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Volume 1 - MAC Francesco Bartoli

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F R A N C E S C O<br />

B A R T O L I<br />

S C R I T T I D ’ A R T E<br />

1 9 6 7 - 1 9 9 7<br />

Un viaggio lungo trent’anni<br />

p r i m o v o l u m e 1 9 6 7 - 1 9 7 8


Dove è il nome del sole?<br />

È in alto, in cielo, nel sole...<br />

dappertutto in tutte le case negli angoli...<br />

Che cosa è lo spazio?<br />

sono delle piccole case per passare.<br />

Il nome è in tutti i posti che lo sanno...”.<br />

“Che cosa è lo spazio” Gastone Novelli


Questa pubblicazione è stata possibile grazie al concreto sostegno<br />

del Comune di Mantova, della Provincia di Mantova<br />

e della Fondazione Banca Agricola Mantovana.<br />

Un particolare ringraziamento è dovuto a Palazzo Te, alla Casa del Mantegna<br />

e alla Camera di Commercio che hanno permesso<br />

l’utilizzazione di alcune immagini di opere delle loro collezioni.<br />

Si ringrazia inoltre, per la disponibilità, l’Archivio Sartori<br />

che ha reso possibile reperire alcuni “scritti”<br />

che qui vengono pubblicati.<br />

Per la loro competenza e disponibilità un grande apprezzamento è rivolto a<br />

Claudio Antoniazzi, Annarosa Enzi Baratta, Pierluigi <strong>Bartoli</strong>, Sonia Costantini, Susanna Sassi<br />

e a Gianluigi Arcari per il prezioso supporto.<br />

Artefice fondamentale di questo lavoro, Ester Mantovani <strong>Bartoli</strong>,<br />

con grande competenza e affetto, ha ricostruito, passo passo,<br />

il lavoro di <strong>Francesco</strong>.<br />

La disponibilità degli artisti e dei famigliari ha contribuito alla ricchezza delle informazioni<br />

contenute in questo lavoro. Un ringraziamento particolare è rivolto a Franco Bassignani,<br />

Edoardo Bassoli, Carla Bernardelli, Claudio Bondioli Bettinelli, Anna Bolognesi, Carlo Bonfà,<br />

Ferdinando Capisani, Adriano Castelli, Sonia Costantini, <strong>Francesco</strong> Dalmaschio,<br />

Gabriella Facciotto, Italo Lanfredini, Ernesto Lojero, Gianni Madella, Augusto Morari,<br />

Luigi Mutti, Giorgio Nenci, Teresa Noto, Roberto Pedrazzoli, Concetto Pozzati,<br />

Maria Rosa Schirolli, Sergio Sermidi, Gianluigi Troletti, Valentino Vago.<br />

Un ringraziamento particolare è rivolto a Giorgio Fasol per aver messo a disposizione<br />

le immagini delle opere di Rodolfo Aricò, a Gianfranco Ferlisi per il testo<br />

“L’Area Mantovana: primo approccio ad un’ipotesi di attivazione”.<br />

Ad Enrica Zacchi un grazie per la fattiva collaborazione.<br />

Progetto grafico e coordinamento editoriale<br />

Eristeo Banali<br />

Stampa<br />

Publi Paolini, Mantova


FRANCESCO<br />

B A R T O L I<br />

S C R I T T I D ’ A RT E<br />

1 9 6 7 - 1 9 9 7<br />

Un viaggio lungo trent’anni<br />

a cura di<br />

Eristeo Banali<br />

1° volume<br />

1967-1978


Un rigore esemplare<br />

A più di dieci anni dalla scomparsa di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> è questa l’occasione per rendere omaggio a un grande personaggio<br />

che nella sua ampia e articolata attività intellettuale e politica ha sempre saputo e voluto porre l’attenzione<br />

sulla vocazione culturale della nostra città.<br />

Dai suoi scritti emerge con forza l’impegno e la passione di storico e studioso d’arte; dalla sua vita la figura di un<br />

uomo di grande talento e lungimiranza, quando dai banchi dell’aula consiliare o dal Centro Internazionale d’Arte e<br />

Cultura di Palazzo Te sosteneva l’importanza di dare vita a Mantova a “officine” della cultura, non abbandonando<br />

mai il sogno di un museo d’arte moderna e contemporanea, il <strong>MAC</strong>, così come gli piaceva definirlo.<br />

In sintonia con il suo tempo, ironico e profondamente umile, è stato uomo di cultura raffinato e appassionato, mentore<br />

degli artisti che catturavano il suo interesse, spesso fustigatore delle Istituzioni cui rimproverava insensibilità ed<br />

inefficienze verso il mondo della cultura.<br />

L’uomo d’ingegno, lo studioso d’arte, il cultore e professore di teatro, l’uomo politico e il promotore di idee ci hanno<br />

dato e continuano a darci una grande lezione di vita su cui dobbiamo riflettere e a cui dobbiamo guardare con attenzione<br />

e rispetto per coltivare, vivere e realizzare quel concetto universale di patrimonio mondiale dell’umanità<br />

di cui si onora la nostra città e che <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> aveva colto molto prima di altri.<br />

Paolo Gianolio Fiorenza Brioni<br />

Assessore alla Cultura del Comune di Mantova Sindaco di Mantova<br />

7


L’attualità del suo impegno<br />

Ancora oggi <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> rimane un punto di riferimento insostituibile per la comunità artistica mantovana. Lo<br />

studioso è da considerare, infatti, fra le voci più alte della cultura mantovana del ‘900, sia per il rigore scientifico<br />

della sua produzione critica che per il valore morale e civile delle sue “battaglie” culturali. <strong>Bartoli</strong> ha sostenuto in<br />

maniera decisiva l’affermazione del diritto di cittadinanza per la ricerca artistica nel sistema culturale mantovano e<br />

per affermare questo diritto, si è fatto carico, con vero spirito di servizio, di precise responsabilità anche oltre l’ambito<br />

culturale. In particolare, il suo impegno come presidente della Commissione Tecnica di Palazzo Te e come consigliere<br />

comunale ha sempre avuto un carattere tutt’altro che formale, fortemente finalizzato alla crescita della cultura<br />

artistica mantovana, alla ricerca di spazi per il lavoro degli artisti, per le loro istanze e delle condizioni per il<br />

confronto con manifestazioni dell’arte più avanzata.<br />

<strong>Bartoli</strong> ha sostenuto, con grande forza in tutte le sedi culturali e istituzionali, l’aspirazione della comunità culturale<br />

mantovana di dare risposta all’esigenza, coltivata fin dagli inizi del ‘900 dal mondo artistico locale, di un museo in<br />

grado di ospitare e documentare la storia dell’arte mantovana, la cui mancanza rappresenta una ferita nel tessuto<br />

culturale mantovano.<br />

Ecco allora che il modo più autentico per non cadere nei consueti e magari formali riti delle celebrazioni post mortem<br />

è quello di mantenere vivo e attuale ciò che lo studioso ancora rappresenta in quanto a rigore morale, culturale<br />

e civile. Soprattutto, non dobbiamo abbandonare gli sforzi per realizzare la casa dell’arte moderna mantovana.<br />

Lo si deve agli artisti che, con il loro talento, hanno dato prestigio culturale alla terra mantovana e lo si deve ai cittadini<br />

di questa provincia perché possano conoscere e riconoscersi nella storia culturale del loro territorio.<br />

Roberto Pedrazzoli Maurizio Fontanili<br />

Assessore alla cultura Presidente<br />

della Provincia di Manova della Provincia di Manova<br />

9


Coscienza critica della cultura mantovana<br />

Con il passare del tempo la figura di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> sempre più s’impone come quella di un formidabile protagonista<br />

della cultura mantovana nella seconda metà del XX secolo; e tanto più cresce, in questo scorcio iniziale del<br />

XXI secolo così ricco di opportunità per la vita culturale di Mantova, il rimpianto per la sua precoce scomparsa.<br />

<strong>Bartoli</strong> non fu soltanto il grande ed acuto storico dell’arte mantovana moderna e contemporanea, né soltanto il critico<br />

militante divenuto guida e maieuta, stimolatore e mallevadore per generazioni di artisti locali così sottratti alle<br />

subdole tentazioni del provincialismo.<br />

Né fu solo l’intellettuale di grande levatura, capace di allargare i propri interessi oltre i confini della sua più specifica<br />

missione senza – peraltro – allentare la tensione mentale e mostrando non minore sapienza e dottrina: basterà<br />

qui richiamare i suoi studi di storia del teatro e lo straordinario sodalizio con Umberto Artioli, l’altra figura di punta<br />

sulla scena culturale del secondo novecento mantovano, accomunato purtroppo a <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, di lì a qualche<br />

anno, dalla fine prematura.<br />

Al di là degli esiti culturali determinati dalla superiore caratura intellettuale, <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> seppe essere la coscienza<br />

critica della cultura mantovana, come si può evincere sia dalla sua esperienza di impegno civile, condivisa<br />

anche questa con Umberto Artioli e mai schiava di condizionamenti politici, sia dagli scritti originati dalla lunga militanza<br />

critica e che qui si ripresentano, per la prima volta, raccolti in tre volumi a cura di Eristeo Banali.<br />

Possano questi volumi essere non solo il doveroso omaggio della Fondazione Banca Agricola Mantovana alla memoria<br />

di un geniale studioso, ma anche, per chi di dovere, una occasione di ripensamento e di stimolo nei confronti<br />

del futuro culturale di Mantova. Il che, contestualmente, ripropone la realizzazione di un disegno tutt’ora rimasto<br />

sulla carta, nonostante le più svariate sollecitazioni: quello della creazione di una Galleria e di un Museo di arte contemporanea<br />

idoneo a conservare la ineguagliabile produzione degli artisti dell’epoca ed a riproporla adeguatamente<br />

ai cittadini mantovani.<br />

11<br />

Avv. Luigi Frezza<br />

Presidente<br />

Fondazione Banca Agricola Mantovana


Un’avventura condivisa<br />

Eristeo Banali<br />

Questa pubblicazione è stata decisa pensando a <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> come presenza culturale e civile che ha lasciato un segno indelebile<br />

e che continua ancora oggi a suggerire argomenti, stimoli e riflessioni. Nel suo percorso intellettuale ha tracciato un cammino denso<br />

di obiettivi, a noi il compito di trarre da questa eredità gli elementi e le certezze per continuare l’appassionante avventura.<br />

Mentre si preparava la mostra Incanto della città - Immagini di Mantova nella quadreria comunale d’Arte Moderna, e davanti alle<br />

opere di Guindani, Perina, Scaravelli, Baldassari, Lucchini, si parlava dei luoghi che quelle opere ritraevano, <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> ebbe a<br />

dire: «solitamente quando si pensa alla città, com’era la tal piazza oppure quella via o zona del lago, quasi mai si pensa di guardare<br />

al lavoro dei pittori, ai loro paesaggi, alle vedute, alle atmosfere che solo la pittura fissa e tramanda diventando fonte straordinaria<br />

per la conoscenza dei luoghi dove viviamo (1) .<br />

Il grande disappunto di <strong>Francesco</strong>, come sa chi lo ha frequentato, fu la mancanza, a Mantova, della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea.<br />

Il disappunto diventava rabbia perseverando il disinteresse da parte delle istituzioni ad affrontare la questione. Tante promesse,<br />

tante domande, ma nei fatti la conclusione era sempre la stessa: la Galleria continuava a non essere una priorità, un bisogno sentito (2) .<br />

<strong>Bartoli</strong> viveva tutto questo non solo come disinteresse, ma soprattutto come incapacità della sua città a capire il ruolo fondamentale<br />

delle arti figurative per la crescita della collettività: è come se si potesse pensare Mantova senza la Biblioteca Teresiana, senza il<br />

Liceo Classico, lo Scientifico, senza il Conservatorio o il Teatro Bibiena. La Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea è un organismo<br />

che deve pulsare di vita, necessario alla crescita dell’individuo, della collettività, della società, diceva.<br />

Egli rivolgeva accuse convinte e sofferte alle istituzioni, esprimendo così una grande amarezza e una cocente delusione: la sua città,<br />

storicamente, non ha mai sentito il bisogno di creare un patrimonio patrio e ciò che animava il suo dire, la sua denuncia, era il fatto<br />

che non sentiva ancora il segno di quel cambiamento d’umore indispensabile per raggiungere l’obiettivo. La disaffezione degli enti pubblici<br />

nei confronti dell’arte contemporanea era vissuta quale conseguenza di quel bisogno non sentito. Il risultato di questo stato dì cose<br />

aveva provocato un “buco” nel patrimonio delle collezioni civiche purtroppo non più colmabile: «le ultime amministrazioni che hanno<br />

saputo attivare una politica di acquisizione nei confronti dell’arte contemporanea sono state quelle fasciste, dopo più nulla» disse in<br />

uno dei suoi ultimi interventi in Consiglio Comunale. Sono queste le grandi questioni che tornano pressanti alla mente leggendo ciò<br />

che scrive <strong>Bartoli</strong>: l’opera d’arte intesa come strumento indispensabile per comporre l’identità culturale di una collettività e quindi l’obbligo,<br />

il dovere, di creare gli strumenti ed i luoghi dove il “patrimonio patrio” possa essere raccolto, conservato e studiato (3) .<br />

La vitalità vissuta nell’arte moderna e contemporanea, emerge con grande forza dai suoi scritti. La loro pubblicazione intende contribuire<br />

a mantenere vivo il “bisogno” che molti di noi sentono veramente come tale, continuando a lavorare affinché la Galleria d’Arte<br />

Moderna e Contemporanea non rimanga solo tema di dibattito, sempre più occasionale e improvvisato, ma diventi realtà.<br />

La pubblicazione degli scritti “d’arte”, un progetto tratteggiato con Umberto Artioli, che diventa percorso critico per una mostra in nuce,<br />

è la nuova tappa nella definizione di quel disegno sull’Arte Mantovana del Novecento che iniziò nel 1996, a Palazzo Te, con quel primo<br />

sguardo all’Ottocento di Defendi Semeghini.<br />

Un cantiere aperto<br />

L’imperativo era, così come oggi, di creare le condizioni per far capire che Mantova ha tutti i requisiti per “pretendere” la Galleria<br />

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d’Arte Moderna e Contemporanea, e che deve farla diventare un “bisogno” per la città.<br />

Si decise di cominciare, con iniziative mirate, ad organizzare eventi tesi alla valorizzazione del patrimonio civico di proprietà comunale.<br />

Ogni mostra realizzata era il punto d’arrivo di un percorso di studio, di un approfondimento di cui il catalogo, la documentazione<br />

scientifica e le presentazioni, che qui vengono riproposte in sequenza, testimoniano lo svilupparsi del progetto.<br />

Dopo la mostra dedicata a Defendi Semeghini, con “Motivi di Scultura mantovana del ‘900”, il programma di esposizione del patrimonio<br />

civico d’arte moderna, secondo il criterio della “rotazione”, affronta la seconda tappa. “Motivi di scultura mantovana del ’900”,<br />

frutto di un intenso lavoro di ricerca storica e di approfondimento critico, rappresenta un primo punto fermo dal quale avviare uno<br />

scrutinio a tutto campo della situazione artistica mantovana nel ventesimo secolo, alla soglia del terzo Millennio. In questa mostra<br />

sono presenti opere di artisti che vivono l’inizio del nostro secolo portando una figurazione in cui traspare ancora il radicamento ottocentesco,<br />

esibendo valori assoluti capaci di slanci verso immagini idealizzanti e simboliche. Sono in alcuni casi opere che traggono<br />

suggestioni originali da un mondo rurale che sa proporre elementi di conoscenza, di ricerca, di penetrazione della realtà e che,<br />

attraverso valori di contenuto e di forma, diventano percorsi densamente poetici della scultura: corpi adolescenti, ritratti femminili e<br />

maschili, risolti con volumi soavi che si offrono con morbida disponibilità alla luce, o risolti in volumi dove la materia scultorea si pone<br />

in modo ‘greve’, catturando e frammentando la luce, per contrapporla repentinamente all’ombra. Opere di artisti che pongono la ricerca<br />

plastica a fondamento del loro ‘fare scultura’ e che intendono l’equilibrio dei volumi, il rapporto tra vuoti e pieni, come elementi<br />

di una composizione architettonica articolata e giustificata in uno spazio reale, tridimensionale: che non può prescindere dal<br />

contemperare la quarta dimensione a cui appartengono il movimento e la pausa. In questo ambito, in questo spazio, è collocata<br />

anche la ricerca sperimentale, che evolve da varie esperienze anche accademiche, per giungere a traguardi diversificati, che vanno<br />

dalla deformazione del reale fino all’espressionismo, al formalismo astratto o al fare concettuale. I temi, gli argomenti e i motivi<br />

proposti in questa mostra, rappresentano un primo momento di lavoro sulla scultura mantovana del ‘900, condotto attraverso il patrimonio<br />

civico d’arte moderna. Lavoro che costituisce, anche, il criterio fondamentale per una politica di acquisizione delle opere<br />

d’arte (4) .<br />

Questa mostra presentò nei locali desiderati come Galleria Civica d’Arte Moderna (5) , al primo piano dell’ala sud di Palazzo Te, opere di<br />

Carlo Cerati, Giuseppe Gorni, Fira Cadoria, Aldo Bergonzoni, Enzo Nenci, Albano Seguri, Ezio Mutti, Gino Salvarani, Aurelio Nordera, Carlo<br />

Bonfà e Italo Lanfredini. Aprì al pubblico il 16 maggio del 1997.<br />

Ed è sempre qui, a Palazzo Te, che lo stesso anno, in ottobre, fu inaugurata l’importante rassegna Incanto della città.<br />

La ricchezza delle conoscenze e la consapevolezza del valore del proprio patrimonio civico, si evidenziano in questo scritto in catalogo:<br />

In un recente intervento intitolato “Preparativi per una partenza”, realizzato in occasione della mostra di Italo Lanfredini al Palazzo<br />

della Ragione, Lidia Beduschi scriveva: “[...] Questo è un posto troppo piccolo perché da qui si possa partire. “E forse proprio da questa<br />

“impossibilità di partire” nasce l’amore viscerale che i pittori mantovani hanno sempre mostrato per la loro città natale, anche<br />

quando, costretti a lasciarla fisicamente, vi facevano spesso ritorno con i pensieri, alla ricerca di quei colori sfumati dalla nebbia o di<br />

quelle atmosfere tipiche dei mercati in Piazza Erbe. Ma questa non vuole essere una mostra della nostalgia, né un affettuoso omaggio<br />

alle immagini del passato. L’intento è invece quello di indagare i “modi” che gli artisti mantovani hanno adottato per descrivere<br />

la propria città, gli aspetti che hanno privilegiato, le ispirazioni che ne hanno tratto. E qui le sorprese non mancano. Da Vindizio<br />

Pesenti che utilizza un appena riconoscibile vicolo Bonacolsi come sfondo per un drammatico fatto di cronaca, a Cavicchini che in<br />

un’accecante giornata estiva immortala un cantiere edile. Da “Fierino’’ Lucchini, che riscopre i tetti di Mantova (lui che sta nel “grattacielo”),<br />

a Guido Resmi, tanto innamorato dei soggetti lacustri da relegare il profilo della città lontano, sullo sfondo. Chi “zooma”,<br />

chi “allarga”, chi “sfuma”, chi “astrae”, il rapporto con la città è comunque vero, vitale, mai forzatamente edulcorato o stucchevolmente<br />

nostalgico, tanto che BUM (Umberto Mario Baldassarri) ci regala una straordinaria interpretazione post-futurista di una fab-<br />

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ica in funzione con tanto di fumo nero che fuoriesce dalla ciminiera! Dunque Mantova è forse troppo piccola perché da qui si possa<br />

partire, ma è evidentemente perfetta per farvi costantemente ritorno con la ragione o col cuore, spesso con entrambi (6) .<br />

È questa la città “ ritratta dagli artisti mantovani”, dove <strong>Francesco</strong> dice“… quasi mai si pensa di guardare al lavoro dei pittori, ai loro<br />

paesaggi, alle vedute …”, per ricordare una piazza, una via, uno scorcio. Il curatore, Gian Maria Erbesato, riporta un brano di Walter<br />

Benjamin che fa piena luce sul senso dell’affermazione di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>: “Lo stimolo passeggero, l’esotico, il pittoresco, il cronachistico,<br />

prende solo il forestiero. Ben altra, più sensibilmente intima, quando non decisamente profonda, è l’ispirazione che porta a<br />

rappresentare in un discorso, in una scrittura, una città nella prospettiva di un nativo”. Nell’esposizione vennero presentate opere<br />

della Raccolta Civica, le più significative al riguardo, di Vindizio Nodari Pesenti, Giuseppe Guindani, Sandro Bini, Arturo Cavicchini, Giuseppe<br />

Facciotto, <strong>Francesco</strong> Vaini, Giulio Perina, Carlo Zanfrognini, Umberto Baldassarri e Carlo Bondioli Bettinelli. Dopo la fine dei restauri,<br />

nel 1997, il Palazzo della Ragione diventa il luogo di eccellenza per lo sviluppo del progetto.<br />

Le prime iniziative riguardarono il Palazzo e la Città: venne organizzata una mostra per raccontare “Il restauro” e, a seguire, vennero<br />

proposti i filmati più significativi riguardanti Mantova. Era l’anno della prima edizione di Festivaletteratura e Italo Lanfredini espose una<br />

decina d’opere legate al tema del “viaggio”, con al centro della grande aula l’Arca, che vide il coinvolgimento di poeti, scrittori, intellettuali<br />

che a quel simbolo affidavano un messaggio per il futuro. Poi Palazzo della Ragione ospitò un’antologica di Giulio Turcato, organizzata<br />

assieme alla Galleria Civica di Modena. La nota di presentazione in catalogo evidenzia l’aspettativa che quel luogo suscita.<br />

Le città di Modena e di Mantova si uniscono per rendere omaggio alla figura di Giulio Turcato, interprete tra i maggiori dell’arte italiana<br />

dì questo dopoguerra. Nelle due sedi espositive la mostra raccoglie l’opera del maestro organizzandola nei due periodi storici<br />

ritenuti fondamentali per comprenderne le ragioni e i temi artistici resi leggibili attraverso un percorso evolutivo. La mostra rappresenta<br />

il primo passo di rilievo nell’ ambito del “Circuito delle città d’arte della pianura padana‘’ e si realizza in un momento particolarmente<br />

significativo per la cultura delle nostre due città: a Modena infatti sono in pieno svolgimento le manifestazioni celebrative<br />

del IV centenario di “Modena capitale‘’, mentre Mantova riconsegna al mondo della cultura il restaurato Palazzo della Ragione, quale<br />

centralissima sede dedicata alla contemporaneità e al tempo stesso luogo storico che nell’immaginario collettivo da sempre è inteso<br />

come cuore della città. Ed è in questa congiunzione tra passato e futuro, fra il recupero della propria memoria storica e l’apertura<br />

verso le esperienze più propositive della contemporaneità, che si situa la mostra di Giulio Turcato, dedicata ad un artista che ha<br />

saputo rinnovare il linguaggio della pittura senza tradire una lunga e altissima tradizione, tipicamente italiana (7) .<br />

In più di una occasione <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> lamentò il fatto che Mantova non avesse mai offerto opportunità ad uno degli artisti più illustri<br />

nel mondo della cultura figurativa del Novecento, Giulio Turcato. Per questo Palazzo della Ragione iniziò la sua attività come<br />

“luogo della modernità”, dedicandogli una mostra che presentò le opere del dopoguerra, la stagione dell’astrazione.<br />

Il catalogo di quella mostra venne dedicato a <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>.<br />

Da quel momento l’attività sulla contemporaneità si articolò in modo strutturato, avendo come obiettivo l’analisi sistematica di tutto il<br />

Novecento, riprendendo la necessità sentita da <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> che, sull’argomento, lasciò una serie di ‘appunti-progetto’ rivolti prevalentemente<br />

alla situazione della prima metà del secolo. Si decise di procedere dividendo il periodo in due parti: “Arte a Mantova<br />

1900 – 1950” e “Arte a Mantova 1950 – 1999”.<br />

La prima mostra “Arte a Mantova 1900 – 1950”, si tenne alle Fruttiere di Palazzo Te, dal 26 settembre 1999 al 16 gennaio del 2000.<br />

Nella nota introduttiva al catalogo si richiama il legame tra la mostra e la “passione dell’idea” originale di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>:<br />

Indipendenti e inseparabili. Non altro che questi, ci pare, sono i modi con i quali il Comune di Mantova, attraverso le sue iniziative<br />

di cultura artistica, percepisce e promuove l’arte del passato e del nostro tempo. Non mai illudendosi che si possa capire quella senza<br />

veramente capire questa. Un procedere per ricavare dal passato illuminazioni per il presente e l’avvenire, senza dimenticare il pensiero<br />

di Roberto Longhi: “ma perché la storia passata sempre si ricolorisce da quella del presente”. Ecco quindi l’impegno, la dispo-<br />

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nibilità del Comune di Mantova nei confronti dell’arte moderna e contemporanea, sostanziato da un lungo e particolareggiato lavoro<br />

di catalogazione, schedatura, scandaglio storico, esegesi critica, mostre, restauri delle testimonianze in figuris dell’arte del nostro<br />

secolo. Tutte cose che per quasi cinquant’anni hanno visto come centrale il nome di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, il grande esempio della sua<br />

militanza nella cultura artistica contemporanea della nostra città. <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> è stato il maggior conoscitore e studioso d’arte<br />

moderna e contemporanea che la città ha dato al nostro secolo. Non ha avuto segreti per lui l’arte mantovana del Novecento, verso<br />

la quale nutriva un attaccamento intimo, energico, geloso: misteriosa e rigogliosa mistione dì amore, esperienza, scrutinio critico, insaziabile<br />

bisogno di fedeltà e di conoscenza, affascinante capacità di rilevarne la luce. Nessuno potrà commentare l’arte mantovana<br />

del secolo, renderle giustizia, senza considerare i suoi “percorsi” e le sue “intuizioni”; se non partendo dai suoi discorsi (discorsi sugli<br />

artisti e agli artisti), dalle sue pagine densissime, vibranti, di alta pensosità, di interrogazioni estreme. Da quelle pagine dove, con<br />

passione, le storie degli uomini, le vicende dell’arte acquistano un accecante valore. Ha indagato l’arte mantovana per tutta la vita,<br />

lavorando in una sincerità e furia di sentimenti, in una potenza di luce intellettuale senza eguali. A far data dal 1993, <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong><br />

lavora sistematicamente al progetto per una mostra sull’arte mantovana del Novecento. Un lavoro che, a riguardarlo e rimeditarlo,<br />

è vastissimo e complesso e, nell’intenzione, nel disegno originario, abbraccia ancora di più. Non un testamento, ma piuttosto<br />

l’esame di coscienza di una lunga, fittissima ed entusiasmante stagione dell’arte mantovana che – a ristabilirne i tratti, la sostanza<br />

incancellabile – si vede come non si sia mai spenta dentro i confini di una cultura decorosamente “provinciale”. Non contento dì sé<br />

e lontano dal lasciarsi soffocare nella routine dei facili traguardi, dei facili consensi, <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> ha saputo, all’occorrenza, nei<br />

momenti involutivi della vita civile e culturale della città, imporsi con una propria vitalità rianimando il proprio destino: egli dunque,<br />

ha buttato il germe dì un lungo lavoro (affrontando - n.d.r.) le cose con profonda e meravigliosa semplicità, subordinando ogni scelta<br />

all’essenza di un’arte impegnata fortemente per non sviare o distorcere le cose, ci presenta un’arte mantovana capace di un’estensione<br />

e di una forza poetica e culturale, che prima della sua analisi si poteva credere non possedesse. Con questo panorama di riferimento,<br />

<strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, Zeno Birolli e i suoi più stretti e preziosi collaboratori ci dicono che l’arte mantovana del Novecento non<br />

è ‘’museo”, ma lenta, fervida, meditata proposta per un comune patrimonio civico. Arte a Mantova 1900-1950, realizzata d’intesa<br />

fra Comune di Mantova e Centro Internazionale d’Arte e Cultura di Palazzo, Te rappresenta una tappa fondamentale per la storia della<br />

cultura artistica della nostra città e del territorio mantovano. Ora, dopo questo squarcio, l’impegno continua ed è rivolto al periodo<br />

successivo.<br />

L’appuntamento è per la primavera del Duemila con: Arte a Mantova 1950-1999 (8) .<br />

Dall’8 aprile all’11 giugno del 2000 la città ospita infatti la seconda parte della rassegna organizzata su quattro sedi. La presentazione<br />

in catalogo diventa l’occasione per ordinare e rimarcare quanto fatto fino a quel momento:<br />

Arte a Mantova 1950-1999. Punto d’arrivo di un progetto puntiglioso, perseguito con impegno caparbio a far data dal 1996. La centralità<br />

di questo progetto muove dalla recuperata dignità funzionale di Palazzo della Ragione, divenuto cardine strutturale della politica<br />

culturale della città con un ruolo singolare ed integrante ad un tempo, nel panorama delle istituzioni che a Mantova producono<br />

cultura. Con la conclusione della fase più importante dei restauri, che hanno riguardato la grande aula, Palazzo della Ragione<br />

viene eletto a luogo di presentazione della contemporaneità. Nel 1997 iniziò l’avventura con la mostra didattico-illustrativa del percorso<br />

di restauro, seguì la mostra di Italo Lanfredini titolata “Il Viaggio” e la video-mostra Imago Mantuae dell’ottobre. Nel febbraio<br />

1998, la mostra dedicata a Giulio Turcato per la prima volta ospitato a Mantova con una iniziativa di respiro antologico, rappresenta,<br />

per Palazzo della Ragione, il vero inizio della sua nuova funzione. Fu una mostra in due sezioni, costruite in collaborazione con la<br />

Galleria d’Arte Moderna di Modena, che ospitò le opere storiche del maestro, e proprio per questo rappresentò un evento guardato<br />

con interesse dal mondo culturale. In quella occasione, Renato Barilli, sul Corriere della Sera del 9 marzo 1998, scrisse: “Mantova e<br />

Modena hanno messo insieme le loro forze per celebrare adeguatamente Giulio Turcato a tre anni dalla morte. Idea senz’altro feli-<br />

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ce, dato che, in primo luogo, se ne vorrebbero vedere sempre più spesso, di simili joint venture tra città affini e vicine”. Nel giugno<br />

dello stesso anno, Palazzo della Ragione, ospitò, la grande rassegna di poesia sperimentale dal titolo “Poesia totale (1897 – 1997:<br />

dal colpo di dadi alla poesia totale”, connotando così il ruolo di primo piano che Mantova ha svolto nel rapporto con le avanguardie<br />

di questo secolo, facendola diventare, come scrive Eugenio Miccini, la “… città d’elezione della Poesia Visiva ...” (Procellaria, Blue, Il<br />

Portico, Il Verri sono riviste che hanno contribuito con pagine fondamentali alla cultura letteraria e visiva italiana). Nell’ottobre seguente<br />

e fino al 6 gennaio 1999, con “Mauro Pagano Opera”, Palazzo della Ragione diviene un grande laboratorio teatrale, dove,<br />

senza soluzione di continuità di tempo e spazio, è stato possibile immergersi nell’universo scenico che, a partire dall’idea ispiratrice,<br />

si struttura e prende corpo, attraverso l’opera dell’artista e dell’artigiano, nella realtà e nell’azione scenica. In quel grande laboratorio<br />

è stato possibile rendere partecipe il visitatore dei lavori per l’allestimento delle quarantaquattro opere liriche messe in scena da<br />

Mauro Pagano per i teatri d’opera più importanti al mondo. La stagione 1999 apre con le mostre antologiche di Alessandro Dal Prato,<br />

Albano Seguri e Giovanni Bernardelli. L’analisi e lo studio dell’arte a Mantova inizia un percorso del tutto nuovo, gli artisti vengono<br />

indagati in una prospettiva di riferimento ampia, vengono considerati alla luce della loro produzione complessiva e la mostra, il catalogo,<br />

diventano i momenti conclusivi di questo percorso di conoscenza critica. In questa nuova prospettiva anche il luogo dell’evento<br />

espositivo non può più essere solamente il Palazzo della Ragione, lo spazio dell’arte mantovana è la città e, quando possibile, anche<br />

il territorio provinciale. Così, in giugno, viene coinvolto Palazzo Ducale, grazie olla disponibilità della Soprintendenza ai Beni Artistici<br />

e Storici. Giovanni Bernardelli, con la sua grande antologica, viene accolto nell’Appartamento vedovile di Isabella d’Este e nel Chiostro<br />

dei Secolari del Complesso Benedettino di San Benedetto Po. Ancora nel 1999, nell’autunno, Palazzo dello Ragione ospita Renzo<br />

Schirolli con una mostra candidata a diventare un caposaldo, una tappa cruciale, per l’approfondimento e la conoscenza del suo lavoro.<br />

Contemporaneamente, nelle Fruttiere di Palazzo Te, il 26 settembre, si inaugura la mostra “Arte a Mantova 1900 -1950” che<br />

rappresenta una tappa fondamentale in vista di una futura Storia dell’Arte a Mantova. Ora, all’ inizio del Duemila, con “Arte a Mantova<br />

1950 - 1999”, il percorso iniziato nel 1997, giunge ad un punto di sosta. Siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio e da qui si<br />

devono ordinare le idee per proseguire. […] Mantova ospita i suoi artisti nelle sedi espositive più prestigiose, coinvolgendo lo città in<br />

modo diffuso a livello urbano ed istituzionale. […] È sicuramente un progetto complesso e di grande difficoltà. […] La mostra è il risultato<br />

di un grande lavoro, condotto con impegno rigoroso e competente passione. Le opere esposte permetteranno a noi tutti di<br />

conoscere uno spaccato importante di quanto è avvenuto nel recente passato, ed avviene ora, ad opera degli artisti che vivono i nostri<br />

giorni, condividendo la nostra quotidianità. Il catalogo permetterà la ricostruzione dei contesti all’interno dei quali i singoli artisti<br />

muovono le loro azioni. Con “Arte a Mantova 1950 – 1999”, si conclude un ‘percorso’; da qui […] il lavoro sull’arte contemporanea<br />

dovrà continuare verso nuovi orizzonti. L’indagine dovrà continuare e dovranno essere create opportunità di confronto a livello nazionale<br />

ed internazionale. Il cammino verso la Galleria Civica d’Arte Moderna continua (9) .<br />

Ultimo atto di questo percorso fu l’acquisizione del Fondo Nodari Pesenti, presentato alla città con una grande mostra a Palazzo della<br />

Ragione nel maggio del 2001. Nella presentazione in catalogo si tracciò il cammino di quell’avventura.<br />

Ebbi modo di vedere le opere di Domenico e Vindizio, nella casa di Giovanni Battista Bertani, famosa per le colonne vitruviane poste<br />

in facciata. Questa fu, come racconta la Signora Licia Benedini Nodari, per circa un anno, la dimora di Vindizio: “… da via Achille Sacchi,<br />

nel 1960, la famiglia si trasferì in questa casa, al numero otto di via Trieste, e qui Vindizio morì l’anno successivo, nel 1961, pochi<br />

mesi dopo la moglie ...In quel pomeriggio mi resi conto della consistenza che ancora aveva il Fondo Nodari Pesenti: sicuramente un<br />

patrimonio consistente e di grande interesse anche se, fin da subito, risultò chiaro che molti dei capolavori fondamentali dei due<br />

maestri non erano tra le opere ancora lì, nella disponibilità della Signora Licia. Da quel momento si trattò di capire se era opportuno<br />

che l’Amministrazione Comunale si facesse carico di creare le condizioni per mantenere unito quel nucleo di opere e, se possibile,<br />

acquisirlo al patrimonio pubblico. Questa poteva essere l’occasione per rompere una consuetudine che da mezzo secolo non ve-<br />

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deva più il Comune attivo nell’acquisizione di opere d’arte legate alla modernità e alla contemporaneità, eccezion fatta per quelle<br />

conseguenti alle due mostre che, tra la fine del 1999 e la primavera del 2000, hanno indagato il mondo artistico mantovano nel secolo<br />

appena finito. Questo ragionamento è stato sviluppato ed approfondito in seno al Consiglio Comunale, in ambito di Commissione<br />

Cultura, e nella Commissione tecnica del Museo Civico di Palazzo Te. Le valutazioni emerse hanno confermato l’intuizione iniziale<br />

ed hanno permesso d’intraprendere quel cammino che, oggi, ci consente di presentare alla città il Fondo Nodari Pesenti al Palazzo<br />

della Ragione e con questa pubblicazione che raccoglie e ordina il patrimonio nella sua completezza. Alla fine di gennaio del 1998,<br />

la Signora Licia Nodari Pesenti, erede unica del patrimonio artistico Nodari Pesenti, manifestò al Comune di Mantova, con una lettera<br />

indirizzata alla mia attenzione, l’esplicita intenzione di cedere l’intero patrimonio di opere, documenti ed oggetti legati all’attività<br />

artistica di Casa Pesenti.<br />

Questa lettera fu il primo atto ufficiale dal quale partì l’operazione di acquisizione del Fondo Nodari Pesenti (10) . E fu con questo atto<br />

importante, dopo decenni di disinteresse assoluto, che il Comune riattivò una politica di acquisizione di opere d’arte, ritornando protagonista<br />

così come auspicato da <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>.<br />

Se il cammino continua, come è stato detto in occasione della mostra Arte a Mantova 1950-1999, e certamente deve continuare,<br />

dovrà essere un cammino supportato dalla lucidità e dal rigore che gli scritti di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> testimoniano: attenzione e dedizione<br />

ai valori dell’arte mantovana, rifuggendo da qualsiasi localismo, con capacità critica e di discernimento, senza pregiudizi, nella disponibilità<br />

continua a riconsiderarsi negli interessi e nelle attenzioni.<br />

Da Schirolli e Sermidi del 1967 a Rodolfo Stranieri del 1997<br />

Trent’anni di scrittura: uno spaccato appassionato dove la parola è usata a significare l’immagine, per provocarla, usata seccamente<br />

come segno a costruire il disegno, inventandola cromaticamente quasi ad “offrirla” al pittore perché la usi sulla tela, o forgiandola<br />

come strumento per scavare e plasmare la materia quando l’interesse è la scultura; usata spesso per dialogare con l’artista, ascoltandola,<br />

per porre domande, per tracciare percorsi e suggerire idee; parola quale condizione vitale per far crescere la complicità con gli<br />

artisti accompagnati, studiati.<br />

Gli scritti d’arte diventano il laboratorio critico, per quell’evento espositivo che potrebbe dirsi In cammino con gli Artisti di <strong>Francesco</strong><br />

<strong>Bartoli</strong>, parafrasando un titolo usato per Sandro Bini nel 1986, a Palazzo Te: Un critico di Corrente, Artisti di Sandro Bini.<br />

Eravamo nell’ottobre del 1993 e stavamo preparando la mostra di Giuseppe Lucchini, “Figure e paesaggi a Goito”, tra i quadri nello<br />

studio con l’artista, e mi disse: “Se trent’anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei scritto di paesaggio mantovano, gli avrei risposto<br />

che era un matto!”. <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> segue con passione, senza stagioni, quanto accade nell’universo della sperimentazione dei linguaggi<br />

e delle loro contaminazioni. Scrive di Neoavanguardia, di Poesia visiva, di Teatro e teatralità dell’immagine; scrive degli artisti<br />

suoi amici, mantovani e non, e con questi intrattiene rapporti epistolari che risulteranno fondamentali per capire la natura delle relazioni<br />

che con alcuni resteranno senza fine. <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> propone, suggerisce, ma ascolta anche, induce l’opinione dell’amico artista;<br />

quello che alimenta è un rapporto vero, reciproco, vicendevole, una complicità tra critico e artista.<br />

Sul finire degli anni Sessanta scrive di Renzo Schirolli e Sergio Sermidi, interessandosi alla fase di superamento del figurativo che i due<br />

artisti stavano vivendo, soffermandosi sulla progettualità che condividevano, sottolineando l’importanza di questa loro modalità operativa.<br />

Contemporaneamente guardava al lettering e alla calligrafia nella pittura di Gastone Novelli, alle energie psichiche di Emilio<br />

Scanavino e alle dissezioni di Rodolfo Aricò. Riscopre Giuseppe Facciotto nei paesaggi della collina castiglionese, nelle condivisioni con<br />

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Semeghini, Del Bon, Lilloni e nel confinamento di Dosso del Corso. S’interessa dei colori dei timbri e delle grafie di Valentino Vago,<br />

della percezione primaria nell’opera di Gianni Madella, dei rinvii alla cultura figurativa di Piero Vignozzi e degli emblemi della litografia,<br />

le sirene, i pagliacci, gli angeli, le chimere di Ferruccio Bolognesi.<br />

Negli anni Settanta continua la sua analisi indagando in profondità il lavoro di Renzo Schirolli seguendolo quando, nella pittura, il quotidiano<br />

diventa contenuto, e, con le strutture, l’artista inventa nuovi piani di fuga che animano lo spazio in modo altro. Studia le sue<br />

geometrie riflessive e speculari, il suo modo materico e naturalistico; il triangolo equilatero e il quadrato, quali principi di germinazione<br />

dell’immagine. In una nota pubblicata su “Il portico – quaderno 2”, scrive di Sandro Bini chiedendosi quale fosse stata la ragione<br />

vera di quell’inizio di disegno e pittura, rimuginando un suo pensiero, in modo quasi liberatorio, risolvendo che per Bini, il bersaglio<br />

cambia subito di segno, con l’irrevocabile decisione di applicarsi nella scrittura. Per Giulio Turcato scrive un breve testo di estrema<br />

intensità, si entusiasma dei colori, dei contrasti …astratti e illeggibili per l’occhio comune danno l’impressione di un assoluto sganciamento.<br />

Eppure l’uomo non è dimenticato. A guardar bene (e alcune forme sono rivelatrici) il terrestre resiste nella rarefazione o,<br />

per dire meglio, la fisicità appare rifatta ad altezze inverosimili. Compaiono volti e maschere cosmiche. Qualche figura parla dell’elettrico<br />

che c’è nei corpi e lo rinfocola nell’astrazione dei segni. Questo entusiasmo, come detto, si tramuterà però ben presto in<br />

mortificazione per il disinteresse della città verso Turcato.<br />

Segue il lavoro di Roberto Pedrazzoli nelle sue carte strappate, nelle sue forme in sospensione, nelle frasi interrotte, nelle sue sagome<br />

mentali e arbitrarie e nei viaggi consumati in spazi impossibili di cieli neri o luminosi, di “parola”: Mare, Cielo, Aria. Gianni Madella<br />

e Gastone Novelli vengono indagati rispettivamente per i giochi di seduzione palesi nelle filiformi architetture aeree degli spolveri<br />

colorati, il primo e per il [...] simbolo sovrano di totalizzazione, l’occhio che vede tutto [...] il segno dell’Inizio, germe di immortalità<br />

e di proliferazione delle forme [...] il senso del “terzo occhio, il secondo.<br />

Questa è anche la stagione de La fatica della pittura dove la pittura e la parola, teatralmente, s’appartengono e si respingono, si lacerano<br />

e si compongono. Nel Settantaquattro, con Errante, erotico, eretico - Gli scritti letterari e tutte le lettere, su Osvaldo Licini, uno<br />

dei “suoi” artisti seguiti con maggiore attenzione e condivisione, <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> inizia un intenso lavoro che proseguirà fino al Novantaquattro<br />

con il saggio Amalassunta, la luna di Melisso. S’interessa ai paesaggi e alle nature morte di Carlo Bondioli Bettinelli, alla<br />

sua sensuosità del naturale e alle tensioni asimmetriche sulle direttrici diagonali del campo disegnativo degli appunti di lavoro dell’artista.<br />

Con Giulio Perina, nel Settantatre, viene catturato da una intuizione che diventa la chiave fondante della lettura: la …precipitazione<br />

dello sguardo che ha perso l’ultima nozione di distanza ed è operante dentro le cose. Un nuovo modo di strutturare l’immagine,<br />

di costruire il paesaggio; per le opere degli anni Cinquanta, afferma …l’artista dovette rendersi conto delle irripetibilità dell’esperienza:<br />

fra lo splendido intimismo dei nudi coricati e la mentalistica mitologia delle bagnanti, Perina non scelse; poi la lettura<br />

procede indagando la empatizzazione dell’astratto, la luce sempre reinventata, lo scoperchiamento, gli smarginamenti e altro. Di<br />

Nene Nodari studia i giardini, i tappeti e le sonate; di Gino Gorza le nozioni intemporali, il bisogno di disoccultamento e il possesso<br />

della pittura, le anamorfosi, le trasformazioni, la rinascita.<br />

La metà degli anni Settanta è il tempo di Scrittura visuale dove la dissertazione muove dall’assunto della visività della parola scritta e<br />

della ricchezza figurale del segno. Entrano in campo lo stornamento della parola, la spazialità del suono, la relazionabilità tra la musica<br />

e la pittura, la poesia tecnologica e la poesia visiva; il trascinamento della verbalità verso l’immagine. Dal coup de dés alle suddivisioni<br />

prismatiche dell’idea fino ad arrivare in un campo di ricerca, sganciandosi dalle arti figurative, dove la parola e l’immagine<br />

originano un codice nuovo. Per Marcello Morandini l’interesse è nell’osservare lo scandire del tempo che genera la trasformazione che<br />

si definisce come immagine; in Aldo Bergonzoni è l’azione dello scultore che viene osservata, il plasmare, è la mano che …spianava e<br />

segmentava la forma, incrociando curve e scalfitture, accarezzando l’unità del blocco e insieme sdoppiandolo in fenditure.<br />

Con “La contrazione visionaria” <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> ci guida nell’universo delle Metamorfosi di Renato Birolli individuando il registro di let-<br />

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tura nel doppio: quello dei significanti e quello delle cose, delle parole - fantasma e degli oggetti - spettro, della inevitabilità connettiva<br />

delle cause e degli effetti, quello del tempo della memoria che ridimensiona il tempo vissuto nell’assoluto del tempo dei tempi. Una<br />

lettura acuta che verrà estesa ed approfondita nel saggio Il reale e il possibile pubblicato in “Birolli” nel Settantotto da Feltrinelli.<br />

Negli ultimi anni Settanta scrive di Aurelio Nordera, delle sue figure accostate, talora concepite isolatamente, che dialogano armonizzando<br />

opposte tensioni: orizzontale/verticale, curvo/rettilineo, moto/staticità; di Pio Semeghini, della sua diffidenza al riguardo<br />

della parola, del suo affidarsi solo alla nuda evidenza del visibile, affermando che se di diffidenza occorre parlare, questa non riguardi<br />

tutta la parola, la sua forza espressiva e colloquiale, ma quella parte che si fissa in scrittura, in segno definitivo, addentrandosi poi<br />

nella lettura dell’immagine, consapevole che la pittura semeghiniana bisogna interrogarla perché dica. Antonin Artaud viene affrontato<br />

per la prima volta da <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, con l’amico Umberto Artioli, nel saggio Teatro e corpo glorioso, pubblicato a Milano nel<br />

Settantotto. Questo lavoro suggella la nascita di una complicità culturale assoluta di Artioli e <strong>Bartoli</strong> con Artaud, che andrà oltre il<br />

tempo, destinata a crescere sempre di più: La pittura come Teatro muto, La fatica della pittura, La maschera e il totem nei disegni di<br />

Artaud, L’autoamputatore e l’assassino sono i saggi che vengono qui riproposti.<br />

Nel Settantanove, alla Casa del Mantegna, il mondo incantato di Giosetta Fioroni, la fiaba, la dimensione fantastica sono argomenti<br />

di affascinamento: i Teatrini come case e teche, sarcofaghi e stanze, ipogei della memoria, presenze senza tempo, capaci d’incantare<br />

e sorprendere, dormienti, quasi fossero sulla soglia del nascere e, situate nella lontananza, macchinassero un incanto, nascondessero<br />

un segreto; o come se, al contrario, fossero state recise da una falsa vita e tesaurizzate in uno scrigno protettivo, in una stanza<br />

– ripostiglio.<br />

All’inizio degli anni Ottanta, con un articolo sulla Gazzetta di Mantova, ritorna su Giulio Perina e alla sua “Pittura en plain air”; scrive di<br />

Gianni Del Bue e della sua distrazione… dalla terra, dal suolo, dalla linea dell’orizzonte … dalla superficie e, in occasione della mostra<br />

di Defendi Semeghini, a Palazzo Ducale a Mantova nella primavera dell’Ottantuno, pubblica “Dai sogni alla scena metropolitana”.<br />

Per Giordano Di Capi, in occasione della mostra antologica a Palazzo Te, nell’ottobre Ottantadue, scrive un saggio dal titolo Ai confini<br />

dell’astratto, che risulterà fondamentale per la conoscenza del lavoro dell’artista. Nell’Ottantuno, su Arte centro, sul lavoro di Carlo Cioni<br />

ancora un saggio dal titolo La forma dell’invisibile. Nell’Ottantacinque, per la mostra di Palazzo Vecchio a Firenze, approfondisce ulteriormente<br />

lo studio dell’opera di Carlo Cioni nel testo dal titolo Racconto sul nero. Per Osvaldo Licini scrive: Pittura come ornamento e<br />

irrealtà, La natura la iena e l’equilibrista e Il personaggio liciniano: un invito al silenzio. Nell’Ottanta, con Presagi della scena, scritto<br />

per la mostra alla Casa del Mantenga, ritorna su Rodolfo Aricò, e le sue architetture armoniche e con Irrealtà del naturale ritorna sull’opera<br />

di Giuseppe Facciotto, in occasione della mostra di Palazzo Te. In questo periodo, per Renzo Schirolli scrive tre interventi: Materie<br />

e cerniere per la mostra alla Galleria d’Arte Contemporanea di Suzzara, Risanare l’ombra per la mostra Renzo Schirolli negli anni<br />

cinquanta alla Galleria Einaudi di Mantova e un breve testo, dedicato a artificio e ascolto del naturale scritto per la mostra Arte contemporanea<br />

in Palazzo Ducale a Mantova, nell’ottobre Ottantanove.<br />

Sul lavoro di Ferruccio Bolognesi scrive due saggi: Un sistema magico, testo contenuto in Vestire i sogni, rassegna di bozzetti e di costumi<br />

teatrali, Centro di Documentazione Arti Contemporanee, quaderno 1, aprile1982, uscito in occasione della mostra Simulazione<br />

d’ombre, fili lamiera pittura teatro tenutasi alla Casa del Mantenga nell’Ottantacinque; mentre il secondo, senza titolo, viene redatto<br />

appositamente per la mostra Simulazione d’ombre.<br />

Scrive di Valentino Vago Ritmiche dell’ascesa in occasione della mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano; Svolte e ritorni<br />

per la mostra Giovanni Bernardelli opere 1935-1982 a Suzzara nell’Ottantatre, e a Ferrara l’anno successivo; Sulla soglia delle figu-<br />

