’altra aggiunge un’altra condizione data dalla frequenza<br />

con profitto di scuole riconosciute dallo Stato italiano almeno sino all’assolvimento del dirittodovere<br />

all’istruzione e alla formazione.<br />

La relatrice ha ritenuto di giustificare tale previsione con argomentazioni discutibili, secondo cui:<br />

“con riferimento alla previsione dell’obbligo di frequentare con profitto le scuole riconosciute dallo<br />

Stato italiano, l’intenzione è quella di porre i minori stranieri in una posizione di sempre maggiore<br />

parità rispetto ai minori che sono già cittadini italiani. Non si vede, infatti, per quali ragioni a questi<br />

ultimi si impone l’obbligo di frequentare le scuole, mentre la stessa previsione non si vuole applicare<br />

ai minori che non sono ancora cittadini italiani”. Tuttavia, da un lato, il d.lgs n. 76/2005 stabilisce<br />

che la fruizione dell’offerta di istruzione e di formazione costituisce per tutti, ivi compresi i<br />

minori stranieri presenti nel territorio dello Stato, oltre che un diritto soggettivo, un dovere sociale<br />

ai sensi dell’art. 4 Cost., il cui inadempimento comporta sanzioni per i genitori (artt. 1, comma 6, e<br />

5), dall’altro, appare decisamente improprio l’uso della locuzione “frequenza con profitto”, che è utilizzata<br />

solitamente con riferimento a corsi di aggiornamento o qualificazione professionale.<br />

Un’ultima questione è però centrale, ossia la semplificazione dei procedimenti amministrativi che<br />

rappresenta buona parte della legge sulla cittadinanza. A termini di law in books per l’ottenimento<br />

della cittadinanza sono necessari tre, cinque o dieci anni, ma se si analizza il procedimento amministrativo<br />

(quale esempio di law in action), queste stime divengono irrealistiche in quanto, di norma,<br />

bisogna aggiungervi almeno due o tre anni. Né il testo unico apporta alcuna innovazione concreta,<br />

nella misura in cui i termini in esso previsti per il procedimento mantengono natura ordinatoria.<br />

Allora sarebbe stato razionale, a fronte della dura realtà della nostra burocrazia, stabilire che,<br />

in tema di acquisto della cittadinanza, la sussistenza delle condizioni prescritte debba essere valutata<br />

con riferimento al momento della domanda e non al momento dell’emissione del provvedimento<br />

concessorio o costitutivo del diritto.<br />

4. Conclusioni provvisorie<br />

CONTRIBUTI<br />

Il testo unificato – se le condizioni politiche lo permetteranno – dovrà ancora affrontare l’esame e<br />

la discussione parlamentare, per cui vi sarà tempo e occasione per ritornare a discutere di questa<br />

tematica (anche alla luce di eventuali modifiche che verranno apportate al testo commentato). Tuttavia<br />

mi pare di poter dire che l’esigenza di una riforma della legge sulla cittadinanza sia strettamente<br />

legata al problema emergente dell’integrazione delle seconde generazioni, che rappresenta<br />

non solo un nodo cruciale dei fenomeni migratori, ma anche una sfida per la coesione sociale e<br />

un fattore di trasformazione delle società riceventi 39 .<br />

38 Costituendo elemento significativo del progetto, non si può evitare di sottolineare come la dizione di “legalmente residente”<br />

sia intrinsecamente ambigua e pregna di rischi interpretativi, in quanto è una formula che non ha precisione in sé e può essere letta<br />

in vari modi, tra cui, più frequentemente, come “residenza anagrafica”. La residenza anagrafica, però, ubbidisce a regole e discipline<br />

che oggi, e non solo da oggi, vivono una seria sofferenza applicativa, soprattutto nelle grandi metropoli, dove le strutture<br />

degli uffici anagrafici non permettono il controllo puntuale sul territorio. Da alcuni decenni, infatti, nelle metropoli tutte le funzioni<br />

anagrafiche di fatto, in luogo dell’accertamento della residenza utilizzano, in via di soccorso, l’esibizione di certificazione impropria,<br />

dimostrativa e sintomatica, della presenza. Quest’ultima, però, contiene delle rigidità e rende più difficile l’acquisto della residenza<br />

anagrafica da parte di una persona che, di fatto, è già da tempo legalmente soggiornante in Italia.<br />