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a per la mostra di Sonia Costantini alla Galleria “Einaudi”; Ad occhi chiusi, Sculture di Enzo Nenci in un articolo comparso sulla Gazzetta<br />

di Mantova.<br />

Nell’Ottantatre alla Casa del Mantegna, viene presentato il libro Dopo il tutto di Concetto Pozzati, relatore con <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> l’amico<br />

Gino Baratta. La conversazione che ne nasce diventa l’argomento di uno scritto sul parlare e il fare di Pozzati. Sempre per Pozzati<br />

nell’Ottantotto scrive A che punto siamo con i fiori per la mostra tenutasi alla Galleria Il chiodo, a Mantova, e poi L’angelo, la modella<br />

dove la domanda emblematica Ma il gioco non è cieco? diventa consonanza irrinunciabile al viaggiare verso orizzonti ineluttabili,<br />

dimensioni che contemplano i suoi Tempi di piacere residuo. Dell’Ottantaquattro è il saggio Kandinskij tra apocalisse e astrazione,<br />

pubblicato da Umberto Artioli in Il ritmo e la voce.<br />

In questi anni per la Gazzetta di Mantova scrive Sensazione di uno scultore chiarista in occasione della mostra alla Galleria Arcari di<br />

Mantova; per la mostra Disegno mantovano del ‘900 scrive del [...] disegno, quasi mai posto al servizio della scultura [...], di Aurelio<br />

Nordera e pubblica sul catalogo Nudo seduto; per Carlo Bondioli Bettinelli scrive Echi riflessi e per Ernesto Treccani, Il volto rinato,<br />

pubblicato nel catalogo della mostra La fiaba di Narciso allestita alla Casa del Mantegna nel 1987. Scrive un articolo sulla Gazzetta di<br />

Mantova dal titolo Dall’immagine alla luce: la ricerca di Sergio Sermidi. Di Gianni Madella registra un mutamento di rotta del flusso<br />

di energie, orientando la sua ricerca verso …lo spazio comune di oggi della vita di relazione, dei percorsi della civiltà tecnologica, dell’assembramento<br />

urbano.<br />

Per Vasco Bendini, in occasione della mostra Sette stanze – un giardino tenutasi alla Casa del Mantenga, scrive Nel silenzio della scienza,<br />

dove s’addentra nelle stazioni bendiniane indicandole come ragioni tematiche del suo lavoro: il sentimento come storia, la formalità<br />

organica del mondo, lo storicismo interrogante, il vedere altro e più a fondo; nell’Ottantasei, in Venti disegni erotici (1956 –<br />

1984), con una dichiarazione di poetica, Gianluigi Arcari Editore, pubblica Paesaggi con Baubo.<br />

In occasione della mostra Pino Castagna 1964-1985 tenutasi a Palazzo Te nell’ottobre dell’Ottantacinque scrive un saggio leggendo<br />

l’attenzione dello scultore quando è …rivolta a scandire i dinamismi delle materie lavorate, quel che in termini scenici potremmo<br />

chiamare gestualità e fors’anche recitazione, e l’altra intesa a sondare le potenze intime dell’universo naturale, le forze latenti sotto<br />

la pelle dei corpi e nelle masse, nella pietra e nel metallo, per estrarne emergenze, personaggi appunto (e ancor meglio “persone”,<br />

forme che risuonano, per-sonant), cariche di un’aura incantata e inattesa.<br />

Negli ultimi anni Ottanta ritorna a scrivere di Sandro Bini per la mostra Disegno Mantovano del ‘900 e sul catalogo pubblica “Architetture”,<br />

mentre di Roberto Pedrazzoli, per la mostra Leggero come l’aria, allo studio “Toni de Rossi” di Verona, scrive Pittura come<br />

vocativo.<br />

Di Carlo Bonfà parla ne I passatempi del voyeur, appunti di una conversazione, dove vivo è il compiacimento nel constatare che Il divertimento<br />

e l’ironia, non di rado accompagnati dal sarcasmo e da un’aerea svagatezza, permeano in modo massiccio quasi tutti i<br />

recenti montaggi di Carlo Bonfà.<br />

Nell’Ottantotto per la mostra “Albino Galvano Gino Gorza, Sincronie”, a Palazzo Te, scrive un saggio insinuando per la lettura dell’opera<br />

diversi ambiti possibili, attivando per questo l’attenzione su lo scarto, …. fra icona e figura, o l’incompimento.<br />

Sempre in quest’anno scrive per la mostra Luana Trapè, interesse nelle fiabe alla galleria “Massari” di Ferrara e per Carol Rama, Come<br />

in un cabaret, in occasione della mostra alla Casa del Mantenga nell’Ottantotto. Dell’anno successivo sono gli appunti sul Catalogo<br />

delle donne sceme di Cuniberti; il saggio su Giovanni Battista Ambrosini, Una via secca della pittura, scritto per la mostra al Palazzo<br />

degli Alessandri di Viterbo e il saggio dal titolo Picasso, il desiderio preso per la coda: autobiografia di un picaro, dove parla di Picasso<br />

e del teatro.<br />

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Per Adriano Castelli, in occasione della mostra alla Casa del Rigoletto, scrive dell’importanza della emozionata tessitura di bianchi nei<br />

suoi lavori come riferimento plausibile, se non esplicito, anche quando superata o negata; per Ferdinando Capisani scrive “Una ghirlanda<br />

di tavole di doni”, in occasione della mostra “Lo spazio del tempo e delle misure 1977 – 1987”, condensando l’attenzione su<br />

l’abbandono al visibile e la caducità…arrestata nel naturalismo del suo lavoro.<br />

Il Novantanove è anche l’anno di Natura e artificio, scritto in occasione della mostra di Palazzo Ducale a Mantova, una esposizione<br />

che per la cultura figurativa mantovana rappresentò un momento fondamentale di crescita. Vi presero parte, e <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> di<br />

loro scrisse, affrontando il tema da uno dei tanti percorsi possibili ossia dalla minore o maggiore vicinanza al corpo e all’idea della<br />

natura, artisti come Roberto Pedrazzoli, Ferdinando Capisani, <strong>Francesco</strong> Dal Maschio, Gianluigi Troletti, Franco Bassignani, Renzo Margonari,<br />

Ferruccio Bolognesi, Carlo Bonfà, Sergio Sermidi, Sonia Costantini, Renzo Schirolli, Augusto Morari, Gianni Madella, Vasco Bendini<br />

e Aurelio Nordera. Il saggio, sviluppato seguendo il lavoro degli artisti, nella sequenza individuata, chiude in questo modo: porre<br />

in frizione due maniere dell’artificio e due ritualità tra loro avverse: una ancora vicina al sentimento sacro della natura, l’altra incline<br />

ai protocolli rappresentativi, a dare spettacolo, facendo delle immagini e dei gesti una parata di compiaciute apparenze.<br />

La Casa del Mantenga, nel Novanta, ospita la mostra di Regina e <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> scrive Carte e disegni: un giardino di essenze, un<br />

saggio che attraversa l’esperienza artistica e poetica dell’artista, alla ricerca de il grande ornamento. Per le edizioni Corraini, sempre<br />

nel Novanta, pubblica Il giardino quadrato della poesia - poetry box, affrontando il tema della scrittura nel lavoro di Giosetta Fioroni.<br />

Per Renzo Schirolli scrive quattro nuovi interventi: Giardini d’inverno per la mostra all’ “Atelier Ducale” a Mantova; nel Novantuno Un<br />

notturno di Bazzani nei pastelli di Schirolli, che presenta la mostra “Pastelli” al Centro Einaudi a Mantova; mentre è del Novantatre la<br />

nota di appunti Renzo Schirolli, pastelli (1992) e disegni colorati con la quale ordina il percorso seguito da Schirolli nell’affrontare il<br />

tema bazzaniano, tema indicato all’artista dallo stesso <strong>Bartoli</strong>, pensando all’opera del Bazzani in generale ma, soprattutto, alle due<br />

Orazioni di Cristo nell’orto.<br />

Del Novantasei è un breve saggio Le pitture nere (dialogo con Renzo Schirolli), scritto per la mostra Opere informali 1956 – 1959 tenutasi<br />

al Centro d’Arte San Sebastiano a Mantova, dove conversa con l’artista, in maniera acuta e appassionata.<br />

Di questi anni sono anche due testi dedicati a Carlo Bondioli Bettinelli: Carlo Bondioli Bettinelli acquetinte, pubblicato nel catalogo<br />

della mostra e Chiarismo in giardino, pubblicato sulla Gazzetta di Mantova in occasione della mostra tenutasi, come la prima, al Centro<br />

Einaudi.<br />

Scrive Slittamenti di figure per l’antologica di Albano Seguri, opere 1940 1990 e La realtà magica di <strong>Francesco</strong> Vaini per l’esposizione<br />

<strong>Francesco</strong> Vaini, opere 1917-1957, due eventi realizzati alla Casa del Mantegna.<br />

Per Aurelio Nordera, nel Novantatre, per la mostra alla Sala Novanta di Palazzo Ducale a Mantova, scrive Il corpo, l’ala, il vento. Dello<br />

stesso anno è Bestiario - Quaranta disegni di Ferruccio Bolognesi, pubblicato in Medioevalia, tradizioni suoni e sapori dell’epoca medioevale,<br />

scritto per la mostra di Ponti sul Mincio.<br />

Nell’autunno del Novantatre lavora alla mostra di Giuseppe Fierino Lucchini Figure e paesaggi di Goito, che aprirà a Goito nel maggio<br />

successivo. Per questa mostra scrive il saggio Campi di grano, acque e fantasie moderne, pubblicato nel catalogo.<br />

Per la mostra di Sergio Sermidi a Palazzo Ducale, nel Novantacinque, scrive per il catalogo un saggio dal titolo Nel mito della genesi.<br />

L’anno dopo a Renato Birolli dedica un saggio dal titolo L’età felice e il primo viaggio a Parigi, scritto per la mostra alla Galleria “Lo scudo”<br />

di Verona. Sempre nel Novantasette, a Nene Nodari dedica una riflessione pubblicando un testo sul trimestrale Non capovolgere, ripercorrendo<br />

il suo viaggio artistico dal Chiarismo al …fluire metamorfico della materia. Per Motivi di scultura mantovana del ‘900 scrive Note<br />

critiche, scritture nere e dorate parlando della sfida all’immediatezza e ai miti felici dell’invenzione nel lavoro di Carlo Bonfà.<br />

Di Fausto Melotti, per la mostra tenutasi alla Galleria “Lo scudo” di Verona scrive un saggio dal titolo Fausto Melotti, scultore angelico,<br />

musiche della creazione in un straordinario ciclo di teatrini.<br />

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Nell’aprile del Novantasette la Casa del Mantegna ospita la mostra Umberto Mario Baldassarri, opere 1922-1982, a cura di <strong>Francesco</strong><br />

<strong>Bartoli</strong>, che nel catalogo pubblica un saggio dal titolo Un pittore puro, il testo più completo scritto sull’artista.<br />

Nello stesso anno la Casa di Rigoletto ospita la mostra Rodolfo Stranieri, fotografie 1938 1986 e <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> scrive il saggio in<br />

catalogo dal titolo I tre tempi di Rodolfo Stranieri, incompiuto.<br />

La mostra inaugura il 17 maggio del 1997 e F. morirà il 19.<br />

I testi qui raccolti sono proposti seguendo rigorosamente l’ordine cronologico per dare al lettore la possibilità di cogliere la sequenzialità<br />

della loro elaborazione, la pluralità e la complessità delle tematiche affrontate da <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>. Il corredo iconografico in bianco e<br />

nero, quando è stato possibile, è tratto dalle pubblicazioni dove il testo è comparso e quindi scelto o, comunque, visto da <strong>Francesco</strong>.<br />

Settembre 2007<br />

(N.d.r. Molte immagini poste a corredo dei testi sono state “prese” dalle pubblicazioni seguite direttamente da <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>. Nel compilare le didascalie non sempre<br />

è stato possibile reperire tutti i dati tecnici e dare qualità alle riproduzioni).<br />

1. Centro Internazionale d’Arte e cultura di Palazzo Te – Comune di Mantova<br />

Chiara Tellina Perina, <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, “Pittura a Mantova nei primi cinquant’anni del Novecento” nel catalogo della mostra del C.I. d’Arte<br />

Mantova 1998, Gianluigi Arcari Editore<br />

2. Oltre alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, l’impegno dichiarato di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, nel suo ruolo di rappresentante istituzionale (nel 1994 fu eletto consigliere<br />

comunale a Mantova assieme ad Umberto Artioli), si esprime fortemente a favore del Centro internazionale d’Arte e Cultura di Palazzo Te, alla cui nascita si è<br />

dedicato, volendolo come realtà autonoma, sganciata dai “giochi della politica” e lavorando, sia come consigliere che come intellettuale, perché venissero create le<br />

condizioni per realizzare al meglio le grandi potenzialità di questa importante istituzione culturale.<br />

S’impegnò inoltre per la costituzione nella nostra città dei Centri Studi dedicati al Teatro e a Leon Battista Alberti, ponendo le fondamenta, assieme ad Umberto Artioli<br />

e Arturo Calzona, per la nascita, nel 1999, del “Centro Studi Mantova Capitale Europea dello Spettacolo” (poi divenuto Fondazione nell’aprile del 2000 e ora intitolata<br />

ad Umberto Artioli) e nel 1998 del Centro Studi Leon Battista Alberti (poi divenuto Fondazione nel luglio del 2000), entrambe istituzioni diventate ormai di rilevanza<br />

nazionale e internazionale.<br />

3. Ibidem - nota (1)<br />

4. Ai tempi della Commissione Tecnica di Palazzo Te, presieduta da <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, vengono organizzate le mostre di Marcello Morandini, Giovanna Sandri, Horiki<br />

Katsutomi, Giovanna De Sanctis, <strong>Francesco</strong> Somaini e altri ancora. Il luogo deputato come Galleria Civica d’Arte Moderna, in quegli anni, fu al primo piano dell’ala sud<br />

di Palazzo Te.<br />

5. Comune di Mantova, “Motivi di scultura mantovana del ‘900”, cat. a cura di G.M. Erbesato, Arti Grafiche Chiribella, Bozzolo (Mn), 1997.<br />

6. Comune di Mantova, “Incanto della città”, Palazzo Te, Ala Meridionale, Gian Maria Erbesato, Carlo Micheli, Mantova, Publi Paolini - Tratto dalla presentazione in catalogo,<br />

1997.<br />

7. Comune di Mantova – Comune di Modena, “Giulio Turcato”, Palazzo della Ragione, Fabrizio D’Amico, Walter Guadagnini, Publi Paolini - Tratto dalla presentazione in<br />

catalogo, 1998.<br />

8. Centro Internazionale d’Arte e cultura di Palazzo Te - Comune di Mantova, “Arte a Mantova 1900 – 1950”, Fruttiere di Palazzo Te, Zeno Birolli, Electa – Elemond editori<br />

Associati - Tratto dalla presentazione in catalogo, Milano 1999.<br />

9. Comune di Mantova, “Arte a Mantova 1950 – 1999”, Palazzo della Ragione, Casa del Mantegna, Palazzo Ducale, Museo Diocesano – Mantova, Claudio Cerritelli, Publi<br />

Paolini - Tratto dalla presentazione in catalogo, 2000.<br />

10. Comune di Mantova, Banca Agricola Mantovana MPS, “Il fondo Nodari Pesenti”, Palazzo della Ragione – Mantova, Gian Maria Erbesato, Carlo Micheli, Publi Paolini<br />

- Tratto dalla presentazione in catalogo, 2001.<br />

23


<strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong><br />

Seduta del Consiglio Comunale di Mantova del 23 novembre 1996.


Il Centro Internazionale d’Arte e Cultura di Palazzo Te<br />

L’irrinunciabilità di questa presenza (1)<br />

La testomonianza qui riportata, ci da conto del ruolo istituzionale di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, quello di Consigliere comunale di Mantova<br />

a cavallo tra il 1996 e il 1997, periodo troppo breve purtroppo perché la sua azione potesse risultare veramente incisiva,<br />

testimonia come il suo impegno a favore della cultura e in particolare quella contemporanea, si esprimesse anche nelle lunghe<br />

discussioni consigliari spesso tormentate da problemi di bilancio e di inerzia amministrativa.<br />

Alcuni stralci dal suo intervento in Consiglio Comunale possono essere in questo senso esemplificativi. Il tema all’ordine del giorno<br />

era: La convenzione per la gestione delle attività espositive e culturali nelle strutture di Palazzo Te in Mantova con conseguente<br />

variazione di bilancio.<br />

[…] noi (n.d.r il Comune di Mantova) abbiamo goduto per 6 anni, in maniera assolutamente gratuita, di un lavoro che non abbiamo<br />

pagato, né meritato, nel senso che Mantova si è conquistata un’immagine, ha ribadito e accresciuto un ruolo per il<br />

quale l’Amministrazione ha lavorato ben poco. È un’immagine che va ispessita di sostanza, perché in questo caso si tratta di<br />

una dimensione, della sola dimensione figurativa, ma Mantova ha ben altri strati da far valere e da rilanciare.<br />

[…] Ecco che cosa ci aspettava all’imbocco degli anni ‘90, quello di fare il salto strutturale e cioè di far diventare il Te non solo<br />

più un luogo di conoscenza, di indagine e di mostra di se stesso, ma di dargli un’ossatura permanente e definitiva, per lo meno<br />

solidamente in progress in questa prospettiva […]<br />

Dunque Mantova, il Comune, noi, abbiamo goduto di un rilancio del nostro corpo artistico, del nostro volto, che abbiamo solo<br />

parzialmente meritato.<br />

[…] mi limito ad elencare […] alcuni dei meriti, acquisiti dal Centro Intemazionale, meriti legati a effetti, a realtà efficaci di cui<br />

non possiamo privarci, […] tanto più che manchiamo, addirittura, della casa in cui abitare, […] non abbiamo la casa, gli artisti,<br />

l’800-900, scrittori, pittori, musicisti, non hanno neppure il luogo in cui consegnare, esporre, mostrare alla nuova generazione<br />

quel che è la loro radice.<br />

[…] quali sono […] questi meriti sui quali vorrei che tutti quanti riflettessimo: intanto l’enorme dono venuto sia dalla preparazione,<br />

dal restauro e dalla conclusione della mostra di Giulio Romano […] poi dal Centro Internazionale sono […] i raccordi internazionali<br />

di larghissima efficacia, […]<br />

Le esposizioni […] per esempio, la mostra dedicata al Romanico, a Matilde, pietra fondamentale anche per conoscere la nostra<br />

area culturale e non solo quella, fortunatamente. E come dimenticare, per venire all’ultimo esempio, che si inaugura domani<br />

[…] la mostra del Fetti, […] terzo merito, la ripresa di una rivista che spero vada avanti […] che si interessa delle opere<br />

d’arte o dei beni artistici che stanno a Mantova, ma che lancia, cuce, fonde, i raccordi e i legami con le altre aree nazionali e<br />

intemazionali.<br />

[…] il Centro è venuto a colmare in parte una lacuna di intervento da parte del Comune oberato da tantissimi problemi, dall’altro<br />

è venuto a costituire una realtà nuova alla quale, spero, se vogliamo davvero giocare le nostre carte su una Mantova<br />

nuova, fondata non retoricamente, diciamo la parola […] sull’arte, […] sui beni che producono attivamente economia, grazie<br />

a queste risorse, dicevo, si aggiungano a questo altre istituzioni, perché noi abbiamo delle radici dimenticate, dei grandi strati<br />

di cultura, […], Mantova è stata per cent’anni il laboratorio, la fucina fondamentale […] una delle fucine fondamentali del<br />

teatro europeo e l’unica, tra l’altro, che abbia avuto un grande teatro ebraico […]. Dunque, quel che mi interessa sottolineare<br />

a tutti noi, a cominciare da me stesso, è l’irrinunciabilità di questa presenza (1) .<br />

1) <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, intervento in Consiglio Comunale di Mantova, 27 settembre 1996 (trascrizione da registrazione).<br />

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L’area Mantovana: primo approccio ad un’ipotesi di attivazione (1)<br />

<strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong><br />

La storia artistica di Mantova nel Novecento non si discosta di molto da quella di altre province minori del Settentrione. Non è<br />

perciò il caso di presentare fatti o personalità che, pur mantenendo un’indubbia rilevanza nell’ambito della cultura locale, non<br />

offrono probabilmente ragioni di forte interesse per l’osservatore esterno. E tuttavia sarà lecito citare rapidamente alcune esperienze<br />

notevoli, perfino uniche nelle vicende italiane: l’episodio futurdadaista delle riviste “Procellaria” e “Bleu” attorno al ‘20,<br />

il chiarismo (Semeghini, Del Bon, Facciotto) e il dibattito suscitato, nel contesto della poetica neorealista, dai primi Premi Suzzara.<br />

Si aggiungano, a titolo di frettoloso inventariamento, i nomi di Sandro Bini, Nodari-Pesenti, Gorni e Ligabue, troppo rigidamente<br />

calati, questi ultimi due, nella mitologia strapaesana degli ingenui.<br />

Ma, quale che sia il giudizio che se ne è dato in sede critica, resta il fatto che si è trattato quasi sempre di esperienze isolate,<br />

al di fuori della cultura ufficiale e svolte in perdita nei confronti dello spettatore medio. Unica eccezione il Suzzara sul quale tuttavia<br />

pesa, con una sua ambigua tensione ideologica, il processo di invecchiamento che nelle ultime edizioni gli ordinatori della<br />

mostra hanno cercato faticosamente di arrestare.<br />

Varie e di differente qualità appaiono le rassegne ordinate in città e in provincia da chi sentiva con urgenza il problema di riallacciare<br />

i rapporti con i momenti avanzati della sperimentazione artistica italiana; nate da esigenze particolari di gruppi di artisti<br />

e di intellettuali o insufficientemente sostenute dalle amministrazioni locali, queste mostre hanno prodotto degli spezzoni<br />

irrelati di documentazione con scarsissimi effetti di animazione sul pubblico. Eppure si è trattato in qualche caso di iniziative dotate<br />

di una loro interna coerenza, in grado di rivitalizzare il clima di stagnazione in cui si inserivano se avessero potuto godere<br />

di una strumentazione didattica adeguata e di appoggi più consistenti e continuativi. Ricordiamo le più significative: il Premio<br />

Mantova (1949), la Rassegna delle arti figurative mantovane dall’800 a oggi (1961), Arte 65 (1965), il Ricupero del Fantastico<br />

(Viadana, 1967), Pittura 70 (1970). Qualcosa di nuovo sembra essersi tuttavia prodotto attorno al ‘70, dopo la fondazione<br />

dell’Ente Manifestazioni Mantovane che vede uniti insieme degli organismi di varia natura (Comune, Provincia, Camera di Commercio,<br />

Gazzetta di Mantova, E.P.T.), con una presidenza di nomina elettiva e un consiglio di amministrazione aperto alla rappresentanza<br />

di nuovi iscritti. La formula del consorzio, di per sé innovativa nelle abitudini locali, non ha però stimolato una autentica<br />

partecipazione di base nella fase della progettazione delle attività, né potrà essere diversamente finché tutte le decisioni<br />

rimarranno circoscritte nel coacervo delle presenze burocratiche, dominanti a termini di statuto, dei soci fondatori. E tuttavia,<br />

nonostante gli evidenti limiti istitutivi, alcuni problemi sono stati posti in modo nuovo e talora risolti: si sono avviati rapporti<br />

di scambio col mondo della scuola per quanto concerne il teatro e gli incontri musicali, sono stati restaurati e aperti la Loggia<br />

di Giulio Romano e il Teatro del Bibiena (che ospita da tempo cicli organici di spettacolo), si è svolta una apprezzabile attività<br />

di scambio con l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma (“Nero a strisce”, la mostra del giocattolo), la Sala Comunale<br />

di Cultura di Modena, la Galleria d’Arte Moderna di Ferrara (retrospettiva di R. Birolli, 1970), ecc. L’Ente si è anche occupato<br />

di arte contemporanea ed ha allestito una serie di mostre in proprio (D. Semeghini, A. Seguri, V. Guidi), ma nel complesso<br />

il suo intervento in questo campo è risultato sprovvisto di una linea coerente di programmazione: se infatti può vantare<br />

al suo attivo alcuni risultati qualificanti, la lunga serie delle mostre di ispirazione occasionale ha finito con l’assecondare il<br />

clima di disinformazione del pubblico e col confonderne gli orientamenti.<br />

Considerazioni particolari non può che suscitare poi il lavoro della Sovirntendenza alle Gallerie che, se da un lato ha prodotto<br />

efficacemente il suo compito di conservazione dei beni artistici tradizionali e si è segnalata nella realizzazione di due ricerche<br />

di vasto respiro sulla pittura del Quattrocento (mostre del Mantegna 1961 e del Pisanello 1972), per un altro verso ha ostinatamente<br />

continuato a vivere come un corpo separato dalla collettività. La stessa scadenza decennale delle manifestazioni e l’assenza<br />

di valide iniziative didattiche all’interno delle gallerie non fanno che evidenziare una concezione aristocratica del ruolo<br />

del museo, dei beni culturali, delle collezioni pubbliche.<br />

27


Ora, un discorso che venga a toccare il tema del ‘fare cultura’ a Mantova non può in alcun modo dimenticare i problemi socioeconomici<br />

e politici dell’intero territorio. Come trascurare infatti l’esodo costante delle migliori forze intellettuali e produttive<br />

da molta parte della zona periferica, la speculazione edilizia nel centro storico, la staticità economica del capoluogo, gli squilibri<br />

demografici da zona a zona, l’impoverimento del patrimonio popolare?<br />

A simili questioni vengono finalmente incontro, proprio in questi mesi, alcune indagini promosse dal Comune e dall’Amministrazione<br />

Provinciale, anche in rapporto alle prospettive aperte dalla regione con la legge del 4 settembre 1973 in materia di<br />

biblioteche e con l’istituzione di un corso per animatori culturali. Nei documenti dell’assessorato all’urbanistica e nella relazione<br />

dell’architetto milanese Silvano Tintori che è stato incaricato di elaborare la revisione del piano intercomunale di sviluppo<br />

(Mantova e 16 comuni del circondario), si coglie, espressa con chiarezza, la volontà di rompere l’isolamento della città dalla<br />

provincia, laddove si sostiene che “Mantova per assumere il luogo di capoluogo dovrà divenire un centro di scambi interprovinciali<br />

nel quadro di quella funzione di cerniera interregionale che è una delle vocazioni più interessanti della città”. Mentre<br />

non possiamo sottacere l’incongruenza di un piano regolatore che viene ad essere pensato in assenza di un piano territoriale<br />

generale, rileviamo come positivi i criteri programmatici del nuovo piano: a) visione comprensoriale dei problemi della città; b)<br />

riqualificazione abitativa del centro storico come “standard urbanistico polivalente” (analogamente a quanto si sta facendo per<br />

Bologna); b) rivitalizzazione dei quartieri e razionalizzazione dei servizi, con particolare riferimento a quelli dell’istruzione, nelle<br />

varie zone del comprensorio; c) salvaguardia ambientale dei laghi. Se i risultati delle ricerche preliminari dell’équipe diretta di<br />

Silvano Tintori saranno disponibili nella prossima primavera e se con essi verranno a compimento anche i primi cinque piani<br />

particolareggiati (zona ex Ghetto, S. Leonardo, Formigosa, Castelletto Borgo, Lunetta, Frassino, Borgochiesanuova), potrà in concreto<br />

avviarsi la fase selettiva e programmatoria che ci si aspetta.<br />

Va poi considerata la bozza provinciale di zonizzazione che ipotizza l’articolazione in cinque grandi aree di attivazione dell’intera<br />

provincia. Essa conclude una serie di indagini compiute negli anni sessanta, ma richiede ancora un lungo lavoro di verifica<br />

diretta con i comuni del territorio, che a tutt’oggi appare ancora allo stato embrionale.<br />

Se dunque il momento attuale è caratterizzato dalla ricerca dei criteri generali su cui dovrà informarsi in futuro la gestione urbanistica,<br />

anche un’ipotesi che riguardi il tema della fondazione culturale e dell’attivazione del centro e della periferia, non potrà<br />

che configurarsi in termini di apertura e di duttilità estrema in modo da assorbire, nella prospettiva più che decennale del piano<br />

regolatore (1973-1990), le correzioni suggerite dalla realtà socioeconomica in movimento e le eventuali esigenze di un insediamento<br />

universitario (che è nelle prospettive dell’odierna giunta di centro-sinistra). All’ideazione comprensoriale del piano<br />

dovrà corrispondere un sistema coordinato di istituti pubblici decentrati e specializzati nelle loro funzioni, quando siano assolti<br />

i bisogni di base. Fatto salvo il principio della autonomia deliberativa in materia di biblioteche e di musei dei singoli centri interzonali<br />

della provincia in rapporto alle speciali vocazioni culturali e alle necessità delle popolazioni, risulta per altro necessario<br />

il momento del coordinamento.<br />

Da parte nostra ci limiteremo a descrivere una linea di pratica culturale e, per quanto concerne il progetto di intervento di <strong>MAC</strong><br />

nel campo specifico dell’arte contemporanea, ad ipotizzare la creazione di una struttura nuova per la Galleria d’Arte Moderna<br />

da realizzarsi nel capoluogo.<br />

Diciamo anzitutto che l’attribuzione delle competenze, la pianificazione e lo scambio dei programmi dovranno essere assicurati<br />

non solo attraverso l’ovvio lavoro di incontro degli istituti pubblici operanti nel campo delle arti visive, dello spettacolo e della<br />

cultura in genere (E.M.M., Fondazione d’Arco, Biblioteca Civica Centrale, Soprintendenza, Galleria del Premio Suzzara, Museo Civico<br />

di Viadana, ecc.), ma anche e primariamente mediante la consultazione degli esponenti della cultura locale, dei delegati<br />

di quartiere, delle forze sindacali e del mondo della scuola, le cui proposte in sede di politica culturale dovranno costituire il<br />

materiale privilegiato di studio per gli organismi esecutivi. L’assemblea dovrebbe anche elaborare gli strumenti necessari di controllo<br />

e specifiche forme di partecipazione all’interno delle differenti manifestazioni: una di esse potrebbe essere la nomina per<br />

quanto concerne l’Arte contemporanea dei responsabili di settore (conservazione, mostre temporanee, didattica) nella Galleria<br />

Civica; un’altra presenza di équipes operative di ricerca (artisti, personalità dell’istruzione superiore e universitaria) nelle strutture<br />

dell’istituto.<br />

Il Museo d’Arte Contemporanea, a tutt’oggi privo di una sede definitiva, potrebbe essere ospitato negli ambienti del Palazzo<br />

Valenti (in via Frattini, sulla direttrice viaria Est-Ovest della città), per quanto concerne l’esposizione permanente delle opere<br />

28


dell’Ottocento e del Novecento che ora si trovano in deposito in luoghi diversi. Esso dovrebbe presentare in modo esauriente<br />

il panorama artistico dei due secoli e documentare in modo particolare i fatti e le personalità maggiori, ossia i due Pesenti,<br />

Gorni, il chiarismo. Uno speciale rilievo dovrebbe avere il discorso figurativo svoltosi intorno a “Procellaria” e a “Bleu”, a cominciare<br />

dai contatti di Nodari Pesenti con Boccioni per arrivare a chiarire i rapporti di Fiozzi e Cantarelli con Tzara, Savinio (a<br />

Ferrara) e Prampolini (a Modena) (si cfr. a tale proposito gli studi di D. Palazzoli e E. Crispolti).<br />

Il Museo dovrebbe essere sviluppato secondo una triplice articolazione:<br />

1) Settore conservativo-documentario (in riferimento a quanto si è detto sopra);<br />

2) Scuola laboratorio a vari livelli: a) corsi di formazione periodici per gli operatori visuali e gli animatori, con un arco organico<br />

di insegnamenti (teoria della comunicazione visiva, storia dell’arte moderna e contemporanea, storia dell’architettura, storia del<br />

cinema, storia del teatro, tradizioni popolari, metodologia del rilevamento, audiovisivi, ecc.); b) attività didattiche aperte alla comunità<br />

(quartieri, scuole, ecc.): proiezioni, lavori di gruppo, dibattiti, ecc.; c) attività visive a carattere sperimentale: esecuzione<br />

di progetti di intervento proposti da artisti, gruppi di ricerca;<br />

3) Esposizioni temporanee: anche qui occorre evitare che tutto il lavoro si concentri in poche mostre di prestigio e punti invece sulla<br />

continuità della documentazione nell’area della ricerca contemporanea. Dovrà essere organizzato in modo da ospitare le rassegnescambio<br />

con altre gallerie, da informare il pubblico sulle recenti tendenze e da offrire il materiale documentario circa gli aspetti<br />

della cultura visiva locale intesa nel senso moderno del termine: il campo urbano, il paesaggio naturale, gli oggetti d’uso, ecc.<br />

Questa strutturazione complessa richiede che il Museo assuma una decentralizzazione materiale nell’area della città, la più utile<br />

perché la sua presenza attivante sia funzionale per i suoi compiti di attivazione. Abbiamo già accennato all’asse viario Est-Ovest<br />

(via Frattini, via Venti Settembre, Corso della Libertà, via Arrivabene). Mantenendo ferma la sede di Palazzo Valenti per il punto<br />

1), gli altri due momenti potrebbero trovare esplicazione nel Palazzo Arrivabene (al quale si è già pensato da parte dell’autorità<br />

comunale per l’ubicazione della Sala Civica) e negli edifici prospicienti nella stessa via Frattini, dopo una adeguata opera di<br />

restauro e di adattamento: ossia il Chiostro di S. Lucia e il grande complesso austro-ungarico dell’ex-caserma Pastrengo, che con<br />

i suoi larghi spazi aperti a giardini potrebbe inserirsi efficacemente nel tessuto vivo della comunicazione cittadina.<br />

Una direttrice orizzontale di intervento di questo tipo, di per sé nobilissima e plurirelata (collega il centro con i quartieri periferici<br />

posti sulla forbice Corso Garibaldi - Piazza Virgiliana), non esclude d’altra parte l’utilizzazione per le manifestazioni di largo<br />

respiro, di altri edifici di proprietà comunale o provinciale, come s’è già fatto opportunamente nel passato: l’ala ovest restaurata<br />

del Palazzo Te, il Palazzo della Ragione, la Casa del Mantegna, per i quali ultimi si è già delineata, in certo modo spontaneo,<br />

una buona destinazione funzionale: attività dei congressi, esposizioni, centro di incontri e documentazione, rispettivamente. In<br />

tale contesto potrebbe inserirsi la proposta recentemente avanzata per la costituzione di un Centro Studi delle tradizioni popolari<br />

che dovrebbe avere una segreteria di coordinamento nel capoluogo (Casa del Mantegna) e stazioni di ricerca, con loro proprie<br />

racccolte specializzate, nei maggiori centri provinciali in ordine alle differenti e talora lontane configurazioni culturali delle<br />

varie zone (lombarda, veneta, emiliana).<br />

Estremamente più complesso è invece il problema del collegamento fra il capoluogo e gli altri quattro centri interzonali della<br />

Provincia, indicati nell’ipotesi cui si è fatto cenno: Castiglione delle Stiviere (con Asola), Viadana (con Sabbioneta), Suzzara e<br />

Ostiglia (con Sermide). Qualcuno di essi sta varando al presente un programma di unificazione consorziale dei servizi culturali,<br />

con un piano unitario di spese. Da una parte Viadana sembra orientata ad accogliere i modelli procedurali dell’area emiliana e<br />

cremonese, dall’altro Suzzara va ricercando una sua prospettiva autonoma di sviluppo affidandosi anche al parere di esperti legati<br />

agli ultimi premi Suzzara (si veda la recente mostra di Guttuso).<br />

Ma i dati complessivi sono ancora troppo scarsi per procedere su un simile terreno ad un’ipotesi attendibile. Inconcepibili appaiono<br />

allora le richieste espresse dai partecipanti al corso per bibliotecari e animatori: procedere nei tempi più brevi possibili<br />

al lavoro di censimento e di interpretazione della geografia socio-economica e culturale della provincia, specificamente sui seguenti<br />

argomenti: a) composizione sociale della popolazione; b) istituzioni esistenti nella provincia e loro ruolo nel settore dell’attività<br />

culturale; c) orientamento dei consumi culturali nel campo delle arti e dei mass-media; d) movimenti associativi spontanei;<br />

e) diffusione del libro.<br />

1. Riflessione sulla situazione socioculturale mantovana al tempo della revisione urbanistica del comprensorio mantovano affidata al prof. arch. Silvano<br />

Tintori (1974-1975). Il <strong>MAC</strong>, Museo d’Arte Contemporanea, è pensato come un sistema diffuso che coinvolge tutta la città.<br />

29


1967<br />

Da Renzo Schirolli<br />

alla Pop Art<br />

Geometricamente<br />

Renzo Schirolli e Sergio Sermidi<br />

Inquietante, illimitato<br />

Rodolfo Aricò<br />

Sotto il segno della rivelazione<br />

Emilio Scanavino<br />

Pop Art<br />

Lichtenstein, D’Arcangelo, Dine, Phillips,<br />

Rosenquist, Warhol, Wesselmann,<br />

Jones, Ramos


Geometricamente<br />

Renzo Schirolli e Sergio Sermidi (1)<br />

Da qualche tempo Renzo Schirolli e Sergio Sermidi sembrano<br />

aver trovato un terreno di intesa, l’opportunità di scambiare generosamente<br />

i risultati delle loro ricerche particolari, dibattendo<br />

insieme alcuni comuni motivi di contestazione della realtà e, con<br />

profitto maggiore, nella messa a confronto dei loro linguaggi.<br />

Tanta franchezza di rapporti ha portato ad esiti espressivi certamente<br />

nuovi, come il visitatore potrà constatare: soprattutto è<br />

servita a chiarire questioni talora irrisolvibili sul piano dell’esperimento<br />

isolato, dando loro sicurezza di giudizio e di scelta. Mi<br />

ha stupito infatti la decisione con cui hanno condotto avanti negli<br />

ultimi mesi una serie di progetti molto interessanti, che vanno<br />

ben al di là delle indicazioni di certa progettazione critica e dei<br />

programmi di alcuni centri di produzione figurativa da loro frequentati<br />

nel passato. Il 1966 è stato, e ciò vale in modo speciale<br />

per Sermidi, un anno importante, non foss’altro per il numero<br />

davvero notevole di opere messe in cantiere o completate, per<br />

S. Sermidi, Senza titolo, 1967, pastelli colorati in cartoncino.<br />

32<br />

l’approfondimento e affinamento di alcuni pochi essenziali motivi.<br />

L’accrescimento in sicurezza e in qualità – si noterà – non ha<br />

comportato rinunce. Si potrebbe pensare che nella coabitazione,<br />

fatalmente, una individualità debba cedere, adeguandosi in<br />

qualche modo alla visione di chi è più agguerrito e smaliziato.<br />

Ma nulla di tutto questo è accaduto. Si constata infatti facilmente<br />

che ognuno dei due pittori ha saputo mantenersi in un’area di<br />

immaginazione estremamente distinta e delimitata, gelosamente<br />

difesa. Quel che è comune ai due artisti si evidenzia invece<br />

nel modo di intendere il mestiere del pittore, nello scrupolo esecutivo<br />

delle prefigurazioni, dei progetti. Niente è stato lasciato al<br />

caso, all’estro improvviso e momentaneo. E non è cosa da poco,<br />

se proprio l’insicurezza, la permeabilità alle mode costituiscono<br />

per tanti una minaccia costante. Se un’intenzione v’è come antecedente,<br />

è proprio quella di stabilire un rapporto corretto col<br />

pubblico, di dargli un oggetto chiaramente concepito, “geometricamente”<br />

risolto. Perciò hanno semplificato al massimo il loro<br />

linguaggio, liberandolo da elementi e bellezze secondarie.<br />

Nelle tele di Schirolli l’accumulazione delle forme ha lasciato il


R. Schirolli, Sopra... e poi sotto, 1967<br />

olio su tela, cm 145x190.<br />

posto ad una composizione misurata, meno ricca di strutture. I<br />

dati stessi della figurazione, fattisi elementari e definitivi, denunciano<br />

questo processo riduttivo. Lo spazio è liberamente manipolato<br />

come entità diretta, come percezione immediata e topologica.<br />

Certamente in Schirolli si risente la precedente sua<br />

esperienza informale, che aveva distrutto le gerarchie dei rapporti<br />

fra le figure e che proponeva lo spazio come entità semplicemente<br />

tipografica. Più diretto e perfino più violento s’è fatto<br />

questo possesso per Sermidi nel senso che egli ha rinunciato all’idea<br />

dei rapporti spaziali fra gli oggetti ed ha accolto l’agglomerato<br />

degli elementi, “entrando” per così dire, nell’immagine.<br />

Quel che il pittore ambisce di fare (è lui stesso a dichiararlo) è di<br />

togliere di mezzo il diaframma fra immaginazione e termine<br />

della immaginazione, fra il “sé” e l’“altro da sé”, approdando ad<br />

una pittura di tipo seriale dove la mano dell’artista scompaia e<br />

sempre più si acceleri il processo produttivo; e ciò in piena fedeltà<br />

alla natura del linguaggio figurativo, che è esplicito nelle<br />

immagini e allusivo nei significati. Mentre in Schirolli c’è una<br />

sorta di trasfigurazione della realtà (dove i termini della visione<br />

vengono in certo qual modo dialetticizzati), un partire dal dato<br />

per modificarlo nella contemplazione, in Sermidi l’immagine ar-<br />

33<br />

tificiale, dato unico, immodificabile, è assunta come “struttura<br />

primaria”. E se questo secondo pittore esige un accostamento lineare<br />

e diretto, Schirolli domanda maggiore attenzione e pazienza,<br />

in ragione del sottile processo grafico e della delicatezza<br />

dei contrappunti che sostengono l’opera sua.<br />

Sono stati indicati numerosi referenti alla radice del lavoro dei<br />

due artisti (l’Art visuel, la giovane pittura anglosassone, la Bauhaus,<br />

Bendini, Delaunay, l’optical ecc.) ed altri se ne potrebbero<br />

proporre: per esempio, Munari, Dorazio, Vorster. Il riferimento<br />

non comporta per noi alcunché di riduttivo, ché Schirolli e Sermidi<br />

non hanno mai inteso essere degli “inventori” ab ovo di<br />

forme, ma dei selezionatori di immagini. Quale l’estrazione delle<br />

loro strutture? Non sarà difficile rintracciarle allo stato germinale,<br />

come materia ancora grezza, nelle zone quotidiane di consumo,<br />

dov’esse vengono offerte con maggiore insistenza e, perché<br />

no?, nelle medesime gallerie d’arte.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Renzo Schirolli e Sergio Sermidi”,<br />

Galleria d’Arte “La Saletta”, Mantova, 21 gennaio-4 febbraio 1967; pubblicato<br />

in catalogo. La mostra fu organizzata in collaborazione con la<br />

Galleria Ferrari di Verona.


Inquietante, illimitato<br />

Rodolfo Aricò (1)<br />

Vi sono indubbiamente molti modi sbagliati di porci di fronte a<br />

un quadro, ma ve n’è uno (in particolare) che nuocerebbe alla<br />

lettura di quanto di nuovo Rodolfo Aricò propone in questa breve<br />

rassegna: quello di chiedere cioè alla pittura o ai disegni singoli<br />

di risultare significativi per se stessi, conclusi e sufficienti. Questo<br />

risultato non pare, almeno allo stato presente, che Aricò<br />

abbia raggiunto, né abbiamo motivo di pensare che egli sia eccessivamente<br />

preoccupato di ottenerlo.<br />

L’equivoco possibile (che qui indichiamo come primo) va naturalmente<br />

inteso con circospezione, dato che coinvolge nella stessa<br />

misura l’artista e il pubblico. Se così non fosse, se ritenessimo<br />

di dover altrimenti interpretare le intenzioni del pittore, dovremmo<br />

ricorrere a referenti lontani e inventare una lettura di<br />

eccessiva distillazione critica, che per altro i visitatori più smaliziati<br />

sanno fare per loro conto fin troppo bene. Questa rinuncia<br />

alla finitezza e alla autonomia non è però rinuncia alla pittura,<br />

ma condizione di lavoro per riuscire ad una nuova pittura, a un<br />

tipo di rappresentazione in cui l’artista organizza l’immagine non<br />

più sullo spazio piano e conchiuso della tavola, bensì entro l’am-<br />

R. Aricò, Anniversario, 1959, olio su tela, cm 195x195.<br />

34<br />

biente in cui si aggira lo spettatore. È qui che s’intravede la distanza<br />

di Aricò dalle avanguardie del primo Novecento alle quali<br />

pure si richiama nella ideazione e negli spunti inventivi. Se i suoi<br />

modelli proiettavano, depositavano l’oggetto anatomizzato secondo<br />

certe categorie (le coordinate tridimensionali + il movimento)<br />

sul foglio che stava lì ad accoglierlo, Aricò straccia quel<br />

foglio, lo deforma e lo piega. Non ha tuttavia il coraggio di uscirne.<br />

Perché? L’impressione nostra è che non intenda bruciare anzi<br />

tempo un’esperienza che sta conducendo con scrupolo estremo,<br />

e voglia guardarsi dal saltare per sola forza d’intuito, come già<br />

tante volte è stato fatto, su un territorio che si presenta così inquietante<br />

e illimitato da non poter essere subito conquistato. Egli<br />

cioè avrebbe ridotto la zona di ricerca e semplificato gli strumenti<br />

conoscitivi per garantirsi un esito più sicuro e controllabile.<br />

Si capisce allora perché rifaccia certi esercizi che potrebbero<br />

apparire inutili, se non perfino anacronistici, perché egli sottoponga<br />

la sua materia ad un esame così capillare e articolato: assonometrie,<br />

dissezioni di oggetti, impiego di strutture archetipiche,<br />

iterazioni di immagini base, eccetera.<br />

L’ipotesi primaria del lavoro di Aricò si basa sulla fede nelle proposizioni<br />

di principio della pittura di Duchamp e di Delaunay, sull’asserzione<br />

dello spazio come risultante da entità diverse e da<br />

R. Aricò, Cilindri, 1966, olio su tela, cm 150x150.


R. Aricò, Figura, 1963, olio su tela, cm 180x145.<br />

forze convergenti: il luogo, il tempo, la luce. Egli certo non condivide<br />

il modo che gli artisti appena nominati ebbero di intendere<br />

quelle entità, rifiuta la dimensione metafisica e contemplativa,<br />

anche se talvolta dà l’impressione di non riuscire del<br />

tutto a liberarsi dall’orfico, cui intende proprio sfuggire. Alludo in<br />

modo speciale a quei disegni che danno soltanto delle immagini<br />

disacerbate e non riescono a farsi oggetti, cose. Ha detto un<br />

suo critico che i personaggi della pittura di Aricò sono proprio la<br />

luce, il movimento, il tempo. La diagnosi non solo è esatta, ma<br />

aiuta a capire quali siano i vantaggi e insieme i pericoli della sua<br />

sperimentazione, poiché da un lato questa lo porta ad assolutizzare<br />

il suo lavoro (che potrebbe anche voler dire isterilirlo) e dall’altro<br />

gli dà il metro più sicuro per cogliere i “fenomeni”, per<br />

educargli l’occhio. Ciò comporta anche un doppio tipo di “ambiguità”:<br />

una negativa e una creativa. Essere nell’ambiguità signi-<br />

35<br />

fica in alcuni casi non sapersi decidere, abbandonarsi al piacere<br />

(che non è neppure un evento manieristico nel senso autentico)<br />

del “rifare”, del ridiscendere nel tempo della memoria, dimenticando<br />

quel che lo stesso Duchamp ebbe a dire con chiarezza,<br />

che cioè il “profumo” estetico di un’opera si dissolve “dopo<br />

venti-trent’anni” sì che risulta assurdo voler riprendere ciò che<br />

appare a tutti gli effetti defìnitivamente morto.<br />

Ma da questo pericolo Aricò si libera, a quanto ci è dato constatare,<br />

abbastanza bene, se pure non sempre. V’è poi un’ambiguità<br />

di natura poetica, ed è questa che contrassegna molti suoi lavori.<br />

Essa si fonda sul particolare genere della sua rappresentazione,<br />

sulla latitudine allusiva del segno, che oscilla tra cosa e<br />

paradigma della cosa, o, come è stato detto, tra oggetto e immagine.<br />

È qui a parer nostro, la novità, è qui che si va aprendo<br />

all’artista una nuova prospettiva. La presente rassegna, che pure<br />

ha il carattere di emergenza, permette di constatare la serietà<br />

con cui Aricò ha posto il suo problema. Giustamente G. C. Argan,<br />

prefazionando la mostra del gennaio scorso a “L’Attico”, rileva<br />

nell’Aricò di oggi l’alternativa fra due soluzioni, una prospetticoproporzionale<br />

e una dimensionale. A noi pare che soltanto la seconda<br />

offra motivi seri di approfondimento e di sviluppo. Le sagome,<br />

gli oggetti-immagine, inventati tenendo conto della misura<br />

fisica dello spettatore e dell’ambiente in cui il pubblico si<br />

muove, possono sprigionare quell’energia che sola è in grado di<br />

suscitare eventi psichici e che non può essere depositata (se non<br />

potenzialmente) nel riquadro angusto della cornice. I bozzetti, i<br />

disegni preparatori, le misurazioni che qui si presentano, costituiscono<br />

nell’insieme un progetto coerente di mostra, la cui realizzazione<br />

si è avuta appunto a Roma all’inizio di quest’anno.<br />

1. Scritto in occasione della mostra “Rodolfo Aricò”, Libreria Galleria<br />

d’Arte “G. Greco”, via Principe Amedeo 26/a, Mantova, 22 aprile-12<br />

maggio 1967, pubblicato in catalogo.


Sotto il segno della rivelazione<br />

Emilio Scanavino (1)<br />

È ormai accertata, nel quadro della attività figurativa contemporanea,<br />

l’appartenenza della pittura di Emilio Scanavino alla poetica<br />

dell’informale. Certo l’opera sua entra ed esce dalla zona<br />

della non-figurazione, da un’area di soste già di per se stessa<br />

apertissima e piuttosto nodo di convergenze che di definitivi arresti.<br />

Si vuol dire cioè che per Scanavino il momento dichiaratamente<br />

informale è stato preparato da una esperienza personale<br />

abbastanza unitaria e da incontri di differente temperatura che<br />

avrebbero anche potuto portarlo ad esiti lontani da quelli di oggi;<br />

se quest’ultima eventualità non s’è verificata, è stato perché<br />

Scanavino ha mantenuto una linea severa di lavoro, guidato da<br />

interessi precisi, che hanno fatto la naturalità di quell’approdo.<br />

Basterebbe pensare per un momento al significato che per lui ha<br />

avuto il contatto col gruppo “Cobra” nel 1954, un contatto che<br />

non ha fruttato svolgimenti in senso cromatico, assicurandogli<br />

invece l’assunzione di un elemento lineare, la grafia sinuosa e labirintica,<br />

un’articolazione cioè da allora in poi piuttosto frequente<br />

nella sua scarna declinazione linguistica. Si comprende allora<br />

perché il pittore esca dalla disgregazione storica del momento<br />

informale, dopo il 1960 circa, con estrema semplicità, senza<br />

scosse e dimostrazioni clamorose, quasi mantenendosi a margine<br />

delle contrastate vicende degli anni successivi. È proprio in<br />

virtù di questa serenità che la persistenza dei modi informali in<br />

Scanavino ha il senso della coerenza, non dell’astrattezza; sicché<br />

il pionierismo suo è garanzia di autenticità.<br />

Indicazioni ulteriori sulla consistenza poetica e sui fondamenti<br />

teorici della attività di Scanavino sono ormai abbastanza chiaramente<br />

reperibili nei dossier della critica militante contemporanea,<br />

che nell’opera sua ha trovato spesso elementi pretestuosi di<br />

esercitazione illustrativa, rinvenenendovi sia i motivi lampanti<br />

per un discorso sull’uso del segno aniconico sia la risposta in termini<br />

rappresentativi alle filosofie della vitalità e della relazione.<br />

Ma in questa sede a noi interessa poco, data la facilità di consultazione<br />

di quei diagrammi interpretativi, procedere ancora<br />

una volta alla defìnizione del rapporto fra la pittura di Scanavino<br />

e la sua visione del mondo; né ci interessa definire la sua posizione<br />

rispetto alle grandi figurazioni eidetiche, essenzialiste del<br />

36<br />

E. Scanavino, Struttura.<br />

Novecento, relazione che per altro implicherebbe un discorso<br />

generale fra arte del primo e del secondo Novecento.<br />

Dati dunque come scontati i parametri di lettura ormai collaudati,<br />

ci limitiamo a ricordare che l’opera di Scanavino rappresenta<br />

una delle prime e più coerenti risposte di tipo “mondano” alla<br />

generazione che l’ha preceduto. Con lui, oltre che con altri, si rovescia<br />

il rapporto tradizionale tra visione paradigmatica dell’universo<br />

e momento esistenziale, fra eterno e presente. In tal senso<br />

la sua opera ci appare sotto il segno della “rivelazione”, sì che<br />

siamo tentati di definire il suo modo di operare come un “portare<br />

alla luce” il miracolo dell’esistere nel momento in cui si affaccia<br />

alla nostra coscienza. Per questa ragione parleremmo volentieri<br />

di sensibilità religiosa, se l’espressione non fosse eccessivamente<br />

consumata ed equivoca, densa di interrogazioni metafisiche.<br />

Certo è però che la suggestione delle tele di Scanavino<br />

è tale e così battente l’urto delle energie psichiche che vi si<br />

raccolgono, da invocare da parte del pubblico un atteggiamento<br />

mentale specialissimo, per farlo parte di una sorta di messaggio<br />

magico. Davanti ai suoi quadri si prova la percezione esatta di assistere<br />

a qualcosa di prodigioso, come se un’entità emergesse<br />

fulminea dalla superficie; si avverte anche lo stupore dell’inizia-


to, del contemplativo che tutto si raccoglie nella sacralità dell’evento naturale. Non è un<br />

caso che le superfici di Scanavino abbiano una consistenza delicatissima, quasi trasparente<br />

e radiografica, e che appaiano contemporaneamente così scabre e povere di corposità<br />

materica. Non è assente la matrice materiologica, ma essa è mantenuta su un registro di<br />

severa decantazione, data l’auroralità del fenomeno osservato. I suoi disegni, i suoi quadri<br />

rappresentano perciò altrettante fanìe, pezzi di un’unica serie. L’artista e chi ne osserva il<br />

prodotto sono chiamati a vedere e ad agire insieme, “considerano” e nello stesso tempo<br />

“fanno” un gesto, producono se stessi e si guardano per conoscersi. Da qui l’assenza di immagini<br />

in senso stretto, poiché immagini può vedere solo chi guarda dall’esterno un’entità<br />

che vive, non mai l’entità. Eppure Scanavino non tende alla consumazione dei suoi contenuti<br />

attivi, non identifica, distruggendoli nella volgarità del connubio, visione e azione,<br />

tende invece a tenerli in equilibrio, per garantirsi la misura poetica. Per capire quanto sia<br />

vero questo procedimento in Scanavino, vale abbastanza bene il confronto con un artista<br />

del tipo di Hartung: in quest’ultimo sono le strutture essenziali del movimento che ven-<br />

E. Scanavino, Creazione.<br />

37<br />

gono richiamate, per essere fissate<br />

nella loro pregnanza, come momento<br />

assoluto, ex nihilo, in interiore homine,<br />

mentre Scanavino rifiuta il momento<br />

dionisiaco e creativo, per depositare<br />

invece l’avvenimento naturale<br />

della creazione. Ecco perché l’occhio<br />

torna a nascondersi e insieme a<br />

confondersi con la molteplicità dei<br />

fenomeni, per impedire che essi<br />

sfuggano alla osservazione.<br />

Ovviamente tale rivoluzione tematica<br />

si è attuata come rivoluzione<br />

anche di linguaggio. Si veda la stesura<br />

a colate e a macchie, ad improvvisi<br />

scatti della linea grafica, si considerino<br />

le graffiature sullo strato arido<br />

di gesso. Sono questi i termini tecnici<br />

di una strenua ricerca espressiva.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra<br />

“Emilio Scanavino”, Libreria Galleria d’Arte<br />

“G. Greco”, via Principe Amedeo 26/a,<br />

Mantova, 18 maggio-2 giugno 1967;<br />

pubblicato in catalogo.


Pop Art<br />

Lichtenstein, D’Arcangelo, Dine, Phillips, Rosenquist,<br />

Warhol, Wesselmann, Jones, Ramos (1)<br />

L’impiego ad oltranza degli strumenti della trasmissione di<br />

massa come canali idonei a stabilire il contatto col pubblico, ed<br />

alcuni atteggiamenti scapigliati degli artisti statunitensi potrebbero<br />

disporci ad una valutazione errata delle loro opere più autentiche.<br />

È vero che Warhol, Wesselmann e Dine si limitano talvolta<br />

a firmare oggetti di uso comune pretendendo di appropriarsi<br />

con un gesto tanto clamoroso quanto gratuito di elementi<br />

che risultano del tutto estranei alla loro officina artistica; ed è<br />

anche vero che qualcuno di loro fa ricorso ai servizi della comunicazione<br />

pubblica per il reperimento, il montaggio e la strutturazione<br />

dei materiali dei dipinti, ma si tratta sempre di manifestazioni<br />

estreme e abbastanza accidentali, intenzionalmente<br />

spregevoli, che rispondono allo scopo di urtare il gusto degli<br />

spettatori per avviarli contemporaneamente all’intelligenza di<br />

fatti estetici che si collocano in rottura consapevole con la tradizione<br />

recente dell’astratto espressionismo e del new dada.<br />

È opportuno anche da parte nostra evitare il consueto approccio<br />

all’arte nord americana in termini di filosofia volontaristica e pragmatica,<br />

come si è fatto tante volte, pensando di aver la chiave<br />

buona per intendere nei loro aspetti essenziali le proposte che<br />

con ritmo crescente arrivano dagli Stati Uniti negli ultimi anni,<br />

poiché si finisce per lasciare in ombra molti elementi che pure le<br />

qualificano in modo sostanziale. Anche per la pop art di New York<br />

e della California (che va tenuta ben distinta da quella europea)<br />

è d’obbligo procedere con una certa prudenza, riconducendola al<br />

contesto geografico-storico in cui ha le sue radici.<br />

Le litografie rappresentano in certo senso il materiale ideale per<br />

mettere a fuoco il discorso sul formalismo che ci sta a cuore, poiché<br />

in esse appare più evidente che in altre creazioni di quella<br />

avanguardia la fatica di stilizzazione e di messa a punto del linguaggio.<br />

Gli elementi iconografìci consueti della rappresentazione<br />

pop, tratti dalle mitografìe popolari della società americana,<br />

appaiono resecati dal livello quotidiano ed innalzati in una zona<br />

di purezza insolita, o almeno molto alta, tale in ogni caso da far<br />

perdere loro quella forza di urto «faccia a faccia» che in altre occasioni<br />

costituiva la modalità primaria dell’impatto percettivo. Si<br />

38<br />

potrebbe dire in altre parole che la mimési della realtà si riduce<br />

ad una semplice velatura. E non sembra che questo esito debba<br />

attribuirsi soltanto ad un effetto della particolare tecnica adottata<br />

(la litografia). Rauschemberg ebbe una volta ad osservare che<br />

“la pittura è in relazione sia con l’arte che con la vita”, che “né<br />

l’una né l’altra si possono tenere in pugno” mettendo così sull’avviso<br />

chi propendeva per una interpretazione oggettualistica o<br />

rozzamente vitalistica dei suoi combining paintings.<br />

L’artista insomma agirebbe nella stretta fascia di confine tra il<br />

reale e l’estetico, in una continua interazione tra i due campi, facendo<br />

leva anche sull’ambiguità di un simile processo di scambio.<br />

Come si spiega questa ipotesi di un vuoto tra zone differenti?<br />

Probabilmente essa vuole proporsi come una nuova definizione<br />

di esteticità, che rinuncia alle suggestioni formali dei patterns<br />

già entrati nell’uso e nel medesimo tempo si appropria, togliendola<br />

dal basso, della nozione di impersonalità e anonimità<br />

tipica della vita quotidiana. L’atto artistico diventa sorta di medium,<br />

uno speciale momento in cui vengono recuperati e “rivisti”,<br />

in certo senso ricomposti (per impedire che il consumo risulti<br />

inavvertito e scivoloso), gli oggetti e i segni della mass culture.<br />

Lo stesso Jim Dine ha protestato contro l’accusa di abbassamento<br />

rivolta ai pittori del suo medesimo indirizzo, mettendo in<br />

rilievo che nessuno di loro hai mai voluto rompere il diaframma<br />

che divide l’arte dalla vita, poiché è assurdo sostenere “che la<br />

vita e l’arte siano la stessa cosa, questi due poli opposti”. E aggiungeva:<br />

“Io faccio dell’arte altra gente fa altre cose. Da una<br />

parte c’è l’arte, dall’altra c’è la vita. Io penso che la vita arrivi all’arte,<br />

ma se si usa un oggetto e la gente dice che l’oggetto è lì<br />

per colmare questo distacco tra arte e vita, questa è follia. L’oggetto<br />

è lì per fare arte, allo stesso modo del colore”. Non c’è dichiarazione<br />

più illuminante di questa per confutare l’opinione di<br />

chi vorrebbe spogliare gli artisti pop di interessi formalistici di intenti<br />

manipolatori. Si tratta ora di stabilire il ventaglio e l’intensità<br />

di simili interventi sul reale, tenendo presente che lo stile<br />

agisce come diaframma e come spessore critico. Giustamente è<br />

stato detto che i contenuti prediletti da questi pittori sono estremamente<br />

superficiali, nel senso che riguardano l’ottica delle<br />

cose, la loro intensità quantitativa e l’impersonalità.<br />

Ai pop infatti mancano preoccupazioni di natura schiettamente<br />

sociologica e politica, mentre sono affascinati dalle modalità vi-


suali della vita organizzata ad alto livello tecnologico. La loro<br />

quindi non è una rivoluzione delle idee, ma una rivoluzione dell’occhio,<br />

una forma inedita di costruire l’immagine. Non è un<br />

caso infatti che i grandi centri della pop art siano le metropoli e<br />

che l’ambiente specifico cui è destinata la sua produzione sia<br />

quello «medio» della società dei consumi, sì che in altri contesti<br />

culturali le manifestazioni pop hanno dato origine a qualcosa di<br />

completamente diverso o ad un equivoco epigonato. Anche da<br />

questo lato l’etichetta di pop art, come abbreviazione di «popular<br />

art», si presta al malinteso, se non la si riferisce esattamente<br />

alla fascia sociale che le è pertinente. Di qui la ragione di insistere<br />

sull’esatta definizione di ambiente, gli environment, di dimensione<br />

insieme artistico quotidiana delle operazioni pop. Può<br />

essere utile a questo punto ricorrere a due nozioni semplificative<br />

per intendere meglio il fenomeno, quelle di argomento e di<br />

significato, frequentate anche dalla esegesi specializzata.<br />

I soggetti dell’ispirazione sono - grosso modo - i luoghi comuni<br />

del linguaggio visivo inventati dalla programmazione industriale<br />

e applicati massivamente per aggredire e conquistare il consumatore.<br />

Altre volte, vedi Allan D’Arcangelo, si tratta delle modalità<br />

segnaletiche che reggono la vita associata. Così s’è imposto<br />

un nuovo concetto di natura: naturale è l’ambiente creato dall’artificio<br />

(diremmo dalla magia) della tecnica, ed è naturale perché<br />

in esso ci troviamo ogni giorno e vi consumiamo la nostra<br />

esistenza. Ovviamente non ci interessa ora porre in discussione<br />

una simile idea di natura, quanto comprenderla con la maggior<br />

precisione possibile, così come vorremmo intendere bene l’atteggiamento<br />

degli artisti in questione di fronte ad essa. Sentiamo<br />

Oldemburg: «Sono per un’arte che prende le sue forme dalla<br />

vita, che si contorce e si estende impossibilmente e accumula e<br />

sputa e sgocciola, ed è dolce e stupida come la vita stessa. Sono<br />

per l’artista che sparisce e rispunta con un berretto da muratore<br />

a dipingere insegne e cartelloni. Sono per l’arte delle pompe di<br />

benzina bianche e rosse e per le ammiccanti pubblicità dei biscotti.<br />

Sono per l’arte del vecchio gesso e del nuovo smalto. Sono<br />

per l’arte delle scorie e antracite e uccelli morti. Sono per l’arte<br />

dei graffi sull’asfalto. Sono per l’arte che piega le cose, le prende<br />

a calci e le rompe e le tira e le fa cadere. Sono per l’arte delle<br />

banane spiaccicate sedendoci sopra». Risulta evidente allora che<br />

l’ottimismo guida gli artisti pop, la fede nella bontà di quella cul-<br />

39<br />

tura di massa tanto disprezzata che invade le strade e gli edifici,<br />

e per la quale l’artista prova un così prepotente sentimento<br />

d’amore da volersene immergere fino in fondo, identificandosi<br />

con la sua natura medesima. «Penso che tutti dovrebbero essere<br />

macchine. Penso che tutti dovrebbero amarsi» (Warhol).<br />

Tanto ottimismo equivale a passività, significa integrazione? Che<br />

valore assumono i segni nella mediazione artistica? Se stiamo<br />

alle dichiarazioni di Jasper Johns, il pittore è spinto da impulsi, da<br />

intenzioni molto sostanziose quando si mette all’opera, ma ad<br />

esecuzione ultimata “gran parte delle intenzioni” è andata inevitabilmente<br />

perduta. Ciò vuol dire che è il pubblico a dar significato<br />

all’opera, a caricarla di messaggi che all’autore potrebbero<br />

anche essere estranei. L’artista si limita a lavorare formalmente<br />

sul linguaggio, struttura l’immagine in modo corretto, senza potersi<br />

impadronire del suo destino. Tuttavia in qualche modo egli<br />

compie un lavoro di aggiustamento critico e di organizzazione,<br />

facendosi illuminato (e appassionato) interprete dei moduli visivi<br />

della vita della metropoli.<br />

L’oggetto (l’argomento) è assunto nella sua interezza direttamente<br />

dalla cultura anonima della città e dopo uno speciale trattamento<br />

di correzione che varia di tono e di intensità a seconda<br />

della esperienza dell’artista, viene rinviato al pubblico cui era destinato.<br />

I procedimenti in ogni caso sono sempre organizzativi a<br />

livello ottico e in nessun modo trasformatori o decisamente alteranti.<br />

L’arte pop non tende alla trasfigurazione, ma fa proprie<br />

le modalità dell’interazione dell’immagine, dell’ingigantimento,<br />

dell’enfasi e tende a far consapevoli gli spettatori della natura ingannevole<br />

delle strutture comunicative di cui sono fruitori passivi.<br />

Provocano in quanto “fanno conoscere”, non perché consegnino<br />

un messaggio contestativo-satirico. E a noi pare che tutto<br />

ciò abbia un positivo significato, in un momento in cui gli abituali<br />

parametri del vedere artistico vanno dimostrando sempre più<br />

gravemente la loro usura.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Pop Art. Lichtenstein, D’Arcangelo,<br />

Dine, Phillips, Rosenquist, Warhol, Wesselmann, Jones, Ramos”, Libreria<br />

Galleria d’Arte “G. Greco” via Principe Amedeo 26/a, Mantova, 7dicembre<br />

1967; pubblicato in catalogo.


1968<br />

Dai Disegni di Giuseppe Facciotto<br />

a Valentino Vago<br />

Disegni di Giuseppe Facciotto<br />

Seconda rassegna d’arte. Linee di ricerca<br />

Di Capi, Bergonzoni, Madella,<br />

Olivieri, Perina, Schirolli, Sermidi, Vago<br />

Le cose trovate<br />

Renzo Schirolli<br />

Astrattismo geometrico<br />

e cultura popolare<br />

Alfonso Frasnedi<br />

Vanità<br />

Valentino Vago


Disegni di Giuseppe Facciotto (1)<br />

La storia dell’uomo e dell’artista Facciotto è in gran parte circoscritta,<br />

se si fa eccezione per alcuni contatti, nei confini della provincia.<br />

Non perciò resta uno sconosciuto. La critica italiana ebbe<br />

occasione di occuparsi di lui, ma lo fece in anni estremamente<br />

difficili e in un momento in cui egli stava tentando di allacciare<br />

i primi seri rapporti con una cultura militante di ampio respiro. Se<br />

tutto ciò non incise in alcun modo sulla coerenza del suo lavoro,<br />

pesa ancora però sulla sua fortuna e ne ritarda gravemente la<br />

conoscenza, con pregiudizio della critica stessa. Intanto resta ac-<br />

G. Facciotto, Case presso il lago, 1938, carboncino, cm 13,5x21.<br />

42<br />

certata la sua posizione centrale nella storia della pittura locale<br />

del Novecento, sia in virtù delle qualità interne dell’opera che<br />

dell’esemplarità con cui fu attuato l’innesto della tradizione mantovana<br />

nella cultura figurativa europea. Con la presente occasione<br />

intendiamo operare una prima sollecitazione sul pubblico, proponendogli<br />

un limitato campione grafico che costituisce in qualche<br />

modo la preistoria stessa della pittura di Facciotto. Ad una prima<br />

e sommaria ricognizione del materiale disegnativo e a contatto<br />

con gli esiti più convincenti, vengono immediati i richiami ai<br />

modi linguistici, agli scorci e alle articolazioni formali di alcuni artisti<br />

operanti attorno al ’30, senza però che se ne ricavi un so-


spetto di ripetizione o di disarmata ingenuità.<br />

L’analogia si spiega nella considerazione che quelle che appaiono<br />

identità erano declinazioni comuni del gusto, entro le quali<br />

ciascun artista riusciva poi ad inventare una propria sintassi<br />

espressiva, un suo individuo modo di aderire alle cose. Sarà possibile<br />

magari, con uno spoglio più attento del nostro, rinvenire<br />

consonanze e convergenze più strette capaci di illuminare con<br />

efficacia il comune terreno di operazioni, ma si finirà sempre col<br />

confermare la piena autonomia di ognuno degli universi poetici<br />

cui quegli artisti diedero vita. A Semeghini, a Del Bon e a Lilloni,<br />

più che ad altri, Facciotto fu vicino per la modestia con cui in-<br />

G. Facciotto, Colline moreniche, 1938, matita su carta, cm 11,5x15,5.<br />

43<br />

terpretò l’ufficio della pittura e per la linearità della sua ricerca.<br />

In anni in cui era difficile sottrarsi alla suggestione delle grammatiche<br />

essenzialiste, ci fu chi intese liberare il discorso figurativo<br />

dal dettato dei programmi per ripiegare su altri parametri<br />

della visione. Non si vuole certamente sostenere da parte nostra<br />

che quella era l’unica scelta possibile, il solo modo di riconoscere<br />

le ragioni della pittura; solo si constata che quella fu una via<br />

valida di ispirazione.<br />

Ben poco conosciamo della formazione di Facciotto, del maturare<br />

della sua vocazione. Quel poco tuttavia ci appare sotto il<br />

segno di una cultura decantata con miracolosa limpidezza nelle


G. Facciotto, Autoritratto con mano sulla fronte, s.d., penna su carta velina, cm 24x18.<br />

44


sue componenti essenziali. A confronto di tanti altri pittori suoi<br />

coetanei, più inquieti di lui ed anche più disposti a dibattere per<br />

via concettuale i problemi della visione, egli ci appare quasi più<br />

povero di dati e di informazioni. Si consideri ad esempio la sua<br />

relazione con Di Capi: il male della perfezione, l’acuta intelligenza<br />

critica dell’amico, anziché persuaderlo a nuove avventure visive,<br />

lo confermarono nei procedimenti che gli erano propri; sicché<br />

il levare e il togliere venivano esercitati all’interno del processo<br />

artistico, senza quelle appassionate violenze sugli esercizi<br />

minori dell’azione pittorica cui quello era invece così incline. Dai<br />

primi maestri e dai compagni di quegli anni apprese la fiducia<br />

nella organizzazione luminosa della realtà e la determinazione<br />

di alcuni temi che segneranno delle costanti nella sua produzione.<br />

Si direbbe, però, che appresa la prima lezione, Facciotto<br />

abbia voluto ‘correggerla’ e sottoporla ad un approfondimento di<br />

tono poetico, di intensificazione e di lievitazione lirica. Ed è a<br />

questo punto che ricercò altrove, in tradizioni di alta sapienza pittorica,<br />

i moduli visivi con i quali mettersi all’opera. Per quanto ciò<br />

appaia poco evidente nell’atto creativo, così sciolto e naturale, è<br />

indubbio che ci fu agli inizi una operazione critica, di natura di-<br />

G. Facciotto, Profilo di case e alberi, 1939, penna su carta (foglio di taccuino).<br />

45<br />

scriminatoria, ai fini della ‘correzione’ di cui si è detto. Anziché<br />

accumulare in direzione sperimentale una somma di dati stilistici,<br />

egli semplificò e ridusse al nocciolo essenziale i problemi<br />

della figurazione, demandando all’esercizio di officina il compito<br />

di precisarli volta per volta. Ecco perché i disegni di Facciotto appaiono<br />

così poco calcolati, come se il ductus grafico si sgomitolasse<br />

senza strappi e pentimenti. In realtà la naturalezza del tracciato<br />

compositivo è tutt’altro che qualcosa di irriflesso: la semplicità<br />

è il momento di arrivo, una difficile conquista cui l’artista perviene<br />

attraverso una ricerca ininterrotta di precisazioni linguistiche,<br />

di registrazioni, di educazione dell’occhio. Si vedano gli infiniti<br />

taccuini di appunti: è lì che ritroviamo fissati i segni di una indagine<br />

sempre più robusta, ed è lì che abbiamo l’occasione di ripercorrere<br />

a ritroso la storia di una composizione o di un quadro,<br />

cogliendolo, per così dire, nel processo di crescita e di assestamento.<br />

I ritratti, per esempio: non c’è positura o angolazione loro<br />

che non sia stata percepita e depositata sul foglio, con la devozione<br />

di chi ritrova nella natura un modello inesauribile di indicazioni.<br />

Anch’egli perciò avrebbe potuto attribuire a sé la memorabile<br />

dichiarazione di De Pisis: “Basta saper ricevere le confiden-


G. Facciotto, Ritratto di malata, 1938, penna, inchiostro e carboncino su carta, cm 28,6x22,6.<br />

46


G. Facciotto, Figura femminile sotto la pioggia, 1945, penna su carta, cm 13x10.<br />

47


ze della natura”. Senonché poi quella inesauribilità, che veniva riconosciuta<br />

alle cose, era in lui stesso, nel paziente e sensibile occhio<br />

che le interpretava.<br />

Il percorso del suo lavoro è fatto di una trama di parole poetiche<br />

e di segni che si presentano in una successione sempre più affollata,<br />

costituendo una sorta di catena di illuminazioni particolari<br />

che vanno organizzandosi attorno ad un centro. Dall’appunto<br />

all’abbozzo al disegno compiuto, s’intravede un fitto e denso<br />

coagularsi di emozioni, come se si trattasse di portare in emergenza<br />

un traliccio più consistente, un’architettura generale in cui<br />

ogni nota trova alla fine il suo posto definitivo. Ci si accorge proprio<br />

sfogliando i quaderni di appunti che anche i segni più elementari<br />

e apparentemente svagati rispondono al bisogno di sollecitare<br />

l’occhio di fronte alla vita, di prepararlo all’intuizione; si<br />

scopre anche la necessità di certe annotazioni scritte sul dorso<br />

dei cartoni o in margine ai fogli: “Quando sono fuori a dipingere<br />

io perdo la nozione del tempo: le ore passano e si susseguono<br />

alle ore ed io non le sento - solo una vaga sensazione del mutare<br />

della luce”; oppure: “Giorno di grande temporale - si annegarono<br />

i pulcini e per salvarli ci vollero delle ore - c’è qui Bergonzoni<br />

con la Nini”, che pur nella provvisorietà della stesura<br />

verbale, denunciano in lui la costante ricerca del tono lirico.<br />

La matrice di fondo delle strutture disegnative di Facciotto è facilmente<br />

rinvenibile, così come evidente risulta il filtro chiarista<br />

attraverso il quale sono stati ripresi i nessi primari della sintassi<br />

dell’impressionismo. L’armatura-base delle figure e dei paesaggi<br />

è costruita con delle linee di forza che, lungi dall’essere le antiche<br />

quadrature fisse dello spazio intellettualmente misurabile,<br />

mutano continuamente e svariano nella dinamica del tempo e<br />

del provvisorio. Protagonista di questa nuova spazialità è l’ora intima<br />

dell’artista, il suo modo di incrociarsi con il momento prospettico,<br />

che subito si frantuma, dei fenomeni. Nei paesaggi<br />

questo metodo di organizzare la visione, pur restando costante,<br />

dà luogo ad articolazioni plurime e si esplicita in differenti telai<br />

inventivi. In un repertorio di soluzioni che appare subito vastissimo,<br />

si impongono tuttavia alcune soluzioni privilegiate. Tra le più<br />

frequenti v’è una sorta di traliccio a fasce orizzontali, interrotto<br />

da svariature asimmetriche sulle quali poggiano fughe di piani,<br />

scanditi secondo una metrica dosatissima. Talora l’accento, anziché<br />

battere sugli ordini orizzontali, viene spostato sulle diagona-<br />

48<br />

li al fine di fissare un’emozione speciale di tono o di atmosfera.<br />

Tutto questo senza che la mano appesantisca il timbro delle notazioni,<br />

col pericolo di metterne in evidenza lo schema sotterraneo,<br />

esaurendone le capacità rappresentative. Anche la parola<br />

singola viene subordinata alle necessità allusive del discorso generale:<br />

essa è piegata sempre alla funzione di alludere, spogliata<br />

delle connotazioni descrittive, ridotta a tono di una più vasta<br />

atmosfera. Da qui la predilezione per i segni che non definiscono<br />

ma dilatano in trasparenze. Da qui anche l’uso di poche materie,<br />

il carboncino, la matita o il pastello, che parrebbe essere il segno<br />

di una programmatica umiltà e viceversa si spiega all’interno di<br />

una rigorosa grammatica dell’espressione. Altre volte la visione<br />

si concentra in una zona dominante per digradare e smorzarsi in<br />

quelle periferiche; ma qui, come altrove, la preoccupazione costante<br />

è quella di creare un ritmo, una successione di accenti. La<br />

‘naturalezza’, che ci sembra la qualità primaria di Facciotto, non<br />

esclude però che egli esercitasse sugli argomenti del suo interesse<br />

una energia, una curiosità che diventa in certi casi persino<br />

aggressiva. Vogliamo dire che c’è nei suoi disegni una violenza<br />

di scavo rappresentativo, quale neppure si sospettava. Nei ritratti,<br />

per esempio, l’artista, pur aderendo ad una contenuta misura<br />

compositiva, si è servito della forma come di uno strumento di<br />

umanissima penetrazione e di verità. Anche da questo lato si<br />

giustifica la ricorrenza ad alcuni topoi costanti, la ostinata fedeltà<br />

alle persone e ai luoghi della sua provincia.<br />

Qui - a parer nostro - l’origine morale della sua pittura.<br />

(1) Foglio di presentazione della mostra “Disegni di Giuseppe Facciotto”,<br />

Galleria d’Arte “G. Greco” via Principe Amedeo 26/a, Mantova, 17<br />

febbraio-2 marzo 1968; pubblicato nel foglio di presentazione della mostra.<br />

Un riassunto di questo testo viene pubblicato sulla Gazzetta di<br />

Mantova del 17.2.1968 con il titolo “Grafica di Giuseppe Facciotto da<br />

oggi alla Galleria ‘Greco’“. Questo testo è stato pubblicato integralmente<br />

sulla Gazzetta di Mantova il 16 settembre 1969 con il titolo “La retrospettiva<br />

di Facciotto a Rivalta”.


Seconda rassegna d’arte<br />

Linee di ricerca. Di Capi, Bergonzoni, Madella, Olivieri,<br />

Perina, Schirolli, Sermidi, Vago (1)<br />

Due propositi mi hanno guidato nell’allestimento della rassegna.<br />

Il primo è stato quello di far sostare l’attenzione su degli artisti<br />

più che sull’arte in se stessa, poiché in realtà, come è stato autorevolmente<br />

detto, non esiste una cosa chiamata arte, esistono<br />

invece degli uomini che fanno dell’arte. L’intento, per essere attuato<br />

con sufficiente approssimazione, ha richiesto da parte mia<br />

la responsabilità di una scelta o, se si vuole, di una discriminazione<br />

all’interno dell’attuale panorama dell’attività figurativa; responsabilità<br />

che mi assumo volentieri, perché ritengo che gli artisti<br />

presenti rispondano, nonostante le moltissime e talora contrastanti<br />

soluzioni grammaticali della loro esperienza, in modo<br />

netto e radicale agli interrogativi che si pongono oggi nel campo<br />

dei fatti visivi. Pittori come Olivieri, Vago, Madella e Sermidi<br />

hanno almeno una esigenza in comune, quella cioè di disancorare<br />

la forma dai dictamina spaziali delle poetiche degli itinerari<br />

obbligati, dai codici della progettazione tecnologica. E da essa<br />

discende un corollario positivo: l’idea di uno spazio che non è<br />

fuori dall’immagine, ma si fa dentro e con l’immagine stessa. La<br />

speciale proposta di Schirolli si specifica invece, come si vedrà,<br />

in modi di alchimia atmosferica.<br />

Le rinunce che mi sono imposto non vanno interpretate come il<br />

segno di una volontà di emarginazione di valori, né sostengono<br />

la vuota presunzione di esaurire in poche battute un discorso che<br />

si presenta estremamente vario e mosso. È fin troppo evidente<br />

infatti che un approccio, anche in termini minimi, da parte del<br />

pubblico al lavoro di un artista non può essere tentato sul fondamento<br />

di un’opera unica; occorre un materiale che sappia chiarirgli<br />

perché egli si muove in una determinata direzione e con<br />

certe intenzioni.<br />

Il secondo criterio invece non ha chiesto sacrifici. Ho voluto con<br />

esso sottolineare il carattere di ricerca dell’arte, soprattutto vivo<br />

nel nostro tempo. Per questo sono stati scelti autori la cui opera<br />

presenta con particolare evidenza una simile fisionomia; perciò<br />

anche si sono ritagliati quei momenti del loro lavoro che sono<br />

sembrati idonei ad esprimerla, specie in relazione alle odierne<br />

sperimentazioni retoriche della figurazione.<br />

49<br />

G. Madella, Tu mi spingi io ti spingo, 1957, olio su tela.<br />

G. Madella, Immagine competitiva, 1967, olio su tela, cm 170x150.


Con particolare calore, infine, mi sento di raccomandare ai visitatori<br />

la presenza degli oli e delle tempere di Giordano Di Capi,<br />

un artista immaturamente scomparso, che seppe accogliere la<br />

lezione europea della pittura in tempi ed in luoghi pochissimo<br />

favorevoli a lui.<br />

Gianni Madella<br />

L’ipotesi che il pittore ha voluto sperimentare riguarda la creazione<br />

di nuovi segni, apparendogli per ora meno interessante<br />

una ricerca condotta a livello delle strutture. Lo spazio infatti, l’architettura<br />

finale entro la quale confluiranno, se confluiranno,<br />

quei segni, risulta qualcosa di secondario per l’impossibilità di<br />

accertarla e per l’imprevedibile modo in cui potrà in futuro configurarsi.<br />

L’ipotesi potrebbe sembrare poco convincente, se non l’accreditassero<br />

due ragioni: la prima è che con essa ci si pone in termini<br />

riassuntivi, con l’intento di andar oltre, nella fase finale di dissoluzione<br />

dello spazio, processo che ormai la cultura occidentale<br />

ha strenuamente vissuto fino alle estreme conseguenze; l’altra<br />

è che non ci si limita a patire la sorte che ci è data, ma si intende<br />

reagire e ristrutturare la realtà partendo ex novo dalla raccolta<br />

di materiali discreti, vale a dire individuando delle unità visive<br />

fondamentali e valutandone la portata singolarmente nei<br />

loro caratteri distinti. In altre parole si potrebbe dire che il segno<br />

interessa in quanto funzione possibile, come entità che potrà caricarsi<br />

di energia e rivelarsi capace di crescita. In sé preso il<br />

segno è cosa morta, un monco elemento proiettivo, la cui vita si<br />

istituisce solo sulla via della relazione.<br />

Ciò detto, appare probabile che la proposta si iscriva nella zona<br />

di convergenza tra arte e scienza, e più precisamente tra fisica e<br />

immaginazione visiva: l’evento vitale, il segno, viene registrato<br />

come pulsazione, come un distendersi ora lungo ora breve di<br />

corpuscoli di energia in un campo che essi stessi definiscono, accumulandosi,<br />

aggrumandosi, disperdendosi. L’assembramento è<br />

il topos privilegiato che il pittore interpreta, ma che in nessun<br />

modo può determinare in anticipo: solo nel luogo di scontro si<br />

precisa ogni volta il grado, l’intensità delle relazioni. Ed ancora:<br />

le modalità della registrazione non sono al di sopra dell’evento<br />

ma una parte integrante di esso. Il pittore cioè opera all’interno<br />

dell’atto formativo, tutt’uno con l’immagine e con gli strumenti<br />

50<br />

del suo figurare.<br />

Dove si colloca il segnale che l’artista propone? A chi è rivolto?<br />

La risposta è che l’area di operazione sta al centro fra il polo della<br />

produzione e quello del consumo. Data la situazione odierna di<br />

emergenza e il carattere tutto attivo che da un lato assume il<br />

momento del prodotto e quello assolutamente passivo della<br />

fruizione ottica delle immagini, ci si chiede se non sia più interessante<br />

intervenire nel territorio inesplorato, o almeno ancora<br />

insufficientemente preso in considerazione, della distribuzione<br />

delle immagini. Infatti il canale attraverso il quale passa il messaggio<br />

della comunicazione resta segreto; eppure è lì che l’oggetto<br />

della produzione acquista le sue modalità aggressive e<br />

violentatrici, ed è lì che si prepara il processo alienante. La distribuzione<br />

ha il compito di far scivolare inavvertitamente le cose<br />

nella mente del destinatario, abituando quest’ultimo a dare le risposte<br />

che si vuole siano date, creando in lui un insieme di riflessi<br />

che ne reggono il comportamento. Se invece questo percorso<br />

viene bloccato, è anche probabile che si determini uno<br />

shock vitale, un mutamento di rotta del flusso di energie. Riuscire<br />

a far ciò significherebbe restituire all’utente quella funzione<br />

attiva che la macchina distributrice ha avocato a se stessa, e quel<br />

che più importa si genererebbe una corrente, per così dire, alternata<br />

tra i poli. In questo senso Madella progetta di intervenire<br />

su un terreno concreto, storico: il terreno delle modalità distributrici,<br />

che è poi lo spazio comune di oggi della vita di relazione,<br />

dei percorsi della civiltà tecnologica, dell’assembramento<br />

urbano.<br />

Considerando l’impostazione dell’argomento, si capisce perché al<br />

pittore interessino quei modelli della pittura del passato che seppero<br />

funzionare prepotentemente da catalizzatori di forze, da<br />

scatenatori di processi dinamici. Certo non perché se ne possano<br />

desumere dei parametri formali di organizzazione dell’immagine,<br />

ma in quanto ‘attaccarono’ l’occhio che li guardava, costringendolo<br />

a reagire e a farsi tutt’uno col soggetto provocante.<br />

Così il passato diventa un serbatoio di indicazioni utili, esercita<br />

ancora una grave lezione. E se importa studiare i referenti nel<br />

loro volto storico, per garantirsi che la lettura sia legittima, quei<br />

modelli sono poi piegati ad un’ulteriore funzione: li si considera<br />

cioè come ‘esponenti’ di categorie generali in grado di esibire le<br />

figure di una tipologia artistica la cui storia è pur presente nella


S. Sermidi, Senza titolo, 1967, pastelli colorati in cartoncino, cm 145x190.<br />

51


cultura occidentale, quella dell’immagine competitiva.<br />

L’ipotesi linguistica, mantenuta per ora – come si diceva - a livello<br />

del segno, va diramandosi su un limitato registro di stilemi<br />

particolari, che sono appunto quelli della tipologia ricordata; alla<br />

quale sono proprie certe declinazioni e non altre, quali l’unicità<br />

al posto della serie, la vitalità invece dell’impersonalità, la concentrazione<br />

e non la dilatazione, la densità al posto della piattezza,<br />

e così via. Predilezioni già di per se stesse indicative di un<br />

orientamento divergente dalle poetiche oggettualistiche e, grosso<br />

modo, dall’impatto percettivo sperimentato nel corso degli ultimi<br />

anni. Le immagini, di proposito, non sono estratte dall’area<br />

dei consumi reali, ma semplicemente vi ineriscono, nel senso<br />

che il pittore tende a riprodurre modalità nuove di interrelazione<br />

progettando segni inediti. Per ora egli ha preso in esame<br />

pochi tipi elementari, che qui appunto propone al visitatore, per<br />

ricavarne una lezione di attendibilità.<br />

V. Vago, P.C. 83, 1982, olio su tela, cm 150x200.<br />

52<br />

Renzo Schirolli<br />

L’immagine pittorica è sentita da Schirolli in termini di conflitto.<br />

La tékne si scontra con il fenomeno, dando origine ad una entità<br />

nuova, di tipo relazionale, che potrebbe qualificarsi come<br />

evento atmosferico. Per far comprendere meglio l’intenzione<br />

che presiede alla ricerca dell’artista, si potrebbe dire che questa<br />

si specifica sempre più come perdita di valori illusionistici a vantaggio<br />

di una acquisizione massiccia di fisicità aerea e di espansività<br />

luminosa. In tale determinazione essa si colloca accanto a<br />

tante altre indagini contemporanee, e tuttavia conserva connotazioni<br />

sue proprie sia per le articolazioni stilistiche di cui si avvale<br />

sia perché si trova a reagire contro un’arte intesa come pura<br />

gestualità.<br />

I termini polari del comporre sono l’artificio e la naturalezza. “È<br />

come se osservassi le cose attraverso lenti deformanti”, dichiara<br />

spesso Schirolli. Ed è vero: la rappresentazione artistica, ben lontana<br />

dal congelarsi in una piatta dimensione iconografica, nasce<br />

dal fare e disfare lo spazio, dal frantumarlo e ricomporlo, così da<br />

interpretarlo nel suo incessante divenire. L’occhio partecipa ad<br />

una catena di eventi percettivi, ora disposti secondo una linea<br />

seriale ora tempestosamente tumultuosi, che si organizzano in<br />

un sistema di relazioni, in una varia e mobile topologia, capace<br />

di suscitare per via sinestetica forti emozioni psichiche.<br />

La natura compare sub specie oficinae, in senso anche ludico,<br />

ma con intenzioni che decisamente non sono negromantiche:<br />

l’artista discopre ed illumina, non vuol distorcere, alterare la materia<br />

che tanto lo interessa. L’immagine si determina in una<br />

chiave sintattica che a nostro parere è di importanza capitale per<br />

intenderne la qualità: il sistema dei frammenti si regge su un telaio<br />

che richiama il gioco imprevedibile degli specchi caleidoscopici,<br />

così come i legamenti fra i segni appartengono ad un codice<br />

che non esitiamo a definire teatrale. Non è certamente un<br />

caso che i quadri nascano sempre, o almeno quasi sempre, da<br />

progetti in cui il problema della impaginazione spaziale risulta<br />

dominante. La rappresentazione tende a definirsi mediante stecche<br />

e membrane, in una scena fatta di quinte e di telai, adatta a<br />

suggerire un percorso ottico asimmetrico eppure calibrato, acentrico<br />

e nel medesimo tempo ‘armonico’. È quello offerto da Schirolli<br />

un tipico esempio di costruire spezzato: le parti della composizione<br />

devono inarcarsi per acquistare tensione, le proposi-


V. Vago, M.V. 158, 1976, olio su tela, cm 150x200.<br />

zioni pittoriche rompersi e ricomporsi in una metrica di fortissimi<br />

enjambements. L’itinerario tuttavia non è mai avvolgente e totalizzante.<br />

Il tracciato delle linee suggerisce un punto di vista mobile,<br />

sì che l’occhio corre sulla superficie, ne raccoglie le scansioni,<br />

i ribaltamenti, le improvvise accensioni e le smorzature.<br />

Manca il proposito di far violenza allo spazio circostante, perché<br />

all’artista interessa invece assorbirlo discretamente, farlo vibrare<br />

mediante una stesura cromatica che lo modelli a poco a poco.<br />

Si è detto che l’intenzione dell’opus rethoricum si incontra con<br />

l’evento naturale. Questi temi si declinano nel lavoro attuale di<br />

Schirolli in modo diverso che nel passato. Nei quadri di qualche<br />

anno fa essi si presentavano completamente depositati sul piano<br />

della tela, dove lo spazio si definiva soprattutto come fluttuazio-<br />

53<br />

ne di dati atmosferici recuperati dalla memoria, assolutamente<br />

intellettuali, come rifrangimenti e crolli di cieli ed arie. Ora l’argomento<br />

è affrontato in modo più diretto. Ciò ha comportato un<br />

processo di affinamento da un lato e di impoverimento dall’altro.<br />

L’alchimia pittorica e la preziosità tonali sono state sostituite<br />

dalla manipolazione diretta dello spazio in cui vive lo spettatore.<br />

Una ipotesi su cui egli ha fondato le prime innovazioni è stata<br />

quella di far lavorare la stessa luce, di renderla attiva sulla tela,<br />

che è diventata a mano a mano una sorta di contenitore di atmosfera.<br />

La superficie ha subìto interventi di natura tecnica,<br />

quali rigonfiamenti, pressioni, incisioni od altro, così da essere<br />

una prigione di luce. Poi, con una progressione rigorosamente<br />

calcolata, è venuto a prendere rilievo quel che era il dato es-


R, Schirolli, Un giardino di luce per Silvia, 1966, olio su tela, cm 100x120.<br />

senziale, il traliccio, il sistema delle coordinate ordinatrici dello<br />

spazio. In questa direzione, per quanto ci è dato di vedere in un<br />

lavoro che è ancora lontano dall’essere esaurito, si rivela una inclinazione<br />

della sensibilità moderna, che pure ha tanti punti di<br />

contatto con la figuratività barocca: l’impiego cioè in giochi di architetture,<br />

in sistemi d’ambiente, dei mezzi elementari che la realtà<br />

ci offre, quali, per limitarci ad alcuni esempi canonici, l’acqua<br />

e la luce.<br />

54<br />

(1) Foglio di presentazione della mostra “Seconda rassegna d’arte, linee<br />

di ricerca”, Rivalta sul Mincio (Mn), 19-24 settembre 1968. Pubblicato<br />

nel foglio di presentazione della mostra.<br />

(2) Articolo contenuto anche nel catalogo della mostra “Renzo Schirolli,<br />

materie e cerniere 1956-1981”, Galleria d’Arte Contemporanea, Suzzara<br />

(Mn), dicembre 1981-gennaio1982.


Le cose trovate<br />

Renzo Schirolli (1)<br />

Gli scarti tecnologici, i relitti della scena pubblicitaria, i frammenti<br />

delle macchine fieristiche costituiscono da tempo oggetti<br />

di recupero, materie passibili di metamorfosi e di invenzione,<br />

quando non si pongono addirittura come entità in se stesse, per<br />

virtù proprie e dispregiative, già visivamente qualificate. Se ci arrestiamo<br />

per un momento a considerare il particolare uso dei reperti<br />

cimiteriali che oggi vien fatto da molti, apparirà pertinente<br />

all’area (o ad un’area) delle operazioni artistiche l’osservazione di<br />

Lévi-Strauss a proposito del bricolage, secondo cui questa forma<br />

di attività ha la caratteristica sul piano pratico “di elaborare in-<br />

R. Schirolli, Tela modellata 1, 1967, olio su tela, cm 150x200.<br />

55<br />

siemi strutturati, non direttamente per mezzo di altri insiemi<br />

strutturati, ma utilizzando residui e frammenti di eventi”. Ed è<br />

vero: proprio su simili “testimoni fossili” si esercita oggi un intervento<br />

largo e intenso, ora provocatorio e negativo, tal’altra<br />

volta riqualificatorio ed assecondante. Allargando poi la considerazione<br />

all’universo delle materie e degli oggetti in genere, la citazione<br />

vale ancora abbastanza bene per tentare un primo avvicinamento<br />

anche alle recentissime sperimentazioni didatticorituali,<br />

dove l’operatore agisce in figura di interprete, scopre e conosce<br />

le cose che trova; dove la rete è soltanto qualcosa che filtra<br />

e avvolge, una molla, un oggetto che si piega e si tende.<br />

L’elementarità del gesto, il puro fare, il percepirsi in azione sono<br />

alcune delle connotazioni dell’intervento che molti artisti hanno


oggi in comune.<br />

Non è questo però il caso di Schirolli, nel senso che tutt’affatto accidentale<br />

ed esterna (rispetto a quelli) è la circostanza del ritrovamento<br />

dei materiali, dell’aver impiegato nell’allestimento delle<br />

sue ‘figure’ tramezze o pannelli provenienti dallo smantellamento<br />

di stands pubblicitari. Nessuno probabilmente se ne accorgerebbe,<br />

tanto è stato l’accanimento dell’artista nel cancellarne le<br />

tracce, salvo qualche dettaglio impossibile da rimuovere. Per ora<br />

almeno, il relitto non appare determinante in sé per sé.<br />

Importante è stato invece l’abbandono dei mezzi a lui consueti<br />

di espressione. Una prima decisiva battaglia vinta contro gli strumenti<br />

del gusto. Nei quadri di qualche anno fa infatti lo spazio<br />

rappresentativo si definiva soprattutto come fluttuazione di dati<br />

atmosferici recuperati dalla memoria, assolutamente intellettuali;<br />

come conflitto fra il tumulto dei fenomeni e le pure geometrie.<br />

Ora la figurazione è affrontata in modo più diretto ad ha<br />

comportato un processo di impoverimento da un lato e di affinamento<br />

dall’altro. Le alchimie pittoriche e le preziosità compositive<br />

sono state in gran parte sostituite dalla manipolazione<br />

concreta dello spazio in cui vive lo spettatore. Una ipotesi su cui<br />

egli ha fondato le prime innovazioni è stata quella di far lavorare<br />

la stessa luce, di renderla attiva sulla tela, che è diventata a<br />

56<br />

mano a mano una sorta di contenitore di atmosfera. La superficie<br />

ha subìto interventi preliminari, quali rigonfiamenti, pressioni,<br />

incisioni od altro; poi con una progressione rigorosamente<br />

calcolata è venuto a prendere rilievo fisico il dato essenziale dell’impaginazione,<br />

il sistema delle coordinate ordinatrici dello spazio.<br />

Allo stato attuale l’attenzione si è spostata con uno scarto<br />

che potrebbe essere denso di sviluppi (ma che lascia ambiguamente<br />

aperte altre possibilità), sulle modalità dello strutturare le<br />

cose, sul ruolo dell’artista come jongleur. E ciò stabilisce subito<br />

una singolarità, ossia il carattere affatto secondario dei significati<br />

referenziali delle cose adoperate e il valore invece primario<br />

dell’azione combinatoria, perché quel che conta è appunto il<br />

mettersi in gioco. I pannelli e le impalcature degli stands non<br />

sono più dei relitti di edifici smontati, in quanto vengono reimpiegati<br />

come elementi per una costruzione del tutto nuova e<br />

strutturata in modo tale che durante il montaggio viene cancellato<br />

ogni riferimento ai significati cui il loro stato prima ci indirizzava.<br />

Il materiale continua, così depauperato di storia, a fornire<br />

invece suggerimenti per le sue qualità di estensione, per il<br />

fatto cioè che il reperto si offre ritagliato in un certo modo, mantiene<br />

specifiche forme geometriche, è piatto o massiccio, trasparente<br />

od opaco, può sorreggere o essere sostenuto. L’opera si<br />

R. Schirolli, Struttura, truciolare e profilato metallico, 1968, cm 170x220x50. R. Schirolli, Struttura, legno laccato, 1968, cm 250x420x160.