39 In questo senso “Bastenier e Dassetto (Bastenier, Dassetto, Italia, Europa e nuove immigrazioni, Torino, 1990, 17) hanno fatto<br />

notare che ricongiungimenti familiari, nascita dei figli, scolarizzazione, incrementano i rapporti tra gli immigrati e le istituzioni<br />

della società ricevente, producendo un processo di progressiva ‘cittadinizzazione’ dell’immigrato, ossia ‘un processo che lo porta<br />

ad essere membro e soggetto della città intesa nella più larga accezione del termine’. Dunque, nel bene e nel male, la nascita e<br />

la socializzazione delle seconde generazioni, anche indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti, producono uno sviluppo<br />

delle interazioni, degli scambi, a volte dei conflitti tra popolazioni immigrate e società ospitante; sicché rappresentano un punto<br />

di svolta dei rapporti interetnici, obbligando a prendere coscienza di una trasformazione irreversibile nella geografia umana e<br />

sociale dei paesi in cui avvengono”. Cfr. Ambrosini, Caneva, Le seconde generazioni: nodi critici e nuove forme di integrazione, in<br />

Sociologia e Politiche sociali, 1/2009.<br />

89


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

I cittadini stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2009 sono quasi quattro milioni, pari al 6,5% del<br />

totale dei residenti. Si tratta di un aumento del 13% rispetto all’anno precedente, ma siamo ancora<br />

lontani dal 13% complessivo degli Stati Uniti, dal 20% del Canada e dal 13,5% della Germania, anche<br />

perché il nostro è un fenomeno di immigrazione più recente.<br />

Se si considera poi che sul totale dei residenti di cittadinanza straniera, quasi 520mila sono nati in<br />

Italia, 72mila nel solo anno 2009, appare evidente come il fenomeno delle cosiddette seconde generazioni<br />

rappresenti un segmento di popolazione in costante crescita 40 .<br />

Appare sempre più evidente – alla luce dell’affermazione, anche nello spazio pubblico, della cosiddetta<br />

“generazione Balotelli” – il pregiudizio che potrebbe essere determinato alla complessiva<br />

coesione sociale dalla divaricazione tra “cittadinanza formale” e “cittadinanza sostanziale”, l’impossibilità,<br />

cioè, di definire l’appartenenza alla comunità nazionale sulla base dei soli elementi individuati<br />

dalla l. n. 91/1992, con il rischio di mortificare l’essenza stessa dello Stato democratico.<br />

L’esclusione degli stranieri che vivono regolarmente da tempo nel nostro Paese dall’attiva partecipazione<br />

alla vita sociale anche attraverso l’inclusione nei processi decisionali (con l’attribuzione dei<br />

diritti politici) contrasta visibilmente “con il discorso di fondo e i valori di integrazione” consacrati<br />

dal nostro ordinamento costituzionale e finisce per alimentare ulteriori tensioni nel già delicatissimo<br />

campo della convivenza propria di una società multietnica 41 .<br />

40 Caritas Italiana-Fondazione Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2009, XIX Rapporto, Roma, 2009.<br />

41 Bettinelli, Cittadini Extracomunitari, voto amministrativo e Costituzione inclusiva, in Quaderno, 15, in Caretti (a cura di), Seminario<br />

2004 dell’Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Torino, 2004, 36. L’articolo è scaricabile all’indirizzo<br />

http//:www.astrid-online.it/Immigrazio/Studi--ric/BETTINELLI--Voto-extracomunitari.pdf<br />