R. Schirolli, Ludico 68 4 cubi, 1968, olio su tela, cm 120x120.<br />

R. Schirolli, Struttura, legno laccato, profilato e rete metallica, 1968, cm 131x240x125.<br />

57<br />

situa per lo più al livello dell’occasione: si intravedono negli oggetti<br />

certe modalità di articolazione, di strutture, di luminosità<br />

che funzionano da stimoli nei confronti dell’artista, provocandolo<br />

in una delle sue primarie esigenze psicologiche, vale a dire<br />

nella direzione della manipolazione e dell’orientamento percettivo.<br />

Accogliere l’oggetto vuole dire prima di tutto maneggiarlo.<br />

Dal contatto prende avvio una catena di eventi successivi: gli accidenti<br />

che intervengono forniscono nozioni interne e variabili<br />

all’infinito. Il manipolare, questa funzione elementare e insopprimibile<br />

si sposta sul piano delle invenzioni combinatorie.<br />

Ed è qui, per ora, che s’arresta il lavoro di Schirolli, in questa dimensione<br />

di jonglerie artigianale, che potrebbe offrire – a chi lo<br />

volesse – ragioni di sintonia con altri accadimenti artistici, specie<br />

per certe soluzioni di ambiente. Ma quel che a noi più importa<br />

è l’aver constatato come egli vada effettuando una serie di sondaggi<br />

sui materiali, adattandosi all’equipaggiamento di cui dispone<br />

e arricchendo il suo stock di oggetti eterocliti, di residuati,<br />

di frammenti, che provengono dalla sua stessa storia individuale.<br />

Non è raro infatti cogliere nelle opere attuali incastri di lavori<br />

precedenti, inseriti di peso nel corpo di una forma nuova,<br />

non per il gusto dell’abbassamento stilistico o della contaminazione,<br />

quanto piuttosto al fine di esercitare anche su di essi<br />

l’azione combinatoria. C’è da scommettere poi che nel corso<br />

della mostra l’opera presentata muti sensibilmente di fisionomia,<br />

si adatti alle situazioni via via emergenti dall’ambiente e<br />

dal pubblico.<br />

(1) Foglio di presentazione della mostra “Renzo Schirolli”, “Galleria Duemila”,<br />

via D’Azeglio 50, Bologna, 28 dicembre-11 gennaio 1969. Pubblicato<br />

nel foglio di presentazione della mostra.<br />

Il testo è pubblicato anche nel catalogo “Renzo Schirolli, materie e cerniere<br />

1956-1981”, edito in occasione della mostra tenutasi presso la<br />

Galleria d’Arte Contemporanea a Suzzara (Mn), dal dicembre 1981 al<br />

gennaio 1982.


Astrattismo geometrico e cultura popolare<br />

Alfonso Frasnedi (1)<br />

La collera e la rivolta sono sentimenti che Frasnedi non conosce,<br />

così come risulta assente in lui la dialettica dell’esaltazione<br />

e della caduta. Ci fu, è vero, un tempo in cui Frasnedi cercò di<br />

stabilire il contatto con le cose in modi eroici e risentiti, anche<br />

se poi egli rifuggì sempre dalle espressioni sublimi e romanticamente<br />

vertiginose. Non è un caso che le preoccupazioni<br />

tecnico-organizzative dell’immagine abbiano costituito il motivo<br />

permanente delle sue ricerche: il linguaggio, la grammatica<br />

della comunicazione artistica sono state indagate come<br />

elementi portanti del messaggio figurativo e, nello stesso<br />

tempo, senz’essere abbassate a meri tralicci strumentali, studiate<br />

come modalità del nostro essere con le cose e nelle cose.<br />

Si potrebbe dire che al pittore, prima che l’oggetto, interessa<br />

l’ottica in cui l’oggetto stesso si struttura e viene percepito. In<br />

tal senso, e solo in questo, ci sembra che il cosiddetto realismo<br />

di Frasnedi debba essere interpretato; l’approccio al reale, si capisce,<br />

non è rimandato, ma tentato attraverso la presa di possesso<br />

e l’analisi delle strutture della percezione. Ad un primo<br />

avvicinamento la pittura di Frasnedi dà l’impressione di contenere<br />

soltanto dei calchi, estratti dai luoghi dei consumi,<br />

come emblemi, scritte e tipi fumettistici, ma ci si accorge poi<br />

che quelle figure e quei tipi sono stati sottoposti ad un’operazione<br />

di verifica e aggiustamento critico. È quindi un problema<br />

di conoscenza quello che ha mosso Frasnedi.<br />

Stare al gioco della modalità della persuasione pubblicitaria può<br />

voler dire anche smontarla ed eluderla. Si consideri intanto<br />

come il pittore tratti il materiale linguistico per provarne la forza<br />

di resistenza e la compattezza, attraverso la messa a fuoco, il<br />

taglio, l’impaginazione, la dilatazione dell’immagine nei suoi<br />

attributi più allettanti e volgari, la rinuncia alla profondità e l’uso<br />

dei tracciati grafici squalificati e poveri. Non c’è miglioramento<br />

o innalzamento degli oggetti, che anzi vengono mantenuti al<br />

livello normalizzato della proposta di consumo: questo almeno<br />

finché Frasnedi procede su un piano puramente sperimentale<br />

di analisi. Il pittore inoltre si sforza di mantenersi fuori<br />

dalle suggestioni “colte” della lettura del suo materiale iconografico,<br />

ripudiandone le interpretazioni di tipo sociologico e<br />

58<br />

psicologico. Quelli su cui Frasnedi agisce non sono dei simboli<br />

di angoscia né delle immagini di “transfert”, ma semplicemente<br />

degli emblemi di consumo ottico. Vogliamo dire che in<br />

lui non c’è il piacere di chi richiama alla memoria letture disattente<br />

e inconsapevoli, né l’aspra condanna dell’uomo che si<br />

piega ad osservare un mondo che gli appare alienato. Ciò non<br />

toglie però che i segni si riqualifichino all’interno del quadro<br />

come eventi coloristici o grafici, come elementi di un linguaggio<br />

assoluto, asemantico nella misura in cui non rimanda a dei<br />

significati che non siano lo stesso dato oggettivo del ductus<br />

grafico o dell’impatto cromatico.<br />

Non ci interessa in alcun modo definire la misura ideologica<br />

dell’immagine di Frasnedi. Siamo dell’avviso invece che nel suo<br />

caso sia fuori posto ricercare il grado ideologico della sua pittura,<br />

nel senso che questa né lo esclude né lo richiama perentoriamente:<br />

semplicemente si pone come autosignificante.<br />

Per leggerla non hanno rilevanza domande riguardanti la sua<br />

forza contestativa, quanto piuttosto altri interrogativi di carattere<br />

retorico e schiettamente formale. Molto forte è in primo<br />

luogo la componente illusionistica. Frasnedi — si può dire — fa<br />

ricorso agli espedienti più frequenti ed obsoleti della confezione<br />

tecnologica dell’imagerie di consumo. La tecnica dell’imballaggio<br />

e dell’esibizione gli offre le figure grammaticali più evidenti<br />

per l’organizzazione degli oggetti. È infatti significativo<br />

che la stilizzazione si attui in una gamma abbastanza ristretta<br />

di predilezioni e che tutte abbiano nella piattezza e nell’assenza<br />

di spessore il loro denominatore comune. Anche il confronto<br />

con le opere ultime e quelle meno recenti mette in evidenza<br />

come l’approfondimento del suo discorso sia avvenuto nella direzione<br />

dell’impatto coloristico frontale, congelando certe irruenze<br />

ancora presenti nelle tempere del periodo 1964-66. Gli<br />

oggetti che Frasnedi propone, non a caso delle “scatole” o dei<br />

“contenitori”, non sono dei prodotti tridimensionali, se non in<br />

un modo del tutto apparente e contraddittorio. Richiamano<br />

piuttosto gli scatti dell’obiettivo fotografico, quasi che Frasnedi<br />

abbia montato una specie di edificio visuale con la tecnica di<br />

caricamento dei proiettori meccanici. L’uscita dal “genere” con<br />

l’impiego di modalità appartenenti ad altre tecniche rappresentative<br />

è in effetti solo apparente e, anziché dar luogo ad un<br />

nuovo plurimo, dà come esito la creazione di uno spazio uni-


dimensionale e privo di tensioni.<br />

Tutto ciò non esclude che Frasnedi intervenga spesso sulle sue<br />

immagini con una sorta di piglio divertito ed ironico, come per<br />

contraddirle e metterne in chiaro il carattere magico e illusorio.<br />

Si tratta di sfumature di un atteggiamento più propriamente<br />

fantastico: egli lascia che l’immaginazione intervenga liberamente<br />

nel procedimento compositivo, così che si creino sequenze<br />

e aggregati, mimando, se così si può dire, l’andamento<br />

associazionistico e combinatorio dell’immaginazione<br />

comune. È il suo, in questo senso, un procedere calcolato, in cui<br />

l’imprevisto e l’aleatorio vengono ricontrollati e frenati, severamente<br />

ristrutturati entro precisi schemi visuali.<br />

L’astrazione e l’impaginazione puristica sono soltanto gli aspetti<br />

superficiali di un lavoro di concentrazione, di selezione riduttiva<br />

degli argomenti e delle forme degli argomenti cui è arrivato<br />

l’artista. Qualcosa di simile è avvenuto per D’Arcangelo e<br />

Lichtenstein, il cui purismo è in realtà un rigoroso procedimento<br />

di sintesi, di precisione linguistica e di fissaggio ottico. Anche<br />

per Frasnedi, come per altri, si è avuto un graduale passaggio<br />

dalla esplorazione aperta della iconografia “popolare” alla definizione<br />

di alcuni temi caratteristici, il che ha comportato contemporaneamente<br />

delle scelte stilistiche meno varie ma anche<br />

più sorvegliate. A chi osservi attentamente, parrà evidente<br />

che molti motivi della sua attuale figurazione erano già presenti,<br />

anche se non dominanti, nella sua produzione di qualche<br />

anno fa. Intendiamo riferirci ai disegni e alle tempere in<br />

cui veniva affrontato il tema “ambientale” della evasione dalla<br />

A. Frasnedi, Il muro finito, 1967, acrilico su cartone, cm 50x70.<br />

59<br />

città, della promessa dei luoghi felici, del miraggio della vacanza.<br />

È proprio questa zona più intima e più fantastica della<br />

imagerie di massa, per altro così fortemente battuta dall’industria<br />

dei consumi, che il pittore ha assunto come argomento<br />

di lavoro. Crediamo che Frasnedi abbia meditato su questa<br />

dichiarazione di Richard Smith: “La tecnologia di oggi, le<br />

rubriche delle riviste specializzate in ‘Eastaman color’ non<br />

hanno relazione diretta e univoca col mio lavoro del momento,<br />

ma non sono mondi estranei”; e sulla interpretazione<br />

che delle opere di Smith ha dato L. Alloway: “La soglia di leggibilità<br />

ha costantemente interessato (il pittore), dall’evocazione<br />

di oggetti e prodotti con pittura piatta, alla fusione di<br />

forme tridimensionali con superfici dipinte, in cui il volume<br />

reale e lo spazio dipinto stanno in contraddizione irriducibile.<br />

In entrambi i casi, è importante l’effetto illusionistico, come dimensione<br />

di riferimento nei primi lavori, e come temporaneo<br />

spostamento d’accento negli altri; ed è essenziale l’ambiente<br />

echeggiato dai dipinti o costruito da questa tecnica: l’ambiente<br />

concepito come mondo nostro, che sollecita lo spettatore a un<br />

gioco di contatti e di tensioni”. Alcune tempere di Frasnedi e<br />

i suoi oggetti-ambiente ci sembrano confortare in modo pertinente<br />

l’analogia. I colori astratti evocano quelli teneri e sfumati<br />

dei messaggi commerciali, così come il grande parallelepipedo<br />

che è raffigurato in uno dei fogli qui esposti, non è<br />

che la traduzione geometrica di una grande scatola di confezioni,<br />

con tutti i suoi attributi di appetibilità e fascinazione.<br />

Astrattismo geometrico e cultura popolare collaborano assieme<br />

per creare un terzo dato, assolutamente compiuto in se<br />

stesso, che è l’immagine frasnediana.<br />

Le scatole-confezioni, i paesaggi delle avventure turistiche, le<br />

immagini “meravigliose” di Frasnedi rimandano a un mondo<br />

intimo e domestico: li avvolge uno sguardo “televisivo”, morbido<br />

e senza asprezze, che tutto colloca in primo piano, che<br />

“confeziona” ma di fatto “disaliena” quell’universo, quasi che<br />

per gioco si prendesse la sua estrema rivincita.<br />

(1) Presentazione mostra personale, Galleria G. Greco, Mantova<br />

1968.


Vanità<br />

Valentino Vago (1)<br />

Va detto subito che l’esercizio compositivo è per Vago prima che<br />

un fatto estetico, un momento di pacificazione, di conoscenza, di<br />

analisi; è uno scrutare e un vedere pazientemente, un disacerbare<br />

e correggere e smussare. Se la pittura ha questa funzione,<br />

se essa cioè si dichiara fin dall’inizio come valore mellificante e<br />

fatica dettatoria, si comprende allora perché essa non ricerchi<br />

fuori di sé puntelli verbali e proposizioni giustificative; ed anche<br />

perché, data la sua natura intimamente critica, si rifiuti come valore<br />

raggiunto, ponendosi invece come interrogazione risorgen-<br />

V. Vago, M. 318, s.d., olio su tela, cm 80x100.<br />

60<br />

te e intenzionalità dialogica. L’ars poetica ha il compito di preparare<br />

il materiale visivo da trattare, funziona come medium; non<br />

è un esito assoluto: ecco i limiti entro cui è possibile chiamare<br />

retorico il lavoro di Vago.<br />

Il pittore, che ama raccogliersi attorno ad alcuni motivi ricorrenti,<br />

va sviluppando da qualche anno un discorso uniforme e vario al<br />

tempo stesso. Se gli argomenti sono, in certa misura, sempre i<br />

medesimi, muta il modo di avvicinarli, di proporli. La varietà sta<br />

nelle articolazioni stilistiche, nelle modalità fantastiche ed emotive<br />

in cui vengono specificandosi. Ci sono, è vero, dei momenti<br />

riassuntivi, delle opere che fanno il punto su un itinerario di interrogazioni<br />

e che si pongono quindi quali risultati finali di un pro-


cesso di scavo. In tal senso il lavoro di Vago si presenta come un<br />

esercizio che avanza per scoperte particolari, per frammenti che<br />

si legano l’uno all’altro, e che infine si dispongono, più che dividersi,<br />

entro paragrafi e capitoli. L’originale temperatura dell’artista<br />

va rintracciata dunque nella intensità della sua esperienza e non<br />

tanto nella latitudine dei suoi oggetti. In una simile dimensione<br />

operativa si spiega il metodo di Vago, il suo modo, voglio dire,<br />

umano e artistico, di allinearsi o di reagire ai fatti di oggi.<br />

Il suo tenersi appartato è il segno di un rigore operativo, una<br />

obiettiva necessità della sua mente, non una dimostrazione di<br />

privatezza e di muta insofferenza. Che non sia quest’ultima cosa<br />

è dimostrato dal rilievo che ha nella sua riflessione il problema<br />

dello spazio, così investito di motivazioni attuali e di suggestioni<br />

colte. Il rapporto tradizionale tra interpretazione codificata dell’universo<br />

e momento esistenziale è rovesciato. L’asse rappresentativo<br />

soggetto-oggetto tende a dissolversi a favore del secondo<br />

termine, privilegiando l’ingresso della realtà autre sulla<br />

tela, della mondanità atmosferica. La luce, che ha offerto da<br />

sempre i termini delle metafore rappresentative più ardite, i<br />

modi di rendere concreto e presente l’invisibile, ne è il valore<br />

primario. In Vago tutto tende ad essere diretto, immediato, intelligibile.<br />

Non c’è un al di là nelle sue pitture, sono esse stesse<br />

quell’al di là. I “paesaggi-estasi”, le “diagonali nel cielo”, gli<br />

“orizzonti” sono indicazioni non equivoche di epifanie, di accadimenti<br />

ottici mondani dilatati in climi cosmici.<br />

Gli elementi linguistici che concorrono a costituire lo spazio sono<br />

facilmente riconoscibili come prestiti dalle grammatiche essenzialiste<br />

del Novecento. Colori, timbri, grafie hanno il loro precedente<br />

inoppugnabile in certo astrattismo italiano, settentrionale,<br />

che alla geometria si rivolse come valore intuitivo e poetico. E in<br />

questa ripresa sta l’attacco forte di Vago alla linea lombarda della<br />

pittura. Di qui anche è venuto lo spunto per un discorso che è<br />

andato facendosi diverso, energicamente visionario, di una visionarietà<br />

(non surrealtà, come in Licini) che è però storica e nostra.<br />

Così è avvenuto anche per i modelli (Poliakoff, Rothko) da<br />

cui sono state ricavate tessiture espanse ed imponderabili e colori<br />

come onde luminose. Referenti, ripetutamente citati a proposito<br />

di Vago, utilissimi certo a stabilire relazioni e divergenze,<br />

ma non sempre efficaci - tutto sommato - a spiegare le ragioni<br />

individuali della sua ricerca.<br />

61<br />

Nella sua pittura il punto fermo è raro e conclude di solito il capitolo,<br />

non la frase. Direi quasi che le articolazioni congiuntive<br />

sono un tratto stilistico troppo frequente per non essere segnalato<br />

come caratteristico. Certe proposizioni spezzate, profilate ai<br />

margini dei quadri hanno la funzione di dilatare la superficie, di<br />

crearvi attorno l’atmosfera meditativa in cui si sono lentamente<br />

definite. Chi osserva è colto, in certo senso, da un doppio impulso,<br />

investito da due percezioni contraddittorie, una sensitiva, l’altra<br />

fortemente mentale. Da un lato ‘riconosce’ negli strumenti<br />

‘tonali’ qualcosa di familiare, sensazioni che sono proprie della<br />

vita fisica; dall’altra si sente invitato ad andare oltre: il clima di<br />

assolutezza in cui vivono quelle immagini lo persuade che le vibrazioni<br />

luminose valicano gli orizzonti comuni, sono precipitate<br />

in un universo assai più ampio e rarefatto, esplorabile da una<br />

vista interna più acuta. Il tonalismo è accolto e piegato a ‘fare’<br />

un mondo che non è più quotidiano e naturalistico. L’avventura<br />

visuale, poggiando sugli avvii pretestuosi del fenomeno, lo rinnega<br />

poi come occasione e si consuma in una tensione intellettuale<br />

che offre nuovi ed originali motivi alla fantasia. Processo<br />

che va dalle cose alle sostanze, attraverso due registri di possibilità,<br />

o, per dir meglio, due gradi di una medesima scala. Il più<br />

elementare di questi modi consiste nel mantenere in vita il dato<br />

fenomenico, il traliccio (pure se ritagliato nei minimi termini) da<br />

cui viene a spiccarsi l’ascesa. La parvenza sensibile e terrestre<br />

conta poeticamente in quanto suggerisce una realtà che la sovrasta<br />

infinitamente e che pur vincendola in profondità, non la<br />

annienta. Si istituisce allora una sorta di relazione, una tensione<br />

che si placa soltanto in difficile equilibrio. A questo primo livello<br />

si danno molteplici modalità di impaginazione spaziale, dal tipo<br />

‘armonico’ e simmetrico a quello acentrico. Altre volte il campo<br />

spaziale assoluto domina senza incidenze di orizzonti: l’atmosfericità<br />

è ormai un ordine visuale inedito, lontanissimo dai referenti<br />

culturali e tecnici da cui era venuta la prima lezione.<br />

(1) Foglio di presentazione della mostra “Valentino Vago”, Libreria Galleria<br />

d’Arte “G. Greco”, via Principe Amedeo 26/a, Mantova, ottobrenovembre<br />

1968. Testo pubblicato nel foglio di presentazione della mostra.<br />

La parte conclusiva dello scritto è ripresa nel testo “Semanticità<br />

contraddetta”, a pag. 108.


1969<br />

Da Gianni Madella<br />

a Carlo Poltronieri<br />

Contro un tempo e uno spazio pubblici<br />

Gianni Madella<br />

Grammatica espressiva<br />

Sergio Sermidi<br />

Formatività dell’immagine.<br />

Piero Vignozzi<br />

La fabbricazione del senso<br />

Concetto Pozzati, Valentino Vago,<br />

Piero Vignozzi<br />

Appunti di viaggio<br />

Ferruccio Bolognesi<br />

Tradizione figurativa<br />

Giuseppe Facciotto<br />

La retrospettiva di Giuseppe Facciotto<br />

Incontentabilità costante e ricerca<br />

nella pittura di Scaravelli<br />

Giordano Scaravelli<br />

L’evento descritto<br />

Carlo Poltronieri


Contro un tempo e uno spazio pubblici<br />

Gianni Madella (1)<br />

Una prima osservazione intorno al lavoro di Madella può riguardare<br />

la frequenza del procedimento citativo nel suo modo di figurare.<br />

Alcune forme elementari vengono assunte, talora letteralmente<br />

strappate, da contesti figurali lontani e fatte funzionare<br />

fuori dal loro proprio codice spaziale, attraverso un intervento<br />

che, per via di appesantimenti fisici e di aggiustamenti asimmetrici,<br />

le carica di energia di crescita. Non importa la novità<br />

dell’immagine per sé, quanto la sua disponibilità energetica. Il<br />

trattamento della citazione avviene in un primo tempo come<br />

sollecitazione per asfissia: risucchiata fuori dal suo spazio, l’immagine<br />

se vuol continuare a vivere, deve cominciare a gonfiarsi<br />

e a crearsi un’area di sopravvivenza. È per tale ragione che la<br />

sua superficie viene dotata di forte motilità, come se innumerevoli<br />

pulsazioni la sommuovessero all’interno, conferendole -<br />

per così dire - l’agitazione di un corpo pneumatico. Si consideri,<br />

per esempio, Trono n. 2, il cui modello iconografico è per altro<br />

agevolmente rintracciabile in certa tipologia medievale: le figure<br />

tradizionalmente eminenti della Vergine e dei Santi sono<br />

scomparse, lasciando quale unica traccia il tratteggio dell’asse<br />

portante sul quale poggiava la loro armatura figurale, mentre<br />

domina il grande corpo nero del trono, simile ad un segnale percorso<br />

da tensioni interne. Lo spazio è diventato un valore relativo,<br />

connesso alla presenza dell’immagine e non viceversa. In<br />

altre composizioni invece è stato fatto il tentativo di confrontare,<br />

all’interno di una stessa area, entità corporee differenti, con<br />

effetti di distonia e di non collimazione, così da sottoporre chi<br />

guarda alla fatica di seguire percorsi percettivi tra loro sfasati e<br />

da farlo reagire alla provocazione simultanea di segnali opposti.<br />

L’insistenza sul carattere fisico della immagine nella pittura di<br />

Madella, va accompagnata tuttavia dall’avvertimento che l’area<br />

in cui il pittore si muove, nonostante certi ambigui slittamenti,<br />

può essere chiamata astratta con piena legittimità. A scanso di<br />

equivoci, va chiarito subito che l’astrazione, alla quale si fa qui riferimento<br />

non è opposta ad organicità (come s’è detto invece,<br />

ed anche utilmente, in sede di ispezione genetica di certi processi<br />

stilistici riduttivi), quanto piuttosto a rappresentazione ‘oggettiva’.<br />

Pittura e natura sono per Madella mondi diversi, ben-<br />

64<br />

ché ineriscano l’una all’altra nel senso che presentano identità<br />

interne di strutture e di processi. Si tratta, si badi, di un’ipotesi<br />

operativa energicamente tendenziosa, che vuol provarsi come<br />

vera nel confronto con altre proposte attuali. Inerire alla natura<br />

vuol dire considerare la superficie da dipingere come una sede<br />

di eventi e di processi formali, autentici quanto quelli naturali,<br />

dotati di unicità, in modo omologo a quanto avviene nel campo<br />

biologico. I segni, le parole, i suoni sono considerati provvisti di<br />

una loro capacità di autogestione; e vivono prima in rapporto tra<br />

loro che in relazione a tutto ciò che è fuori dal campo in cui, facendosi<br />

linguaggio, si organizzano secondo loro caratteristiche<br />

leggi di formatività. Se è vero, come dichiarava Kandinsky, che la<br />

superficie ha una sua struttura animata con gli attributi di un essere<br />

vivente, cioè con un ‘sopra’ e un ‘sotto’, una ‘destra’ e una<br />

‘sinistra’, eccetera, si potrà anche considerarla provvista di una<br />

sua personalità corporea, a tutti gli effetti. Del resto alle articolazioni<br />

linguistiche e alle istituzioni retoriche non vengono forse<br />

riconosciuti valori percettivi? La classificazione delle figure non<br />

vien fatta anche in base al grado di tensione, cioè alla forza di<br />

animazione di cui sono dotate? Se si accetta una simile premessa,<br />

ne deriva che il trattamento dell’immagine richiede una sensibile<br />

deviazione dagli usi consueti: in primo luogo un ripudio<br />

dello spazio e del tempo pubblici, in quanto costitutivi di altri<br />

universi, cui si riconosce pregiudizialmente una esistenza categorizzata.<br />

L’immagine, come entità in crescita, non è semplicemente<br />

nello spazio, bensì lo abita, lo conosce quindi percettivamente<br />

e lo definisce nel momento in cui se ne appropria materialmente.<br />

Analogamente il tempo dell’immagine coincide soltanto<br />

con la durata della sua presenza eidetica, col suo, chiamiamolo<br />

pure, tempo corporeo. È allora evidente perché il pittore<br />

combatta contro chi, in un modo o in un altro, accoglie le convenzioni<br />

correnti di spazio e di tempo pubblici, misurabili con il<br />

metro della quantità e non per valori tensionali. Capziosa e superficiale<br />

non può che apparirgli ogni operazione che tende ad<br />

appropriarsi degli ambienti esterni e di modellarne lo spazio,<br />

dato il loro carattere di applicazione artigianale e di impaginazione<br />

disegnativa integrata dei modelli visuali. Rifiutare le coordinate<br />

pubbliche è il segno di una volontà che nega lo spazio e<br />

il tempo, e con essi l’etica dei percorsi obbligati e dei consumi.<br />

Per noi vuol dire anche il proposito di richiamare lo spettatore su


G. Madella, Schema corporeo, 1968<br />

olio su tela, cm 135x127.<br />

un terreno percettivo primario, quello appunto della omologia<br />

corporea. Su un luogo cioè dove in termini competitivi può essere<br />

consumata la relazione immagine-utente.<br />

65<br />

(1) Catalogo della mostra “Gianni Madella. Contro un tempo e uno spazio<br />

pubblici”, Galleria d’Arte “Morone 6”, via Morone 6, Milano, gennaio-febbraio<br />

1969. Lo scritto è riproposto parzialmente nel testo “Semanticità<br />

contraddetta” a pag. 108.


Grammatica espressiva<br />

Sergio Sermidi (1)<br />

Dopo anni di ricerche in cui la pittura ha ritrovato i propri pretesti<br />

e con essi la sua libertà, il compito dell’artista sembra essere,<br />

per molti versi, quello di dar forma, cioè una grammatica, ai<br />

mezzi espressivi, superando la fase del dissenso drammatico e<br />

della entusiastica accettazione. Si tratta dunque di fare una scelta,<br />

che è in primo luogo riduttiva, così da ricavare dal contesto<br />

della tradizione recente pochissimi elementi e farli funzionare<br />

perché creino una forma.<br />

Inutile soffermarsi sulle modalità delle partenze, che potranno<br />

essere di tipo astratto espressionistico, o - altrettanto legittimamente<br />

- spazialista, tanto per limitare a due zone di notevole rilievo<br />

nell’arte contemporanea. Per Sermidi le sintonie sono subito<br />

abbastanza chiare (per esempio: Michaux e Tobey), anche se<br />

è vero che non questo o quel referente è stato importante,<br />

quanto piuttosto l’indicazione di una situazione in generale.<br />

L’artista, che condivide le prospettive del rinnovamento di cui<br />

sopra abbiamo detto, intende il suo lavoro come un dare conformazione<br />

(vale a dire una struttura) alle forme semplici su cui<br />

ha fatto ricadere la sua scelta. La sua pittura va puntando ora<br />

tutta sul colore interpretato nella sua fisionomia segnica, in<br />

quanto capace di incarnarsi in una forma più vasta e complessa,<br />

in una figura strutturalmente compiuta.<br />

Non solo: anche lo spettatore è chiamato a gestire attivamente<br />

l’immagine in virtù delle sue capacità organizzatrici a livello percettivo<br />

e concettuale. L’operazione di fondo sta però nello sfruttamento<br />

delle possibilità che ha il segno di configurarsi come linguaggio.<br />

L’unità di base è il tratto-colore: facendolo agire, lo si<br />

vuol costringere a porsi sulla via della autofondazione espressiva.<br />

Dai quadri di Sermidi, in genere, emerge un solo elemento: a<br />

prima vista una texture, un groviglio di tracce sovrapposte di colore<br />

fatto sedimentare con intensità variabile. I contorni, svolgendo<br />

una funzione di secondo grado, commentano il campo di<br />

azione della massa. Il processo reale, cioè la tensione o movimento<br />

della forma, avviene dentro l’elemento emergente. Difatti<br />

l’occhio che guarda è subito chiamato a stabilire dei rapporti<br />

fra i luoghi differenti dell’immagine, a coglierne le vibrazioni,<br />

dunque le energie che vi sono contenute. Il groviglio rivela una<br />

66<br />

S. Sermidi, Assembramento n. 4, 1968, olio su tela.<br />

S. Sermidi, Immagine ipomorfa, 1969, olio su tela.


S. Sermidi, Senza titolo, 1967-68, olio su tela, cm 170x130.<br />

67


S. Sermidi, Ameba, 1969, olio su tela, cm 110x125.<br />

sua intima compattezza e nello stesso tempo una mobilità che<br />

lo rende vario per le indicazioni superficiali e profonde di animazione<br />

che lo percorrono. La massa non è qualcosa di descritto,<br />

ma qualcosa che descrive se stessa e si rappresenta.<br />

Come già nella pittura Sintesi di un’azione, nel quadro si cercano<br />

delle realtà potenziali e primarie, con la differenza (capitale) che<br />

la tela non è più un’arena dentro la quale il pittore opera in trance,<br />

come se si gettasse nel vuoto. Il colore ha perso contatto con<br />

la mano e non ne è più il prolungamento fisico, poiché l’esecutore<br />

calcola di essere di fronte ad una forma da trattare che gli pro-<br />

68<br />

pone problemi in termini di insiemi, trasformazioni e gruppi.<br />

L’adesione ad una simile poetica della pittura come attività che<br />

ha dentro di sé il proprio soggetto ed oggetto ha richiesto la più<br />

totale sdrammatizzazione: ed anche tutti i rischi di fraintendimenti<br />

e di cadute che vi sono connessi, se non le si osserva la<br />

fondamentale esigenza antilirica.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Sergio Sermidi”, Galleria d’Arte<br />

“Morone 6”, via Morone 6, Milano, 6-24 marzo 1969 e riproposto nel<br />

testo “Semanticità contraddetta”, a pag. 108.


Formatività dell’immagine<br />

Piero Vignozzi (1)<br />

La partenza per Vignozzi è sempre diretta, anche se lui non vuol<br />

dire, per una sorta di scontrosa civetteria, se sia la realtà oggettiva<br />

tout court quella che lo muove o una speciale naturalità<br />

delle cose, se la loro apparenza o un insieme di attributi considerati<br />

essenziali alla costituzione materiale degli oggetti. A chi<br />

vuole, dà solo una dichiarazione di principio, e cioè che non v’è<br />

specificità del lavoro artistico: niente distingue il pittore - in<br />

quanto a comportamento e a manualità - da chi (chiunque altro)<br />

compie un’azione o una sequenza di gesti al fine di interpretare<br />

il materiale che usa in modo adeguato e rispondente ad un bisogno<br />

vitale. Quel che importa comunque è che siano osservate<br />

le regole della composizione e che il risultato sia buono. Non ci<br />

si lasci sorprendere dalla apparente ingenuità della affermazione:<br />

già vi si scoprono sotto sotto due motivi: primo, l’interesse<br />

per la costruzione; secondo, la volontà di contaminarsi con le<br />

cose, allo scopo probabile di garantire al prodotto una zona di<br />

fruibilità nuova e un carattere di concretezza, quali non potrebbero<br />

essere assicurati da una operazione di puro laboratorio. O,<br />

se si vuole, quello di Vignozzi è un laboratorio allineato con l’officina<br />

della vita pratica, così palesemente evidente nella sua naturalezza<br />

da risultare poi felicemente ambiguo; la specificità del-<br />

P. Vignozzi, Senza titolo, s.d., acrilico su tela.<br />

69<br />

l’artista torna difatti a riaffiorare quando egli inventa una tessitura<br />

organica nuova (omologa a quella reale?), passando dalla selezione<br />

di alcuni dati alla loro messa in movimento a livello linguistico.<br />

Alla base di questo processo di formatività dell’immagine sussistono,<br />

ci sembra, due principi di metodo, che potremmo chiamare<br />

della “concentrazione” e del “contrasto”. Il primo è abbastanza<br />

chiaramente ricavabile dalla serie dei disegni sul motivo<br />

degli uccelli (un tema, tra l’altro, carissimo alle ricerche sul dinamismo<br />

della forma) che ci fanno assistere alla messa a punto di<br />

una figura elementare, in volo, tutta distesa sul piano, e resa tuttavia<br />

plastica e greve dalla semplificazione del contorno, ritagliato<br />

con la massima cura perché conservi una forte carica di<br />

tensione che sembra sul punto di esplodere. Tale esigenza di<br />

concentrazione spinge l’artista a sfrondare il tessuto che sta attorno<br />

al nucleo che lo attrae, una specie di cellula allo stato di<br />

germinazione, aperta alle più imprevedibili avventure di crescita.<br />

Non vi si ravvisa più un punto di vista centrale, in quanto la centralità<br />

è in ogni luogo, dovunque l’immagine si manifesta come<br />

forza in espansione. In passato Vignozzi ha cercato di liberare<br />

questa energia, imprimendole un movimento centrifugo, come<br />

risulta dai grandi oli su carta del ’64 dove la struttura microcosmica<br />

veniva tramata e dilatata mediante la segnatura dei reticoli<br />

fibrosi, dei grumi materici, stante l’esigenza di deconcentra-


e e di far violenza agli oggetti stessi del proprio interesse. La<br />

programmaticità dell’operazione comportava il pericolo di considerare<br />

il quadro come un deposito di scariche gestuali e richiedeva<br />

una ripetibilità di segno, che per essere automatica e incontrollabile,<br />

rischiava anche di diventare scarsamente organizzatrice.<br />

Si spiega quindi perché si situi a questo punto del lavoro<br />

una pausa, un ripensamento, che ha portato il pittore a dare<br />

una decisa sterzata verso il polo della composizione. Mantenendo<br />

fermo il principio della centralità del frammento, egli ha provato<br />

a fissarlo in una struttura semplice, con le direzioni di forza<br />

tese, per così dire, verso l’interno. La forma si rassoda e pietrifica<br />

in un telaio robusto, costituito di linee forti e spesse: l’oggetto<br />

è in certo senso visto in controluce, secondo un ordine ottico<br />

che tiene conto soltanto del pieno e del vuoto, della materia che<br />

resiste all’azione corrosiva della luce e degli annientamenti che<br />

questa provoca nel corpo delle forme. Un modo di comporre<br />

non nuovo in Vignozzi, se già nel ’58 Alfonso Gatto sottolineava<br />

nelle incisioni e nei disegni le “calettature per incastro”, “i punti<br />

di emergenza e di rigoglio” e “gli accenti della luce”, un modo<br />

che oggi si è fatto determinante ai sensi della fabbricazione,<br />

anche se è accompagnato da incertezze, allorché il pittore adatta<br />

tale procedimento a dei crudi referenti, dimenticando il carattere<br />

strenuamente linguistico del suo costruire. Il chiarimento<br />

della nozione di “concentrazione” dovrebbe però fargli superare<br />

del tutto il momento della organicità mimetica e naturalistica,<br />

convincendolo che l’immagine è una struttura significante che<br />

annienta (moltiplicandoli e sfasandoli) i significati dei materiali<br />

che concorrono a costruirla.<br />

Nei quadri ultimi, composti sul tema del game over, ricchissimi<br />

di rinvii alla cultura figurativa, si presenta un processo di ‘scorrimento’<br />

delle forme che si caratterizza nel senso del contrasto,<br />

cioè di una figura o “legge costruttiva in tutta la sua ampiezza”.<br />

Osservandoli, si nota che Vignozzi ha fatto una lettura molto attenta<br />

dei modelli astratto-espressionisti, di De Kooning e di<br />

Gorky in particolare, come lo stesso autore conferma nelle tempere<br />

composte “pensando ai piccoli segni a penna di Arshile<br />

Gorky”, dove però - a guardar bene - non c’è soltanto la rimeditazione<br />

delle opere di quell’artista, ma un impianto decisamente<br />

plastico, che si tenta di alleggerire e far levitare mediante<br />

quei ‘piccoli segni’. L’immagine per Vignozzi è la risultante di<br />

70<br />

uno scontro di segni a più livelli, di parole e di forme che si compenetrano,<br />

urtano e sovrappongono, generando quello speciale<br />

ritmo di scorrimento che lo interessa. Si vedano, per esempio,<br />

Game over con due colombe bianche e l’olio con la nota appunti<br />

scritti con una carta jach, 14 settembre, il girasole morto - è lasciato<br />

sulla base - della finestra – bersaglio tiro – game over’<br />

che sono forse da considerarsi i risultati più maturi presenti a<br />

questa mostra, importanti per la tecnica di associazione che<br />

crea, attraverso la traslitterazione e le combinazioni inedite, dei<br />

significati visionari. Nel primo dei due quadri citati, due colombe<br />

bianche campeggiano in uno spazio congestionato dai segnali<br />

dei biliardini elettrici, da sigle e cartigli, da presenze ameboidi:<br />

tutti i segni sono in movimento, per schiacciamento o per<br />

volo d’uscita, in una sorta di fluttuazione più che di ritmo rapinoso<br />

e violento. Proprio la concomitanza produce l’uscita dei<br />

segni dal piano paradigmatico, e, facendo acquistar loro un ‘significato<br />

di contatto’ crea un terzo dato, o meglio un polisenso.<br />

I significati letterali si fanno percepire in contaminazione: un cartiglio<br />

è un segnale alla stessa stregua di un bersaglio (per altro<br />

traslitterato), così come l’ala diventa un fascio di luce. Non c’è<br />

equivoco: si tratta di una creazione dotta di sensi, nonostante<br />

l’estrazione popolaresca e massiva dei segni. A voler fissare in<br />

una formula il risultato, si potrebbe dire che il quadro ci offre una<br />

proposta di organicismo intralinguistico. Il secondo quadretto<br />

conferma l’analisi: la carta da gioco ritagliata col profilo del re di<br />

cuori è fatta risuonare su un fondo compatto, di coagulo: cucito<br />

di fianco, per ‘contrasto’, il riquadro giallo più ampio accelera<br />

l’uscita del senso letterale dell’immagine, spostandola nella dimensione<br />

del puro emblema, dei bersagli in movimento.<br />

In alcuni quadri tuttavia (per es. Arnesi, mollone e guanto rosso)<br />

si notano i residui di una organicità diversa, più generica ed equivoca,<br />

che si affida alle indicazioni delle cose, alla mera ripetizione<br />

dei referenti che il mestiere impaginativo non riesce del<br />

tutto a riscattare. Ma il senso della ricerca risulta chiaro, e sta appunto<br />

nella proposta di una strutturazione organica della visualità<br />

quotidiana.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Piero Vignozzi”, Libreria Galleria<br />

d’Arte “G. Greco”, via Principe Amedeo 26/a, Mantova, 5-18 aprile<br />

1969. Testo pubblicato nel foglio di presentazione della mostra.


La fabbricazione del senso<br />

Concetto Pozzati, Valentino Vago, Piero Vignozzi (1)<br />

È stata lanciata recentemente dal versante degli studi linguistici1 un’ipotesi densa di sollecitazioni e, in parte, rispondente anche<br />

ad una esigenza della critica letteraria e figurativa, nel cui territorio<br />

è avvertito il bisogno di approntare più pertinenti modi interpretativi<br />

per conoscere certi prodotti ultimi del fare artistico.<br />

Essa riguarda il peso che ha nel discorso comune e nei linguag-<br />

C. Pozzati, Con tutta tranquillità, 1964, olio su tela, cm 175x200.<br />

71<br />

gi particolari, che oggi la semiologia va facendo sempre più sistematicamente<br />

oggetto della propria analisi, il procedimento<br />

retorico. Se si assume a fondamento della propria lettura la nozione<br />

di ‘opposizione’ approntata dagli strutturalisti, considerandola<br />

un criterio valido per comprendere più a fondo la natura<br />

della langue e della parole, e se, ancora, si conviene che “la<br />

simmetria (...) fa di una qualunque struttura linguistica una struttura<br />

retorica”, sembra legittimo istituire una profonda solidarietà<br />

fra le differenti fasce linguistiche2 , da quelle elementarmente


denotative a quelle contrassegnate da un uso alto del materiale<br />

espressivo, cioè di tipo principalmente connotativo. Tale solidarietà<br />

significa, nella zona alta, organizzazione tassonomica del<br />

reale, dei concetti e delle cose, come solidarietà di forme.<br />

Dunque “le figure retoriche appartengono, non già al polo ‘artificioso’,<br />

bensì al polo naturalistico della lingua, nella misura in<br />

cui esse evocano un isomorfismo fra la realtà extralinguistica e<br />

la lingua” 3 .<br />

La prospettiva aperta, se pure non può dirsi originale nelle singole<br />

argomentazioni, risulta nuova e utilizzabile ai fini di una<br />

considerazione dell’opera d’arte come struttura autofondante,<br />

per la forte considerazione naturalistica dei concetti di costruzione,<br />

procedimento e formatività. La retorica diventa la disciplina<br />

V, Vago, Forma nella luce, 1960<br />

72<br />

interna che regola il processo di crescita dell’organismo artistico,<br />

che si realizza con un suo percorso nello spazio e nel tempo<br />

entro i binari degli skémata, organismo che è nello stesso<br />

tempo un in sé ed anche una struttura omologa all’autre, in nessun<br />

caso qualcosa di vincolato direttamente al referente o ad<br />

elementi esterni oggettivi.<br />

Le attuali aperture della linguistica strutturale hanno pertanto<br />

reso possibile la rimessa in opera di nozioni che l’avanguardia<br />

storica aveva, attorno agli anni ’20, prospettato, ma che per numerosi<br />

motivi non avevano trovato sbocco nel quadro complessivo<br />

delle arti in quanto mantenevano spesso forti legami con le<br />

dottrine simboliste, le quali ultime se pur assegnavano al lavoro<br />

artistico il carattere dell’opus mathematicum, risolvevano poi la<br />

strenua esattezza di calcolo in una dimensione orfica e indecifrabile.<br />

L’equazione “arte = montaggio di figure” finiva col complicarsi<br />

nei teoremi costruttivistici e neoplastici, così come troppo<br />

spesso il discorso sull’opera intesa come organismo rivelava<br />

forti componenti vitalistiche e residui tardo romantici.<br />

Eppure è stato proprio all’interno del formalismo russo e delle<br />

poetiche che ruotarono attorno ad esso, o comunque ne vennero<br />

influenzate, che apparvero le prime formulazioni importanti<br />

sull’isomorfismo figurale, sulle qualità creative dei traslati, sul<br />

rapporto puramente percettivo fra opera e utente, e infine sull’opera-soggetto.<br />

La nostra idea è che - al di là di una perspicua fondazione filosofica<br />

- l’immagine che il fruitore ha oggi spesso di fronte si inventa<br />

da sé: ha bisogno dell’esterno come di un semplice materiale;<br />

non riproduce e non descrive, rappresenta soltanto se stessa.<br />

Se è abbastanza pacifico infatti che l’opera sta al centro della<br />

creazione e quindi non richiede gli approcci tradizionali, non altrettanto<br />

condivisa è la convinzione che essa si dispone come un<br />

‘corpo’ letteralmente autoconchiuso, anche se tensionalmente<br />

aperto e infinito. Il significato che la forma comunica è costituito<br />

dai suoi rapporti linguistici, dalle sue forze di tensione. È evidente<br />

che, con una simile impostazione, un quadro o una scultura,<br />

o qualsivoglia altra ‘cosa’, è realizzata linguisticamente su<br />

una doppia operazione: una, data dalla messa in funzione di ‘termini’<br />

violentemente resecati dal loro referente paradigmatico,<br />

un’altra dalla risemantizzazione interna a livello di significazione<br />

funzionale degli stessi.


In questo senso Kandinsky parlava in Punto, Linea, Superficie4 di<br />

una speciale proprietà della linea, cioè della sua “forza formatrice<br />

di superfici”, ed anche delle qualità del colore e del piano.<br />

Con lui principalmente si dava avvio al primo momento della avventura<br />

della pittura come soggetto, in quanto si affermava radicalmente<br />

la necessità di cancellare tutti i tipi di denotato. Si<br />

poneva anche l’impegno scientifico di indagare la grammatica<br />

costitutiva della forma pittorica e delle sue interne modalità di<br />

farsi come organismo vivente. Superfluo risulterà ora definire le<br />

profonde differenze che sussistono tra la nozione di organicità<br />

del formalismo kandinskiano e le innumerevoli altre accezioni<br />

che tale termine ha assunto nelle poetiche contemporanee; né<br />

sarà il caso di illustrare per esteso le aperture istituzionali dello<br />

V, Vago, Presenza obliqua, 1960<br />

73<br />

stesso Kandinsky. Ci interessa invece insistere su un tema contenuto<br />

in Punto, Linea, Superficie: quello relativo alle ipotesi isomorfiche.<br />

“La linea - scrive Kandinsky - si ritrova con estrema frequenza<br />

nella natura. Solo un naturalista capace di sintesi potrebbe dominare<br />

questo tema, degno di una ricerca speciale. Per l’artista<br />

sarebbe particolarmente importante vedere come il regno autonomo<br />

della natura applichi gli elementi fondamentali: quali proprietà<br />

essi possiedano e in quale maniera essi si compongano in<br />

figure”. Anche i fenomeni tradizionalmente referenziali avevano<br />

dunque per il pittore una pura significazione strutturale e per<br />

dirla con parole nostre, l’evidenza dei tropi retorici. Il che è<br />

segno, a nostro modo di vedere, di una mentalità che osserva e<br />

ordina secondo le norme della formatività anche il mondo naturale,<br />

proprio perché il naturale è un valore costante di ogni<br />

forma che cresce in se stessa. Aggiungeva: “Le leggi di composizione<br />

della natura aprono all’artista non già la possibilità dell’imitazione<br />

esteriore, nella quale egli non di rado vede lo scopo<br />

principale delle leggi naturali, ma la possibilità di contrapporre<br />

ad esse le leggi dell’arte” 5 .<br />

E dopo aver indicato una serie di isomorfismi nella struttura cosmica<br />

dei protoelementi, nei cristalli e in altre strutture botaniche<br />

e biologiche, concludeva: “Quest’affinità, possiamo ben dire<br />

questa identità, è un esempio molto rilevante dei rapporti fra<br />

leggi dell’arte e leggi della natura. (…) La differenza tra l’arte e<br />

la natura non sta nelle leggi fondamentali, ma nel materiale che<br />

obbedisce a queste leggi”. È lecito osservare che l’organismo pittorico,<br />

quale si proponeva a Kandinsky negli anni immediatamente<br />

successivi ai suoi contatti con gli artisti sovietici6 , si configurava<br />

come entità, i cui elementi formali sono provvisti di una<br />

capacità di autogestione. La superficie del quadro è un organismo<br />

corporeo, con una destra e una sinistra, un sopra e un sotto<br />

che definiscono un condizionamento interno dei significati relativi<br />

alla direzione7 .<br />

Ci sembra che una delle indicazioni più importanti della teoria di<br />

Kandinsky vada rintracciata proprio nella affermazione del carattere<br />

tensionale dei tropi e dei temi retorici, ai quali magari potrà<br />

riconoscersi una lunga tradizione di cultura, ma che ora vengono<br />

dotati di una potenzialità generativa di funzioni quale solo i<br />

linguaggi altamente connotativi hanno la capacità di far emer-


gere in modo compiuto. Sulla base della individuazione degli<br />

elementi primari della formatività, il punto e la linea, Kandinsky<br />

cominciò ad analizzare i procedimenti associativi e a misurarne<br />

il grado tonale, la virtù di animazione. A questo scopo, recuperando,<br />

consapevolmente o meno, i modi fabbricativi più sempli-<br />

C. Pozzati, Acoustical-monumento, 1963, olio su tela, cm 160x200.<br />

74<br />

ci della retorica classica, cioè la geminazione e la triplicazione,<br />

mise a punto una sua tabella degli accrescimenti quantitativi e<br />

qualitativi derivanti (in termini di ritmo) dalla ripetizione delle<br />

linee, avvertendo che essa doveva valere “come un accenno al<br />

processo di formazione di figure più complesse” 8 .