90


IL RAPPORTO GERIN-RAOULT SUL VELO ISLAMICO RIACCENDE IL DIBATTITO<br />

Angela Cossiri<br />

Ricercatrice di Istituzioni di diritto pubblico presso il Dipartimento di diritto pubblico e teoria<br />

del governo, professore aggregato di Diritti sociali e di cittadinanza presso la Facoltà<br />

di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Macerata<br />

1. Il rapporto Gerin-Raoult sul velo islamico integrale: non solo repressione<br />

EUROPA<br />

Il Parlamento francese sta discutendo una proposta di legge che prevede il divieto di indossare il<br />

velo islamico integrale nei luoghi pubblici 1 . La normativa riguarderebbe esclusivamente il niqab, il<br />

velo che lascia spazio agli occhi, e il burqa, in cui il viso è interamente coperto. Il 26 gennaio è stato<br />

depositato il Rapporto elaborato dalla Commissione parlamentare di studio, che conclude sei mesi<br />

di lavori e di audizioni 2 .<br />

La relazione, dai toni molto prudenti, si esprime a favore dell’introduzione di una disposizione legislativa,<br />

il più possibile condivisa dalle forze politiche, che vieti di dissimulare il viso negli esercizi<br />

e servizi pubblici (per esempio nel settore dei trasporti), escludendo peraltro di estendere il bando<br />

a tutti gli spazi pubblici, data l’assenza di una veduta unanime sul punto.<br />

Il rapporto raccomanda di optare per uno strumento legislativo che possa essere declinato per via<br />

amministrativa: la violazione di questa regola non dovrebbe quindi costituire un crimine o un reato<br />

e potrebbe, al più, prevedere un’ammenda di importo contenuto e potrebbe implicare un rifiuto<br />

di corrispondere il servizio richiesto.<br />

La misura descritta, per quanto del tutto omessa nel dibattito italiano scaturito dalla presentazione<br />

del documento, si inserisce in un quadro assai più ampio che riconosce come prioritaria un’incisiva<br />

politica di dialogo interculturale e di integrazione, considerata lo strumento principale, da un lato,<br />

per contrastare apartheid sessuale e derive settarie liberticide e, dall’altro, per garantire una giu-<br />

1 Il presente contributo è stato chiuso in data 5 febbraio <strong>2010</strong>.<br />

In aggiornamento si segnala che il 25 marzo <strong>2010</strong>, il Consiglio di Stato francese ha pronunciato un parere in merito al divieto per<br />

legge dell’uso di velo integrale negli spazi pubblici, rilevando gli ostacoli giuridici di una simile generalizzata interdizione, “di ordine<br />

costituzionale e rispetto alla Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Secondo il Consiglio di Stato<br />

francese spetta all’autorità amministrativa competente prescrivere eventualmente il divieto solo per ragioni di sicurezza e identificazione,<br />

limitandosi ad alcuni luoghi pubblici: “tribunali, seggi elettorali, comuni, scuole, ospedali e università o qualsiasi luogo<br />

in cui si viene sottoposti ad un esame”. Il documento è disponibile nel sito www.olir.it.<br />

Successivamente, in data 13 luglio <strong>2010</strong>, l’Assemblea Nazionale francese ha approvato il progetto di legge per la messa al bando<br />

del velo integrale islamico (niqab e burqa) nei luoghi pubblici, con 335 voti a favore e uno contrario. La gran parte dei membri<br />

del Partito socialista, principale forza di opposizione, si è rifiutata di partecipare al voto.<br />

Il Senato esaminerà a sua volta il progetto di legge il prossimo settembre, e non dovrebbero esserci ostacoli per la sua approvazione<br />

finale. Il testo votato oggi, presentato dal ministro della Giustizia Michele Alliot-Marie, prevede il divieto di indossare il velo<br />

integrale in tutti i luoghi pubblici. Mariti o conviventi che obbligano le loro compagne a indossare il velo saranno suscettibili di arresto<br />

fino a un massimo di un anno e potrebbero essere condannati a pagare un’ammenda di 15.000 euro.<br />

Invece, in Belgio, il 31 marzo <strong>2010</strong>, la Commissione parlamentare Affari interni ha approvato, con il favore di tutti i gruppi politici,<br />

una modifica al locale codice penale, imponendo un’ammenda o sette giorni di carcere “a chi si presenterà in uno spazio pubblico<br />

con il volto coperto, del tutto o in parte, che ne impedisca l’identificazione”, salvo eccezioni autorizzate, come nel caso del<br />

Carnevale. Se la modifica sarà confermata in aula, il Belgio sarebbe il primo Paese europeo a dire “no” al velo islamico integrale.<br />

2 Assemblée Nationale-Treizième Législature, Rapport d’information fait en application de l’article 145 du règlement, au nom<br />

de la mission d’information sur la pratique du port du voile intégral sur le territoire national, 26 janvier <strong>2010</strong>. Il documento è disponibile<br />

all’indirizzo www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i2262.asp<br />

91


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

sta rappresentazione delle diversità identitarie e religiose. Nel rapporto francese, prima che di divieti,<br />

si parla quindi di: potenziamento della mediazione culturale; mobilitazione degli operatori di settore<br />

e degli enti locali in prima linea; sostegno alle associazioni di difesa dei diritti delle donne; formazione<br />

degli operatori dei servizi pubblici; educazione civica all’ingresso per gli immigrati; scuole<br />

come luogo di prevenzione alla violenza sessista e insegnamento della lingua araba e dei fondamenti<br />

della civiltà musulmana; aiuti pubblici per la costruzione di luoghi di culto. La Francia pensa<br />

anche al rafforzamento della protezione giuridica delle donne contro la violenza, in special modo<br />

nella coppia e con riguardo alle minori costrette a subire l’imposizione del velo integrale. Si prospetta<br />

altresì di prendere in considerazione il velo come indice di contesto persecutorio ai fini del<br />

riconoscimento del diritto d’asilo.<br />

Per completezza del quadro di riferimento, va ricordato che in Francia esiste già dal 2004 una legge<br />

che vieta a studenti e insegnanti di indossare simboli religiosi “ostensivi” nelle scuole pubbliche<br />

(siano essi veli islamici, crocefissi cristiani, zuccotti ebraici o turbanti sikh). L’impianto costituzionale<br />

francese, diverso da quello italiano sotto questo profilo, accoglie un principio di laicità cosiddetta<br />

“negativa” che impone allo Stato l’assoluta neutralità rispetto ai fenomeni religiosi, neutralità che<br />

si spinge fino a legittimare la compressione del diritto individuale di esibire sul proprio corpo simboli<br />

di culto, almeno nelle sedi destinate all’educazione.<br />

A fronte di alcuni Paesi europei che stanno aprendo la discussione sulla possibilità di un intervento<br />

normativo in materia di velo, esistono ordinamenti, come quello britannico, in cui non si intende<br />

adottare alcuna legge che vieti il burqa, il niqab o altri abbigliamenti religiosi (il Governo ha riaffermato<br />

anche di recente tale linea), limitandosi a puntuali interventi regolatori di fattispecie che investono<br />

rilevanti interessi antagonisti: gli esempi sono l’autorizzazione concessa dal Ministero dell’Educazione<br />

ai direttori delle scuole pubbliche a vietare l’uso del niqab in luogo delle tradizionali<br />

divise e la determinazione governativa che ha stabilito la liceità dell’uso del velo anche nelle aule<br />

di Tribunale purché non interferisca con la giustizia e dunque consenta il riconoscimento.<br />

In tutti i casi, comunque, il tema dell’abbigliamento religioso è stato affrontato in termini estremamente<br />

prudenziali da legislatori e Corti nazionali e internazionali che se ne sono occupati in ambito<br />

europeo ed extraeuropeo e, anche ove si è assunta la prospettiva del divieto, esso ha investito<br />

esclusivamente le donne che svolgono impieghi pubblici o scolare e studentesse di scuole o università<br />

pubbliche 3 .<br />

2. Il dibattito in Italia in prospettiva de iure condendo<br />

2.1. La proposta francese è immediatamente rimbalzata in Italia nel dibattito politico interno, che ne<br />

ha colto unicamente il profilo repressivo: il divieto, semplicisticamente tradotto nei termini di un<br />

“no” al velo islamico nei luoghi pubblici, ha incassato subito il favore della Lega che ha plaudito all’iniziativa<br />

come forma di contrasto all’immigrazione clandestina. L’idea del bando del velo islamico<br />

integrale, peraltro, trova sostegno trasversale anche in virtù di argomenti più pregevoli.<br />