Se quanto abbiamo sottolineato ha un qualche grado di probabilità,<br />

è possibile istituire un collegamento con una teoria della<br />

pittura molto vicina a noi, nella quale, insieme all’esigenza di un<br />

rinnovato incontro a livello nozionale fra arte e scienza, si presenta<br />

l’affermazione che la sensibilità ha bisogno per esprimersi<br />

di grammatica, retorica e logica. Si tratta del manifesto di Jaroslav<br />

Serpan, in cui è dichiarata la “ricerca di un linguaggio - cioè<br />

di una costruzione - (che) si deve elaborare secondo determinate<br />

morfologie e fissarsi in forme”. Oggi tutte le porte dell’avven-<br />

C. Pozzati, Momenti importanti “Omaggio a Carpaccio”, 1964, olio e tempera su tela, cm 175x200.<br />

75<br />

tura sono aperte all’artista, scrive Serpan. “Tra l’altro: optare per<br />

il gesto più restrittivo (per esempio, la semplice ripetizione - generatrice<br />

d’ordine - di un unico segno elementare) oppure per il<br />

casuale fuoco d’artificio dell’imprevisto (per esempio, seguendo<br />

una moda “aleatoria” secondo la quale il caso governa l’organizzazione<br />

formale)” 9 .<br />

Anche altre dichiarazioni del pittore andrebbero richiamate a<br />

questo punto, non foss’altro per chiarire come il ricorso ad un artista<br />

di estrazione informale come Serpan non dipende da una


forzatura interpretativa, che dissennatamente intendesse collocarlo<br />

in una prospettiva affatto arbitraria. Di fatto, però, Serpan<br />

ci serve come sintomo di un orientamento e non abbiamo difficoltà<br />

a riconoscere che - nell’ambito di quanto andiamo osservando<br />

- è più interessante la sua teoria della pittura, anzi quella<br />

parte della sua teoria che risale agli anni dopo l’informale, che<br />

l’opera pittorica che le sta alle spalle. Nel 1963, in termini che<br />

intendevano essere ricapitolativi, egli metteva lucidamente in<br />

chiaro il senso di una esperienza che aveva coinvolto la cultura<br />

figurativa negli anni Cinquanta; e quel senso consisteva per lui<br />

nell’aver indagato - fuori da ogni strettoia normativa - l’universo<br />

dei segni possibili. L’informale in fondo era stato una avventura<br />

della parola, un precipitarsi nel vortice dei modi di “dire” e<br />

76<br />

delle “possibilità espressive illimitate”; ed aggiungeva: “io costruisco<br />

sulle rovine dell’informale” e “il punto decisivo è questo:<br />

ogni gesto può ora divenire un pretesto pittorico”. Come dovesse<br />

ora funzionare quel gesto, non più sentito essenziale, ma<br />

ridotto a caso e pura occasione, si dichiarava subito dopo, in<br />

quella sorta di piano generale di lavoro che apriva un nuovo capitolo<br />

nell’opera dell’artista e al cui centro stava il motivo della<br />

struttura o configurazione; dove anche si cancellavano le distinzioni<br />

fra progetto e opera all’insegna di un’arte di forme e di concetti,<br />

di una pittura concettuale appunto. L’organizzazione del<br />

quadro viene discoprendosi allora come retorica, una disciplina<br />

delle strutture linguistiche che ha, per la speciale angolazione<br />

datale dal pittore, indubbi contatti con le figure (Serpan dice al-<br />

V. Vago, Orizzonte, 1965.


goritmi) della matematica. Il significato non si origina dai segni<br />

in sé presi, ma prende avvio piuttosto dai loro rapporti distintivi,<br />

da un gioco di relazioni, quali “raggruppamenti, sottoaggruppamenti”,<br />

ecc. E qui ritorniamo alla citazione iniziale, a quel punto<br />

di essa in cui si individua nella ripetizione lo schema tassonomico<br />

e ordinatore della realtà dell’immagine.<br />

Se si assegna al programma di Serpan un ruolo di indicazione e<br />

di sintomo, come si proponeva sopra, non ci sembra avventato<br />

trovare in esso, in forma embrionale, una chiave per capire i<br />

meccanismi della costruzione del senso nelle opere in cui l’attenzione<br />

al tema del linguaggio risulta primaria.<br />

1. Un motivo della poetica di Pozzati ritorna oggi con imperti-<br />

C. Pozzati, A guardia della qualità, 1965, olio su tela, cm 175x200.<br />

77<br />

nenza tale da invogliare a prenderlo di petto, se non altro per coglierne<br />

le ragioni connettive con la pratica di laboratorio, oltre<br />

che per vederne le tonalità provocatorie e oppositive con cui si<br />

presenta. Intendiamo riferirci alle dichiarazioni sulla necessaria<br />

professionalità dell’operatore d’arte, quali si leggono negli atti<br />

dell’ultimo convegno di Amalfi sull’arte povera e nel curioso dibattito<br />

epistolare pubblicato sul “Catalogo 72 De’ Foscherari”.<br />

Pozzati, nelle due occasioni, mettendo allo scoperto una intima<br />

lacerazione fra il suo essere artista e politico, gestisce un gioco<br />

difficile e pericoloso, che se ha lo scopo di saggiare il terreno<br />

delle operazioni, mette anche in evidenza la convinzione che lo<br />

specifico artistico si salva nella zona dei procedimenti tassonomici<br />

della formatività, anche nel rischio estremo della schizofrenia.<br />

La partita condotta dall’artista prevede un certo numero di<br />

trabocchetti per chi si abbandoni alle enunciazioni e le legga letteralmente<br />

come si pongono. Che cosa significa infatti il ricorso<br />

di Pozzati alle nozioni di ‘mestiere’ e di ‘professione’? Certo si<br />

può dare una risposta diretta, necessaria, legata alle condizioni<br />

oggettive di lavoro nella società odierna, che impone all’artista<br />

un ruolo di produttore specializzato. Ma la spiegazione sociologica<br />

non risulta soddisfacente e non ha incidenza sul fare artistico<br />

in senso stretto, che invece qui ci interessa. Quando infatti<br />

il pittore confessa di essere diviso, ambiguo, metà e metà e che<br />

è “la consapevolezza della stessa contraddizione a portarlo<br />

avanti”, ritroviamo in queste espressioni delle figure di discorso<br />

che reggono il suo esercizio compositivo, sì che non possiamo<br />

fare a meno di pensare che esse si propongano come autentici<br />

frammenti di poetica. Egli sarà magari ad un punto di rottura e<br />

di ripensamento globale, come già è avvenuto altre volte, ma<br />

nonostante “giochi con una bomba e rischi di contestare se stesso”,<br />

resta intatta la convinzione che il “fare professionale è diretto<br />

a produrre una idea negativa dell’arte”. Pozzati, dunque,<br />

continua a costruire dei quadri, anzi degli oggetti-quadri, nella<br />

linea della ricerca sua e congeniale, rifiutando ogni autre che<br />

non sia la sua alchimia; perciò la difesa del mestiere, se non andiamo<br />

errati, è volta a suffragare una metodologia fabbricativa<br />

del senso, un’operazione cioè schiettamente retorica, che si privilegia<br />

di speciali figure, 10 per altro già in parte ampiamente illustrate,<br />

dell’area ironistica. 11<br />

Il percorso dell’artista negli ultimi dieci anni è abbastanza noto


per richiedere un ulteriore commento. Vorremmo invece soffermarci<br />

su alcune ultime proposte venute a seguito della distruzione<br />

del valore referenziale, nel segno della essenzializzazione<br />

e per la via tecnica della vetrificazione-plastificazione.<br />

Pozzati ha operato in prima istanza mediante una sorta di congelamento<br />

del vocabolario, riducendolo nella sua consistenza<br />

lessicale (poche parole: pera, bottiglia ecc.) e cancellando i<br />

segni sottratti allo spazio istituzionale. Qui importa notare che il<br />

suo modo di procedere risulta tutt’altro che artificiale, nonostante<br />

l’apparenza: le ‘parole’ infatti vengono montate in proposizioni<br />

secondo un ordine naturale che ha come esito un significato.<br />

Vengono così esaltate le virtù predicative della lingua, cioè quelle<br />

relazioni di opposizione e di avvicinamento, che danno forza<br />

impulsiva al materiale inerte dei termini isolati (le ‘voci’ del dizionario)<br />

e lo mettono in movimento; si ha anzi un accrescimento<br />

di verità, se è vero che nell’opera si attua il passaggio dal<br />

livello confuso (la lingua comune) a quello alto, di estrema tensione,<br />

degli skémata e dei tropi. Già è stato elencato il vasto repertorio<br />

di utensili fabbricativi impiegati dal pittore (tagli filmici,<br />

reticoli, citazioni-rapine, impaginazione scenografica e monumentale),<br />

così come ci si è soffermati sulla sintassi paratattica e<br />

sull’efficienza indicativa delle figurazioni. “Sono didascalico, non<br />

didattico”, scrive Pozzati. Insistente è il rilievo dell’aumento di<br />

naturalezza, del carattere “più vero del vero” dell’oggetto prodotto:<br />

il profilo della cosa mercificata, depauperato di sostanza o<br />

dotato di un corpo “presuntamente neutrale”, respinge energicamente<br />

l’identificazione referenziale di mercato, si allontana<br />

vertiginosamente dalle cose, si disallinea e desemantizza; si<br />

sposta e cancella, ma non si vanifica, dato il suo raggrumarsi e<br />

stilizzarsi in un morfema simbolico. Interviene infatti un arresto<br />

della forma: portata al massimo della rarefazione, questa mantiene<br />

rigidamente il proprio contorno (sicché non per caso i materiali<br />

impiegati sono tra i più duri e taglienti) e ricomincia a dichiarare<br />

un positivo.<br />

Come funziona questo meccanismo? Riesce veramente a produrre<br />

significati? La risposta ci sembra sufficientemente affermativa<br />

solo se si sposta l’argomento nell’ambito della autogestione,<br />

cioè - in questa circostanza - di un segno che ha il suo<br />

contenuto nella funzione della sagoma, dell’involucro stesso.<br />

Nella fig. n. 1 (pubblicata in catalogo n.d.r.) le tre superfici spec-<br />

78<br />

chio-mela, allineate in una sequenza parallela, iniziano una proposizione<br />

formale che non porta al fruitore nessuna sollecitazione<br />

verso l’esterno, anzi lo richiama ‘dentro’ la profondità delle<br />

sagome, e con lui risucchia l’assembramento della realtà in cui<br />

vive, quale che sia il luogo scelto nella infinita catena degli angoli<br />

di osservazione. Il processo è ancora una volta stilistico, di<br />

contaminazione organico-geometrico, distruttivo perché porge<br />

delle ‘immagini’ (il di fuori riflesso) disancorate e prive di necessità:<br />

si hanno così significati possibili, tanto innumeri e aleatori<br />

da non essere fissabili. Quel che conta, però, è l’occhio, non<br />

ciò che sta intorno agli spettatori: è quello ad essere attratto, assorbito,<br />

per così dire, nella forma. Dentro di essa comincia a stabilire<br />

delle relazioni, mentre l’alea della congiuntura prossemica<br />

non è indirizzata a costruire, in quanto la si utilizza come puro<br />

materiale: l’operazione fin dall’inizio appare ironica e inversiva,<br />

continuamente al limite della morte e della nascita, nella misura<br />

in cui il meccanismo della negazione si mette a funzionare. A<br />

questo primo livello di fruizione si potrebbe anche dire che l’oggetto<br />

di Pozzati non si può ricordare, considerato che solo il presente,<br />

la messa a punto del momento (= il palese scorporamento<br />

dei fenomeni) agisce su chi osserva. Ma un ulteriore<br />

passo resta da fare: le tre sagome non si danno isolate, come si<br />

è detto, ma collocate in successione sinonimica su un piano dipinto,<br />

eterogeneo rispetto alla superficie vetrificata, nelle modalità<br />

neutre del retino a stampa; sulla fascia alta una serie stilizzata<br />

di gocce, realizzate in trasparenza, definisce il campo dei<br />

rapporti formali: il retino svolge una funzione di collegamento, fa<br />

aderire i segni puri, ponendosi contemporaneamente come valore<br />

icononico in sé e come elemento congiuntivo. Il significato<br />

è senza dubbio ‘anormale’, fuori dalle convenzioni e dai condizionamenti:<br />

è un negativo, stante la deflagrazione della catena<br />

‘normale’ significante-significativo-denotato, dove il denotato è<br />

la merce; ma è infine un positivo in quanto i segnali del quadro<br />

vengono decisamente ricevuti per ciò che essi sono, con tutto il<br />

peso critico di cui sono carichi.<br />

Molto interessante è la proposta della fig. 2 (pubblicata in catalogo<br />

n.d.r.): press’a poco al centro della tela emerge uno specchio<br />

incorniciato, centrato sulle diagonali; si nota un assorbimento<br />

ancor più forte che nell’esempio precedente, poiché lo specchio<br />

richiede un punto di vista privilegiato centrale, quindi un


luogo di fissaggio dei fenomeni tipicamente sincronico: quella<br />

data “riflessione” in quel certo momento e non altra. L’assorbito,<br />

però, mantiene la labilità di ciò che è soltanto riverberato e ripercosso:<br />

vale come apparenza specchiata, che subisce un intervento<br />

organizzatore: si tratta dunque stavolta di un solo significato<br />

possibile che la forza consapevole del ‘dire’ possiede e subito<br />

(per via del costante ribaltamento) respinge; che è quanto<br />

sostenere perversamente che il solo universo reale è quello del<br />

conoscere: al mondo delle istituzioni si contrappone - come sal-<br />

C. Pozzati, Per una impossibile modificazione, 1964, olio su tela, cm 175x200.<br />

79<br />

vezza - la formatività. L’edificio della significazione si complica<br />

poi, rivolgendo dentro se stessa il medesimo procedimento con<br />

cui ha investito i fenomeni: i lati dello specchio si proiettano oltre<br />

i vertici della cornice, creando due zone ad incastro in ‘parallelo’,<br />

in modo che due sistemi vengano a contatto e facciano da<br />

supporto l’uno all’ altro, con figuralità alterna, secondo un effetto<br />

di figura-fondo. Nella zona alta la delimitazione a “V” dispone<br />

un moto di uscita, che tuttavia resta compresso dalla configurazione<br />

del contorno centrale, stante il riverbero della proce-


dura ‘aprire-chiudere’ delle direttrici lineari sui segni fluttuanti<br />

(pere) che l’artista ha profilato. L’autogestione raggiunge qui un<br />

momento di forte tensione: la forma si nutre di se stessa, si dà<br />

come traliccio significante e come corpo di significato.<br />

Un ultimo esempio: la fig. 7 (pubblicata in catalogo n.d.r.) ci fa<br />

assistere ad una sorta di conflitto fra un modello e un assembramento<br />

di superfici ritagliate sul motivo base proposto dalla<br />

matrice della pera in primo piano. La originalità della esecuzione,<br />

rispetto al passato12 , consiste non tanto nello strumento tecnico<br />

(piani profilati e fatti nuotare nello spazio esterno al fondo),<br />

quanto nello scompaginamento operato sulle sequenze lineari,<br />

nel confronto fra relativa fissità del segno primario e caoticità<br />

delle riflessioni che paiono crescere su se stesse.<br />

Ancora una volta, però, la formatività esercita la sua pressione:<br />

una base e una superficie di fondo (riduzione di una scena? una<br />

vetrina-monumento?) legano i segni come in proiezione, fissano<br />

la fuga, la negazione delle forme, cogliendole nel momento estremo<br />

dello sventagliamento, in una specie di spaccato sincronico.<br />

2. L’esercizio compositivo per Vago13 prima che un fatto estetico,<br />

è un momento di pacificazione, di conoscenza, di analisi; è uno<br />

scrutare e un vedere pazientemente, un disacerbare e correggere<br />

e smussare. Se la pittura ha questa funzione, se essa cioè si<br />

dichiara fin dall’inizio come “valore mellificante” e fatica dettatoria,<br />

si comprende allora perché essa non ricerchi fuori di sé<br />

puntelli verbali e proposizioni giustificative; ed anche perché,<br />

data la sua natura intimamente critica, si rifiuti come valore raggiunto,<br />

ponendosi invece come interrogazione risorgente e intenzionalità<br />

dialogica. L’ars poetica ha il compito di preparare il<br />

materiale visivo da trattare, funziona come medium; non è un<br />

esito assoluto: ecco i limiti entro cui è possibile chiamare retorico<br />

il lavoro di Vago.<br />

Il pittore, che ama raccogliersi attorno ad alcuni motivi ricorrenti,<br />

va sviluppando da qualche anno un discorso uniforme e vario<br />

al tempo stesso. Se gli argomenti sono, in certa misura, sempre<br />

i medesimi, muta il modo di avvicinarli, di proporli. La varietà sta<br />

nelle articolazioni stilistiche, nelle modalità fantastiche ed emotive<br />

in cui vengono specificandosi. Ci sono, è vero, dei momenti<br />

riassuntivi, delle opere che fanno il punto su un itinerario di interrogazioni<br />

e che si pongono quindi quali risultati finali di un<br />

80<br />

processo di scavo. In tal senso il lavoro di Vago si presenta come<br />

un esercizio che avanza per scoperte particolari, per frammenti<br />

che si legano l’uno all’altro, e che infine si dispongono più che dividersi,<br />

entro paragrafi e capitoli. L’originale temperatura dell’artista<br />

va rintracciata dunque nella intensità della sua esperienza e<br />

non tanto nella latitudine dei suoi oggetti. In una simile dimensione<br />

operativa si spiega il metodo di Vago, il suo modo, voglio<br />

dire, umano e artistico di allinearsi o di reagire ai fatti di oggi.<br />

Il suo tenersi appartato è il segno di un rigore operativo, una<br />

obiettiva necessità della sua mente, non una dimostrazione di<br />

privatezza e di muta insofferenza. Che non sia quest’ultima cosa<br />

è dimostrato dal rilievo che ha nella sua riflessione il problema<br />

dello spazio, così investito di motivazioni attuali e di suggestioni<br />

colte. Il rapporto tradizionale tra interpretazione codificata dell’universo<br />

e momento esistenziale è rovesciato. L’asse rappresentativo<br />

soggetto-oggetto tende a dissolversi a favore del secondo<br />

termine, privilegiando l’ingresso della realtà autre sulla<br />

tela, della mondanità atmosferica. La luce, che ha offerto da<br />

sempre i termini delle metafore rappresentative più ardite, i<br />

modi di rendere concreto e presente l’invisibile, ne è il valore<br />

primario. In Vago tutto tende ad essere diretto, immediato, intelligibile.<br />

Non c’è al di là nelle sue pitture, sono esse stesse<br />

quell’al di là. I “paesaggi-estasi”, le “diagonali nel cielo”, gli<br />

“orizzonti” sono indicazioni non equivoche di epifanie, di accadimenti<br />

ottici mondani dilatati in climi cosmici. Gli elementi linguistici<br />

che concorrono a costituire lo spazio sono facilmente riconoscibili<br />

come prestiti dalle grammatiche essenzialiste del Novecento.<br />

Colori, timbri, grafìe hanno il loro precedente inoppugnabile<br />

in certo astrattismo italiano, settentrionale, che alla geometria<br />

si rivolse come valore intuitivo e poetico. E in questa ripresa<br />

sta l’attacco forte di Vago alla linea lombarda della pittura.<br />

Di qui anche è venuto lo spunto per un discorso che è andato facendosi<br />

diverso, energicamente visionario, di una visionarietà<br />

(non surrealtà, come in Licini) che è però storica e nostra. Così è<br />

avvenuto anche per i modelli (Poliakoff, Rothko) da cui sono<br />

state ricavate tessiture espanse ed imponderabili e colori come<br />

onde luminose. Referenti, ripetutamente citati a proposito di<br />

Vago, utilissimi certo a stabilire relazioni e divergenze, ma non<br />

sempre efficaci - tutto sommato - a spiegare le ragioni individuali<br />

della sua ricerca.


Nella sua pittura il punto fermo è raro e conclude di solito il capitolo,<br />

non la frase. Direi quasi che le articolazioni congiuntive<br />

sono un tratto stilistico troppo frequente per non essere segnalato<br />

come caratteristico. Certe proposizioni spezzate, profilate ai<br />

margini dei quadri hanno la funzione di dilatare la superficie, di<br />

crearvi attorno l’atmosfera meditativa in cui si sono lentamente<br />

definite. Chi osserva è colto, in certo senso, da un doppio impulso,<br />

investito da due percezioni contraddittorie, una sensitiva, l’altra<br />

fortemente mentale. Da un lato ‘riconosce’ negli strumenti<br />

tonali qualcosa di familiare, sensazioni che sono proprie della<br />

vita fisica; dall’altra si sente invitato ad andare oltre: il clima di<br />

assolutezza in cui vivono quelle immagini lo persuade che le vibrazioni<br />

luminose valicano gli orizzonti comuni, sono precipitate<br />

in un universo assai più ampio e rarefatto, esplorabile da una<br />

vista interna più acuta. Il tonalismo è accolto e piegato a ‘fare’<br />

un mondo che non è più quotidiano e naturalistico. L’avventura<br />

visuale, poggiando sugli avvii pretestuosi del fenomeno, lo rinnega<br />

poi come occasione e si consuma in una tensione intellettuale<br />

che offre nuovi ed originali motivi alla fantasia. Processo<br />

che va dalle cose alla sostanza, attraverso due registri di possibilità,<br />

o, per dir meglio, due gradi di una medesima scala. Il più<br />

elementare di questi modi consiste nel mantenere in vita il dato<br />

fenomenico, il traliccio (pure se ritagliato nei minimi termini) da<br />

cui viene a spiccarsi l’ascesa. La parvenza sensibile e terrestre<br />

conta poeticamente in quanto suggerisce una realtà che la sovrasta<br />

infinitamente e che pur vincendola in profondità, non la<br />

annienta. Si istituisce allora una sorta di relazione, una tensione<br />

che si placa soltanto in difficile equilibrio. A questo primo livello<br />

si danno molteplici modalità di impaginazione spaziale, dal tipo<br />

‘armonico’ e simmetrico a quello acentrico. Altre volte il campo<br />

spaziale assoluto domina senza incidenze di orizzonti: l’atmosfericità<br />

è ormai un ordine visuale inedito, lontanissimo dai referenti<br />

culturali e tecnici da cui era venuta la prima lezione. (2)<br />

3. La partenza per Vignozzi14 è sempre diretta, anche se lui non<br />

vuol dire, per una sorta di scontrosa civetteria, se sia la realtà oggettiva<br />

tout court quella che lo muove o una speciale naturalità<br />

delle cose, se la loro apparenza o un insieme di attributi considerati<br />

essenziali alla costituzione materiale degli oggetti. A chi<br />

vuole, dà solo una dichiarazione di principio, e cioè che non v’è<br />

81<br />

specificità del lavoro artistico: niente distingue il pittore - in quanto<br />

a comportamento e a manualità - da chi (chiunque altro) compie<br />

un’azione o una sequenza di gesti al fine di interpretare il materiale<br />

che usa in modo adeguato e rispondente ad un bisogno<br />

vitale. Quel che importa comunque è che siano osservate le regole<br />

della composizione e che il risultato sia buono. Non ci si lasci<br />

sorprendere dalla apparente ingenuità della affermazione: già vi<br />

si scoprono sotto sotto due motivi: primo, l’interesse per la costruzione;<br />

secondo, la volontà di contaminarsi con le cose, allo<br />

scopo probabile di garantire al prodotto una zona di fruibilità<br />

nuova e un carattere di concretezza, quali non potrebbero essere<br />

assicurati da una operazione di puro laboratorio. O, se si vuole,<br />

quello di Vignozzi è un laboratorio allineato con la officina della<br />

vita pratica, così palesemente evidente nella sua naturalezza da<br />

risultare poi felicemente ambiguo; la specificità dell’artista torna<br />

difatti a riaffiorare quando egli inventa una tessitura organica<br />

nuova (omologa a quella reale?), passando dalla selezione di alcuni<br />

dati alla loro messa in movimento a livello linguistico.<br />

Alla base di questo processo di formatività dell’immagine sussistono,<br />

ci sembra, due principi di metodo, che potremmo chiamare<br />

della “concentrazione” e del “contrasto”. Il primo è abbastanza<br />

chiaramente ricavabile dalla serie dei disegni sul motivo<br />

degli uccelli (un tema, tra l’altro, carissimo alle ricerche sul dinamismo<br />

della forma) che ci fanno assistere alla messa a punto di<br />

una figura elementare, in volo, tutta distesa sul piano, e resa tuttavia<br />

plastica e greve dalla semplificazione del contorno, ritagliato<br />

con la massima cura perché conservi una forte carica di<br />

tensione che sembra sul punto di esplodere. Tale esigenza di<br />

concentrazione spinge l’artista a sfrondare il tessuto che sta attorno<br />

al nucleo che lo attrae, una specie di cellula allo stato di<br />

germinazione, aperta alle più imprevedibili avventure di crescita.<br />

Non vi si ravvisa più un punto di vista centrale, in quanto la<br />

centralità è in ogni luogo, dovunque l’immagine si manifesta<br />

come forza in espansione. In passato Vignozzi ha cercato di liberare<br />

questa energia, imprimendole un movimento centrifugo,<br />

come risulta dai grandi oli su carta del ’64 dove la struttura microcosmica<br />

veniva tramata e dilatata mediante la segnatura dei<br />

reticoli fibrosi, dei grumi materici, stante l’esigenza di deconcentrare<br />

e di far violenza agli oggetti stessi del proprio interesse. La<br />

programmaticità dell’operazione comportava il pericolo di consi-


derare il quadro come un deposito di scariche gestuali e richiedeva<br />

una ripetibilità di segno che, per essere automatica e incontrollabile,<br />

rischiava anche di diventare scarsamente organizzatrice.<br />

Si spiega quindi perché si situi a questo punto del lavoro<br />

una pausa, un ripensamento, che ha portato il pittore a dare<br />

una decisa sterzata verso il polo della composizione. Mantenendo<br />

fermo il principio della centralità del frammento, egli ha provato<br />

a fissarlo in una struttura semplice, con le direzioni di forza<br />

tese, per così dire, verso l’interno. La forma si rassoda e pietrifica<br />

in un telaio robusto, costituito di linee forti e spesse: l’oggetto è<br />

in certo senso visto in controluce, secondo un ordine ottico che<br />

tiene conto soltanto del pieno e del vuoto, della materia che resiste<br />

all’azione corrosiva della luce e degli annientamenti che<br />

questa provoca nel corpo delle forme. Un modo di comporre non<br />

nuovo in Vignozzi, se già nel ’58 Alfonso Gatto sottolineava nelle<br />

incisioni e nei disegni le “calettature per incastro”, “i punti di<br />

emergenza e di rigoglio” e “gli accenti della luce”, un modo che<br />

oggi si è fatto determinante ai sensi della fabbricazione, anche<br />

se è accompagnato da incertezze, allorché il pittore adatta tale<br />

procedimento a dei crudi referenti, dimenticando il carattere<br />

strenuamente linguistico del suo costruire. Il chiarimento della<br />

82<br />

nozione di ‘concentrazione’ dovrebbe però fargli superare del<br />

tutto il momento della organicità mimetica e naturalistica, convincendolo<br />

che l’immagine è una struttura significante che annienta<br />

(moltiplicandoli e sfasandoli) i significati dei materiali che<br />

concorrono a costruirla.<br />

Nei quadri ultimi, composti sul tema del game over, ricchissimi<br />

di rinvii alla cultura figurativa, si presenta un processo di ‘scorrimento’<br />

delle forme che si caratterizza nel senso del contrasto,<br />

cioè di una figura o “legge costruttiva in tutta la sua ampiezza”.<br />

Osservandoli, si nota che Vignozzi ha fatto una lettura molto attenta<br />

dei modelli astratto-espressionisti, di De Kooning e di<br />

Gorky in particolare, come lo stesso autore conferma nelle tempere<br />

composte “pensando ai piccoli segni a penna di Arshile<br />

Gorky”, dove però - a guardar bene - non c’è soltanto la rimeditazione<br />

delle opere di quell’artista, ma un impianto decisamente<br />

plastico, che si tenta di alleggerire e far levitare mediante quei<br />

“piccoli segni”. L’immagine per Vignozzi è la risultante di uno<br />

scontro di segni a più livelli, di parole e di forme che si compenetrano,<br />

urtano e sovrappongono, generando quello speciale<br />

ritmo di scorrimento che lo interessa. Si vedano, per esempio,<br />

Game over con due colombe bianche e l’olio con la nota “ap-<br />

C. Pozzati, Tête a tête, 1965<br />

olio e smalto su tela, cm 200x260.


punti scritti con la carta jach, 14 settembre, il girasole morto - è<br />

lasciato sulla base - della finestra - bersaglio tiro - game over”,<br />

che sono forse da considerarsi i risultati più maturi importanti<br />

per la tecnica di associazione che crea, attraverso la traslitterazione<br />

e le combinazioni inedite, dei significati visionari. Nel<br />

primo dei due quadri citati, due colombe bianche campeggiano<br />

in uno spazio congestionato dai segnali dei biliardini elettrici, da<br />

sigle e cartigli, da presenze ameboidi: tutti i segni in movimento,<br />

per schiacciamento o per volo d’uscita, in una sorta di fluttuazione<br />

più che di ritmo rapinoso e violento. Proprio la concomitanza<br />

produce l’uscita dei segni dal piano paradigmatico, e, facendo<br />

acquistar loro un “significato di contatto” crea un terzo<br />

dato, o meglio un polisenso. I significati letterali si fanno percepire<br />

in contaminazione: un cartiglio è un segnale alla stessa stregua<br />

di un bersaglio (per altro traslitterato), così come l’ala diventa<br />

un fascio di luce. Non c’è equivoco: si tratta di una creazione<br />

dotta di sensi, nonostante l’estrazione popolaresca e massiva<br />

dei segni. A voler fissare in una formula il risultato, si potrebbe<br />

dire che il quadro ci offre una proposta di organicismo intralinguistico.<br />

Il secondo quadretto conferma l’analisi: la carta da<br />

gioco ritagliata col profilo del re di cuori è fatta risuonare su un<br />

fondo compatto, di coagulo: cucito di fianco, per ‘contrasto’, il riquadro<br />

giallo più ampio accelera l’uscita del senso letterale dell’immagine,<br />

spostandola nella dimensione del puro emblema,<br />

dei bersagli in movimento. In alcuni quadri tuttavia (per es. “Arnesi,<br />

mollone e guanto rosso”) si notano i residui di una organicità<br />

diversa, più generica ed equivoca, che si affida alle indicazioni<br />

delle cose, alla mera ripetizione dei referenti che il mestiere<br />

impaginativo non riesce del tutto a riscattare. Ma il senso<br />

della ricerca risulta chiaro, e sta appunto nella proposta di una<br />

strutturazione organica della visualità quotidiana. (3)<br />

1. Cfr. P. Valesio, Intorno ai segni, in “Il Verri”, n. 29, dicembre 1968.<br />

2. Si conviene che la differenza tra discorso comune e i linguaggi specifici consiste<br />

nella minore o maggiore esplicitazione della figura retorica, nel senso che al<br />

primo sono propri i ”frammenti di clichés “, cioè le figure retoriche approssimate<br />

e ridotte, ed ai secondi l’uso motivato e compiuto delle stesse.<br />

3. P. Valesio, art. cit., riv. cit., p. 115.<br />

4. Trad. it. di M. Calasso, Ed. Adelphi, Milano, 1968.<br />

5. Continuiamo la citazione: “Anche in questo punto decisivo per le arti astratte<br />

noi scopriamo fin d’ora la legge dell’accostamento e della contrapposizione, che<br />

stabilisce due principi - il principio del parallelismo e il principio del contrasto -<br />

come si è mostrato nelle combinazioni delle linee. Le leggi autonome dei due<br />

83<br />

grandi regni dell’arte e della natura, che abbiamo separato in questo modo, condurranno<br />

infine alla comprensione della legge globale della composizione del<br />

mondo e chiariranno l’autonoma partecipazione dei due regni a un più alto ordine<br />

sintetico: esterno + interno”. Op. cit., pp. 115-117.<br />

6. Cfr. M. Volpi Orlandini, “Kandinsky, dall’art nouveau alla psicologia della<br />

forma”, Lerici, Roma, 1968, specialmente alle pp. 127-130.<br />

7. W. Kandinsky, op. cit., p. 140 e ss.<br />

8. Si veda come K. interpretasse il tropo della ripetizione: “Il caso più semplice<br />

è la ripetizione di una retta a distanze uguali - il ritmo primitivo, o a distanze che<br />

crescono uniformemente, o a distanze disuguali. Il primo caso presenta una ripetizione,<br />

che ha per scopo soprattutto il rafforzamento quantitativo, ecc. Nel<br />

secondo caso si aggiunge al rafforzamento quantitativo un suono concomitante<br />

dell’elemento qualitativo. Questo caso si presenta (...) come la ripetizione delle<br />

stesse battute dopo una più o meno lunga interruzione o le ripetizioni “piano”,<br />

che modificano qualitativamente la frase”. Op. cit. pp. 103-104.<br />

9. In Jurgen Claus, “Teorie della pittura contemporanea”, Il Saggiatore, Milano,<br />

1967, p. 225.<br />

10. Di fatto più che figure, nel senso della neoretorica, gli interpreti hanno descritto<br />

dei modi stilistici e degli eventi linguistici, assegnando comunque ai processi<br />

di desemantizzazione (che sono in ultima analisi, nel caso Pozzati, dei<br />

tropi) una dimensione costruttiva. Dell’insufficienza di una lettura in chiave puramente<br />

linguistica si è reso conto chiaramente P. Bonfiglioli (La pera di Pozzati,<br />

Catalogo, Galleria la Bertesca, 1968) quando scrive che “le tecniche dell’alienazione<br />

e dello spaesamento non sono... di tipo fenomenologico: non tendono a<br />

riverginare le funzioni linguistiche, a sollecitare la lingua costringendola a far ginnastica;<br />

esse si identificano piuttosto con le tecniche di mercato, ecc.”. Molto<br />

acuta è dello stesso critico l’osservazione sull’autofondazione espressiva, dalla<br />

quale abbiamo ricavato un consistente spunto (“la pera, in quanto segno-oggetto,<br />

anziché produrre messaggi, non potrà che riprodurre se stessa”).<br />

11. La rassegna ordinata lo scorso anno al Salone Farnese di Parma ha permesso<br />

di cogliere il filo di una ricerca estremamente organica e serrata, di cui non<br />

intendiamo studiare in questa sede gli aspetti generali. Non sta certo a noi vedere<br />

se e quanto sia rivoluzionario il tipo di cancellazione (lo spostamento ironico)<br />

messo in funzione dall’artista, il suo ribaltare i segni da un livello all’altro di<br />

discorso. La questione ha già avuto una chiara risposta dal prefatore della mostra,<br />

A. C. Quintavalle. È da notare piuttosto che da quest’ultimo e da E. Jaguer,<br />

in particolare, è venuta una sollecitazione importante, nel senso che - in aderenza<br />

anche agli atti della poetica pozzatiana - si è voluto istituire un approccio<br />

all’opera dall’interno, insistendo sulla natura metalinguistica delle immagini, e,<br />

fatto ancora più indicativo, si è utilizzata una impostazione esegetica proveniente<br />

da studi che certamente non riguardano le arti figurative, gli unici forse a suggerire<br />

senza ambiguità gli elementi necessari allo smontaggio di un lavoro nato<br />

come opus fabrile. È infatti condividibile l’affermazione che “al livello del tipo di<br />

discorso le opere di Pozzati, analizzate con gli schemi dei Perelman-Olbrechts-<br />

Tyteca, sono consapevolmente delle macchine complesse” (Catalogo, Parma, p.<br />

15).<br />

12. Sulle “immagini madri” con funzioni di “capifila”, v. P. Bonfiglioli, Cat. cit.<br />

13. Per un’illustrazione iconografica essenziale rimandiamo a M. Valsecchi, V.<br />

Vago, ed. Scheiwiller, 1969.<br />

14. Riproduciamo la scheda scritta in occasione della mostra di P. Vignozzi alla<br />

“G. Greco”, Mantova, aprile 1969.<br />

(1) Articolo comparso sulla rivista “Il Portico”, n° 1, 14 giugno 1969.<br />

(2) Scritto in occasione della mostra di V. Vago alla “G. Greco”, Mantova,<br />

ottobre-novembre 1969.<br />

(3) Scritto in occasione della mostra “Piero Vignozzi”, Libreria Galleria<br />

d’Arte “G. Greco”, via Principe Amedeo 26/a, Mantova, 5-18 aprile<br />

1969. Testo pubblicato nel foglio di presentazione della mostra.


Appunti di viaggio<br />

Ferruccio Bolognesi (1)<br />

C’è in Bolognesi il piacere di rifare le cose, di cogliere la realtà<br />

come materia di invenzione formale. Paesaggi, oggetti, figure<br />

non posseggono costituzione in se stessi: l’acquistano piuttosto<br />

in virtù dell’occhio che vi penetra dentro, ne smonta l’architettura<br />

per cogliervi l’inedita piegatura di una forma, un segreto movimento,<br />

un accenno di vita. Se non si dà questo contatto fra la<br />

realtà e l’osservatore, viene a mancare anche l’occasione di avviare<br />

un processo di registrazione attiva. Bolognesi è un artista<br />

che non sa semplicemente guardare, appagandosi del naturale<br />

così come si porge: deve farlo suo, caricarlo delle emozioni visive<br />

che si accumulano dentro di lui. Fra il soggetto e la cosa si verifica<br />

un processo di scambio, di apporti recipoci, per una neces-<br />

F. Bolognesi, Il circo, 1969, china su carta.<br />

84<br />

sità di ancoramento e di misura che è garanzia di fedeltà al concreto,<br />

di una volontà che evita di disperdere l’immaginazione<br />

nelle associazioni della fantasticheria.<br />

Nascono così i numerosi appunti di viaggio, disegni dove le suggestioni<br />

esercitate dai fatti, appresi come spettacolo, hanno<br />

tanta parte: una formella di S. Zeno, le statue di Villa Borghese,<br />

un fregio romanico agiscono nello stesso modo delle bancarelle<br />

di un mercato e del gesto di un saltimbanco. Non esistono gerarchie:<br />

tutto va risentito e rifatto, in un atto interpretativo che<br />

non snatura l’oggetto. Entro questa dimensione si intendono le<br />

configurazioni formali offerte dall’artista, certi agglomerati di immagini:<br />

se c’è deviazione dalla percezione comune, si tratta<br />

sempre di uno scarto necessario, non di intenzione deformatoria.<br />

Si prenda ad esempio Piazza di Acitrezza, composta sull’idea<br />

di far perno sull’immagine della fontana per dar vita ad un ritmo


F. Bolognesi, Paesaggio, 1969, pastelli oleosi su carta, cm 21,5x31.<br />

rotatorio che coinvolge l’intero paesaggio sociale e monumentale<br />

del paese: è la cosa in primo piano, strutturalmente così solida,<br />

ad avviare il racconto stilistico, dando ordine agli altri temi<br />

minori, relazionandoli senza soluzione di continuità tra di loro. Lo<br />

spazio costruito appare esso stesso dotato di quella compattezza<br />

architettonica che propriamente dovrebbe appartenere all’elemento<br />

primario, senza tuttavia che si perda il senso narrativo<br />

dell’impaginazione a sequenze.<br />

Qualcosa resta anche da dire sullo speciale tipo di ornato a cui tendono<br />

gli ultimi disegni: l’iter grafico si dispone con minore ricchezza<br />

che nel passato: c’è la scoperta dì un segno elementare, privo<br />

dì commenti, autonomo rispetto agli argomenti che provocano la<br />

partenza della stesura. L’intento illustrativo che pure aveva fatto<br />

registrare risultati felici di narrazione aneddotica nelle prove del<br />

85<br />

’66 e del ’67, assume importanza secondaria, mentre si essenzializzano<br />

le sagome e gli emblemi della mitografia di Bolognesi (le<br />

sue "sirene", i "pagliacci", gli "angeli", eccetera).<br />

Non è un caso che il pittore, così alieno dall’illustrare la propria<br />

opera, sia disposto a riconoscere la singolarità dell’esercizio disegnativo,<br />

che se spesso costituisce il primo momento di una<br />

esperienza che si prolunga nel quadro dipinto, dà il senso anche<br />

di una avventura autonoma e diversa, riuscendo a svincolare il<br />

segno dai dati della percezione e risolvendosi quasi in una zona<br />

di relazioni astratte.<br />

1. Scritto in occasione della mostra “Ferruccio Bolognesi”, Galleria d’arte<br />

“L’inferriata”, Sottoportico dei Lattonai 4, Mantova, 13-28 settembre<br />

1969.


Tradizione figurativa<br />

Giuseppe Facciotto (1)<br />

L’opera di Facciotto ci appare oggi svolta sotto il segno di poche<br />

scelte sicure e di molte rinunce. Fra i pittori operanti a Mantova<br />

in epoca fascista1 , effettivamente capaci di riflettere sulla lezione<br />

proveniente dalle avanguardie europee del primo novecento,<br />

fu l’artista che per ragioni di temperamento e di cultura (non<br />

tanto per difetto di informazione e di coraggio intellettuale), si<br />

tenne lontano dalle polemiche ed evitò gli scontri provocatori<br />

con i programmi e le mode del suo tempo.<br />

A confronto di tanti altri pittori suoi coetanei, più inquieti di lui ed<br />

anche più disposti a dibattere per via concettuale i problemi della<br />

visione, egli sembra quasi più povero di dati e di informazioni. Si<br />

consideri, ad esempio, la sua relazione con G. Di Capi: il male<br />

86<br />

della perfezione, l’acuta intelligenza critica dell’amico, anziché<br />

persuaderlo a nuove avventure visive, lo confermarono nei procedimenti<br />

che gli erano propri; sicché il levare e il togliere venivano<br />

esercitati all’interno del processo artistico, senza quelle appassionate<br />

violenze sugli esercizi minori dell’azione pittorica cui<br />

quello era invece cosi incline2 . Se un Di Capi o un Cavicchini3 , in<br />

molte occasioni, avvertirono con fastidio le remore della tradizione<br />

figurativa locale e vollero liberarsene aderendo a proposte più<br />

avanzate, Facciotto - si può dire - non dimenticò mai i motivi centrali<br />

della sua ispirazione, quel complesso di forme e di temi che<br />

si erano venuti chiarendo in lui fin dai primi anni di lavoro.<br />

In questa prospettiva, che potrebbe erroneamente apparire più<br />

limitata rispetto ad altre, egli si pose un problema difficile ed<br />

assai improbo: per lui non si trattava tanto di trasferire in provincia<br />

elementi che alla provincia non appartenevano, di fare,<br />

G. Facciotto, Ritratto della figlia Lidia, s.d., olio su cartone, cm 51x31. G. Facciotto, La figlia con la mano fasciata, s.d., olio, cm 51x36.


G. Facciotto, Vaso con fiori, s.d., olio su tavola, cm 39x32. G. Facciotto, Ritratto dell’amico Bergonzoni, 1943, olio su cartone, cm 42x34.<br />

tanto per intenderci, del cezannismo o del vangoghismo di riporto,<br />

quanto di richiamare e di far fruttare dall’interno, con<br />

un’operazione in apparenza indolore, i modi della visualità provinciale<br />

in termini assolutamente moderni. Chi eluda tale considerazione,<br />

sarà magari disposto a riconoscere la compiutezza dei<br />

risultati formali, la qualità del dipinti in sé e per sé, ma si vedrà<br />

sfuggire il significato concreto e storico della sua ricerca. Si capisce,<br />

allora perché, in mancanza di altre spiegazioni, si ricorra alle<br />

etichette magiche che nulla spiegano, quali “arte spontanea”,<br />

“pittura immediata”, “ingenuità naive”, e simili. Nulla invece di<br />

tutto questo: Facciotto non fu un candido primitivo, anche se<br />

ebbe “un’anima pulita, da primo cristiano”, ma un’artista consapevole<br />

dei propri mezzi e attentissimo alla misura linguistica del<br />

suo lavoro. Egli stesso sembrò rendersi conto del pericolo contenuto<br />

in formulazioni di questo tipo, tant’è che in occasione della<br />

sua mostra all’ “Annunciata” denunciava in una lettera agli<br />

amici4 l’inattendibilità di molti giudizi della critica. È necessario<br />

87<br />

dunque evitare i parallelismi troppo stretti fra la “smarrita bontà”<br />

dell’uomo e il prodotto della sua intelligenza formale, anche se<br />

ovviamente non si danno opposizioni fra di esse. Quel che importa<br />

sottolineare è invece il carattere “riflesso” della indagine<br />

facciottiana sul “naturale”, nella specialissima congiunzione di<br />

tempi e di territori in cui venne svolta..<br />

Il cosiddetto primitivismo di Facciotto può assumere valore positivo<br />

e caratterizzante, purché si respinga da un lato la sua identificazione<br />

col gusto arcaizzante dei valori primordiali5 e dall’altro<br />

la qualifica “domenicale” già menzionata.<br />

Quando Facciotto si richiamava ai “braccianti, carrettieri, contadini”<br />

di Cavriana, alla “terra pietrosa ed arsa, ove contorti faticano<br />

anche la vite e il frassino”, o quando scrivendo di Burano, non<br />

sapeva contenersi dall’esclamare: “un paese di gente primitiva<br />

(finalmente!)”, non si era certo prefigurato un universo di argomenti<br />

né su di esso intendeva far leva, poiché subito si distoglieva<br />

dalle “reminiscenze che non contano nulla, anzi fanno


88<br />

G. Facciotto<br />

Paesaggio (interno Valenti), 1942<br />

olio su cartone, cm 52x62.<br />

G. Facciotto<br />

Paesaggio verso Angeli, s.d.<br />

olio su cartone, cm 31x40.


male”: intendeva dichiarare invece la sua appartenenza ad una<br />

civiltà ed annotava dei referenti da riscattare sul piano visuale in<br />

virtù di “un non so che di cosmico” 6 di cui gli apparivano ancora<br />

maestri i veneziani.<br />

Ciò indica - non c’è dubbio - un nocciolo di affetti e di convinzioni<br />

mantenute inalterate nel tempo, che definiscono il legame<br />

dell’artista con la cultura, l’una subalterna (“primitiva”, per così<br />

dire) e l’altra consapevole, dell’area mantovana. Fondere insieme<br />

questi due universi fu appunto un’intenzione costante di Facciotto,<br />

così come egli volle sempre evitare i salti bruschi e restituire<br />

dignità ad una tradizione figurativa che si era venuta svilendo<br />

nel tempo.<br />

Certe sue incomprensioni e chiusure, che possono sorprendere,<br />

non appaiono allora più tali: accertato infatti che il discorso pittorico<br />

andava riformulato in termini grosso modo impressionistici,<br />

che “nessuna via d’uscita” si apriva se non maturando<br />

lentamente ed esaurendo in concreto le esperienze visive, egli<br />

poteva anche in anni di rottura del fronte del Novecento e di rivolta<br />

anti-intellettualistica (quindi in sintonia con le istanze promosse,<br />

ad esempio, da un Persico) 7 , fare della pittura un problema<br />

morale e non tecnico; poteva persino non comprendere<br />

la legittimità degli sviluppi cubisti della “formula” di Cezanne e<br />

ritrovare i propri modelli in alcuni versanti soltanto della pittura<br />

francese ed italiana, quelli del resto cui si riportava il postimpressionismo<br />

in generale: Corot, Manet, Renoir, Cezanne in Francia,<br />

Fattori in Italia8 .<br />

Forzeremmo tuttavia il pensiero di Facciotto se insistessimo troppo<br />

su simili riferimenti, lo caricassimo di intenzioni teoriche,<br />

quali pure è dato ritrovare nelle sue carte autografe. Il richiamo,<br />

documentabilissimo, serve a dare una dimensione storica convincente<br />

della sua opera, per dimostrare se non altro la sua contemporaneità<br />

ad altre ricerche (di respiro più o meno ampio)<br />

che si aprivano ai messaggi della cultura europea.<br />

A lui toccò risolvere, per così dire, in loco e con strumenti limitati<br />

un problema di sprovincializzazione che altri ebbero modo di<br />

affrontare in climi più propizi, a contatto diretto con opere e con<br />

autori d’avanguardia.<br />

Il motivo cardinale della pittura è dato in Facciotto dall’idea della<br />

“naturalezza” del fare artistico. “Affidati al vero, cercalo, scoprilo<br />

con tutta diligenza e sarai salvo”: a questa proposizione egli restò<br />

89<br />

sempre legato, nella convinzione che il reale andava interpretato,<br />

essendo la pittura uno strumento di conoscenza e non di eversione.<br />

La sua era fedeltà al vero, non mera dipendenza dalla impressione,<br />

se egli poi avvertiva: “in pittura si possono adoperare<br />

anche le dita, un cucchiaio, ecc. per rappresentare quello che hai<br />

davanti, che non è poi mai quello che hai dentro”.<br />

Siffatto motivo, non tanto lontano, a ben guardare, dal “vero” di<br />

altri artisti settentrionali9 , si precisò poi e si arricchì nella successione<br />