Anzitutto il velo integrale non sarebbe un vero e proprio simbolo religioso, poiché esso non ha riscontro<br />

nell’ufficialità della religione musulmana, sia perché mancano fondamenti testuali espliciti<br />

nella letteratura sacra, sia perché tale pratica è unanimemente rigettata dai rappresentanti del culto<br />

e dagli esperti di Islamismo 4 . Pertanto esso si porrebbe solo come strumento di oppressione sessista,<br />

negatorio della dignità della donna ovvero, secondo una lettura più politica, simbolo di un fondamentalismo<br />

islamico che esprime estraneità ai valori della società occidentale.<br />

Lo studio francese rileva tuttavia, giustamente, che indossare il velo è una pratica cosciente e volontaria<br />

riguardante una ristretta minoranza di donne (1.900 in Francia), che affonda le sue radici nel-<br />

3 Vedi Zagato, Il volto conteso: il velo islamico e il diritto internazionale dei diritti umani, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza,<br />

n. 9, 2/2007, 64 ss.<br />

4 Così anche Rapport d’information cit., 36 ss.<br />

92


EUROPA<br />

l’esigenza di affermare un’identità culturale ovvero esteriorizza un segno di appartenenza a movimenti<br />

integralisti. È sorprendente il profilo delle donne che scelgono il velo integrale: hanno mediamente<br />

un’età inferiore ai 40 anni, i 2/3 di esse hanno cittadinanza francese e sono figlie o nipoti di<br />

immigrati di prima generazione, mentre 1/4 sono donne di tradizione o religione non musulmana,<br />

successivamente convertite all’Islam 5 .<br />

In una nota sentenza del 2003, riguardante la vicenda di un’insegnante cui veniva impedito l’uso del<br />

velo a scuola, la Corte Costituzionale tedesca aveva affrontato il profilo della valenza complessa del<br />

simbolo, riferendosi alla molteplicità di ragioni, difficilmente indagabili, che spingono una donna<br />

musulmana a indossarlo: in particolare, il desiderio di conservare “in una situazione di diaspora”<br />

la propria identità, di portare rispetto alla tradizione dei genitori, di integrarsi secondo la propria autodeterminazione,<br />

di segnalare una non-disponibilità sessuale 6 . Senza voler sconfinare in considerazioni<br />

di semiotica, è indubitabile che il velo rappresenti una molteplicità di significati; tuttavia, è classicamente<br />

inquadrato nella dimensione della libertà religiosa individuale, espressione di una più ampia<br />

libertà di coscienza, come altri tipi di abbigliamento religioso-tradizionale. Secondo l’impostazione<br />

maggiormente condivisa, deve considerarsi “religiosa” (o a essa assimilabile), qualsiasi convinzione<br />

che venga sentita come tale dal fedele, senza poter prescindere dal suo punto di vista e dal<br />

suo modo di sentire, secondo un canone di autodefinizione della religiosità 7 . Nel caso specifico, inoltre,<br />

l’uso del velo come simbolo religioso sarebbe assistito anche dall’ulteriore indice, elaborato dalla<br />

giurisprudenza costituzionale italiana, della “comune considerazione”. Del resto, nella stragrande<br />

maggior parte dei casi, le Corti nazionali e internazionali che si sono espresse sul velo islamico e gli<br />

stessi ricorrenti hanno ricondotto la fattispecie alla tutela della libertà religiosa.<br />

L’effetto conseguente a questo inquadramento dovrebbe quindi essere la necessità di assicurare la<br />

libertà di usare il velo, anche integrale, nei termini in cui la libertà religiosa trova garanzia nella Costituzione<br />

e nelle Convenzioni internazionali sui diritti. Assumendo questa prospettiva, un “no” incondizionato<br />

e non modulato all’uso del velo islamico integrale in tutti i luoghi pubblici dovrebbe<br />

superare in Italia alcuni profili problematici di compatibilità costituzionale. L’art. 19 Cost., infatti, stabilisce<br />

il diritto individuale di ciascuno di professare liberamente la propria fede e di esercitarne anche<br />

in pubblico il culto, salvo il limite del buon costume.<br />

È vero peraltro che tale limite espresso non è esaustivo, poiché, come per tutte le libertà costituzionali,<br />

il legislatore e l’interprete sono tenuti al bilanciamento con altri valori di rilievo costituzionale<br />

che dovessero in concreto risultare antagonisti. Ne consegue che sarebbe costituzionalmente legittimo<br />

limitare l’uso del velo, espressione di libertà religiosa, quando questo risulti in concreto conflitto<br />

con altri interessi costituzionalmente protetti, ma tale limitazione dovrebbe avvenire nel rispetto<br />

della logica del giudizio di bilanciamento tra valori costituzionali concorrenti, con l’applicazione<br />

degli ordinari canoni della congruità del mezzo rispetto al fine e della proporzionalità della misura<br />

di compressione.<br />

Una visione liberale sull’uso del velo non può prescindere, comunque, dal tenere alta la guardia sulla<br />

consapevolezza e sulla volontarietà dell’uso, che segnano la linea di distinzione tra pratiche oppressive<br />

ed esercizio di libere scelte individuali. Seppure la categoria dell’imposizione vessatoria, per<br />

quanto possa immaginarsi diffusa, non esaurisca l’intero orizzonte (come emerge con chiarezza ove<br />

la scelta venga difesa con consapevole determinazione da studentesse, insegnanti o donne professionalizzate<br />

che giungono a rivendicare il loro diritto di fronte ai Tribunali dei Paesi ospitanti), certamente<br />

ogni forma di repressione dell’autodeterminazione delle donne dovrebbe essere colta con<br />

la dovuta attenzione dai servizi pubblici preposti alla vigilanza e perseguita penalmente, in applicazione<br />

delle fattispecie di reato esistenti che coprono ampiamente ogni eventuale casistica.<br />

5 Ivi, 41 ss.<br />

6 Di Martino, La “decisione sul velo” del Bundesverfassungsgericht, 2004, consultabile all’indirizzo http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/archivio/velo/index.html<br />

7 Guazzarotti, Commento all’art. 19 Cost., in Bartole e Bin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, 150<br />

ss.<br />

93


AIAF RIVISTA <strong>2010</strong>/2 • maggio-agosto <strong>2010</strong><br />

2.2. Altrettanto complesso sembra il profilo del necessario bilanciamento tra il diritto a esprimere la<br />

propria convinzione religiosa, anche indossando il velo integrale, e la sicurezza pubblica.<br />

L’art. 5 della legge n. 152 del 22 maggio 1975 in materia di identificabilità delle persone, varata in<br />

pieni “anni di piombo”, vieta l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso<br />

il riconoscimento della persona in luogo pubblico, o aperto al pubblico, senza giustificato<br />

motivo.<br />

Si tratta della normativa balzata agli onori della cronaca quando alcuni sindaci leghisti si sono appellati<br />

ad essa – fornendone un’interpretazione creativa – per bandire, con ordinanze locali, sia il<br />

velo integrale che il burkini, il costume da bagno usato dalle donne musulmane (vedi ad esempio<br />

l’ordinanza del Comune di Azzano Decimo 8 , poi annullata con decreto prefettizio confermato dal<br />

TAR Friuli-Venezia Giulia e dal Consiglio di Stato).<br />

La ratio della disposizione, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è di evitare che l’utilizzo di caschi<br />

o di altri mezzi abbia il fine di evitare il riconoscimento. Pertanto, un divieto assoluto vi è solo<br />

in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico (tranne<br />

quelle di carattere sportivo che comportino tale uso). Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente<br />

idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene “senza giustificato<br />

motivo”.<br />

In dottrina è stato acutamente osservato che la disposizione di cui alla legge 152 del 1975 non dovrebbe<br />

essere applicabile al velo islamico, poiché l’espressione dell’identità culturale-religiosa dell’individuo,<br />

costituzionalmente protetta dall’art. 19 Cost., costituirebbe proprio quel “giustificato motivo”<br />

che autorizza la deroga 9 .<br />

Anche secondo il Consiglio di Stato, interessato della menzionata vicenda di Azzano Decimo, il riferimento<br />

alla legge 152 non è pertinente al velo islamico: indipendentemente dalla lettura di esso<br />

come simbolo culturale, religioso, o di altra natura, il velo non è “un mezzo finalizzato a impedire<br />

senza giustificato motivo il riconoscimento. Il citato art. 5 consente nel nostro ordinamento che<br />

una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono<br />

soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per tali persone di<br />

sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che tale<br />

interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano<br />

essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con<br />

il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base<br />

di specifiche e settoriali esigenze” 10 .<br />

Dopo l’adozione di questa pronuncia, ben cinque proposte di legge, aventi a oggetto la modifica<br />

dell’articolo 5 della legge 152 del 1975, sono state depositate alla Camera dei deputati su iniziativa<br />

parlamentare di varia provenienza politica e sono attualmente in discussione presso la Commissione<br />

affari costituzionali (C-627, C-2422, C-2769, C-3018 e C-3020). Tutte le proposte si limitano a porre<br />

all’interno di una legge di tutela dell’ordine pubblico un divieto di velo penalmente sanzionato<br />