delle prove e nei contatti con pittori che presentavano una<br />

intonazione di probità e una disposizione formale simili alle sue.<br />

Non per caso, infatti, gli appunti più significativi furono stesi da<br />

Facciotto dopo il 1934, quando ormai poteva dirsi compiuto il<br />

momento della sua formazione e gli si offrivano più frequenti<br />

occasioni di incontro.<br />

La data natale della pittura di Facciotto è, per consuetudine, fissata<br />

nel 1938, anno del suo incontro con Lilloni a Garda. In realtà<br />

essa va spostata all’indietro di almeno quattro anni, se non addirittura<br />

di dieci, come ha riferito A. Gatto10 . È vero che la stagione<br />

più fertile del suo lavoro si colloca tra quell’anno e il 1943, ma<br />

G. Facciotto, Autoritratto, s.d., olio su cartone, cm 26x29,5.


non può sostenersi l’idea di un incontro, o di una serie di incontri<br />

decisamente risolutori a proposito di un’esperienza che aveva alle<br />

spalle risultati già notevoli. D’altro canto si capisce la ragione di<br />

un simile contrassegno anagrafico, se si considera che esso è in<br />

funzione di una caratterizzazione ‘chiarista’ di Facciotto, che<br />

avrebbe finalmente scoperto la sua grammatica nella dimensione<br />

espressiva di un Del Bon, di un Lilloni o di un Semeghini.<br />

Ciò risponde comunque ad un’esigenza di approssimazione critica<br />

e di lettura, quindi ad un proposito obiettivamente valido. Del<br />

resto la stessa formula di ‘chiarismo’ ha origini letterarie e all’atto<br />

pratico non offre criteri stringenti di interpretazione: gli stessi<br />

Semeghini e Del Bon non si intendono nella loro interezza con<br />

un simile metro, che rispose soprattutto ad una esigenza di de-<br />

G. Facciotto, Torcello, 1943/45, olio su cartone, cm 46x61.<br />

90<br />

finizione morale e sentimentale della professione artistica, oltre<br />

che ad un bisogno di categorizzazione critica. Nella significazione<br />

ampia e originaria del termine Facciotto fu certo un ‘chiarista’,<br />

come per vocazione antiretorica era stato subito antinovecentista:<br />

la sua pittura tuttavia è ben lontana dall’esaurirsi nella<br />

dimensione del chiarismo. Basterà prendere in esame dipinti<br />

come Quattro zucchine su fondo rosa (1943, Coll. G. Facciotto Sigurtà).<br />

Natura morta (1939, Coll. E. Faccioli). Paesaggio (Dosso)<br />

(Coll. G. Venturini), Pagliai (Coll. S. Arcari), per vedere come essi<br />

siano nati da intenzioni compositive di estrazione morandiana e<br />

da una scansione spaziale che hanno scarsa affinità con le modalità<br />

stilistiche del gruppo sopra menzionato.<br />

Non perciò cade l’opportunità del riferimento: solo se ne consta-


ta la limitatezza quando si voglia con esso dar ragione dei telai<br />

spaziali più complessi di Facciotto.<br />

Della primissima attività dell’artista restano poche cose: due disegni<br />

del ’19, qualche dipinto del ’26, un paio di paesaggi del<br />

’30, utili ad illuminare la natura di certe scelte tematiche iniziali<br />

(le figure dell’ambiente familiare, i paesaggi castiglionesi, la natura<br />

morta) più che a dirci qualcosa sul temperamento dell’artista.<br />

Fra queste prove della sua ‘preistoria’, che non è possibile<br />

conoscere perché venne quasi completamente distrutta dallo<br />

stesso autore, fra queste “robe vecchie” (come leggiamo nel<br />

retro di una tavola), uno speciale rilievo assume tuttavia un piccolo<br />

paesaggio dipinto ad olio e matita, in cui si esperimenta per<br />

la prima volta un’elementare struttura compositiva a fascia oriz-<br />

G. Facciotto, Paesaggio verso Solferino, s.d., olio su cartone, cm 30x34,5.<br />

91<br />

zontale, giocata sui grigi, che rimanda ai modi più semplici del<br />

tonalismo locale.<br />

Il primo risultato persuasivo del suo lavoro, quello da cui proponiamo<br />

di far iniziare l’avventura facciottiana, appartiene al 1934.<br />

È un ritratto di Vecchio che mangia (Coll. F.lli Portioli), che fu incluso<br />

nella seconda personale alla Galleria. “Cortina” di Rovereto,<br />

assieme ad altri oli dello stesso anno (Fiori di carta, Coll. A.<br />

Bergonzoni, Pane e pere, oggi perduto, di cui possediamo soltanto<br />

la riproduzione fotografica). Il tema, trattato già numerose<br />

volte (la figura ritratta è il padre dell’artista), ha acquistato una<br />

precisa autonomia formale per la misuratissima impaginazione<br />

dell’immagine, impostata su una serie di linee curve, che si richiamano<br />

per assonanza e si dispongono all’interno di un trac-


ciato a riquadri: la composizione quasi in fuga dello sfondo in<br />

diagonale è trattenuta al centro del quadro dalla direttrice fondamentale,<br />

una ellissi, che circoscrive la figura. Si ha così per risultato<br />

un insieme di valori che si equilibrano reciprocamente.<br />

Già è raggiunta quella condizione felice di ‘contemplazione pittorica’<br />

che Facciotto riassumerà poi in un suo pensiero: “Abbracciare<br />

in un sol colpo la scena: costruzione, colore, plasticità... Vedere,<br />

capire, penetrare, pensare tutt’uno…”.<br />

Dopo questo dipinto vengono negli anni successivi, e si citano<br />

soltanto gli esiti importanti, Gabriella in rosso del ’36, il mirabile<br />

Nudo disteso col gatto (prob. 1935, cfr. Reg. a., n. 38), Testa<br />

di Giordano Di Capi (1937?, cfr. Reg. a., n. 61), Pagliai in Toscana<br />

(1936, Coll. S. Arcari, cit.), che da soli basterebbero a dargli<br />

un posto centrale nella storia della pittura mantovana.<br />

G. Facciotto, Vecchia con ombrello sulla strada, 1942, olio su cartone, cm 40x50.<br />

92<br />

È dopo la malattia del ’37 - ’38 che si situa l’incontro di Facciotto<br />

con i chiaristi, stando alle date comunemente proposte. Ormai<br />

egli si trova nella pienezza del proprio lavoro; non è l’artista<br />

sprovveduto che si affaccia improvvisamente ad una lezione di<br />

chiarezza visiva e miracolosamente l’apprende.<br />

Dai compagni di quegli anni egli ebbe semmai la conferma della<br />

sua fiducia nella organizzazione luminosa della realtà e si sentì<br />

incoraggiato nella determinazione dei propri temi. Se Facciotto<br />

seppe ascoltare una lezione, si direbbe che egli abbia poi voluto<br />

correggerla e sottoporla ad un approfondimento di tono poetico,<br />

di intensificazione e di lievitazione lirica.<br />

Cose completamente sue sono infatti i paesaggi gardesani e lagunari,<br />

ripetutamente composti a partire da quell’anno (inutile<br />

citare le numerose varianti di Garda, Canale a Mazzorbo, Pae-


saggio morenico, eccetera). Per quanto ciò appaia al più poco<br />

evidente, è indubbio che agli incontri con Lilloni e Semeghini<br />

seguì un’operazione critica, di natura dlscriminatoria, ai fini della<br />

correzione di cui si è detto. Anziché accumulare in direzione sperimentale<br />

la somma dei dati stilistici nuovi, egli semplificò e ridusse<br />

al nocciolo i problemi della figurazione, demandando all’esercizio<br />

di officina il compito di precisarli volta per volta.<br />

Ecco perché le opere di Facciotto appaiono così poco calcolate. In<br />

realtà la naturalezza del tracciato compositivo è tutt’altro che<br />

qualcosa di irriflesso: la semplicità è il momento di arrivo, una<br />

difficile conquista cui l’artista perviene attraverso una ricerca<br />

ininterrotta di precisazioni linguistiche, di registrazioni, di educazione<br />

dell’occhio. Si vedano gli infiniti taccuini di appunti: è lì che<br />

abbiamo l’occasione di ripercorrere a ritroso la storia di una com-<br />

G. Facciotto, Garda, s.d., olio su tavola, cm 45x50.<br />

93<br />

posizione o di un quadro, cogliendolo, per cosi dire, nel processo<br />

di crescita e di assestamento. I ritratti, per esempio: non c’è<br />

positura o angolazione loro che non sia stata percepita e depositata<br />

sul foglio, con la devozione di chi ritrova nella natura un<br />

modello inesauribile di indicazioni. Anch’egli perciò avrebbe potuto<br />

far propria la memorabile dichiarazione di De Pisis: “Basta<br />

saper ricevere le confidenze della natura”. Senonché poi quella<br />

inesauribilità, che veniva riconosciuta alle cose, era in lui stesso,<br />

nel paziente e sensibile occhio che le interpretava.<br />

Il percorso del suo lavoro dopo il 1938 è fatto di una trama di<br />

parole poetiche e di segni che si presentano in una successione<br />

sempre più affollata, costituendo una sorta di catena di illuminazioni<br />

particolari che vanno organizzandosi attorno ad un centro.<br />

Dall’appunto, all’abbozzo, al dipinto compiuto s’intravede un


fitto e denso coagularsi di emozioni, come se si trattasse di portare<br />

in emergenza un traliccio più consistente, un’architettura generale<br />

in cui ogni nota trova alla fine il suo posto definitivo. Ci si<br />

accorge proprio sfogliando i quaderni di appunti che anche i<br />

segni più elementari e apparentemente svagati rispondono al<br />

bisogno di sollecitare l’occhio di fronte alla vita, di prepararlo all’intuizione;<br />

si scopre anche la necessità di certe annotazioni<br />

scritte sul dorso del cartoni o in margine ai fogli: “Quando sono<br />

fuori a dipingere io perdo la nozione del tempo: le ore passano<br />

e si susseguono alle ore ed io non le sento - solo una vaga sensazione<br />

del mutare della luce“; oppure: “Giorno di grande temporale<br />

- si annegarono i pulcini e per salvarli ci vollero delle ore<br />

- c’è qui Bergonzoni con la Nene“, che pur nella provvisorietà<br />

della stesura verbale, denunciano in lui la costante ricerca del<br />

tono lirico.<br />

La matrice di fondo delle strutture compositive di Facciotto è facilmente<br />

rinvenibile, così come evidente risulta la elaborazione<br />

del filtro chiarista attraverso il quale sono stati ripresi i nessi primari<br />

della sintassi dell’impressionismo. L’armatura base delle figure<br />

e dei paesaggi è costruita con delle linee di forza che, lungi<br />

94<br />

dall’essere le autentiche quadrature fisse dello spazio intellettualmente<br />

misurabile, mutano continuamente e svariano nella<br />

dinamica del tempo e del provvisorio. Protagonista di questa<br />

nuova spazialità è l’ora intima dell’artista, il suo modo di incrociarsi<br />

con il momento prospettico, che subito si frantuma, dei fenomeni.<br />

Nei paesaggi questo metodo di organizzare la visione,<br />

pur restando costante, dà luogo ad articolazioni plurime e si<br />

esplicita in differenti telai inventivi. In un repertorio che appare<br />

subito vastissimo, si impongono tuttavia alcune soluzioni privilegiate.<br />

Tra le più frequenti v’è una sorta di traliccio a fasce orizzontali,<br />

interrotto da svariature asimmetriche sulle quali poggiano<br />

fughe di piani, scanditi secondo una metrica dosatissima (alcuni<br />

pochi confronti: Passaggio (Dosso), Coll. G. Venturini; Arcobaleno,<br />

Coll. G. Baratta; Pianura vista dalle colline castiglionesi,<br />

Coll. E. Faccioli). Talora l’accento, anziché battere sugli ordini orizzontali,<br />

viene spostato sulle diagonali o su una sorta di vettore<br />

centrale (cfr. Canale a Mazzorbo, Coll. E. Benedini; Fornace a<br />

Goito, Coll. A. Genovesi) al fine di fissare un’emozione speciale<br />

di tono o di atmosfera. Tutto questo senza che la mano appesantisca<br />

il timbro delle notazioni, col pericolo di metterne in evi-<br />

G. Facciotto<br />

Natura morta con lucerna, 1939<br />

olio su cartone, cm 35x46.


G. Facciotto, Paesaggio con albero centrale, 1944, olio su cartone, cm 33,5x47,5.<br />

G. Facciotto, Quattro zucche su fondo rosa, s.d., olio su cartone, cm 35,5x59.<br />

95


96<br />

G. Facciotto, Paesaggio fluviale, s.d., olio su tavola, cm 26x33.<br />

G. Facciotto, Natura morta in rosso, s.d.<br />

olio su cartone, cm 51,5x42.


denza lo schema sotterraneo, esaurendone le capacità rappresentative.<br />

Anche la parola singola viene subordinata alle necessità<br />

allusive del discorso generale: essa è piegata sempre alla<br />

funzione di alludere, spogliata delle connotazioni descrittive, ridotta<br />

a tono di una più vasta atmosfera. Da qui anche l’uso di<br />

poche materie, il carboncino, la matita o il pastello, che parrebbe<br />

essere il segno di una programmatica umiltà e viceversa si<br />

spiega all’interno di una rigorosa grammatica dell’espressione.<br />

Altre volte la visione si concentra in una zona dominante per digradare<br />

e smorzarsi in quelle periferiche; ma qui, come altrove,<br />

la preoccupazione costante è quella di creare un ritmo, una successione<br />

di accenti. La ‘naturalezza’, che ci sembra la qualità primaria<br />

di Facciotto, non esclude però che egli esercitasse sugli argomenti<br />

del suo interesse una energia, una curiosità che diventa<br />

in certi casi persino aggressiva. Vogliamo dire che c’è nei suoi<br />

ritratti una violenza di scavo rappresentativo, quale neppure si<br />

sospettava. In Testa di G. Di Capi o in Ritratto di Sarzi, per esempio,<br />

l’artista, pur aderendo ad una contenuta misura compositiva,<br />

si è servito della forma come di uno strumento di umanissima<br />

penetrazione e di verità. Anche da questo lato si giustifica la ricorrenza<br />

ad alcuni tòpoi costanti, la ostinata fedeltà alle persone<br />

e ai luoghi della sua provincia. Qui, come s’è detto, l’origine<br />

morale della sua pittura. (2)<br />

1. Le notizie sono tratte dal catalogo MOSTRA DEI «CHIARISTI », Mantova, 1968,<br />

p. 65, dallo spoglio delle lettere autografe e da testimonianze orali dei familiari.<br />

2. Di Bignotti Facciotto prefazionò la mostra postuma con queste parole: “Su Umberto<br />

Bignotti, umano e discreto pittore di figure ed unico pittore-poeta del grigio<br />

paesaggio castiglionese, molto vi sarebbe da dire se l’indole di questo scritto<br />

lo permettesse. Io spero di poterlo fare in altra occasione o, meglio, spero lo<br />

possano fare altri più competenti di me. Sarà un po’ di giustizia resa a questo pittore<br />

a torto dimenticato e tutt’ora sconosciuto al suo stesso paese, ecc”.<br />

3. Della sua attività di miniaturista, abbandonata prima del ’30, il pittore non<br />

amò mai parlare; lasciò soltanto l’elenco dei committenti in un appunto senza<br />

data (A,65), che qui trascriviamo a titolo informativo: “Mons. Giovanni De Sangro<br />

dei Duchi di Casacalenda, Gran Priore dell’Ordine Costantiniano; S.A.R. Don<br />

Alfonso di Borbone conte di Caserta, Gran Maestro dell’Ordine Costantiniano; Nobile<br />

Comm. Carlo Ferriani; Nobile Cav. <strong>Francesco</strong> Codeglia S.E. Card. Gamba, Arcivescovo<br />

di Torino; S.E. Mons. Paolo Origo, Vescovo di Mantova; S.E. Ernesto Reale,<br />

Prefetto di Mantova; Cav. Comm. Gaudenzio Carlotti (Cavriana) Prof. Comm. Giuseppe<br />

Santangelo (Palermo); M. Rev. Suor Antonietta Gaslini, Superiora Suore<br />

Maria Bambina; S.E. Silvio Longhi (Roma)”.<br />

4. Il modo assolutamente antiburocratico con cui F. assolveva il proprio ufficio è<br />

confermato, oltre che dalle testimonianze di coloro che l’ebbero vicino, dal seguente<br />

appunto: “Ho avuto pietà della sventura dei malati, mi sono sentito loro<br />

fratello e protettore. Mi sono parsi buoni, docili, sottomessi, ormai non partecipanti<br />

più a quell’umano consorzio ove ognuno si mangia l’altro, e mi sono me-<br />

97<br />

ravigliato che i medici vedano solo in essi il “caso” da studiare. Ah, la scienza!”<br />

(A,62).<br />

5. Ricordiamo tra i tanti, che lo frequentarono assiduamente, A. Bergonzoni, F. Ruberti,<br />

G. Perina, G. Di Capi, G. Lucchini, A. Cavicchini, A. Dal Prato. Fu con alcuni di<br />

questi pittori che nel ’45, pochi mesi prima della malattia, F. creò una galleria d’arte<br />

denominata Alle Concole, sita in Via G. Arrivabene. L’amicizia con Ezio Mutti e<br />

con Oreste Marini risale invece agli anni castiglionesi: in un appunto del ’45 infatti<br />

il pittore annota di conservare fra le cose di scuola anche un “solido di gesso costruito<br />

con Mutti”; della corrispondenza col secondo restano alcune lettere, fra le<br />

quali una del 7 ottobre 1938 in cui O. Marini lo invita a Castiglione: “Sabato ti abbiamo<br />

aspettato; ti aspetto domenica, sempre ché la tua salute sia buona e soverchie<br />

preoccupazioni non ti aflliggano. Se vuoi porta Perina, purché spoglio di<br />

armi e bagagli. Probabilmente ci sarà Del Bon. Vedremo!”. La conoscenza di Del<br />

Bon, quindi, non è avvenuta col tramite del solo Vellani Marchi (come si ricava<br />

dalla biografia del Catalogo della Mostra dei Chiaristi, p. 65) ma anche grazie alle<br />

relazioni degli amici mantovani.<br />

6. Un accenno alla malattia e alle difficoltà di ripresa del lavoro è contenuto in<br />

questo stralcio di corrispondenza del 1938: “I lavori inviati sono stati scelti, uno<br />

per anno, nella mia produzione che non ha potuto, distratta dalla lotta per il<br />

pane, essere numerosa. Scarsa negli anni passati, si è ridotta ancor più in quest’ultimo<br />

a causa di una malattia che mi ha colpito sulla fine del ’37, e dalla quale<br />

non mi sono ancora rimesso e che fu seguita da altre sventure familiari” (A,44).<br />

7. La mostra, inaugurata il 23 gennaio, fu voluta soprattutto dai suoi estimatori<br />

milanesi della Galleria L’Annunciata, il mercante Bruno Grossetti e lo scrittore Alfonso<br />

Gatto (del quale riportiamo in appendice la lettera del 14-1-’43 e la nota<br />

critica).<br />

8. A Rovereto vennero esposti oli composti dal ’34 al ’43, di soggetto vario, come<br />

gli era stato richiesto da E. Gaifas, proprietario della Cortina. La prefazione al catalogo<br />

venne redatta da L. Borgese.<br />

9. Ci sono in proposito due biglietti inviati al pittore G. Lucchini, il primo del 5 novembre<br />

1944, il secondo del 13 dello stesso mese: “Approfitto del Signor Bertolini,<br />

mio compagno di stanza e che esce oggi dall’ospedale, per darti notizia che<br />

ora comincio a star benino. Era tempo dopo più di 90 giorni, no? La debolezza è<br />

sempre grande però e ci vorranno mesi per rimettermi. E la pittura? È un secolo,<br />

mi sembra, che non vedo pennelli e colori; non vedo l’ora di fare qualcosa. Tu<br />

lavori? Dammi notizia se vuoi e, se puoi, vieni a trovarmi a casa. Mi daranno,<br />

spero, un po’, anzi molta convalescenza” – “ ... Da tempo ho perduto un poco i<br />

contatti con gli amici. Questi eventi incalzanti ci fanno dimenticare gli affetti e le<br />

cose più belle e ideali della nostra vita. Si deve pensare al mangiare, al vestire,<br />

a salvare la pelle. Dove si andrà a finire? Speriamo in bene”.<br />

10. Ecco, sul padre, questa annotazione del 9 giugno 1944: “Verso i primi di giugno<br />

mio padre cominciò a deperire. Anche lo scorso anno aveva avuto una faccenda<br />

simile. Ma quest’anno un gran colpo l’ha avuto per la morte di mia<br />

mamma. Egli nei primi giorni non si sapeva dar pace e continuava a girare per<br />

le stanze chiamandola, ma sembrava che, avesse ancora una certa forza fisica.<br />

Ora questa pare lo abbia abbandonato. Io faccio di tutto per sviargli il pensiero<br />

della mia mamma che non c’è più, lo faccio discorrere, gli faccio raccontare la<br />

sua vita. Ma egli fa una grande confusione”(A,51).<br />

(1) Scritto contenuto in “Il Portico - quaderno 1” in occasione della mostra<br />

“Facciotto mostra retrospettiva” tenutasi presso la Pro loco a Rivalta<br />

sul Mincio (Mn) dal 20 al 30 settembre 1969.<br />

(2) Questa parte del testo è una rielaborazione del testo “Disegni di Giuseppe<br />

Facciotto” scritto per la mostra tenutasi presso la Galleria<br />

“G. Greco”, Mantova, febbraio 1968 e pubblicato a pag. 42.


La retrospettiva di Facciotto (1)<br />

La rassegna del pittore G. Facciotto aperta sabato scorso a Rivalta,<br />

va riscotendo in questi giorni il consenso del pubblico e degli<br />

estimatori più attenti dell’artista. La retrospettiva che, in ordine<br />

di tempo, si colloca dopo la mostra ordinata nel 1959 al Palazzo<br />

Aldegatti, l’esposizione dei disegni alla Galleria Greco (febbraio<br />

’68) e la collettiva dei quattro Chiaristi mantovani del settembrenovembre<br />

1968 (Mantova-Castiglione delle Siviere), raccoglie<br />

circa trecento opere, nel complesso più della metà della produzione<br />

di Facciotto, e documenta in modo sufficientemente mi-<br />

G. Facciotto, Paesaggio Valenti, s.d., olio su cartone, cm 50x62.<br />

98<br />

nuzioso il cammino dell’artista dal 1934 al 1945. Una piccola sezione<br />

è stata dedicata anche ai dipinti e ai disegni superstiti<br />

degli anni della formazione, fra i quali occupano un posto di notevole<br />

rilievo un Paesaggio con cipresso del ’26 e due Vedute di<br />

Belfiore del 1930, precorrenti per alcuni aspetti le scelte stilistiche<br />

delle prove maggiori.<br />

Il materiale raccolto permette una prima e forse non provvisoria<br />

periodizzazione del lavoro in un decennio, con l’individuazione di<br />

tre momenti capitali: 1934-38, 1938-42, 1943-45. Gli oli del<br />

primo periodo, chiusosi press’a poco all’epoca dell’incontro con<br />

Del Bon e Lilloni, presentano gli esiti di una indagine svolta so-


G. Facciotto, Natura morta, s.d., olio su cartone, cm 60x50.<br />

99


G. Facciotto, Natura morta, s.d., olio su cartone, cm 34x43.<br />

prattutto sul terreno del postimpressionismo e attenta ai valori<br />

compositivi (si vedano, per esempio, i ritratti dei genitori) che richiamano,<br />

più per sintonia e per affinità di modi operativi che<br />

per effettiva dipendenza, le esperienze di altri lombardi ed emiliani<br />

maggiori. L’esame di dipinti come Uomo che mangia<br />

(1934), Nudo disteso col gatto (1935 c.), Pagliai in Toscana<br />

(1936 c.), Ragazza su fondo rosa (1935) e Quattro zucchine sul<br />

tappeto (1938 c.) fa pensare alle modalità formali di un Moran-<br />

G. Facciotto, Campo di grano, s.d., pastello, cm 19x24.<br />

100<br />

di e di un De Pisis, anche se poi si avverte che l’ascendenza morandiana<br />

o depisisiana è cosa tutt’altro che irriflessa e acritica. In<br />

concreto l’operazione di Facciotto si colloca entro certi parametri<br />

del gusto, senza mai concedere nulla a ciò che non rientra in una<br />

sua specifica dimensione, sicché il riferimento ai maestri rischia<br />

di diventare nel suo caso affatto superficiale ed equivoco.<br />

A partire dall’estate del 1938 e dalla frequentazione degli artisti<br />

operanti a Milano e a Venezia (Semeghini è ormai un referente<br />

d’obbligo, anche se ancora una volta da assumersi con cautela a<br />

livello di lettura del lavoro di Facciotto), si assiste all’approfondimento<br />

della ricerca precedente e ad una singolare operazione di<br />

aggiustamento dei filtri chiaristi ai fini di una visualità che intendeva<br />

“abbracciare in un sol colpo la scena”, fondendo insieme,<br />

come ebbe ad esprimersi l’autore in un appunto, “costruzione,<br />

colore e plasticità”. Cadono in questo periodo le opere più persuasive<br />

composte dall’artista, quali le innumerevoli varianti di<br />

Canale a Mazzorbo e le Nature morte, dove si attua l’invenzione<br />

di uno spazio fatto di segni che interpretano e non riproducono<br />

il ‘naturale’ di tralicci a fasce orizzontali e diagonali, di valori<br />

metrici che rivelano, ma non esauriscono mai per via di appesantimenti<br />

descrittivi, una sotterranea struttura architettonica.<br />

Fra il 1943 e il ’45, anno della morte del pittore, si colloca infine<br />

l’esperienza più tormentata. Se si fa eccezione per risultati come<br />

Tramonto a Mazzorbo (1943), Arcobaleno (1944), Pianura<br />

(1944), Nevicata (1945) ed altri pochi oli, l’attività di Facciotto si<br />

espresse soprattutto nel ripensamento e nella progettazione,<br />

ricca senza dubbio di aperture nuove, ma anche incerta e talora<br />

contraddittoria. Gli evidenti recuperi di motivi precedenti, se testimoniano<br />

per un verso la costante fedeltà del pittore al proprio<br />

universo visivo, per un altro fanno anche presentire svolgimenti<br />

ulteriori verso una rappresentazione più materiata di colore e<br />

forse più libera.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova il 25 settembre 1969.


Incontentabilità costante e ricerca nella pittura di Scaravelli<br />

Giordano Scaravelli (1)<br />

La pittura di Scaravelli dà subito l’impressione di una avventura<br />

consumata in modi risentiti e personali, in una condizione di solitudine<br />

e quasi di fastidio nei confronti delle esperienze dei conterranei,<br />

direi di incontentabilità costante e di ricerca. Sue e del<br />

tutto speciali le scelte stilistiche, gli accostamenti ai modelli, la<br />

maniera di recepire e di mettere a fuoco le suggestioni provenienti<br />

da altre aree culturali, nonostante i contatti sotterranei con<br />

la tradizione mantovana della pittura di paesaggio.<br />

Questa singolare posizione di conflitto e insieme di sintonia con<br />

il clima locale si spiega probabilmente con certe inflessioni romantiche<br />

del temperamento e ancor più con le origini artistiche<br />

del pittore, così ricco da un lato di esperienze interne e dirette,<br />

G. Scaravelli, Non ritorna più, 1946, olio su tela, cm 101,5x139.<br />

101<br />

e poco incline d’altro canto ad accogliere le lezioni suggerite<br />

dalle avanguardie più aggressive. Formatosi infatti in un’epoca<br />

nella quale, almeno da noi, avevano tanto peso i programmi<br />

contro la provincia e gli appelli all’ordine francese, Scaravelli preferì<br />

orientarsi verso modi visivi già filtrati: non verso il postimpressionismo<br />

europeo in generale e verso Cezanne, per esempio,<br />

ma verso il neotonalismo lombardo e veneto, il lirismo o il<br />

plasticismo di autori italiani. L’informazione è posta comunque a<br />

servizio delle necessità espressive: la molteplicità delle prove di<br />

studio, degli appunti, dei progetti, dei tentativi (che hanno fatto<br />

parlare spesso di spericolata ricerca e di appropriazione di elementi<br />

grammaticali del cubismo e dell’espressionismo), in realtà<br />

non si proietta mai in direzione plurime di invenzione a livello<br />

di esercizio compiuto; interviene sempre una operazione selettiva,<br />

di riduzione ed essenzializzazione, come se l’artista pro-


G. Scaravelli, Ponte, 1969, tecnica mista su masonite, cm 110x78.<br />

vasse il bisogno di cimentarsi con molti avversari e nello stesso<br />

tempo sbarrasse loro l’accesso alla sua più vera dimensione.<br />

Se si bada infatti alla sostanza del discorso di un ventennio e si<br />

prendono in esame gli esiti veramente significanti (non tutti i lavori<br />

indiscriminatamente), si constata una relativa unicità di motivi<br />

e di forme, una linea interna di sviluppo senza strappi. In<br />

certo modo si può dire che la coscienza critica, che è anche volontà<br />

riduttiva e severità, si è venuta precisando e chiarendo nel<br />

succedersi del tempo e attraverso la fatica dell’esecuzione; non<br />

v’è mai una partenza programmatica, una formula da inseguire,<br />

almeno nello Scaravelli che ci interessa; manca addirittura una<br />

teoria della figurazione preesistente alla formatività, tanto che si<br />

sarebbe tentati di far ricorso alle nozioni di istinto e di intuizione,<br />

se non sapessimo quanto provvisorie ed inutili riescono alla<br />

fine tali attitudini di lettura. Si tratta piuttosto di una espressione<br />

che si manifesta insieme con la sua consapevolezza, sorretta da<br />

102<br />

una poetica che si rende esplicita nel farsi dell’elemento visivo.<br />

Proprio qui, nella speciale congiunzione fra curiosità sperimentale<br />

e interne ragioni operative, ci sembra formulabile un discorso<br />

di periodizzazione, poiché soltanto tenendo ben ferma la<br />

distinzione fra ciò che appartiene al repertorio delle letture e ciò<br />

che invece si individua come linguaggio compiuto, acquista significato<br />

la indicazione di tappe e di momenti.<br />

Del resto è lo stesso Scaravelli ad esigere oggi una simile impostazione,<br />

giudicando per conto suo senza riserve le proprie cose<br />

e disponendosi ad offrire al pubblico un materiale inequivocabile<br />

e fortemente compatto. Da qui discendono le ragioni delle rassegna,<br />

di sabato prossimo, che non raccoglie tanto il meglio<br />

quanto le ‘costanti’ del suo lavoro dal 1948 al 1969.<br />

Se si considera poi il procedimento compositivo seguito dall’artista,<br />

il tempo intimo della ideazione formale, si scopre che non è<br />

mai una emozione incontrollata, un dato della pura sensibilità, a<br />

nutrire l’immagine. Anche qui è richiesto un atto di laboratorio<br />

perché l’occasione offerta dalla realtà diventi un pretesto necessario<br />

all’evento pittorico: i suggerimenti provenienti dai fenomeni,<br />

trascritti sulla carta in un primo momento disegnativo, vengono<br />

lasciati depositare nella memoria per essere in seguito ripresi<br />

e completamente reinventati. Così, oltre che prodursi una<br />

spogliazione delle percezioni grezze, le emozioni sono sottoposte<br />

al controllo e al confronto con le materie della rappresentazione,<br />

costrette cioè a manifestarsi nel segno. Ecco perché le<br />

“cose fatte sul posto” sono per lo più disegni e appunti mentre<br />

il dipinto è un prodotto di raccoglimento, qualcosa di fisicamente<br />

nato nello studio.<br />

L’autenticità di questo metodo non discende naturalmente da motivi<br />

pratico-tecnici o da ragioni di puro mestiere. Se così fosse, cadrebbe<br />

ogni interesse. Esso si connette piuttosto alle esigenze della<br />

forma e alla natura della invenzione del pittore. Le immagini in lui<br />

si creano in una zona di confine fra la pura percezione e una dimensione<br />

che abbiamo tentato di definire come memoriale: lì perdono<br />

le connotazioni di carattere quotidiano, si dispongono in blocco,<br />

e da descrittive e simboliche si rendono autosignificanti.<br />

Scaravelli deve ritrovare sempre un difficile equilibrio tra natura<br />

e segno, evitando le suggestioni dell’una e dell’altro che lo porterebbero<br />

inevitabilmente a sacrificare all’elemento illusionistico<br />

o al fantastico una parte importante della sua pittura. Trovando-


si a riprodurre immediatamente l’emozione naturalistica, dovrà sottoporla a una<br />

spogliazione in termini di grafia e di volumi; riprendendo viceversa una registrazione,<br />

sentirà più urgenti i problemi di fedeltà al reale. Da questa duplice angolazione<br />

di lavoro dipendono, ci sembra, le articolazioni diverse della definizione<br />

formale, le particolari modalità di scrittura. Si confrontino per esempio i due paesaggi<br />

di Solferino dipinti nel 1961, l’uno tutto costruito per accumulo di riquadri<br />

di colore e così architettonicamente robusto, l’altro risolto su un piano di lirismo<br />

evocativo, dotato di profondità mentali e di trasparenze.<br />

Qual è infine il senso dell’esperienza di Scaravelli, la sua linea di coerenza? A noi<br />

pare di ritrovarla nell’interesse primario per i motivi della costruzione e del dar<br />

G. Scaravelli, Strada a Volta Mantovana, 1941, olio su tavola, cm 45x35.<br />

103<br />

struttura all’immagine. Già in quadri come<br />

Paesaggio a Catena, La Salute, Natura Morta<br />

(1948), Crepuscolo a Porto Catena, Barconi<br />

(1951), emergono motivi compositivi all’interno<br />

di una atmosfericità d’estrazione tonale o<br />

chiarista: c’è un costruire per toni, zone e<br />

scomparti di colore che sono al di là del naturalismo.<br />

Si suggeriscono certo rinvii a modi precedenti<br />

ma molto speciali: il Sironi dei paesaggi<br />

urbani e, in ambito locale, certe inflessioni<br />

delle immagini compositive di Cavicchini disegnatore.<br />

Tale tendenza si sviluppa poi in modi<br />

serrati, come mostrano Inverno al porto del ’49<br />

e Natura morta con pere del ’59, dove il colore<br />

viene impiegato nella sua densità materica,<br />

al fine di creare degli effetti plastici, dei pesi e<br />

dei valori volumetrici.<br />

Si verificano certo ancora degli episodi isolati di<br />

gusto tonale, ma nel complesso le opere dopo<br />

il Sessanta insistono su questa direttrice e sviluppano<br />

un ampio discorso sintattico in chiave<br />

dichiaratamente costruttiva.<br />

Nel passaggio dal colore-tono al colore-volume<br />

si riassume dunque, oltre la provvisoria caratterizzazione<br />

sperimentale, la proposta essenziale<br />

del pittore.<br />

1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del<br />

20 novembre 1969.


L’evento descritto<br />

Carlo Poltronieri (1)<br />

Queste immagini si avvalgono ancora di un sussidio indispensabile: la geometria<br />

proiettiva. Poltronieri, nel momento in cui tenta di suscitare l’attenzione dello spettatore<br />

sul piano della ‘purezza’ percettiva, non si pone il problema di una grammatica<br />

rivoluzionaria. Gli bastano - almeno per ora - le convenzioni descrittive dell’uso<br />

comune, anzi le maniere più semplici di prendere possesso, un possesso tutto mentale,<br />

dello spazio. Da qui il sospetto che egli si muova su un terreno abbastanza<br />

noto, ‘conservativo’, o quanto meno trovi molta difficoltà nell’uscire dalla predicazione<br />

massiccia delle poetiche à la page. Sta a vedere poi se l’intenzionamento cui<br />

sottopone simili procedure tecnico-progettistiche non sia sufficiente ad assicurargli<br />

un minimo di libertà, dando luogo a qualcosa di effettivamente più avanzato di<br />

quanto gli strumenti facciano pensare. Il repertorio stilistico impiegato si qualifica in<br />

104<br />

C. Poltronieri, Attivo immobile, 1969.


due modi: a) innanzitutto è costruito con degli utensili dichiarativi,<br />

semplici e nel medesimo tempo artificiosi. La prospettiva,<br />

ad esempio, è adottata come pura convenzione: non è una<br />

forma simbolica né una struttura portante della visione. Poltronieri<br />

vi ricorre semplicemente perché si presta meglio di altri<br />

schemi indicativi a presentare i temi che lo interessano, nello<br />

stesso modo di un progettista che vuol rendere leggibili le sue<br />

idee; b) inoltre l’uso degli sfumati e della luminosità, la delimitazione<br />

stereometrica degli oggetti, la stesura elementare degli<br />

acrilici svolgono una funzione di abbassamento, si pronunciano<br />

costantemente come banalità.<br />

Un primo stacco si opera intanto sugli argomenti. Anziché oggetti<br />

e manufatti, Poltronieri presenta qualcosa che è abbastanza<br />

improbabile poter imprigionare entro un circuito di segnali indicatori,<br />

vale a dire delle energie e delle azioni. C’è però una alternativa:<br />

o i segni diventano essi stessi energia, incarnandosi in<br />

valori di tensione e caricandosi di fisicità, oppure si torna ancora<br />

una volta ad attribuire ai segni una funzione allusiva, eludendo<br />

di fatto il proposito di creare un evento pittorico in senso stretto.<br />

In altre parole: se l’azione è autentica, deve prodursi una coincidenza<br />

fra figure espressive ed argomento; se il tema è invece<br />

assunto come pretesto per qualcosa di diverso, risulta sì legittimo<br />

servirsi dell’inautenticità come spunto, ma non ha più alcun<br />

senso parlare di evento. I segnali deposti sulla tela ‘sembrano<br />

dirci’ una realtà oggettiva, senza che di fatto sia possibile arrivare<br />

ad alcun riconoscimento. Il percepito non produce sensazioni<br />

comuni, modificazioni familiari della coscienza: gli oggetti presunti<br />

che ci stanno di fronte sono completamente disincarnati.<br />

Da un lato infatti mancano di un corpo, poiché tutta la loro presenza<br />

si riduce a semplice schema di un corpo, dall’altro non<br />

muovono né sentimenti né la memoria. Sono soltanto dei<br />

‘campi’ dipinti, delle superfici che hanno accolto delle parole: più<br />

precisamente si presentano come degli accostamenti binari di<br />

zone che forse sono state o potranno essere dei teatri di un’azione,<br />

ma dove in realtà non è visibile alcuna azione.<br />

Per un verso è indubbia la positività dell’operazione: l’occhio<br />

viene distolto dai percorsi normali, poiché si vuole che esso riacquisti<br />

verginità. Chi osserva non ricorda, quindi non associa al<br />

percepito nessuna sensazione già provata: in lui si produce una<br />

sensazione ‘pura’ da contaminazioni memoriali, tanto più valida<br />

105<br />

quanto più inedita. In tal senso l’immagine svolge un preliminare<br />

compito didattico, un incanalamento insolito della ricezione, e<br />

nello sforzo di determinare una spogliazione totale, affronta<br />

anche il rischio di congelarsi per asfissia.<br />

Lo strangolamento dell’immagine avviene infatti sia in termini di<br />

tempo che di spazio. Poltronieri, proprio per puntare sull’efficacia<br />

del canale, si sforza di concentrare la percezione sul momento<br />

‘pregnante’ di un evento, arrestando una azione (ipotetica)<br />

nell’attimo a suo vedere più significativo: ci documenta, per<br />

esempio, sulla frizione di due campi o registra l’espulsione di<br />

energia da una massa (Gettati attirati come gettati, Attivo immobile).<br />

Toglie spazio e tempo, nella convinzione che la radiografia<br />

sia ancora uno strumento di conoscenza totalizzante.<br />

È qui che si pone, a nostro parere, una contraddizione difficile da<br />

sanare. L’artificio esercita una lezione correttoria, educa, ma produce<br />

raramente una realtà. Non si fa azione; si descrive un’ipotesi.<br />

Le proposte di oggi potrebbero tuttavia preludere ad una<br />

scoperta assai importante, cioè alla conquista del laboratorio<br />

come ambito di lavoro naturale.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Carlo Poltronieri. L’evento descritto”,<br />

Libreria Galleria d’Arte “G. Greco” in via Principe Amedeo 26/a,<br />

Mantova, 31 dicembre-15 gennaio 1970. Testo pubblicato nel foglio di<br />

presentazione della mostra.


1970<br />

Da Semanticità contraddetta<br />

a Renzo Schirolli<br />

Semanticità contraddetta<br />

Pensieri per un ambiente<br />

Renzo Schirolli


Semanticità contraddetta (1)<br />

L’interpellanza sull’azione si è fatta oggi generale. Ha contribuito<br />

in misura piuttosto rilevante alla rottura dei fronti delle arti e<br />

degli specifici professionali, dissolvendo gli statuti dei differenti<br />

territori operativi e favorendo l’ingresso nell’area estetica di una<br />

sorta di dimensione totale e continua, dove saltano i rapporti fra<br />

i generi nonché quelli fra arte e vita. Si sceglie il “direttamente<br />

vissuto, non più il rappresentato”e si dilata la sfera del sensibile.<br />

Un completo rimescolamento di carte, una pluristratificazione,<br />

anzi una simultaneità di livelli, di piani, di linguaggi. Ma la medesima<br />

interpellanza ha legittimato una tendenza opposta: una<br />

108<br />

ricerca del protocollo primario del mestiere, nel senso della essenzializzazione<br />

e della riduzione fino all’unum fondamentale<br />

delle modalità dei generi. Il gesto, il corpo, l’immagine, eccetera,<br />

risultano spogliati e contemporaneamente caricati di capacità<br />

comunicative globali: ‘fanno’ e ‘dicono’ il mondo. In questa<br />

seconda direzione i compiti si ripartiscono e l’istanza dell’azione<br />

intende essere osservata in una misura interna, vale a dire secondo<br />

regole strutturali di un codice linguistico unico. Autogestione,<br />

autofondazione e produzione di senso vengono deputate<br />

alla sola immagine, in quanto generativa di realtà e di forme.<br />

Il gesto, il corpo, ma anche l’immagine, sono provvisti di movimento,<br />

producono e consumano energia, si proiettano nello spa-<br />

Giancarlo Ossola<br />

Fuga dal nucleo verso destra,<br />

1970, olio su tela<br />

cm 120x120.


zio e nel tempo, in quella dimensione cronotopica che appunto<br />

abitano. Lo spostamento della funzione del segno risulta a questo<br />

punto evidente; e forse più che di semplice spostamento, si<br />

tratta di un rovesciamento rispetto al compito che gli veniva tradizionalmente<br />

assegnato. Infatti, pur mantenendo intatto il proprio<br />

diritto alla significazione, indiretta nell’area ‘riproduttiva’, il<br />

segno non porta più alla, ma è la realtà: non interpreta, rispecchia,<br />

filtra i fenomeni, ma li realizza esso stesso; perde sì il privilegio<br />

di produrre una finzione direzionata dall’esistenza, ma<br />

pretende in compenso di compiere un atto generativo di inseminazione.<br />

Si scarica perciò di intenzioni illudenti e persuasorie,<br />

proprio predicando nient’altro che se stesso e il proprio gioco.<br />

Attilio Forgioli<br />

Paesaggio, 1969, olio su tela.<br />

109<br />

Perché ciò avvenga, appare indispensabile la connotazione del<br />

movimento, di una crescita del segno su se stesso, altrimenti rimarrà<br />

fatalmente un’entità passiva, ‘portatrice’ d’altro e caricata<br />

dall’esterno di valori non suoi. Ed indispensabile appare anche un<br />

ruolo nuovo dell’artista, nel senso che questi non dovrà depositare<br />

nel tessuto del segno la propria soggettività, ma farsi piuttosto<br />

uno scopritore dell’energia di quello e rispettarne le richieste<br />

organiche. “L’Io arbitro (che abitualmente è arbitro e guida<br />

del gioco delle idee, che decide e che ordina) è ora senza forza:<br />

sono le idee, le immagini, gli impulsi che comandano, che dispongono<br />

di lui, che lo modificano e proprio nell’attimo del loro<br />

(a volte fortuito) apparire. È esposto ad essi”. L’indicazione di Mi-


chaux, pur appartenendo alla speciale esperienza della stimolazione<br />

mescalinica, depone in maniera autorevole sulle facoltà<br />

organizzatrici delle immagini e sulla attrazione magnetica che<br />

esse esercitano nei confronti degli operatori. L’animismo e il<br />

movimento delle forme, per essere scoperti, esigono in ogni<br />

caso uno stato di esposizione particolare, una sparizione di presenza<br />

che vuol dire disponibilità ai dettati dell’immagine. A questa<br />

richiesta sembra venire incontro l’immaginazione orientata<br />

sul terreno della formatività, appunto perché rende possibile una<br />

conciliazione di opposti, di un massimo cioè di rigore geometrico<br />

e di un alto grado di donazione emotiva. In certo modo la<br />

forma vuole degli iniziati che sappiano indagarla e metterla in<br />

situazione. E non è un caso che gli artisti postisi, in anni passati<br />

o nel presente, entro simili confini, abbiano tenuto a sottolineare<br />

questa compresenza di ‘diversi’, sostenendo la irrinunciabilità<br />

alla fondazione della grammatica del segno, o se si vuole, degli<br />

elementi primari della figurazione; e che, in secondo luogo, si<br />

siano a lungo soffermati sul rapporto del pittore con la realtà, indicando<br />

nella nozione di “analogia organica” l’elemento qualificante<br />

del loro modo di promuovere tale connessione. A ciò si appellava<br />

il “sapere organico” di Hartung allorché il pittore scopri-<br />

Gustavo Bonora, Isola rossa, 1969, olio su tela, cm 110x110.<br />

110<br />

va nella forza, nel rigore o nella rapidità dei tratti dei suoi quadri<br />

la “traccia” delle cose reali. Ed in maniera non dissimile aveva<br />

impostato anche Kandinsky il tema della morfologia del segno,<br />

nelle sue riflessioni sulla linea, ritenendo che la differenza fra la<br />

natura e l’arte non consistesse nelle leggi fondamentali, ma nel<br />

materiale che obbedisce a queste leggi: sicché la pittura, pur non<br />

poggiando più “sull’involucro esterno dei fenomeni naturali”,<br />

mostrava di appartenere in un più alto ordine sintetico alla struttura<br />

animata e all’ordine compositivo delle cose. In virtù di tale<br />

principio, l’isomorfismo, l’immagine pittorica in quanto depositaria<br />

di funzioni vitali, si vede restituita un doppio registro di significazioni,<br />

un’iconicità per così dire ambigua e sfumata, in<br />

forza della quale ‘allude’ all’esterno senza rappresentarlo, anzi<br />

autosignificandosi con la maggior energia possibile. Del resto,<br />

come suona un altro famoso teorema, risulta molto difficile distinguere<br />

fino a che punto si spezzino i fili di contatto di un’opera<br />

con l’immagine originaria, dove si dissolvano i valori polivalenti<br />

della metafora e si imponga la dichiarazione a viso aperto,<br />

asimbolica. Tutta la credibilità dell’ipotesi poggia in ogni caso<br />

sulla qualità animata dell’icona, sul suo statuto organico. È dunque<br />

veramente una questione di mezzi e di materiali, o per me-<br />

Gustavo Bonora, Isola azzurra, 1969, olio su tela, cm 110x110.


glio dire di linguaggi considerati non tanto come degli in sé<br />

quanto nella loro ampiezza ed efficienza. In altre parole, gli elementi<br />

speciali (e specifici) della figurazione non si pongono<br />

come degli assoluti costituzionalmente già determinati ed indifferenti,<br />

simili ad entità primigenie radianti energia. Lo scatto<br />

verso l’animazione si ha invece nel momento in cui gli elementi<br />

materiali (un colore, una linea ecc.) entrano in concorrenza fra<br />

di loro. In sé presi tali strumenti, se non si vuole rischiare di cadere<br />

nell’orfismo delle forme, posseggono una pregnanza puramente<br />

quantitativa e sono descrivibili mediante il calcolo meccanico<br />

e matematico. Soltanto l’interazione degli elementi, per<br />

Luigi Capsoni, Icaro: caduta, 1969, olio su tela, cm 70x90.<br />

111<br />

via di accostamenti e di contrapposizioni, fa scaturire delle tensioni<br />

e, fecondando di sé il piano della tavola, lo delimita come<br />

campo di forze.<br />

Fin qui il richiamo alla teoria della formatività risulta trasparente,<br />

almeno per alcuni punti; meno agevole è il compito di trovare<br />

concordanze ulteriori fra le precedenti esperienze e l’attuale.<br />

La difficoltà deriva principalmente dalla distanza fra i loro spazi<br />

semantici. Pur restando inalterata la parola d’ordine di agir sur la<br />

toile, è vero infatti che alla significazione positiva (essenzialista<br />

e segnica) si contrappone ora una significazione ‘contraddetta’,<br />

una semanticità orientata nello stesso tempo verso l’interno e


verso l’esterno. Così che, stante il funzionamento in senso negativo-positivo,<br />

si è azzardata la formula di iconicità ambigua: l’immagine<br />

difatti offre una figura del mondano che subito dissolve<br />

nel montaggio tensionale della figura stessa. Si potrebbe anche<br />

dire che la carica mimetica del segno, il suo ‘residuo contenutistico’,<br />

viene assorbito e utilizzato nel gioco della struttura al fine<br />

di creare un corpo iconico che si dichiara in termini di percorso<br />

energetico, di crescita e di consumo. Perciò anche si mantengono<br />

le categorie dell’universo fisico (quelle della pesantezza e<br />

della leggerezza, della velocità e del rallentamento, della profondità<br />

e della superficie, della levitazione e della contrazione,<br />

della direzione e via dicendo), in modo tale da impegnare il lettore<br />

in un approccio orientativo: in questi quadri si troveranno<br />

sempre un alto e un basso, una destra e una sinistra, non importa<br />

se coincidenti o rovesciati rispetto al mondo esistenziale.<br />

Così anche si scopriranno le età e i tempi dei corpi: nascite, estinzioni,<br />

respiri, esplosioni, incinerazioni: dunque tutta una articolazione<br />

‘predicativa’ che ha l’immagine per soggetto: e qui sta la<br />

Attilio Forgioli, Isola, 1969, olio su tela, cm 100x90.<br />

112<br />

differenza capitale con la pittura riproduttiva degli eventi oggettivi,<br />

materica e mondana. Sarà però conveniente intendere questa<br />

fisicità come valore lontano e non immediato, parallelo ma<br />

non identico a quello della fisicità concreta. Apparentemente<br />

l’immagine funziona come se il suo piano di gestione fosse<br />

quello dei “fatti vitali-vegetali” (Barilli); in realtà l’indubbio organicismo<br />

delle immagini non è il risultato di una operazione di<br />

filtraggio, ma è il completamento dell’energia messa in campo.<br />

Né è da dire che il meccanismo della metafora agisca per creare<br />

e deludere una attesa. Se si concede che la gravità o il movimento,<br />

in quanto funzioni parallele, determinino delle zone di<br />

analogie vitali fra la sfera della pittura e quella dell’oggettività,<br />

ne consegue che i sensi emessi per accostamento si aprono all’esterno<br />

e sono in grado di suggerire delle similitudini con le<br />

quantità materiali senza confondersi con esse. Semplicemente vi<br />

ineriscono. L’uso del segno come metafora legittima da un lato<br />

il ricorso alla terminologia sensuosa attorno ai poli dell’atmosferico<br />

o del cosmico, del fluido o del contratto, dell’aperto o del<br />

Mario Raciti, Presenze-assenze 11, 1970, olio su tela, cm 60x50.


chiuso, ma la costituzionalità tensionale primaria del segno stesso<br />

non concede l’abbassamento di quella terminologia al grado<br />

zero dell’esistenziale.<br />

Dunque una significazione diretta: l’immagine dichiara se stessa;<br />

ed una traslata, secondaria, analogica verso ciò che è fuori. Gli<br />

eventi si registrano all’interno di una simile variata semanticità,<br />

secondo approssimazioni più o meno forti all’uno e all’altro polo<br />

nelle diverse declinazioni che l’immagine assume nelle opere.<br />

In Vago, per esempio, il rapporto tradizionale tra interpretazione<br />

codificata dell’universo e momento esistenziale è rovesciato.<br />

L’asse rappresentativo soggetto-oggetto tende a dissolversi a fa-<br />

Gianni Madella, Grande cupola, 1970, olio su tela, cm 150x180.<br />

113<br />

vore del secondo termine, privilegiando l’ingresso della realtà<br />

autre sulla tela della mondanità atmosferica. La luce, che ha offerto<br />

da sempre i termini delle metafore rappresentative più ardite,<br />

i modi di rendere concreto e presente l’invisibile, ne è il valore<br />

primario. In Vago tutto tende ad essere diretto, immediato,<br />

intelligibile. Non c’è al di là nelle sue pitture, sono esse quell’al<br />

di là. I “paesaggi-estasi”, le “diagonali”, gli “orizzonti” sono indicazioni<br />

non equivoche di epifanie, di accadimenti ottici mondani<br />

dilatati in climi cosmici.<br />

Gli elementi linguistici che concorrono a costituire lo spazio sono<br />

facilmente riconoscibili come prestiti dalle grammatiche essen-


zialiste del Novecento. Colori, timbri, grafie hanno il loro precedente<br />

inoppugnabile in certo astrattismo italiano, settentrionale,<br />

che alla geometria si rivolse come valore intuitivo e poetico. Ed<br />

in questa ripresa sta l’attacco forte di Vago alla linea lombarda<br />

della pittura. Di qui anche è venuto lo spunto per un discorso che<br />

è andato facendosi diverso, energicamente visionario. Così è avvenuto<br />

anche per i modelli da cui sono state ricavate tessiture<br />

espanse ed imponderabili e colori come onde luminose. Chi osserva<br />

è colto, in certo senso, da un doppio impulso, investito da<br />

due percezioni contraddittorie, una sensitiva, l’altra fortemente<br />

Luigi Capsoni, In transito sulla seconda quadratura, 1969, olio su carta intelata, cm 40x50.<br />

114<br />

mentale. Da un lato riconosce negli strumenti tonali qualcosa di<br />

familiare, sensazioni che sono proprie della vita fisica; dall’altra<br />

si sente invitato ad andare oltre: il clima di assolutezza in cui<br />

vive l’immagine lo persuade che le vibrazioni luminose valicano<br />

gli orizzonti comuni, sono precipitate in un universo assai più<br />

ampio e rarefatto, esplorabile da una vista interna più acuta. Il<br />

tonalismo è accolto e piegato a ‘fare’ un mondo che non è più<br />

quotidiano e naturalistico. L’avventura visuale, poggiando sugli<br />

avvii pretestuosi del fenomeno, lo rinnega poi come occasione e<br />

si consuma in una tensione intellettuale che offre nuovi ed ori-


Gianni Madella, Trono rosso 1b, 1968, olio e smalto su tela, cm 190x150.<br />

115


ginali motivi alla fantasia. Processo che va dalle cose alla sostanza,<br />

attraverso due registri di possibilità, o, per dir meglio,<br />

due gradi di una medesima scala. Il più elementare di questi<br />

modi consiste nel mantenere in vita il dato fenomenico, il traliccio<br />

(pure se ritagliato nei minimi termini) da cui viene a spiccarsi<br />

l’ascesa. La parvenza sensibile e terrestre conta poeticamente in<br />

quanto suggerisce una realtà che la sovrasta infinitamente e che<br />

pur vincendola in profondità, non la annienta. Si istituisce allora<br />

una tensione che si placa soltanto in un difficile equilibrio. A<br />

questo primo livello si danno molteplici modalità di impaginazione<br />

spaziale, dal tipo armonico e simmetrico a quello acentrico.<br />

Altre volte il campo spaziale assoluto domina senza incidenze<br />

di orizzonti: l’atmosfericità è ormai un ordine visuale ine-<br />

Fernando Picenni, Immagine (che emerge), 1970, vinilico - acrilico su tela. cm 80x100.<br />