(sia pure con modulazioni ampiamente differenziate), senza inserire la misura repressiva nel contesto<br />

di una più ampia politica d’integrazione e dialogo interculturale.<br />

Secondo la più estrema di esse, presentata a fine 2009 da alcuni deputati leghisti, diventerebbe vietato<br />

“ogni mezzo che non renda visibile l’intero volto, in luogo pubblico o aperto al pubblico, inclusi<br />

gli indumenti indossati in ragione della propria affiliazione religiosa”. Scomparirebbero quindi i<br />

giustificati motivi, per cui chi indossasse i vari tipi di velo che coprono almeno parte del volto, esattamente<br />

come chi indossa un casco, un passamontagna o un fazzoletto in contesti pubblici non idenei,<br />

rischierà l’arresto in flagranza (e secondo questa proposta fino a due anni di carcere e fino a<br />

2.000 euro di ammenda).<br />

8 Comune di Azzano Decimo, Ordinanza 05 febbraio 2009, n. 3, in materia di uso di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento<br />

della persona. Il documento è consultabile all’indirizzo http://www.olir.it/documenti/index.php?argomento=26&documento=5157<br />

9 Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose: un percorso costituzionale, Bologna, 2006, 166 ss.<br />

10 CdS, sez. VI, sent. n. 3076/2008 in www.federalismi.it<br />

94


EUROPA<br />

Misure repressive di questo tipo, che certo non costituiscono una protezione per le donne, non sembrano<br />

compatibili con il disegno costituzionale e la necessità di un corretto giudizio di bilanciamento:<br />

un diritto di rilievo costituzionale sarebbe completamente eliminato, senza individuare soluzioni<br />

alternative di compromesso meno sacrificanti, che ne preservino il nucleo essenziale.<br />

Tirando le fila di quanto sin qui esposto, calato nel contesto socio-culturale italiano, il divieto di indossare<br />

il velo islamico integrale nei luoghi pubblici imposto per legge non sembra essere un presidio<br />

di laicità ma piuttosto “una politica della scorciatoia”, una scelta impositiva e sanzionatoria nei<br />

confronti di una minoranza, dietro alla quale rischiano di annidarsi strumentalizzazioni e intolleranze<br />

xenofobe o religiose. Questa opzione rischierebbe di aggravare la condizione delle donne che<br />

sarebbero semplicemente relegate negli spazi privati, ove volessero continuare la pratica di indossare<br />

il velo o, peggio, non potessero sottrarsi all’imposizione.<br />

Il punto di vista che nega l’opportunità di interventi normativi repressivi sulle donne non nega tuttavia<br />

l’esigenza di attivare anche in Italia più difficili politiche di integrazione e di dialogo interculturale<br />

che impegnino l’apparato pubblico in tutte le sue articolazioni, a partire dai luoghi educativi,<br />

a fornire un efficace supporto alle donne che vogliono emanciparsi, vigilando con attenzione sulle<br />

situazioni critiche e reprimendo con fermezza eventuali comportamenti penalmente rilevanti. Tutto<br />

ciò si potrebbe fare a legislazione invariata, applicando seriamente le leggi già esistenti e utilizzando<br />

l’ampio strumentario che esse forniscono, come ad esempio la quasi dimenticata mediazione culturale<br />

11 .<br />

11 Si segnala infine il contributo dottrinale di Brunelli, La disciplina dell’uso del burqa e delle mutilazioni genitali femminili, in<br />

Quaderni europei, 3/<strong>2010</strong>, La diversità culturale nel processo di integrazione europea, 13 ss., scaricabile all’indirizzo<br />

http://www.lex.unict.it/cde/quadernieuropei/serie_speciale/3_<strong>2010</strong>.pdf<br />

95


AIAF - Organi statutari<br />

Presidente: Milena Pini<br />

Vicepresidente: Luisella Fanni<br />

Giunta Esecutiva: Milena Pini (Presidente), Luisella Fanni (Vicepresidente), Marina Marino (AIAF Lazio),<br />

Daniela Abram (AIAF Emilia Romagna), Manuela Cecchi (AIAF Toscana), Remigia D’Agata (AIAF Sicilia),<br />

Gabriella de Strobel (AIAF Veneto), Liana Maggiano (AIAF Liguria), Antonina Scolaro (AIAF Piemonte)<br />

Direttore Alta Scuola di specializzazione dell’AIAF: Marina Marino<br />

Comitato Direttivo Nazionale<br />

composto “di diritto dai Presidenti delle Associazioni Regionali/Distrettuali e da un rappresentante<br />

per ciascuna regione, nonché da un rappresentante per Regione ogni quaranta iscritti, compresi i soci<br />

del Distretto, e un ulteriore rappresentante per ogni successiva frazione superiore a venti”.<br />

Abruzzo<br />

Maria Carla Serafini (presidente)<br />

Federica Di Benedetto<br />

Calabria<br />

Stefania Mendicino (presidente)<br />

Campania<br />

Rosanna Dama (presidente)<br />

Erminia Del Cogliano<br />

Emilia Romagna<br />

Ada Valeria Fabj (presidente)<br />

Daniela Abram, Lorenza Bond, Isabella Trebbi<br />

Giordani<br />

Friuli Venezia Giulia<br />

Maria Antonia Pili (presidente)<br />

Graziella Cantiello<br />

Lazio<br />

Marina Marino (presidente)<br />

Nicoletta Morandi, Costanza Pomarici, Giulia Sarnari<br />

Liguria<br />

Liana Maggiano (presidente)<br />

Ilaria Felicetti, Alberto Figone<br />

Lombardia<br />

Franca Alessio (presidente)<br />

Maurizio Bandera, Marisa Bedotti, Marina Bologni,<br />

Cinzia Calabrese, Cinzia Colombo, Giuseppina<br />

Debiasi, Antonella De Peri, Cesare Fiore, Stefania<br />

Lingua, Carla Loda, Francesca Mazzoleni, Gerardo<br />

Milani, Laura Pietrasanta, Milena Pini, Nicoletta<br />

Stefania Pisano, Mirella Quattrone, Antonella Ratti<br />

Marche<br />

Anna Pelamatti Cagnoni (presidente)<br />

Marina Guzzini<br />

Piemonte<br />

Antonina Scolaro (presidente)<br />

Maria Cristina Bruno Voena, Cristina Giovando,<br />

Maria Cristina Ottavis, Marina Torresini<br />

Puglia<br />

Ada Marseglia (presidente)<br />

Sardegna<br />

Luisella Fanni (presidente)<br />

Vittorio Campus, Anna Marinucci, Francesco Pisano<br />

Sicilia<br />

Remigia D’Agata (presidente)<br />

Cinzia Fresina, Antonio Leonardi, Caterina Mirto<br />

Toscana<br />

Manuela Cecchi (presidente)<br />

Sandra Albertini, Gigliola Montano, Bruna Repetto,<br />

Sandra Tagliasacchi, Valeria Vezzosi<br />

Umbria<br />

Anna Maria Pacciarini (presidente)<br />

Stefania Cherubini, Maria Rita Tiburzi<br />

Veneto<br />

Alessandro Sartori (presidente)<br />

Roberta Bettiolo, Gaudenzia Brunello, Paola Cacco,<br />

Giuliana Castelletti, Francesca Collet, Lorenza<br />

Cracco, Guido Dalla Palma, Gabriella de Strobel,<br />

Caterina Evangelisti Franzaroli, Anna Kusstascher,<br />

Rita Mondolo, Giovanna Olivieri, Umberto Roma,<br />

Anna Sartor, Giulia Schiaffino, Lara Sereno,<br />

Damiana Stocco, Assunta Todini, Daniela Turci

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