116<br />

dito, lontanissimo dai referenti culturali e tecnici da cui era venuta<br />

la prima lezione (2) .<br />

Decisamente rivolto invece ai problemi della formatività risulta<br />

il lavoro di Olivieri, per il quale ci sembrano valere in modo particolare<br />

le osservazioni sulla apparente sensuosità delle significazioni.<br />

In lui l’argomento prediletto delle fluttuazioni dei piani<br />

dà origine ad una molteplicità e varietà di eventi, fatti emergere<br />

nei momenti critici della esplosione, ma più spesso negli ultimi<br />

quadri della accelerazione e della pulsazione dell’energia.<br />

Mentre nell’artista precedente prevale il tema dell’equilibrio, qui<br />

si impongono i motivi della motilità e della durata, come è stato<br />

recentemente osservato. C’è una ricerca dell’ubi consistam in un<br />

universo caratterizzato dal passaggio dei corpi, più che dalla loro


presenza materiale: e in tale scorporamento delle sostanze si<br />

definisce senza dubbio una profonda distanza dalle esplorazioni<br />

già esperite sul dinamismo spaziale. Senonché poi l’assenza di<br />

identità corporee, di personaggi stabili, si manifesta come un<br />

pieno, nel senso che si realizza una geografia di relazioni. I colori<br />

traccianti, le traiettorie, le radiazioni lineari non stanno ad indicare<br />

la consumazione di un evento, quasi che il quadro funzionasse<br />

come una lastra impressionabile. Non è un mondo morto<br />

quello di Olivieri, ma un campo vivo di energie: l’infittimento dei<br />

tracciati è una presenza di forza, non una traccia di quantità incrementate.<br />

L’ubi consistam è raggiunto nella manifestazione<br />

degli atti tensionali.<br />

Un notevole impegno rivela, in una sua particolare zona simbo-<br />

Sergio Sermidi, Pittura, 1970, olio su tela.<br />

117<br />

lica, Fernando Picenni nella movimentazione di una immagine<br />

intesa soprattutto come espressione ritmica del reale. Questioni<br />

di metrica riguardano la configurazione dei due topoi privilegiati<br />

della concentrazione e della dilatazione. Le campiture cromatiche<br />

si rapportano tra loro con sapienza di dosaggio, creano<br />

reciproche sottili relazioni, per via di accostamenti e di delicate<br />

suture. Una pluralità di aree si confronta al di là d’ogni prevaricazione<br />

e tumulto. Si spiega perciò l’importanza per il pittore del<br />

tema tecnico delle cesure, delle relazioni di equilibrio delle parti<br />

in uno spazio che tende a configurarsi, per il suo distacco dalla<br />

soggettività dell’operatore, in una sorta di regione metafisica.<br />

Il dare conformazione agli elementi della forma riguarda il lavoro<br />

di Sermidi, la cui pittura va puntando tutta sul colore inter-


Fernando Picenni, Spazio aperto, 1969, vinilico-acrilico su tela, cm 90x70.<br />

118


Valentino Vago, V 167, 1970, olio su tela, cm 90x70.<br />

119


pretato nella sua fisionomia segnica, in quanto capace di incarnarsi<br />

in aggruppamenti più vasti e complessi, in figure strutturalmente<br />

compiute. Non solo: anche lo spettatore è chiamato a<br />

gestire attivamente l’immagine in virtù delle sue capacità organizzatrici<br />

a livello percettivo e concettuale. L’operazione di fondo<br />

sta però nello sfruttamento delle capacità che ha il segno di configurarsi<br />

come linguaggio. L’unità di base è il tratto colore: facendolo<br />

agire lo si vuol costringere a porsi sulla via della autofondazione<br />

espressiva. Dai quadri emerge in genere un solo elemento:<br />

immediatamente una texture, una matassa di tracce sovrapposte<br />

di colore fatto sedimentare con intensità variabile. I<br />

contorni, svolgendo talora una funzione di secondo grado, commentano<br />

il campo di azione della massa. Il processo reale, la<br />

tensione della forma, avviene dentro l’elemento emergente. Di-<br />

Claudio Olivieri, Campo di accelerazioni, 1969, olio su tela, cm 200x300.<br />

120<br />

fatti l’occhio è subito chiamato a stabilire dei rapporti fra i luoghi<br />

differenti del groviglio, a coglierne le vibrazioni, dunque le energie<br />

che vi sono contenute. La forma rivela subito una sua intima<br />

compattezza e nello stesso tempo una mobilità che la rende<br />

varia, profonda e dilatata, per le indicazioni tensionali che la percorrono.<br />

La massa non è mai qualcosa di descritto, ma un corpo<br />

astante che descrive se stesso: se v’è immagine, è immagine<br />

autospecchiantesi.<br />

Come già nella pittura Sintesi di un’azione, nel quadro si cercano<br />

delle realtà potenziali e primarie con la differenza che la materia<br />

costitutiva è il linguaggio, non il gesto; e che la tela non è più<br />

l’arena dentro la quale il pittore opera in trance, come se si gettasse<br />

nel vuoto. Il colore ha perso contatto con la mano e non<br />

ne è il prolungamento fisico, poiché l’autore calcola di essere di


Mario Raciti, Presenze-assenze 12, 1970, olio su tela, cm 100x70.<br />

fronte ad una forma da trattare secondo una logica di insiemi e<br />

di gruppi (3) .<br />

Una variante oggi sperimentata ha preso origine da una sorta di<br />

spaccatura della massa e dal disprigionamento delle energie<br />

contenute: le direzioni tensionali anziché essere mantenute nel<br />

perimetro della superficie, cercano di sfuggire al soffocamento<br />

della struttura chiusa, deflagrano ed escono dal corpo in cui germinavano.<br />

Non si tratta propriamente neppure più di valori tensionali:<br />

sono forze che si liberano, cercano spazio e creano il proprio<br />

respiro. Ne risulta un tessuto imprevedibile di tracciati, fortemente<br />

allusivi, inseguibili soltanto nell’area della tela in cui<br />

sono fisicamente fatti nascere: impossibilitato a possederli, il pittore<br />

non può che inseguirli fino ai bordi della superficie.<br />

Altra è l’origine dei temi nella pittura di Madella. Alcune forme<br />

elementari vengono assunte, talora letteralmente strappate, da<br />

121<br />

contesti figurali lontani e fatte funzionare fuori dal loro proprio<br />

codice spaziale, attraverso un intervento che, per via di appesantimenti<br />

fisici e di aggiustamenti asimmetrici, le carica di<br />

energia di crescita. Non importa la novità della figura in sé,<br />

quanto la sua disponibilità energetica. Il trattamento della citazione<br />

avviene in un primo tempo come sollecitazione per asfissia:<br />

risucchiata fuori dal suo spazio, l’immagine, se vuol continuare<br />

a vivere, deve cominciare a gonfiarsi e a crearsi un’area di<br />

sopravvivenza. È per tale ragione che la sua superficie viene dotata<br />

di forte motilità, come se innumerevoli pulsazioni la sommuovessero<br />

all’interno, conferendole, per così dire, l’agitazione<br />

di un corpo pneumatico. Si consideri, per esempio, Trono n. 2 il<br />

cui modello iconografico è per altro agevolmente rintracciabile in<br />

certa tipologia medievale: le figure tradizionalmente eminenti<br />

della Vergine e dei Santi sono scomparse, lasciando quale unica<br />

traccia il tratteggio dell’asse portante sul quale poggiava la loro<br />

armatura figurale, mentre domina il grande corpo nero del trono,<br />

simile ad un segnale percorso da tensioni interne. Lo spazio è diventato<br />

un valore relativo, connesso alla presenza dell’immagine<br />

e non viceversa. In altre composizioni invece è svolto il tentativo<br />

di confrontare, all’interno di una stessa area, entità corporee<br />

differenti, con effetti di distonia e di non collimazione, così<br />

da sottoporre chi guarda alla fatica di seguire percorsi percettivi<br />

tra loro sfasati e da farlo reagire alla provocazione simultanea di<br />

segnali opposti (4) . In Grande cupola nera il problema di fondo<br />

resta quello del Trono, di una massa cioè animata che cerca lo<br />

scontro centrale con lo spettatore.<br />

Il trattamento dell’immagine presenta in questi casi una sensibile<br />

deviazione dagli usi consueti: in primo luogo essa ripudia lo<br />

spazio e il tempo pubblici, in quanto costitutivi di altri universi, cui<br />

si riconosce pregiudizialmente una esistenza categorizzata. L’immagine,<br />

come entità in crescita, non è semplicemente nello spazio,<br />

bensì lo abita, lo conosce quindi percettivamente e lo definisce<br />

nel momento in cui se ne appropria materialmente. Analogamente<br />

il tempo dell’immagine coincide soltanto con la durata<br />

della sua presenza eidetica, col suo, chiamiamolo pure, tempo<br />

corporeo. È allora evidente perché il pittore combatta contro chi<br />

accoglie le convenzioni correnti di spazio e di tempo pubblici.<br />

Capziosa e superficiale non può che apparirgli ogni operazione<br />

che tende ad appropriarsi degli ambienti esterni e di modellarne


Valentino Vago, V 173, 1970, olio su tela, cm 80x100.<br />

Claudio Olivieri, Boreale, 1969, olio su tela, cm 180x200.<br />

lo spazio, dato il carattere di applicazione artigianale e di impaginazione<br />

disegnativi integrata dai modelli visuali (5) .<br />

La proposta di Ossola è forse tra le presenti la più ricca di concessioni<br />

alla sfera del naturale, un naturale sondato prevalentemente<br />

ai livelli del vegetativo e del sensitivo. La morfologia<br />

della vita cellulare funziona da reagente nei confronti dei codici<br />

correnti e si rivela capace di plasmare una realtà minacciata<br />

dagli assalti della tecnologia e della progettazione pratica; è<br />

inoltre una morfologia della germinazione e del ‘costituire’, di-<br />

122<br />

sponibile all’interrogazione e all’inquietudine. L’immagine infatti<br />

si agita più per un bisogno di conquista di misura che di liberazione<br />

nell’assoluto della fantasia combinatoria: non si danno<br />

strutture permanenti, anzi in ogni quadro si avverte come l’anticipazione<br />

di un evento successivo, di una virtualità inespressa.<br />

Quel che colpisce comunque è l’attenzione portata sulla meccanica<br />

dei fenomeni, sullo ‘spostamento’, in virtù della quale si assiste<br />

ad una sorta di messa ai margini del motivo organicistico a<br />

favore del movimento dei corpi.<br />

Altra ancora è l’animazione nelle tele di Raciti. Qui si lancia una<br />

sfida al presente, nel tentativo di formulare una nuova ipotesi di<br />

vita di relazione. Con Raciti, in certo senso, si ricomincia a camminare,<br />

a parlare, a gestire, rivisitando le possibilità di vivere il<br />

tempo e lo spazio. L’immaginazione collettiva preme attraverso<br />

sue istituzioni, che sono fuori dalla dimensione storica concreta,<br />

con certi suoi topoi archetipali: il labirinto, il paradiso perduto, i<br />

loca amoena. Rinasce tutta una geografia fantastica, entro Ia<br />

quale si collocano dei personaggi che raccontano se stessi e che<br />

amano presentarsi nella maniera meno corposa possibile. Si tratta<br />

di ‘presenze-assenze’ giocate sul filo difficilissimo dello stupore<br />

e dell’ironia.<br />

In tutti i pittori presenti alla rassegna l’ambigua iconicità, l’esterno-interno<br />

vengono celebrati e sondati in quanto portatori di una<br />

inedita modalità del rappresentare. In molti di loro anche è tentata<br />

una soluzione del rapporto fra movimento e sua durata. Si<br />

avvertono dunque i sintomi di una avventura del senso, calata in<br />

una teoria dell’opera d’arte disposta come ‘corpo’ letteralmente<br />

autoconchiuso, anche se tensionalmente aperto ed infinito.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Pittura ’70 - l’immagine attiva”,<br />

svoltasi alla Casa del Mantegna, Mantova, giugno-luglio 1970.<br />

(2) Testo ripreso dallo scritto redatto per la mostra di Valentino Vago, tenutasi<br />

presso la Galleria d’Arte “G. Greco”, via Principe Amedeo 26/a,<br />

Mantova, ottobre-novembre 1968.<br />

(3) Testo ripreso dallo scritto redatto per la mostra di Sergio Sermidi tenutasi<br />

presso la Galleria d’arte “Morone 6”, Milano, via Morone 6, marzo<br />

1969, e pubblicato a pag. 66.<br />

(4) (5) Passaggi ripresi dallo scritto redatto per la mostra di Gianni Madella<br />

tenutasi presso la Galleria d’Arte “Morone 6”, Milano, via Morone<br />

6, febbraio 1969, e pubblicato a pag. 64.


Pensieri per un ambiente<br />

Renzo Schirolli (1)<br />

Lo spazio quotidiano è aperto agli interventi di tutti, ma la misura<br />

‘democratica’ della società fa sì che la forza di gestione di<br />

ciascuno sia commisurata al suo potere di produzione economica.<br />

Perciò fra gli statuti credibili dell’arte attuale può esserci quello<br />

di una opposizione contro gli abusi privati dello spazio pubblico,<br />

in virtù del quale si dìa credito ad un operatore che tenti di<br />

smontare l’enorme macchina del consumo visivo e restituisca all’agibilità<br />

l’ambiente delle relazioni, invaso dal kitch.<br />

In questa prospettiva si pongono già da qualche anno modi diversi<br />

di liberazione e si combattono battaglie di varia intensità e<br />

fortuna: dalla correzione puntigliosa delle immagini di massa al<br />

rovesciamento dei segni, dallo svuotamento dei contenitori di<br />

messaggi mistificanti alle ricerche di dimensioni “povere” del<br />

comportamento estetico. È un fatto che l’artista non si lasci più<br />

intimidire dagli spazi consentiti e abituali: ha finito di produrre<br />

opere “quietamente impalate nell’angolo di una stanza o in<br />

mezzo a un giardino”. Troppo forte è il rischio che ne derivereb-<br />

R. Schirolli, Parallelocoso n. 1, 1967, olio su tela sagomata, cm 150x130x8.<br />

be: l’opera nella maggior parte dei casi verrebbe addomesticata<br />

dalla collocazione e dovrebbe, consenziente o no, trasformarsi in<br />

qualcosa di sensibilmente diverso. A sua volta la pittura tenta un<br />

attacco: ruba spazio, si gonfia, esce dai riquadri tradizionali, intende<br />

gestire gli oggetti e le cose che le stanno attorno. Il quotidiano<br />

diventa un suo ‘contenuto’ diretto e necessario; non lo si<br />

contestualizza ‘rappresentandolo’, ma lo si ordina mediante i<br />

suoi stessi materiali. La dialettica dentro-fuori è annullata: le<br />

forme si allungano, s’attaccano al soffitto, aderiscono alle pareti<br />

e al pavimento, nuotano nell’aria, si rompono e tornano a unirsi,<br />

accogliendo il visitatore ed invitandolo a far parte del loro<br />

gioco.<br />

Questa volontà amplettente e manipolatrice d’ambiente agisce<br />

nel lavoro attuale di Schirolli in termini che appaiono abbastanza<br />

chiaramente spettacolari e non semplicemente scenografici.<br />

In primo luogo perché le forme stesse tendono a disporsi secondo<br />

un reticolato direzionale sufficientemente dialogato; secondariamente<br />

perché non si abbassano ad essere delle semplici<br />

indicazioni (non ricostruiscono dei dati e neppure si presentano<br />

come attrezzi di lavoro scenico), ma tendono a collaborare col R. Schirolli, Parallelocoso n. 2, 1967, olio su tela sagomata, cm 150x150x6.<br />

123


R. Schirolli, Rilievi, 1968-69, cartoncino, cm 70x50.<br />

R. Schirolli, Studio per un ambiente, 1970, cartone e plastica speculare.<br />

124<br />

R. Schirolli, Rilievi, 1968-69, cartoncino, cm 70x50 (particolare).


R. Schirolli, Studio per un ambiente, s.d., cartone e plastica speculare, cm 36x35x4.<br />

pubblico alla invenzione visiva di uno spazio agibile.<br />

C’è tuttavia da osservare che il modo secondo cui Schirolli organizza<br />

ora i suoi spazi soggiace a precisi condizionamenti. Infatti<br />

esso si manifesta per lo più come proposito di mutare degli ‘interni’,<br />

senza intaccarne radicalmente l’habitat. Dati certi involucri<br />

(una stanza, una galleria, ecc.), si procede a sfondarne le misure<br />

‘quantitative’, moltiplicando i percorsi e creando dei piani di<br />

fuga che movimentano la cavità ma non l’annientano. Si ha l’impressione<br />

che le forme seguano con una certa docilità i perimetri<br />

oggettivamente dati dal luogo, che non ‘sentano’ la pressione<br />

esercitata dai muri e dai soffitti, paghe di svilupparsi entro<br />

una loro intima dialettica. Si comportano insomma come delle<br />

sculture; sculture che tuttavia sono concepite come manufatti architettonici<br />

e insieme come pitture da parete. Dunque Schirolli,<br />

sebbene studi scrupolosamente gli ambienti prima di realizzare<br />

i suoi oggetti, continua probabilmente a pensare le sue opere<br />

come se fossero libere nello spazio. Dove invece egli dimostra<br />

una maggiore forza contestativa è nell’eccedenza dell’invenzione:<br />

al ‘surplus’ della visualità di massa egli oppone in funzione<br />

decondizionante la suadente fertilità della sua invenzione. Per<br />

questo adotta strutture modulari, capaci di riprodursi e quindi di<br />

lottare efficacemente contro la forza moltiplicatrice del potere di<br />

125<br />

produzione. Non c’è dubbio che l’artista intaccherebbe l’ambiente<br />

collettivo in modo massiccio, se il lavoro di esecuzione materiale<br />

potesse seguire fedelmente la ricchezza della progettazione:<br />

le sue scene cesserebbero di essere troppo intime e si riverserebbero<br />

finalmente nell’area pubblica. Su un punto tuttavia<br />

tanta fertilità potrebbe prestarsi ad una obiezione e forse apparire<br />

ottimistica per eccesso, laddove appunto è nutrita dal piacere<br />

di se stessa, da un’idea di divertimento che finisce coll’esigere<br />

dallo spettatore-attore una complicità partecipe e una libertà<br />

di godimento che questi probabilmente non possiede ancora.<br />

Su un simile terreno, improbabile fin che si vuole, vanno intese<br />

le proposte di questa mostra fatta di pensieri e di idee, certo non<br />

facili, poiché domandano agli occhi una lettura penetrante che<br />

sia in grado di svelare l’oggetto ambientale nascosto dietro il<br />

progetto. Un progetto per modo di dire, se è vero che l’artista<br />

non ha rinunciato neppure per un attimo alla autonomia della<br />

scrittura compositrice, adottando per un verso i modi descrittivi<br />

dell’assonometria e dell’illusionismo prospettico, ma contraddicendo<br />

puntualmente l’impiego corretto dell’una e dell’altro: il finito<br />

della assonometria con l’infinito di una forma proliferante,<br />

la fuga negativa dei piani col ‘positivo’ dei rilievi; e asservendo<br />

infine i due procedimenti al dettato di una matrice modulare, addirittura<br />

classica: il triangolo equilatero.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Renzo Schirolli, grafica 1968-<br />

1970”, tenutasi a Mantova presso la Galleria d’Arte “L’inferriata”, Sottoportico<br />

dei Lattonai 4, nel 1970.


1971<br />

Da Giuseppe Motti<br />

a Giulio Turcato<br />

La suggestione arcaica di un universo<br />

popolare<br />

Giuseppe Motti<br />

L’inedito<br />

Sandro Bini<br />

Come un uccello di fuoco<br />

vola la pittura di Turcato<br />

Giulio Turcato


La suggestione arcaica di un universo popolare<br />

Giuseppe Motti (1)<br />

Già nel ’34, dipingendo un quadro come il “Ritratto di donna”,<br />

Motti mostrava di aver capito in modo sicuro ed originale una<br />

delle pochissime lezioni della generazione di allora: il chiarismo.<br />

Il suo orientamento prendeva origine da ragioni soprattutto di<br />

natura morale. Ciò risulta chiaro anche più tardi, allorché, nell’immediato<br />

dopoguerra, ha avvertito il bisogno di ricominciare<br />

tutto da capo ed ha discusso - dopo anni di forzato abbandono<br />

G. Motti, Il delta padano, 1958, olio su tela, cm 80x90.<br />

128<br />

della pittura - il problema dell’espressione. Nei pochi disegni rimasti<br />

della sua attività anteriore si consuma un’esperienza tutta<br />

sua del segno, che lo allontana sensibilmente dalle soluzioni<br />

chiariste e prelude alle opere del ’45: vi si rintracciano un modo<br />

più vigoroso di far uso della materia grafica e un’attenzione<br />

molto accentuata per il movimento delle immagini. Pur rimanendo<br />

immutata la solidità di impianto delle figure, queste si distendono<br />

ora prevalentemente sulla traccia dell’armatura disegnativa<br />

mentre il colore assume forza plastica e portante.<br />

È in questo territorio d’esercizio che avviene la polemica, cui s’è


accennato, contro la dissoluzione della lingua. Il piano pittorico<br />

viene costruito come un ‘insieme’ di tessere cromatiche e di settori<br />

timbrici, in cui scompare la distinzione tra pieni e vuoti, tra<br />

primi e secondi piani. Ciò che si vuole è la risolidificazione delle<br />

‘figure’ attraverso l’esplorazione delle loro proprietà luminose, in<br />

accordo con gli operatori della Galleria “Borgonuovo”. È lecito rilevare,<br />

certo, significative analogie con altre ricerche post-picassiane<br />

ed interessanti affinità con autori contemporanei (Villon,<br />

per esempio), ma è anche evidente che da una simile esperienza<br />

viene un contributo di rilievo al dibattito sull’arte realista<br />

attorno al Cinquanta. Basterà qui ricordare alcune opere per rendere<br />

conto di un linguaggio che andava evolvendo verso esiti via<br />

via più certi e per misurare la distanza, nonostante l’analogia di<br />

certe occasioni dell’ispirazione, dalle figurazioni del ’34-’35: si<br />

vedano Donna seduta (1949), Cucitrici (1950) e Gli impiccati<br />

(1950), dove il procedimento del rappresentare per bande e<br />

zone compatte di campitura ha perso la durezza metallica delle<br />

prove del ’47 ed acquista, su registri di tonalità più bassa, grigi<br />

ed ocra, quasi di velatura, una raffinata capacità di allusione. I<br />

volti e le figure tornano ad immergersi in una atmosfericità dilatata,<br />

i loro tratti si fanno più sciolti ed immediati. Innumerevoli<br />

centri di irradiazione muovono il colore in direzioni multiple assicurando<br />

alla superficie una estrema motilità di vibrazione. Si<br />

capisce che l’immagine nasce sì da un’interrogazione costante<br />

della realtà, ma che essa è tanto più ricca di virtù evocative<br />

quanto più il pittore è riuscito a fonderla con i procedimenti della<br />

sua memoria. I ritratti della gente di Arena Po, così come ci sono<br />

restituiti da Motti, risultano inspiegabili senza l’apporto di una<br />

memoria che ha saputo educare l’occhio ad un filtro essenziale<br />

di registrazione.<br />

Non è senza ragione che l’artista talora, riferendosi agli argomenti<br />

dei suoi quadri, parli addirittura di “fantasmi”, intendendo<br />

con questo termine definire il carattere insieme concreto ed immaginario<br />

di ciò che ha rappresentato. Non è la riproduzione fisiognomica<br />

che lo interessa dei suoi personaggi, quanto il senso<br />

del loro ‘esserci’ e il riverbero sentimentale che hanno su di lui.<br />

Nascono, in un clima che in certi pare perfino espressionistico, i<br />

ritratti delle mondine, dei pescatori, di tanti tipi umani della sua<br />

terra. Si direbbe che non sia addirittura il caso di dare un’identità<br />

professionale a queste ‘presenze’ e che sia più giusto impie-<br />

129<br />

gare una terminologia verbale più contenuta per commentarle,<br />

un lessico più fedele alle ragioni biologiche dell’osservatore: non<br />

contadini o pescatori, ma più semplicemente donne e uomini,<br />

giovani e vecchi. Nient’altro che una pura emergenza di vita è<br />

Donna del fiume del ’56, così fortemente delineata sulla pasta<br />

grumosa della tela con poche, franche tracce di colore. Dopo la<br />

fase di dichiarato impegno sociale, proprio attraverso simili<br />

prove, si apre una nuova epoca del lavoro di Motti, al di sopra<br />

delle formule prestate dall’ideologia: egli è in certo modo più<br />

deciso a penetrare, per via di frammenti e di annotazioni minuziose,<br />

la materia metamorfica dell’esperienza. Non lo attirano<br />

più le persone e i paesaggi nelle loro proprietà riassuntive, ma i<br />

loro atteggiamenti, i loro modi improvvisi di assumere consistenza.<br />

Il dialogo si fa serrato e talvolta violento, corrosivo. I tipi<br />

umani, che tante volte hanno assunto statura monumentale (si<br />

consideri lo schema ricorrente dei tre busti frontali in primo<br />

piano), si prestano agli acidi di una scrittura caricaturale ed<br />

acuta.<br />

Nelle differenti versioni di Donne e vecchio non agisce soltanto<br />

il proposito di dare un ‘ritratto collettivo’, quanto - e forse più -<br />

la suggestione arcaica di un universo popolare, in cui gli eventi<br />

biologici primari del vivere e del morire mantengono intatti il<br />

loro antico significato. Non diversamente avviene per il paesaggio,<br />

di cui contano le improvvise rivelazioni e i presagi che lo caricano<br />

di attesa: uno scatenamento di luce sul delta del fiume o<br />

la pregnante emergenza di una terra. Nell’individuazione di un<br />

mondo così suo la pittura di Motti manifesta, come è stato detto,<br />

“quel potere che è segno indubitabile della poesia”.<br />

(1) Scritto comparso nell’introduzione al catalogo della Mostra antologica<br />

“Motti, Gente del Po”, tenutasi presso la Casa del Mantegna a Mantova<br />

nel 1971, poi ripreso in occasione della mostra “Settembre Stradellino”,<br />

tenutasi a Stradella (Mantova) dal 16 settembre al 1 ottobre<br />

1978.


L’ “inedito”<br />

Sandro Bini (1)<br />

Quando Bini stese la sua nota di lettura sui disegni delle “Metamorfosi”<br />

di R. Birolli, in un fitto commento che andava alle<br />

ragioni genetiche di quel lavoro, aveva già alle spalle, benché<br />

giovanissimo, una stagione di esperienze milanesi1 . Si era occupato,<br />

tra i primi, di Sassu, Manzù e Tomea, maturando attraverso<br />

contatti ed esplorazioni una sua posizione netta di<br />

agitazione antinovecentista2 che lo doveva portare per forza<br />

di cose, e non solo di generazione, al fianco dei nuovi operatori<br />

di “Corrente”. Dal 1932 anno in cui pubblicò una antologia<br />

di suoi testi critici3 , al 1936 la sua indagine si svolse sul<br />

terreno delle opere inedite (l’ “inedito” fu per Bini un tema<br />

quasi religioso di rivelazione morale, non solo un pretesto<br />

d’analisi) e per obbligo di cronaca si occupò di esperienze<br />

ormai digerite, se pure autorevoli, assumendo sempre un<br />

ruolo di forte discriminazione morale poiché non riusciva a<br />

sopportare certi artisti che chiamava “di transizione”, posti<br />

quasi tra parentesi fra due momenti originali del fare estetico.<br />

In quell’epoca gli si venne chiarendo una sua idea di svolgimento<br />

delle arti, come processo complesso e dialettico,<br />

fatto anche di inconciliati moventi e, come scriveva, di “reazioni”:<br />

un processo mai morbido e sempre a strappi, convulso<br />

seppur rigoroso, in cui emergeva (per lui) il dominio di un<br />

concetto e di una forma centrali, destinati ad imporsi per logica<br />

irreversibile. Si precisò cioè la convinzione che la cultura<br />

avesse una spina dorsale, un segreto filo diacronico, da cui si<br />

diramavano, per chi sapesse vederli, articolazioni e momenti<br />

diversi. A lui pareva poi che ogni momento si autenticasse<br />

solo progettando un destino e imponendo, come “primo<br />

atto” una conclusione di storia e contemporaneamente una<br />

dura barbarie. Tale impostazione - se si vuole molto empirica<br />

- gli concedeva l’esito di una originale risoluzione di vecchie<br />

e ricorrenti categorie interpretative (impressionismo,<br />

realismo, tradizione, soggettivismo, ecc.) e soprattutto rendeva<br />

possibile il loro impiego ai fini partigiani di una battaglia<br />

di cultura.<br />

In un articolo del 1936, singolarmente intitolato “Esperienza<br />

romantica” si indicava nella nozione di colore inaugurata da<br />

130<br />

Delacroix, di un colore inteso come “forma” e non “sopra la<br />

forma”, l’evento inedito che aveva avviato tutta la storia successiva<br />

della pittura moderna e nella quale si erano consumate<br />

le vicende successive del realismo di un Courbet (che<br />

Bini faceva rientrare, contro Carrà, nel solco centrale delle<br />

operazioni), dell’impressionismo, di Cézanne, di Matisse,<br />

degli espressionisti fino a Kandinskij. “Il fatto nuovo - scriveva<br />

- di determinazione storica, questo controvertimento di<br />

posizioni, che giustifica il fondamento della dottrina romantica,<br />

influisce sull’origine dei movimenti e delle tendenze che<br />

caratterizzano tutta la pittura moderna. Sotto forma di evoluzione,<br />

di degenerazione, di risultati positivi e negativi. Ne assomma<br />

le esperienze che, sia pure, talvolta di reazione contro<br />

reazione, si muovono nell’orbita dell’espressione romantica”.<br />

E più avanti: “ L’astrattismo, sul piano della realizzazione<br />

è la soluzione dell’esperienza cubista; sul piano dell’esperienza<br />

il risultato di un processo di liberazione durato 130 anni<br />

nella storia della pittura moderna; sul piano della storia la<br />

coerenza logica, fatalistica quasi, delle ragioni o esigenze<br />

estetiche che hanno determinato l’evento della esperienza<br />

romantica. Il ciclo si chiude. ... Concludendo, questa “esperienza<br />

romantica”, nata da una necessità di reazione, contro<br />

gli assolutismi del neo-classicismo, si riassume con la conquista<br />

o la fine di un nuovo assoluto. Un processo di liberazione,<br />

per via di negazioni, sino alla totale eliminazione di<br />

tutte le interferenze morali per le quali la pittura della decadenza<br />

era esaurita. Figurazione plastica amorale delle morali<br />

improvvisate giorno per giorno”.<br />

Nel ’36, dunque, Bini arrivava a chiarirsi una speciale geografia<br />

di relazioni e una sua prospettiva di intervento, formulando<br />

anche un modello di argomentazione che diventò<br />

quasi una norma per lui negli anni a venire4 . Da qui nasceva<br />

il commento alle “Metamorfosi”, ad un’esperienza esemplare<br />

del segno che dava autorevolezza di prova alla analisi.<br />

Scrisse più tardi in una lettera5 di aver sempre “sognato un<br />

lavoro continuo e legato con qualcuno, un lavoro leale di onesta<br />

considerazione, direi di “ripresa” costante dei suoi motivi<br />

più intimi, di valorizzazione delle sue scoperte. Sarebbe questo<br />

il modo per poter veramente fermare un’idea di noi (dico<br />

della nostra cultura) in questo periodo di terribili incertezze”.


Ebbene, questo contatto egli lo trovava nella pittura e nella<br />

riflessione di Birolli, che giustamente ebbe a riconoscere questo<br />

suo posto centrale nella indagine dell’amico; ma anche<br />

nel lavoro di Corrente e negli artisti del Milione. Nomi relativamente<br />

pochi, ma certo decisivi in quegli anni: Fontana,<br />

Martini, Veronesi, Messina.<br />

A Bini importava, al di là del far lettura e ricerca di “un ordine<br />

costruttivo, meramente estetico”, l’esercizio intellettuale<br />

volto alla “fondazione del tempo”, al destino della cultura. Su<br />

questa esigenza primaria ritornò continuamente, gettandosi<br />

allo sbaraglio nella opzione del presente o ricapitolando (e riconcentrando)<br />

i termini di un discorso ormai ampio. I testi documentano<br />

proprio questo itinerario di avanzate e di ritorni,<br />

questo gettare delle ipotesi e tornare a verificarle in otto anni<br />

di lavoro, dopo Il ’36.<br />

Egli contribuì a dare - è giusto riconoscerlo - una definizione<br />

della critica, come solidarietà dell’atto concettuale con la ricerca<br />

pittorica. Tanto intensa fu per lui la relazione che arrivò<br />

ad attribuire all’artista la sua stessa consistenza intellettuale,<br />

non distinguendo quasi più fra sé e l’altro. Ci fu una sorta di<br />

identificazione, di scambio dei ruoli. Tutto ciò potrebbe parere<br />

naturale nel caso del suo sodalizio con Birolli, ma in realtà<br />

tale processo si manifestò ogni volta che Bini venne a trovarsi<br />

di fronte ad un’opera significativa6 . C’è di più: questa stessa<br />

categoria sta a fondamento della sua distinzione tra i primitivi<br />

che fanno cultura, i “barbari” veri, e i “candidi”, ovvero i<br />

“distanti e i trasognati, buoni per tutti i problemi, ma senza<br />

esigenza ad un solo problema”.<br />

Secondo Bini la critica, quella di posizione, non poteva che<br />

essere polemica. La polemica - sosteneva - rappresentava un<br />

gesto necessario e nient’affatto provinciale: la ragione era da<br />

vedere nella natura della critica medesima, che al pari di ogni<br />

altra realtà di cultura dava luogo ad un “dramma” e ad un’iniziativa<br />

di storia; perciò, sul terreno della rieducazione estetica,<br />

si costituiva come riparazione e “destino della forma”.<br />

Nessuno poteva sottrarsi ad un simile impegno7 . Non fu quindi<br />

un caso se il tema della responsabilità diventò così insistente<br />

negli ultimi anni di lavoro che nell’intenzione del critico<br />

avrebbero dovuto aprirsi a qualcosa di diverso e di più<br />

avanzato8 . I tempi erano difficili e l’isolamento insopportabi-<br />

131<br />

le, ma l’esame di un decennio non poteva essere rinviato9 .<br />

I testi del ’42-’43, a confronto di quelli precedenti, si fanno,<br />

in certo modo, più leggibili e insieme più intimi, senza perdere<br />

tuttavia quel carattere profetico di primordio esteticomorale<br />

che è tipico della prosa di Bini. Certo si nota in tutte le<br />

sue pagine la presenza di un vocabolario cifrato10 e di una sintassi<br />

ellittica, difficile da penetrare, sulle cui articolazioni agiva<br />

fuor di dubbio la lezione di Persico e della parola contemporanea.<br />

Ma a noi pare che una simile lingua non risponda affatto<br />

al gusto letterario dell’incontro d’anima11 ; essa risulta invece<br />

da una speciale disposizione alla dizione lapidaria e riduttiva<br />

quando non vi agiscano una volontà di rappresaglia e<br />

il proposito di spremere il codice di una istituzione verbale (la<br />

critica) per cavarne dei sensi ultimi e definitivi.<br />

Nella presente edizione sono state, ad evidenza, ristampate<br />

soltanto alcune pagine centrali della riflessione di Sandro Bini<br />

sulle arti a Milano negli anni intorno al 1940. Per ora si è puntato<br />

sulla offerta di un materiale quasi del tutto circoscritto all’epoca<br />

di “Corrente” e quindi ad un’operazione critica di solidarietà<br />

con la pittura. Gli articoli, le recensioni e i saggi conservano<br />

i titoli originali o li riecheggiano da vicino (così che<br />

sarà facile risalire, mediante la data, al luogo di stampa). I<br />

testi inoltre si ripresentano integralmente con le sole eccezioni<br />

della scheda su Manzù e di “Scipione, poi Birolli”, che<br />

ha subito alcune varianti rispetto il testo comparso in “Stile”,<br />

secondo quanto si ricava da una lettera di Bini ad Umbro<br />

Apollonio: “Ho visto oggi il mio pezzo su Stile. Poiché dopo<br />

tre tentativi di impaginazione risultava lungo è stato sottoposto<br />

a tagli una volta dall’ingegnere, un’altra da Renato e la<br />

terza da Ponti. Qualche periodo è campato per aria. Poi gli errori:<br />

a riga 24 “prestiti” invece di “pretesti”; il sesto capoverso<br />

doveva cominciare “Ed è questa un’esperienza””. (Luglio<br />

1942).<br />

Le osservazioni sul “Taccuini” uscirono in parte su un numero<br />

di “Eccoci!” del ’43 e in parte si pubblicano ora come inedito,<br />

per quanto si è riusciti a leggere nelle carte autografe.<br />

La testimonianza di Renato Birolli comparve in “Costume”, n.<br />

2, 25 giugno 1945.<br />

Considerazioni sull’opera e sulla personalità di Bini si trovano<br />

in alcune recensioni e note di Giuseppe Marchiori (Sandro


Bini “Artisti”, “L’Orto”, n. 3, Bologna, dicembre 1932; Libri<br />

d’arte, “Corriere Padano”, Ferrara, 2 maggio 1937; Pagine disegnate:<br />

Mucchi e Birolli, “Corriere Padano”, Ferrara, 6 ottobre<br />

1937; Generazioni e umanità, “Corrente di vita giovanile",<br />

Milano, giugno 1938; Ricordo di Bini, “Gazzettino – Sera”,<br />

1. S. Bini nacque a Mantova nel 1909. Interrotti gli studi all’Accademia “Cignaroli”<br />

di Verona e compiuta una breve esperienza di insegnamento alla<br />

Scuola d’Arte di Suzzara, arrivò a Milano attorno al ’30. Si impiegò come correttore<br />

di bozze e articolista presso alcuni quotidiani milanesi (“L’Ambrosiano”,<br />

“L’Italia”); dal ’32 in poi collaborò anche al bolognese. “L’Avvenire”, alla<br />

“Voce di Mantova” e a vari settimanali. Frequentò Persico e gli artisti che gravitavano<br />

attorno a lui, legandosi infine al gruppo dei pittori che diede vita a<br />

Corrente. Licenziatosi più tardi all’Accademia di Brera, ottenne una cattedra<br />

presso l’Istituto Statale d’Arte di Fano, dove visse gli ultimi anni. Richiamato<br />

per la nona volta in servizio militare, morì trentatreenne a Bologna sotto un<br />

bombardamento, Il 25 settembre 1943.<br />

2. Il termine “antinovecentista” vale nell’accezione corrente dell’epoca; è<br />

un’autodefinizione adottata anche da Bini.<br />

3. Sandro Bini, “Artisti” - A.R. Giorgi, L. Grosso, F. Tomea L. Lorenzetti, A.<br />

Sassu, G.P. De Luigi, G. Manzu, Edizioni “Libreria dei Milione”, Milano, 1932.<br />

4. Cfr. anche S. Bini, “Sintesi dell’uomo moderno”, in “Corrente di Vita giovanile”<br />

del 30 aprile 1938.<br />

5. Si veda, nel carteggio privato custodite dalla moglie di Bini, la lettera ad<br />

Umbro Apollonio, senza data, che inizia: “Va benissimo; vorrei dirti che te ne<br />

sono riconoscente ecc.”. Dalle lettere e dalle testimonianze dei familiari risulta<br />

che Bini fu in corrispondenza con R. Birolli. F. Tomea. A. Sassu, G. Manzu,<br />

P. Bargelllni, R. De Grada, G. Marchiori, V. Lisi, G.C. Argan, F. Arcangeli.<br />

6. Si vedano le note su Scipione, Fontana e Manzù, in parte raccolte in questa<br />

antologia.<br />

7. Sui conflitti con la critica militante cfr. il carteggio citato e l’articolo “Responsabilità<br />

della cultura”.<br />

132<br />

Venezia, 3/4 luglio 1946); Raffaele De Grada, (Metamorfosi<br />

di Birolli, “Meridiano di Roma”, Roma, 15 agosto 1937); Renato<br />

Giusti (Ricordo dì Sandro Bini, “Mantova Libera”, 25 settembre<br />

1945, ora in “Gazzetta di Mantova”, 25 settembre<br />

1970).<br />

8. “Spero d’aver fatto un passo avanti. Ho mandato un articolo a Posizione,<br />

“Responsabilità della forma”, continuazione dell’altro e della mia storia di Milano.<br />

Riunirò poi tutto e riscriverò da capo, fino a morirne”. (Carteggio cit.,<br />

lettera ad U. Apollonio del 28 marzo 1943).<br />

9. Cfr. in carteggio cit. lettera ad U. Apollonio del 4 settembre 1943.<br />

10. Il lessico di Bini pare oscillare continuamente fra i poli del terrorismo verbale<br />

e della dichiarazione moraleggiante. Si veda la frequenza di espressioni<br />

come “polemica di generazione”, “volontà di compromettere”, “selezione<br />

morale”, “vocazione delle forme”, “intuizione”, “rivelazione”, “profezia”,<br />

ecc., che testimoniano la convergenza di proposizioni di ascendenza diversa<br />

(i pensieri di Boccioni e Soffici, la religione della libertà, la mistica dell’Europa),<br />

impiegate per dar ragione di uno stato presente delle arti.<br />

11. In una lettera ad U. Apollonio del maggio 1942 si trova questo giudizio<br />

sui critici che fanno letteratura: “Saranno intelligenti, tutto quello che vuoi,<br />

ma io non vedo al di là di questa loro raffinatissima tentazione. Non credo<br />

che possano distendersi sul discorso del pittore, forse non lo sapranno nemmeno”.<br />

(1) Scritto contenuto in “il portico – quaderno 2” a cura di Zeno Birolli<br />

e <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> – Ente Manifestazioni Mantovane.


Come un uccello di fuoco vola la pittura di Turcato<br />

Giulio Turcato (1)<br />

Vogliamo veder danzare le comete, lottare i colori e trasudare<br />

forze magnetiche dalla pittura? Simili visioni sono ancora possibili<br />

nelle opere di un autentico artista-mago del nostro tempo, Giulio<br />

Turcato, che una volta ebbe a suggerire per un dipinto (e la cosa<br />

interessa non poco) la fulminante analogia poetica col tamburo<br />

sciamanico. Come in un piccolo ciclo, ventitré dipinti su carta di recente<br />

fattura e di varia dimensione, esposti alla Galleria “Il Chiodo”<br />

di Mantova, ci guidano su un nucleo di immagini ad altissima<br />

incandescenza. Vi si modulano urti e accordi allo stato puro, talora<br />

sorpresi nel loro principio di gestazione e lasciati quasi in abbozzo<br />

per esprimere l’insorgere d’un pensiero che si manifesta in<br />

lampeggiamenti. Colore allo stato puro. Ma sono tante e tali le variazioni<br />

sui valori primari, tante le qualità dei rossi e dei turchini,<br />

da rendere precaria ogni descrizione. Volendo semplificare, ecco la<br />

dialettica di fondo: un contrasto fra corpi e spazi che porta alla fu-<br />

G. Turcato, Palladium, 1970, olio, tecnica mista e collage su tela, cm 100x70.<br />

133<br />

sione radiosa e, come dire?, regala degli opposti. Agli amaranti, ai<br />

rossi e ai gialli è affidato il compito di generare le condensazioni<br />

più intense. Spetta a loro custodire semi e nascite di corpi volanti,<br />

mentre i blu corrono sugli sfondi o si insinuano come punte di<br />

diamante nelle maglie di quei crogiuoli solari. Dappertutto bruciano<br />

fornaci. E sono braceri senza referenti immediati. Luoghi fantastici<br />

e in certo modo originari dove si aggregano chiare energie e<br />

subito tornano a sciogliersi in una girandola di scintille.<br />

“Oltre lo spettro”, ha detto tante volte Turcato: al di là del fisico e<br />

del retinico il colore può creare l’alternativa che salva lo sguardo.<br />

Universi luminosi, macinamenti d’immagini radicalmente altri. A<br />

vederli ora irradiare dai fogli ci si chiede a quale inconsueta distanza<br />

dalla terra siano stati afferrati. Volano come uccelli oltre<br />

ogni possibile ombra. Astratti e illeggibili per l’occhio comune<br />

danno l’impressione di un assoluto sganciamento. Eppure l’uomo<br />

non è dimenticato. A guardar bene (e alcune forme sono rivelatrici)<br />

il terrestre resiste nella rarefazione o, per dire meglio, la fisicità<br />

appare rifatta ad altezze inverosimili. Compaiono volti e maschere<br />

cosmiche. Qualche figura parla dell’elettrico che c’è nei<br />

corpi e lo rinfocola nell’astrazione dei segni. Ed è appunto questa<br />

la metamorfosi sciamanica della pittura: movimento di traslazione<br />

della materia in costellazioni senza peso. Ritmica del volo, cose<br />

tramutate in soli, stelle, comete. Perfino spose celesti.<br />

Si ripensa necessariamente alla via percorsa dal pittore e ai suoi<br />

legami di sangue con un mito e un sogno del Novecento; a certe<br />

sue imprese nell’interrogare le voci di Kandinsky, Matisse o Balla.<br />

Non è sempre vero che l’astrazione nega le figure. Il fatto è che<br />

aspira a quelle imprevedibili visionarie enigmatiche proiettate<br />

nello spazio. È il mondo rovesciato, riplasmato nello ‘spirituale’,<br />

tuffato nelle cadenze armoniche e vive dei contrasti di forma.<br />

Scriveva un grande nemico dell’ombra (e autore di pantomime<br />

astrali) che la terapia del colore produrrà la trasparenza dei cuori.<br />

Nell’estetica della luce anche la tecnica si redime.<br />

Scherbart lo sosteneva con sufficiente ironia, conoscendo la seduzione<br />

e l’inganno dei sogni. Turcato ha aggiustato il tiro su quel<br />

non-luogo. Attraversa la modernità con un rullìo di tamburi: quello<br />

appreso sugli avamposti a Sascaux e Fort-de-Gaume.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Giulio Turcato”, Galleria d’Arte<br />

“Martano Due”, Torino, novembre 1971, riproposto come presentazione<br />

alla mostra tenutasi alla Galleria “Il Chiodo”, Mantova, via Oberdan, nel<br />

1973.


1972<br />

Da Roberto Pedrazzoli<br />

a Edoardo Bassoli<br />

Agitazione e sospensione<br />

Roberto Pedrazzoli<br />

Parola e calligrafia in Gastone Novelli<br />

Oggetti per un territorio luminoso<br />

Michele Canzoneri<br />

Iconicità comune<br />

Edoardo Bassoli


Agitazione e sospensione<br />

Roberto Pedrazzoli (1)<br />

Un quadro di Pedrazzoli è oggi del tutto simile ad una pagina<br />

mosaico, fondata sullo schema a scacchiera e sull’accostamento<br />

di fogli strappati. Tra un frammento e l’altro non si distendono<br />

spazi vuoti, fessure o pause, poiché i frammenti di immagine -<br />

secondo un procedimento ormai privilegiato dall’autore - combinano<br />

tra loro e aderiscono in colleganza così stretta da provocare<br />

l’impressione di un corpo solidale e compatto, d’una ‘naturalezza’<br />

tutta particolare. Eppure, a guardar bene, le giunture tra le<br />

parti producono una frizione che è mentale e fantastica prima<br />

che percettiva e ottica. Che cosa dunque determina questo effetto<br />

contraddittorio di compattezza disarticolata, di solidità e insieme<br />

di frantumazione? Da un lato è sollecitato il nostro desiderio<br />

di ricomporre i pezzi mancanti, dall’altro l’insieme si offre<br />

con una sua unicità di impianto, tale da indebolire il bisogno di<br />

R. Pedrazzoli, Albero, 1971, acrilico su tela, cm 80x100.<br />

136<br />

un intervento ricombinatorio. Sicché la regola sottesa alla composizione<br />

dell’opera appare ben altro che un artificio. Probabilmente<br />

la naturalezza di questo puzzle, per stare alla dizione del<br />

pittore, poggia su una funzione liberatrice, ma anche tassonomica,<br />

connessa alla stessa operazione compositiva, e cioè sul valore<br />

di gioco. Infatti ogni superficie dipinta è una sorta di atto ludico,<br />

di partita svolta con i segni; e i quadri sono momenti successivi<br />

della medesima partita o, se si vuole, tante partite messe<br />

insieme.<br />

Nei fogli intenzionalmente fatti a pezzi le catene dei segni emergono<br />

via via come dei relitti e delle forme in sospensione: sono<br />

frasi interrotte che da sole non riuscirebbero a coniugarsi, ma<br />

che affidano il proprio significato allo scontro e all’interazione.<br />

Certo è possibile procedere alla ‘ricostruzione’, giacché le immagini<br />

mantengono per quanto depauperate e ritagliate una originaria<br />

forza indicativa. L’identità non è mai cancellata e fa ricordare<br />

dei corpi precisi: dei manichini, degli oggetti o altro. Con ciò<br />

rinviano ad un esplicito contesto iconografico, non solo all’idea<br />

‘comune’ di natura e all’imagerie di massa, ma anche alla tipologia<br />

della caricatura. Ma si tratta, per così dire, di referenti alla<br />

prima potenza, di indicazioni da leggere subito e da bruciare rapidamente.<br />

Si cadrebbe altrimenti nel pericolo di ridurre queste<br />

immagini, che contengono anche una certa forza controindicativa,<br />

a contenuti fin troppo elementari ed univoci. Basterà osservare<br />

infatti che gli elementi segnaletici disposti sul quadro non<br />

intendono solo imporre delle direzioni, così come altri elementi<br />

come le scritte o i numeri non vanno, al limite, letti, ma semplicemente<br />

visti. Ed anche: c’è un rovesciamento costante tra ‘figura’<br />

e sfondo, sicché un pezzo può essere percepito contemporaneamente<br />

come finestra e come parete.<br />

A tale proposito risultano significativi certi esercizi di poetica che<br />

il pittore ha svolto un paio di anni orsono: ritagliate alcune immagini,<br />

le collocava così come si davano nella situazione urbana<br />

o naturale, con lo scopo di verificarne le possibili suture con<br />

l’ambiente quotidiano. Soppresse le consuete rubriche tecniche<br />

e culturali del contorno, le sagome spogliate si inserivano tra le<br />

cose comuni dando luogo ad uno scambio di rimandi teatrali con<br />

il fondale. Se è certo, per altro, che diverse intenzionalità concorrevano<br />

a sostanziare l’operazione (per esempio a livello di<br />

politicità, secondo i rilievi fatti da altri commentatori), è anche


vero che vi agiva produttivamente una volontà di organizzazione ambigua orientata<br />

verso la contaminazione e la sorpresa. Ed è appunto una simile volontà che ci<br />

interessa sottolineare nelle opere attuali.<br />

Facciamo un esempio. Anche l’immagine più dichiarata, l’ ‘albero’, tollera, quando<br />

addirittura non suggerisce, dei proficui fraintendimenti. È un fungo atomico, ma<br />

anche una sagoma pubblicitaria o una mappa pedonale. Il segno che isolato proporrebbe<br />

una sola interpretazione, acquista una pluralità di denotati sia perché riceve<br />

dentro di sé dei tessuti di altra natura (la zebratura occupa la zona organica<br />

del tronco), sia perché assorbe qualcosa dall’area circostante. È in atto tutto un processo<br />

di ‘agitazione’ dei segni che riacquistano così una forte potenzialità dichiarativa.<br />

In ciò consiste, credo, la riqualificazione estetica delle icone elementari, generali<br />

(come l’uomo in frac, discendente dalla tradizione satirica del giornale poli-<br />

R. Pedrazzoli, Nel parco, 1970-71, acrilico su tela, cm 120x100.<br />

137<br />

tico) o personali (come la foglia, che si spiega<br />

all’interno della storia pittorica di Pedrazzoli).<br />

Non si tratta certo di qualificazione<br />

estetica con scopi di persuasione morale o<br />

politica.<br />

Ho detto della scarsa attendibilità dei segnali.<br />

Proiezioni, tratteggi e cifre non intitolano<br />

né esplicano: si inseriscono piuttosto in un<br />

percorso misterioso, fatto di incastri e di rotazioni,<br />

di offerte e di ripulse. Del resto quale<br />

presenza più ironica di un cartello indicatore<br />

in un paesaggio, come questo, labirintico?<br />

Altre volte c’è lo studio di un frammento in<br />

un campo uniforme: il pezzo isolato dà prova<br />

di sé e richiede un’operazione di simpatia. È<br />

una soluzione attuale del tema delle sagome.<br />

Quel campo è da riempire con l’immaginazione.<br />

Si dirà anche che il frammento è<br />

tratto dalla iconografia ‘normale’ (la quotidianità)<br />

e che quella normalità viene accusata<br />

come falsa, ridotta a stereotipo. Ma si badi<br />

al gioco dell’assurdo, al ruolo di questo pezzo<br />

di cosa ‘comune’ che sta lì a suscitare il desiderio<br />

attraverso la falsificazione. Non il<br />

trompe-l’oeil, ma la riduzione e la sospensione.<br />

Non il teatro, bensì la rappresentazione<br />

della teatralità. Prova ne sia lo spazio che<br />

resta bidimensionale: non volumi o pesi, ma<br />

veline, foglie e pagine. Un gioco di sensi alterni<br />

che ricorda dada.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Roberto Pedrazzoli.<br />

Agitazione e sospensione”, Galleria d’Arte<br />

“S. Michele”, via Gramsci, Brescia, 26 febbraio-<br />

9 marzo 1972.


Parola e calligrafia in Gastone Novelli (1)<br />

Puntualmente mantenuta sul registro attivo della filologia la mostra<br />

torinese di Gastone Novelli alla Galleria Civica d’Arte Moderna<br />

ha il merito di offrire un panorama aperto e articolato del lavoro<br />

del pittore scomparso, grazie soprattutto ad una serie di assaggi<br />

ben dosati sul terreno della invenzione linguistica e dell’ideologia<br />

che saldamente si connettono all’opera pittorica in<br />

senso stretto. Da alcuni contributi di lettura, tra i quali si segnala<br />

quello di René de Solier sulla Foret d’ecritures, si ricava con chiarezza<br />

il valore tecnico-operativo e nient’affatto logico-teorico<br />

delle testimonianze scritte dell’autore. Le sue pagine di poetica<br />

infatti sono prima d’altra cosa fogli e superfici visualmente pregnanti:<br />

primi momenti di un processo di crescita del fatto visivo<br />

che culmina nella regione del quadro. I periodi verbali, ossessivi<br />

e non di rado mutuati dai commentatori e dagli amici novissimi,<br />

si attivano come luoghi d’intervento, paesaggi appunto di segni.<br />

Arte alchimistica della combinazione che riconduce nel labirinto.<br />

Quest’aspetto della pittura di Novelli, particolarmente operante<br />

con e dopo “L’esperienza moderna” (2) , è stato più volte indicato,<br />

benché variamente risolto e ricondotto sul piano dell’immaginazione<br />

poetica. Ci si consenta perciò qualche osservazione sull’uso<br />

della lettera, il lettering, la calligrafia nel campo della superficie<br />

dipinta, con la giustificazione non foss’altro della ampiezza con<br />

cui si estende il movimento scrittorio e della singolarità di una<br />

cifra calligrafica che è andata oltre la consuetudine d’uso dei materiali<br />

verbali-scritturali nella pittura segnica, nel senso esposto<br />

dall’enunciato che “il linguaggio figurativo non può essere un<br />

semplice gesticolare”. E se in un momento successivo di decifrazione<br />

converrà considerare la particolare natura stilistica ed<br />

espressiva di questi o quegli insiemi di segni che Novelli ha inventato,<br />

scendendo per così dire nella regione sotterranea che<br />

quei segni ricoprono con la loro pelle, bisogna fare subito una<br />

constatazione generalissima, perfino quasi ovvia, e cioè che<br />

molte tele nel loro complesso sono strutturate come superfici<br />

scritte. Parole, frammenti di proposizione e di frase, quali ”devo<br />

trovare una grande bestemmia vera in uno che sa dirla” (Samsaara,<br />

1961), oppure “buon viaggio ragazza mia” (Viaggio nel<br />

paese delle meraviglie, 1965) o “mais si vous voulez pourrier en<br />

paix” (1968) per limitarci di proposito ai casi di maggiore aderenza<br />

alla linearizzazione fonetica e di minima distorsione ritmica,<br />

appaiono di fatto provvisti di un complesso di attributi speci-<br />

138<br />

fici della scrittura su cui non è facile sorvolare. Si leggono e la lettura<br />

possiede un tempo e una direzione. I poli di orientamento<br />

sono della stessa specie di quelli che regolano la visione sulla pagina<br />

di un libro, sulla faccia di una stele o sul dorso di una pietra<br />

camuna. C’è un’alleanza fra lingua orale ed araldica, che non si<br />

consuma a favore della seconda o del pittogramma puro. In questo<br />

senso Novelli ha ripercorso, con la coscienza di farlo, molteplici<br />

modalità di stesura che la pratica del ductus ha conosciuto<br />

nel corso del tempo, non solo nell’area occidentale, inseguendo<br />

l’idea di una rigenerazione del linguaggio precategoriale che ha<br />

comportato una discesa agli inferi, cosa del tutto diversa dalla<br />

semplice nostalgia dei luoghi perduti, e insieme un recupero-cancellazione<br />

della parola ai fini della sua autenticazione. Archeologia<br />

non regressiva: già ad un primo confronto tra la sua pagina e<br />

i possibili modelli salta all’occhio una caratteristica distintiva, consistente<br />

nel fatto che i caratteri da leggere vengono trattati come<br />

figure da osservare in movimento, come immagini cinestesiche<br />

ed eventi posturali. Mentre tanti altri artisti hanno assorbito simili<br />

segni nel dipinto, facendoli segno di un’attitudine gravemente<br />

repressiva, li hanno isolati come marchi o spaccati in tronconi,<br />

egli introduce nella pittura la considerazione della parola come<br />

realtà di tensione. Se altri usa l’alfabeto per dire cose diverse, egli<br />

rovescia tale convenzione alla radice poiché non all’abuso bada,<br />

nonostante la voluta arbitrarietà nella scelta del segno, ma alla<br />

messa in moto delle sue capacità distribuzionali ed ordinatrici, affidandogli<br />

il compito di coprire la struttura interna del quadro con<br />

i suoi tracciati e di parlarla. Perciò le lettere si dispongono lungo<br />

dei percorsi, formano delle righe (tanto che si può parlare di una<br />

lineare di Novelli) ed occupano delle posizioni. In ciò consiste la<br />

mobilità che il pittore assegna alla scrittura, assunta l’ipotesi che<br />

essa è meno importante come strumento del testimoniare (designazione<br />

di un denotato) e più come un modo di fare lo spazio.<br />

Si tolgano, per esempio, ad un’opera come “Centro, intervento,<br />

tesoro” (1964) le righe scritte e si vedrà che l’immagine non si<br />

sostiene senza queste nervature necessitanti che contengono dei<br />

valori convenzionali (ripudiabili) ma soprattutto delle forze di<br />

orientamento. Ciò significa che la superficie del quadro passa da<br />

luogo illudente e conservativo delle cose a realtà presentificata<br />

nelle sue relazioni interne grazie alla funzione referenziale delle<br />

catene di lettere. Non ciò che è stato e neppure ciò che è fuori<br />

(quel tanto di materia diaristico-esistenziale che è consegnata<br />

alle parole) costituiscono l’oggetto della fabbricazione, bensì ciò


che vive nel linguaggio. Si sarebbe tentati di dire che questa forza<br />

di potenziamento motorio dei procedimenti alfabetici trae profitto<br />

da quelle stesse facoltà psicologiche della “mente in ozio o assorta<br />

in speranze fallaci”, da quelle energie fantastiche che René<br />

Hocke ha richiamato a proposito dei manieristi. Analogia sostenibile,<br />

quando si tien presente l’insistenza di Novelli sui meccanismi<br />

del gioco e dell’immaginario. Interessa ora sottolineare che<br />

le lettere si mettono a correre, a camminare, a misurare col loro<br />

passo, scandendolo, lo spazio della tela; girano in tutte le direzioni<br />

anche se prevalentemente tendono a porsi nella successione<br />

propria all’evento scrittorio, vale a dire secondo il principio formativo<br />

della linea e in accordo naturale col braccio che segna la<br />

superficie e con le sue ampiezze meccaniche: v’è dunque una<br />

chiara economia del gesto che produce la grafia in rapporto al significato<br />

che si vuol enunciare. Un gestus orationis, inutile dirlo.<br />

Il trattamento eloquente subìto dalle lettere è tale che il tracciato<br />

è talora omologo e tal’altra oppositivo all’andamento dell’espressività,<br />

così che la parola riceve lungo il suo itinerario, nelle<br />

cavità e nei rilevamenti, nelle ondulazioni organiche come nelle<br />

spezzature taglienti, differenti valori soprasegmentali: qualcosa di<br />

simile ad una metrica della mellificazione e dell’ inacerbimento.<br />

Tutto ciò riconduce in prima istanza alla lezione di Klee circa la virtualità<br />

sensoriale del punto e, nel nostro caso, della lettera quale<br />

139<br />

entità generatrice di superfici. Scriveva Klee: "La genesi della<br />

scrittura è un’ottima allegoria del movimento. Anche l’opera d’arte<br />

è in primo luogo genesi, mai se ne può avere esperienza come<br />

di un prodotto". Novelli dà corpo alla allegoria e restituisce alla<br />

scrittura le capacità operative riconosciute agli elementi puri della<br />

formatività. Non solo il punto, ma la lettera A; non solo la linea,<br />

ma le righe della grafia: decisione che sottintende una scelta di<br />

certe materie culturali in virtù di un primato dell’alfabeto su altri<br />

valori. Se particolari convinzioni, spesso richiamate dai significati<br />

primi delle lettere, portano il pittore ad una simile scelta e contemporanemente<br />

lo spingono su un versante opposto a quello<br />

dell’automatismo, stante il rifiuto di esibire un grafema in spazi<br />

isolati e frammentari, tutto l’interesse si sposta verso la proliferazione<br />

di accumuli ordinati di segni, ognuno dei quali presuppone<br />

un prima e richiede una continuazione. Anche nell’eventualità<br />

che il ductus si fissi su un’unica lettera, come accade di osservare<br />

in “A A A A...” (1962) o in “Tutti gli elementi necessari per<br />

costruire una A” (1968), questa dà luogo ad una serie di elementi<br />

costanti, dunque ad un processo germinativo che si manifesta attraverso<br />

la nascita di un solco grafico. Ma, a parte il riferimento<br />

capitale a Klee, i fogli presentano anche notevolissime analogie<br />

con esempi lontani di rigatura alfabetica: si pensi alle percorrenze<br />

bustrofediche del lapis niger, ai tragitti serpentinati delle ta-<br />

G. Novelli, A 3, 1962, olio su tela, cm 45x60 (particolare). G. Novelli, Le onde mentali, 1962, olio e tempera su tela, cm 64x85 (particolare).


G. Novelli, Situs orbis, 1963, tecnica mista su tela, cm 135x135.<br />

vole alchemiche o, tra i primitivi attuali, ai tracciati indios sulla<br />

sabbia e sulla roccia. Vi si scopre attivo il medesimo principio dinamico-generativo:<br />

la lettera o l’ideogramma assumono la funzione<br />

di occupazione-copertura dello spazio ed operano l’assimilazione<br />

a sé del campo di sostegno nei modi caratteristici dell’avanzamento.<br />

Ancora una volta si tratta di una voluta operazione<br />

stilistica, retoricamente certa. C’è stata un’effettiva adozione,<br />

e più netta non sarebbe potuta essere, di alcuni schemi compositivi<br />

(vere e proprie figure retoriche) derivati dall’obelisco, dalla<br />

pietra di Apollo, citata espressamente negli onfalos, dalle mappe<br />

astrologiche e dalle corsività manieristiche, con le ascendenze<br />

che esse comportano. Il tessuto interno del quadro (ci sono poi le<br />

testimonianze dirette di Novelli a confermarlo) richiama una maniera<br />

di comporre le immagini per settori sovrapposti e di annodare<br />

le varie giunture tra loro per assonanze organiche, che trova<br />

riscontro nelle scritture preistoriche. Si confronti un quadro come<br />

“Codice ideografico” (1967) con i segni rupestri di Gravirnis e si<br />

vedrà la profonda somiglianza strutturale che sussiste tra essi. Importa<br />

notare che l’individuazione di uno schema (epigrafe o tavola<br />

di scongiuro) impone una speciale articolazione, poiché la<br />

verticalità di un obelisco solleva problemi di movimentazione<br />

della scrittura assai diversi da quelli della stesura cartografica su<br />

un campo orizzontale. Non è quindi la lettera singola dell’alfabe-<br />

140<br />

to (e neppure il singolo pittogramma) ad essere richiamato, ma<br />

l’insieme di un codice figurale. Raramente Novelli contrae la scrittura<br />

contro se stessa (la tavola dei segni latini procede da sinistra<br />

a destra), ma la stimola anzi a proseguire il movimento che le è<br />

proprio. Da qui la sua tensione per la "leggenda", per il gioco dell’oca<br />

o il mandala. Di più: sottopone gli schemi ad una sorta di<br />

omogeneizzazione nel senso che, operando la riduzione di tutti i<br />

segni alla nozione di figura, assegna le partiture sotterranee delle<br />

superfici scritte, quella magica in primo luogo ma anche quella<br />

testimoniale, alla scansione interlineare. La lettera si assimila all’arabesco,<br />

al pittogramma. Non è certo sorprendente perciò che<br />

il lavoro del pittore, almeno in parte e in certi anni, riconquisti la<br />

dimensione dell’ ornato, un tempo patrimonio dei copisti, come<br />

mostrano le variazioni sui caratteri, gli sviluppi di capilettere e i<br />

racconti sul tipo dei “Viaggi di Brek”. Un gusto non fine a se stesso,<br />

però: lo svolgimento dell’ornato corrisponde anche ad altro.<br />

Infatti i perimetri e gli andamenti delle grafie servono a delimitare<br />

delle regioni ideologicamente consistenti, cariche di allusioni<br />

mitico-magiche: sono i labirinti, i recinti sacri del temenos o<br />

delle scritture corografiche dei primitivi. Si riattiva un complesso<br />

patrimonio linguistico e lo si contamina con la scrittura fonetica.<br />

Ora, per tornare al caso particolare della lettera-suono, va notato<br />

che Novelli diffida della sua verità comunicativa ma non vi rinuncia,<br />

poiché è proprio sul problema particolare della "acustica"<br />

del segno che egli concentra lo sforzo di aggiustamento semantico.<br />

"Più larghi e precisi significati": ecco l’obiettivo che si propone.<br />

Il codice verbale dell ’uso quotidiano, questo medium consumato<br />

e "confuso", è pur sempre uno dei dati di partenza. Così si<br />

spiega l’ossessivo ritorno. In un’opera come “Il vocabolario”<br />

(1964) è stato trasferito tutto un passo della dottrina sui segni<br />

comparso su “Grammatica” (3) nello stesso anno. Quel brano, ora<br />

completamente rivolto verso se stesso, assume connotazioni di<br />

esclusivo ordine ritmico, di un ritmo fondato sulle grandezze della<br />

vibrazione interlineare, dove la norma fonetica è precipitata in<br />

uno spazio grafematico. La cancellazione della parola è la condizione<br />

dunque della sua rinascita.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Parola e calligrafia in Gastone Novelli”,<br />

Genova, 12 marzo 1972.<br />

(2) Rivista di “cultura contemporanea complessiva” fondata da G.N. e<br />

Achille Perilli nel 1957.<br />

(3) Rivista di letteratura e arte nata nel 1964. Tra i redattori vi erano Alfredo<br />

Giuliani, Giorgio Manganelli, Gastone Novelli e Achille Perilli.


Oggetti per un territorio luminoso<br />

Michele Canzoneri (1)<br />

Gabraster + aria + vetro, quanto a dire alchimia e natura, elementi<br />

primari e materie artificiali. Va subito aggiunto tuttavia<br />

che nel lavoro di Canzoneri questa indicazione ha valore strumentale<br />

e sta a significare soltanto dei dati di avvio. L’associazione<br />

di aria, vetro e resine poliesteri rientra nelle ragioni di<br />

primo grado della fabbricazione artistica, laddove certe virtù<br />

transitive comuni degli elementi, la trasparenza, la gonfiabilità o<br />

la docilità plastica, servono a determinare una ‘situazione’ favorevole<br />

all’emersione di qualcosa di più essenziale. GAV è conduzione<br />

di energia.<br />

Altrettanto strumentale è tutta la terminologia relativa all’oggetto,<br />

per ora felicemente compromessa con l’area mondana dello<br />

M. Canzoneri, Oggetti luminosi, 1972 (particolare).<br />

141<br />

spettatore; eppure necessaria per chi opera sul terreno della progettazione<br />

e del calcolo. Canzoneri produce appunto degli oggetti<br />

luminosi, dei contenitori solari (semisfere, tubi, lampade,<br />

ecc.) che richiamano ed insieme trasgrediscono il design e la<br />

scultura, come ha recentemente rilevato <strong>Francesco</strong> Carbone parlando<br />

di un “campo di interessi che, pur tenendo conto per affinità<br />

elettiva, della funzionalità qualificante delle ’forme’ si ponesse<br />

in grado di superare lo stesso design, senza sottrarsi con<br />

ciò all’inserimento nel progetto: architettonico, urbanistico, ambientale”.<br />

In questo senso il lessico concreto della tecnica e della<br />

misurazione corrisponde alle motivazioni reali di una civiltà già<br />

in gran parte fondata sui circuiti d’informazione in campi magnetici.<br />

Il contenitore è per altro provvisto già in sé di una forte<br />

capacità di suggestione e produce delle ‘sorprese’. Lo spettatore<br />

scopre tutta una dimensione del meraviglioso che è suggerita<br />

dalla coerenza interna dell’oggetto, non tanto cioè da un fare<br />

combinatorio che incide sulle materie mediante rifrazioni, spettri<br />

elettrici e oscillazioni corpuscolari, nelle quali pure è da vedere<br />

un incanto materiologico, quanto dall’inesauribilità dei tracciati<br />

serpentinati e circolari che sono gli stilemi dominanti dell’intervento<br />

formativo, sia in profondità che in superficie. Si creano<br />

così dei volumi concavi-convessi in cui le proposizioni plastiche<br />

assumono una configurazione variabile all’infinito (labirintica),<br />

a seconda dei punti di vista che tendono a disporsi prevalentemente<br />

lungo un percorso parabolico anche quando l’oggetto<br />

sia sprovvisto di animazione cinetica in senso stretto. Si tratta<br />

di un movimento virtuale a riflessione mutevole, esercitato nello<br />

spessore stesso dei volumi trasparenti, omologo od oppositivo<br />

agli andamenti oscillatori della luce, costantemente coordinato<br />

tuttavia alle esigenze tensionali dello spazio sferico. Non è un<br />

caso certamente se registriamo tra le figure più frequentate dall’esercizio<br />

compositivo i solidi di rotazione, il disco o l’emisfera. Il<br />

motivo dello straordinario, legato consapevolmente alla piacevolezza<br />

dell’oggetto nel senso che Canzoneri considera qualificante<br />

e non culturalmente regressiva l’attenzione rivolta alle<br />

componenti ludiche del manufatto, si collega alla ricerca della<br />

spettacolarità e della utilizzazione funzionale dello spazio. C’è<br />

una volontà di stimolazione psicologica e dinamica nei confronti<br />

dell’esterno che relaziona l’indagine a tante altre che si stanno<br />

svolgendo nel campo dei corpi tridimensionali in rapporto al-


l’ambiente, quali, ad esempio, le esperienze di Chryssa o di Raysse: operazioni<br />

volte a ristrutturare il territorio quotidiano, utopiche nella misura in cui<br />

progettano il futuro e ideologiche perché prefigurano delle situazioni esteticamente<br />

coerenti che correggono il presente e ne denunciano le zone di<br />

opacità. Non scultura integrata all’architettura, secondo le poetiche del<br />

primo dopoguerra, ma plastica luminosa coordinata all’invenzione urbana di<br />

uno spazio interno/esterno praticabile, con la conseguenza di un’uscita dall’oggetto<br />

ai fini di un coinvolgimento concettuale più ampio. Il prodotto artistico<br />

non ammette perciò l’indifferenza: carica di segno positivo lo spazio<br />

che sta attorno, tende a rimodellarlo e a suscitarne le latenti forze metamorfiche.<br />

Come in Raysse o in Schöffer (citazioni solo orientative di un in-<br />

M. Canzoneri, Oggetti luminosi, 1972, appunti.<br />

142<br />

dirizzo) le funzioni circolari di Canzoneri vogliono<br />

determinare delle reazioni ambientali e domandano<br />

la collaborazione mentale dei destinatari; diversamente<br />

da loro, però, l’approccio con l’esterno avviene<br />

con modalità assai più morbide e insinuanti,<br />

poiché la semantizzazione visuale non agisce in<br />

modo violento né possiede un tempo di rapida impressività.<br />

L’avvolgimento, sempre discreto, propone una percezione<br />

continuata ed offre in ultima analisi un<br />

campo di fruibilità ininterrotta, più abitabile. Qui si<br />

precisa lo speciale compito di sorgente e di sostegno<br />

assegnato alle materie: le sfere e blocchi vetrosi,<br />

su cui si concentra lo studio delle fonti luminose,<br />

funzionano proprio come delle macchine di<br />

orientamento e di distribuzione della luce, dato il<br />

loro costituirsi a livello di privilegio nel procedimento<br />

di modellazione del medium elementare, l’aria.<br />

Immagini dunque formalmente pregnanti ma strutturalmente<br />

transitive che operano nella dilatazione.<br />

L’interrogativo ultimo riguarda noi stessi, la nostra<br />

disponibilità a ricevere in forme culturalmente attive<br />

l’invito contenuto nella proposta e a caricarne di<br />

attesa gli ulteriori sviluppi.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Ricerche luminose”,<br />

Loggia di Giulio Romano, Mantova, marzo-aprile 1972.


Iconicità comune<br />

Edoardo Bassoli (1)<br />

Non si può negare che Bassoli affronti il tema dell’immagine<br />

con disarmante disinvoltura e che il repertorio dei suoi segni<br />

appartenga, incontrovertibilmente, al mondo del ‘già visto’.<br />

Anche gli artifici tecnici dei suoi montaggi, la sequenza o il contenitore,<br />

rinviano fuor di dubbio alle soluzioni strumentali dell’obsolescenza<br />

artistica.<br />

Non qui dunque la sua novità. Ciò che invece interessa notare<br />

sta nella maniera tutta individuale, da parte sua, di porsi di fronte<br />

all’iconicità comune, allo scorrimento dei messaggi normali<br />

cui pochi sanno sottrarsi, visto che il bersaglio polemico di Bassoli<br />

è l’indifferenza o, se così vogliamo chiamarla, la disatten-<br />

E. Bassoli, Quale realtà, 1972, scultura in acciaio e cotto, girevole, cm 80x65x74.<br />

143<br />

E poi il silenzio, 1972, olio e acrilico su tela, cm 50x70.<br />

zione ottica di ognuno nella vita quotidiana. In questo territorio<br />

le sue armi migliori sono lo smascheramento e l’attivazione.<br />

Smascheramento: l’operazione consiste nel ribaltare la forma<br />

costitutiva del messaggio, più esattamente nel rivelarci come<br />

dietro l’apparente finitezza del prodotto di massa ci stia l’informe<br />

o tutto l’orrore di un’immagine persuasoria. Così la quiete di<br />

un corpo, a guardar bene, è proprio il contrario di quel che vuol<br />

apparire: squilibramento e inquietudine.<br />

C’è poi attivazione nel senso che l’insieme, spesso risultante<br />

dalla associazione di elementi parziali (sezioni di un viso, frammenti<br />

di corpi, entità metamorfiche, ecc.), viene organizzato<br />

secondo certe coordinate di movimento e di tensione. Da qui le<br />

lacerazioni improvvise, le rotazioni e le configurazioni ad incastro.<br />

A parte l’intenzione puristica del comporre che non esclude<br />

una certa ambiguità, la attivazione tende a trasferirsi idealmente<br />

nello spettatore per la fatica che gli si richiede nel frugare<br />

meglio certi particolari, sbrogliando taluni avviluppamenti<br />

(vedi le sculture) ed entrando così nell’intimo dell’oggetto.<br />

Nella sostanza queste opere si propongono come registrazioni<br />

di scosse emotive riportate poi, e qui sta la misura dello sforzo<br />

compositivo, nella zona del senso. Ma ora si pone anche l’interrogativo:<br />

basta l’analisi del messaggio e della propria emozione<br />

per rovesciare criticamente i fatti? Non si rischia di dare una risposta<br />

individuale, per quanto moralmente alta essa sia, mentre<br />

la questione in ultima analisi è critica e politica?<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Edoardo Bassoli”, Galleria d’Arte<br />

“Teatro Minimo”, via Principe Amedeo 17, Mantova, 1972.


1973<br />

Da Carlo Bondioli<br />

a Renzo Schirolli<br />

Disegni<br />

Carlo Bondioli<br />

L’oggetto e l’immaginario<br />

Virgilio Guidi<br />

Arte come antiarte<br />

Ernesto Grassi<br />

Teatralizzazione<br />

Lucia Tampellini<br />

Uno sguardo precipitato nella natura<br />

Giulio Perina<br />

La pittura di Ruberti e gli oggetti<br />

del costume di casa<br />

<strong>Francesco</strong> Ruberti<br />

Normalità<br />

Artoni Mario (detto Aspiro)<br />

La pittura come specchio<br />

Renzo Schirolli


Disegni<br />

Carlo Bondioli (1)<br />

Paesaggi e nature morte sono i temi riccorrenti nei lavori grafici<br />

di Carlo Bondioli. Non si equivochi su termini così comuni nell’esercizio<br />

della pittura e tanto carichi di ambiguità: in questo<br />

caso essi non spiegano nulla di sostanziale né ci aiutano qualora<br />

li si intenda come rimandi a qualcosa di esterno che giustifichi,<br />

in modi magari impressionistici e sentimentali, una ricerca<br />

svolta sul terreno della forma. La si prenda perciò come semplice<br />

indicazione di lavoro, allo stesso modo in cui siamo soliti leggere<br />

il contrassegno di una data o il nome di un luogo scritto in<br />

margine al foglio. “Paesaggio” e “Natura morta”, lo sappiamo<br />

bene, sono anche e soprattutto luoghi stilistici, topoi, figure dell’immaginazione.<br />

Per convincersene basterà osservare quanto poco dell’originaria<br />

fisionomia naturalistica si mantenga in vita negli oggetti raffigurati<br />

dal disegnatore; e come le case, le fornaci o le piante acquistino<br />

invece riconoscibilità nel campo delle figure geometriche.<br />

Anche la profondità e il peso, tipico della realtà concreta,<br />

sono velati e lontani, assorbiti dal foglio. I corpi così smateriati<br />

tradiscono sì una fedeltà alla natura, ma soltanto quale intimo<br />

presupposto dell’artista.<br />

Piuttosto vale una seconda caratterizzazione, formale e tecnica<br />

questa volta: la texture. Per Bondioli infatti l’immagine cade<br />

sotto il dominio di una retinatura essenziale del segno, di una<br />

tramatura fitta e rigorosa della grafia che crea spazi pulviscolari<br />

C. Bondioli, Paesaggio con case, s.d., prova di stampa, cm 12x40.<br />

146<br />

ed omogenei, organizzate per pure cadenze ritmiche. Sicché – va<br />

detto subito – il processo di scorporamento e di ri-organizzazione<br />

dell’immagine non possiede sottintesi e valenze simboliche<br />

particolarmente ardue da decifrare, anzi le respinge del tutto,<br />

esercitandosi invece nei termini più stretti di una messa a punto<br />

figurale del materiale percettivo. Ed è ciò che appunto interessa<br />

sottolineare: il segno è impiegato per parlare una lingua che<br />

non è semplicemente quella della natura e dei fenomeni, non<br />

ha tanto intenti riproduttivi e mimetici (semmai correttivi, come<br />

vedremo), ma è forzato a determinarsi in configurazioni che<br />

hanno in se stesse la loro forza e nella propria architettura l’unico<br />

significato possibile. Va da sé che ad una simile impostazione<br />

di ricerca sono sottese precise ragioni culturali.<br />

Assai significativo è per altro il modo dell’artista di porsi di fronte<br />

al proprio soggetto come ad un pretesto strumentale, oltre<br />

che ad un’oggettiva presenza. Si dà il caso infatti che egli rovesci<br />

la tradizionale relazione impressionistica che voleva l’occhio<br />

del pittore annientato, per così dire, nello spettacolo luminoso<br />

della natura e preso nel vortice delle sensazioni. Non la sensazione,<br />

ma la percezione visiva è ciò che ora vale, e cioè il procedimento<br />

tutto interno e mentale secondo il quale il fenomeno<br />

acquista senso e valore dentro di noi. La forma non sussiste al di<br />

fuori, anzi è il risultato di una interna azione conformatrice che<br />

ordina e sistema tassonomicamente una realtà altrimenti caotica<br />

e incomprensibile. Perciò il contatto con la natura non è respinto,<br />

ma presuppone un ‘prima’ e un ‘poi’, una sequenza di<br />

messe a punto e di scelte. Si comprende allora il perché di tanti


fogli, appunti e determinazioni figurali, di tanti schizzi tracciati<br />

anche sul posto, e tuttavia nient’affatto en plein air.<br />

Si tratta di paesaggi, tiene a precisare Bondioli, ormai abituali<br />

per lui, lungamente osservati e meditati. Eppure quando torna a<br />

rivederli, è lui a deciderne il volto definitivo, imponendovi la<br />

forza reattiva del suo occhio, quel reticolo eidetico che è venuto<br />

poco a poco a depositarsi nell’immaginazione e che agisce da<br />

correttivo nei confronti della realtà. Il paesaggio fisico deve insomma<br />

fare i conti con un paesaggio mentale e con delle misure<br />

organizzative ormai decantate e perciò in grado di reggere il<br />

lavoro di ripresa dall’esterno, suggerendo di volta in volta certe<br />

sottolineature e particolari scarti, eliminazioni e rinunce. Spazio<br />

fenomenico e spazio interno (non direi ancora teorico e astratto)<br />

trovano in una simile messa a fuoco le reciproche ragioni dell’equilibrio.<br />

Può darsi che in ciò agisca il filtro soggettivo della<br />

memoria e, con esso, l’antico bisogno morale di un ancoramento<br />

all’esperienza sensibile; è certo, però, che nulla di ‘troppo soggettivo’<br />

rimane ad operazione compiuta, poiché le immagini si<br />

leggono soprattutto sulla base di rigorosi rapporti metrici.<br />

Che l’atmosfericità non sia il valore cui Bondioli vuole arrivare, lo<br />

dimostra anche il fatto che egli rinuncia completamente al colore;<br />

tanto che l’acquatinta, con le sue dosature uniformi di pellicole<br />

corpuscolari, pare rispondere assai meglio del disegno (in<br />

fondo sempre carico di tracce gestuali) alle intenzioni ‘geometriche’<br />

di un simile metodo. Sarebbe perciò poco conveniente<br />

voler spiegare i rapporti tra i segni col vocabolario riduttivo della<br />

luminosità quotidiana, anche se l’uso dello sfumato sembra suggerirne<br />

l’opportunità. E difatti non ci sono ore e momenti in questo<br />

paesaggio, ma soltanto delle luminosità senza tempo che<br />

escludono sia la solarità che il notturno. Mancano i trapassi di<br />

luce, sostituiti come sono dalle relazioni tra le forme.<br />

Si veda, ad esempio in Capanni, la sequenza dei reticoli, dei cubi<br />

e delle semisfere riflesse, dove tutto prende senso dalla cadenza<br />

dei pieni e dei vuoti, esattamente come avviene nella articolazione<br />

delle arsi e delle tesi in un verso: per sola virtù armonica<br />

degli accenti.<br />

Si noterà poi, passando in rassegna i disegni, che alcuni schemi<br />

impaginativi e ritmici sono prevalenti rispetto ad altri. Domina<br />

tra tutti l’orditura frontale ed allungata, retta sull’incrocio delle<br />

linee orizzontali con le verticali, quest’ultime per lo più concen-<br />

147<br />

trate nel cuore dell’immagine (si badi alla funzione di incernieramento<br />

delle ciminiere) e poi riproposte, nelle battute secondarie,<br />

quasi ai margini della pagina. La figura del paesaggio riceve<br />

così un solido assestamento, perfettamente in equilibrio<br />

sugli assi portanti. Le diagonali, quando intervengono, svolgono<br />

anch’esse un’azione di sostegno rispetto all’impalcatura principale<br />

ed ancora: non aprono, ma chiudono la texture. Ne deriva una<br />

misura costante di equilibrio, qualcosa di simile a certi spartiti<br />

scenici anti-illusionistici che A. Appia aveva realizzato all’inizio<br />

del secolo operando sugli elementi oppositivi e sulle coppie dei<br />

sinonimi.<br />

Forse la dilatazione della trama monocroma e l’uso di impaginazioni<br />

più ampie potrebbero dare al lavoro di Bondioli il respiro<br />

perentorio dell’opera inequivocabile. Ma resta un’ipotesi, non so<br />

quanto condividibile. Ciò che oggi conta indicare è l’invenzione<br />

di una forma rasserenata, in grado di offrire al lettore – per metafora<br />

– le ragioni di una parola che ancora una volta, ostinatamente,<br />

crede nella forza risolutiva dell’armonia.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 30 maggio 1973,<br />

con il titolo “Disegni di Bondioli”.


L’oggetto e l’immaginario<br />

Virgilio Guidi (1)<br />

Scriveva Guidi nel 1966: “La mia condizione ora è questa: 1° l’oggetto<br />

è necessario; 2° la geometrizzazione dell’oggetto naturale<br />

non è possibile; 3° l’oggetto libero è un oggetto dell’apparenza<br />

e dell’immaginazione; 4° nella concezione dello spazio-luce la<br />

geometria può essere necessaria, per stabilire semplicemente<br />

dei punti ideali nello spazio, non figure rigide; per i quali punti<br />

ideali l’oggetto può trovare a un tempo la sua libertà e la sua costrizione”.<br />

Una dichiarazione senza dubbio decisiva per la chiarezza<br />

con cui respinge la dissoluzione dell’oggetto e rilancia il diritto<br />

di una figurazione libera, aperta alle ragioni contemporanee<br />

della apparenza naturale e dell’immaginario; decisiva infine perché<br />

ritaglia nei termini perentori di un semplicemente la funzione<br />

dell’astrazione neoplastica nella nascita dei nuovi oggetti, bilanciati<br />

tra i valori contrari della libertà e dell’imprigionamento.<br />

Quest’enunciato teorico, benché sia stato espresso di recente e<br />

illumini intensamente il tempo successivo all’invenzione cosmica<br />

esplicita (cade infatti dopo il ciclo delle architetture), non perciò<br />

perde di pertinenza retroattiva ed anzi appare largamente<br />

estensibile a gran parte dell’opera guidiana con speciale riferimento<br />

al lavoro dell’ultimo trentennio. Per di più esso autorizza<br />

a risolvere alcuni problemi di riconoscibilità e di denominazione<br />

dell’immagine, dato che, appunto, la questione della riconoscibilità<br />

si pone ogni volta di fronte ad un quadro di Guidi.<br />

Infatti, quale senso attribuire ai temi della sua pittura? Che cosa<br />

significa la costante presenza di oggetti ed emblemi? Ed ancora:<br />

di quali emblemi si tratta?<br />

Apparentemente tutto è semplice, naturale, senza sottintesi.<br />

Aiutandoci con la memoria del sensibile e col mondo dell’evidenza<br />

ci orientiamo verso una prima ipotesi e scopriamo dei<br />

segni elementari: l’arco, la cupola, la curva degli occhi, la linea<br />

dell’orizzonte, una grata. Ma subito dopo, anzi nell’atto stesso<br />

della identificazione avvertiamo il disagio di una parola che non<br />

riesce a raccontare il segno dal quale pure è stata provocata.<br />

Questa parola precipita verso l’immagine e vi scompare, risucchiata<br />

da lei e dentro di lei, come se questa avesse cambiato natura<br />

e da consistente e provocante fosse diventata di colpo assorbente<br />

e vuota, senza corpo. L’icona si fa nominare ma para-<br />

148<br />

V. Guidi, Occhi nello spazio, 1967, olio su tela.<br />

dossalmente non sopporta la nominazione, non tollera nessuna<br />

stringente determinazione. Avvertiamo così di avere a che fare<br />

con un’immagine-desiderio o, se vogliamo, col desiderio di un<br />

segno che richiama la nostra attenzione con la forza della seduzione<br />

sensibile per dirci qualcosa che, però, non è più il desiderio.<br />

Forse che il fascino del più noto dei motivi guidiani (quello<br />

della marina) non deriva da questa attrattiva magnetica che<br />

V. Guidi, La prigioniera, 1967, olio su tela.


l’immagine scatena nella visione dell’osservatore? E l’ammaliamento<br />

non è anche una componente di tutti gli altri emblemi?<br />

Converrà allora insistere, ancora una volta, sull’elemento portatore<br />

della seduzione, sulla luce cosmica di Guidi: una realtà questa,<br />

di doppia, triplice natura. Di essa appare poi ardua la definizione,<br />

poiché se è nata e germinata dalla luce fisica (quella più<br />

totale e violenta, quella a picco, meridiana, secondo la testimonianza<br />

dell’artista), la trasgredisce subito in quanto a visibilità<br />

sensibile e percezione reale. Ed oltre a ciò, si complica e arricchisce<br />

di una tensione che le deriva dall’essersi riflessa e franta<br />

sullo specchio della mente, connotandosi di elementi che sono<br />

appunto mentali, pensati, di pura immaginazione. Partorita dalla<br />

visione divorante, percepita da quel terzo occhio di cui parla<br />

anche Merleau-Ponty, dallo sguardo del dentro, esso è fluido che<br />

tutto penetra e non s’arresta alla superficie dei corpi: apre delle<br />

fessure, entra nel vuoto, è vuoto, è fondo. Ed è, se è in qualche<br />

modo consentito attribuire alla luce la sua femminilità, bellezza<br />

naturale e non semplicemente estetica: entità fecondativa e generativa<br />

delle apparenze.<br />

Persino nel più riconoscibile dei volti e nella più rispettosa delle<br />

icone veneziane erompe l’epifania femminile della luminosità<br />

che sfoglia la superficie dei luoghi identificabili, la corrode con un<br />

valore che si dà presente nel visibile e non già con ciò che – per<br />

via di netta separazione – resta ‘al di là’ e ‘oltre’. Una sorta di impossessamento<br />

del mondo operato dalla ‘follia’ della visione.<br />

Ora, questa emergente cosmogonia trova la sua consistenza, i<br />

suoi punti di appoggio in un sistema di segni che si iscrivono nel<br />

circuito di una più generale emblematica oggettiva, ossia in un<br />

inventario di luoghi ‘visibili’ su cui si innesca lo scatto moltiplicativo<br />

dell’immaginario. Sulla doppia natura “fisica e intellettuale”<br />

e talora “più intellettuale che fisica” della luce ha già detto<br />

parole definitive la critica che se n’è occupata; né conta tornarvi<br />

sopra. Meno esplorata è invece quell’emblematica cui si accennava,<br />

quell’universo di oggetti liberi provvisti, per così dire, di<br />

cavità, vuoti e ricettivi; che accolgono memoria e ipotesi, utopia<br />

e progettazione. Sono oggetti aperti da ogni lato, schermi di<br />

scorrimento, poiché rifrangono sensi di qua e di là, di sopra e di<br />

sotto. Emblemi dell’apparenza, ma anche della trasparenza. E<br />

perciò l’oggettivo correlativo di Guidi è un emblema che si<br />

scava, accoglie il tempo psicologico e memoriale, il tempo stori-<br />

149<br />

co, ma anche il tempo futuro.<br />

Se è vero poi che gli oggetti della trasparenza non sono lì fermi<br />

nell’immobilità, visto che quasi mai si danno soli ed isolati alla<br />

contemplazione pura, si capisce perché si scateni così di frequente<br />

il dramma delle immagini che scorrono le une sulle altre<br />

e manifestano quella che ci sembra l’inquietudine degli emblemi.<br />

Si veda, per un confronto, Giudizi, 1965 (nn. 2, 3, 4 del cat.).<br />

Il motivo dell’angoscia colpisce anche gli oggetti. Ed allora sarà<br />

possibile indicare in parallelo l’altra angoscia, quella del pensiero<br />

di Guidi, un’angoscia che non è “smarrimento o impotenza”,<br />

come egli ebbe a dichiarare, poiché “l’angoscia vera non è che<br />

una costante aspirazione, un continuo moto verso l’alto”.<br />

Nascono così i ‘temi’ guidiani, certi topoi caratteristici e permanenti:<br />

il paesaggio, si è detto per le due mostre precedenti, e il<br />

ritratto, sui quali mai si insisterà abbastanza per confutare l’equivoco<br />

di una loro familiarità con i generi pittorici.<br />

Dal ’45 in poi questa tipologia (o topologia retorica) si è straordinariamente<br />

arricchita nel corso di un assiduo ripensamento<br />

dell’oggetto libero, nell’analisi dei suoi principi costruttivi, nell’esplorazione<br />

delle reti di relazione e dei nuclei atomici dell’immagine.<br />

Si attua in tale condizione una sorta di strutturazione<br />

emblematica e primaria del luminoso, magari con l’inversione<br />

del procedimento ideativo, procedente questa volta più spesso<br />

dal cerchio dei segni smaterializzati ed ideali a quello delle impressioni,<br />

con la conseguente dominanza delle immagini ‘pure’,<br />

dei tondi, degli occhi, delle architetture. Eppure ancora una volta<br />

questo oggetto libero, questo emblema puro si esistenzializza, si<br />

complica e prende peso: diventa corpo. V’è dèreglement, con un<br />

inabissamento che precipita verso l’iconosfera del visibile.<br />

E l’occhio è appunto il testimone di questa realtà ‘impegnativa’<br />

che si palesa, impegnativa perché i segni dell’immaginario scendono<br />

sulla superficie dell’apparenza, si incontrano (ecco un altro<br />

tema guidiano), corrono contro il nostro occhio, contro il nostro<br />

corpo e l’esistenza stessa. Si confrontano.<br />

La mappa degli oggetti può dunque essere descritta e benché<br />

essa non ammetta troppe distinzioni, in ragione della interna e<br />

voluta complementarità degli opposti oltreché per l’inquietudine<br />

circolatoria di cui si diceva prima, forse è lecito circoscrivere approssimativamente<br />

delle morfologie e dei capitoli diversi di organizzazione<br />

formale. Le stesse stagioni di Guidi ci aiutano a


V. Guidi, Volto ovale, 1971, olio su tela. V. Guidi, Grande volto, 1968, olio su tela.<br />

150<br />

V. Guidi, I tondi, 1967, olio su tela.


farlo, quei cicli che si intitolano in vario modo con enunciati spesso<br />

emblematici ed assoluti (Figure nello spazio, Giudizi, Incontri,<br />

Tumulti, Angosce, eccetera), anch’essi carichi di una loro precisa<br />

metaforica verbale. È assai probabile cioè che i momenti tematici,<br />

– pur nell’avvertenza della variatio e del rimescolamento,<br />

fatta dai commentatori – circoscrivano delle zone grammaticali<br />

abbastanza compatte: il che darebbe poi modo di arrivare, attraverso<br />

la morfologia, ad una stilistica di Guidi.<br />

Per ora un simile esercizio di lettura è solo un’ipotesi, per ovvie<br />

ragioni contingenti. La mostra offre appena una breve esemplificazione<br />

e neppure esaustiva dei cicli formali di Guidi dopo il<br />

1950. Eppure si ha ragione di credere che la campionatura renda<br />

possibile un primo contatto essenziale con l’emblematica dell’artista:<br />

una Apparizione nell’azzurro, sette tra Architetture umane<br />

e cosmiche, un Tondo, una Prigioniera ed infine alcuni Volti e<br />

Occhi nello spazio.<br />

Ci limiteremo però ad un solo esempio, rapidamente.<br />

Il più tipico e antico, forse, dei correlativi oggettivi pare essere<br />

quello della grata, del reticolo che occupa (come cornice e ad un<br />

tempo come schermo) tutto il riquadro della tela. Ed è subito<br />

evidente, per chi voglia ripercorrerne i momenti costitutivi e addirittura<br />

gli antecedenti storici, che nulla aiuta se non il percorso<br />

interno della ricerca di Guidi. Una qualche affinità si potrebbe vedere<br />

con certe armature spaziali della grafia di Matisse (un<br />

nome che Guidi ha fatto spesso, come punto di orientamento nel<br />

tempo), quando però si avvertano, insieme ai dati di coincidenza,<br />

le profonde divergenze tra i due universi di segni, misurabili<br />

se non altro nell’assenza di un’emblematica cosmica dell’emergenza<br />

del pittore francese.<br />

Matisse sta semplicemente all’origine di un’intuizione che ha interessato<br />

Guidi e che si è poi costituita per lui come problema,<br />

al punto da bruciare di fatto la questione sul piano di una superficiale<br />

eredità stilistica. Così anche il ricorso a Mondrian risulta<br />

fruttuoso unicamente come pretesto della riflessione sul motivo<br />

della natura.<br />

È allora chiaro perché la nascita di una ‘figura’ come quella della<br />

grata avvenga ‘dentro’ il topos guidiano della marina, nel momento<br />

di una rinnovata ricerca sul paesaggio fisico e mentale,<br />

appunto negli anni della adesione, si sa quanto particolare ed<br />

unica, allo spazialismo. Lo si è visto nella prima di queste tre<br />

151<br />

mostre. E qui vorremmo dire che l’astrazione dell’emblema (cfr.<br />

Marina con grata, 1950) si è attuata mediante la più valida delle<br />

forze purificatorie, quella del fuoco. Le linee di tensione, le diagonali,<br />

gli speroni di luce che compaiono sempre più frequentemente<br />

nella pittura di Guidi intorno a quegli anni sono il risultato<br />

di una attenzione orientata verso gli elementi primordiali di<br />

una cosmologia quasi presocratica. L’immaginarsi che il mondo<br />

dell’apparenza sia il luogo d’incontro di forze “misteriosissime”<br />

della natura (l’aggettivo appartiene allo stesso Guidi) è l’intuizione<br />

che segna l’origine della metamorfosi. La luce cosmica, al<br />

contrario di quella fisica, modella la materia, la trasforma, non la<br />

oscura. Questo pensiero figurativo, sostanzialmente connettibile<br />

alle metafore della vita-morte e al motivo della circolarità del<br />

tempo di cui si parla in un’altra parte del catalogo a proposito<br />

delle poesie, si snoda nella sequenza delle immagini ininterrottamente<br />

fino ad oggi (si pensi, tra l’altro, alla famosa Marina zenitale<br />

del 1952 al centro della mostra di Bologna). Una morphologie<br />

du feu: in questo senso è la luce che manifesta l’immaginario,<br />

una luce che rende incandescente ed annera (non consuma,<br />

né sfuma). Lo splendore allo stato puro ha questa qualità:<br />

può essere totalmente nero e insieme bianco, abbagliante. Né è<br />

un caso, ci sembra, che il cromatismo di Guidi si sostenga su tutto<br />

l’arco dei colori puri fino al nero più intenso. Il fuoco si risolve nel<br />

tema della luce spaziale (già dicevamo che non si danno combustioni<br />

e bruciature in queste immagini) e tocca in particolare la figura<br />

della grata. Nelle Architetture cosmiche questo elemento<br />

esercita una precisa funzione emblematica e strutturante; tra i<br />

correlativi oggettivi è quello che ritma lo spazio, apre verso il<br />

fondo e nello stesso tempo ne è avvolto, ritagliandosi come un<br />

fantasma abbacinante e abbacinato che naufraga nel mareggiare<br />

della luce e puntella il visibile. La natura mentale di questo oggetto<br />

è anche la sua natura fantasmatica: ciononostante ha all’origine<br />

una matrice memoriale, la vetrata dell’altana veneziana.<br />

La grata è un oggetto che viene visto e fa vedere: è, insieme, ciò<br />

che struttura, che ordina, che rende possibile. Da qui deriva il suo<br />

vastissimo impiego: in alcuni quadri opera con valore di una riquadratura<br />

essenzialistica che ci inoltra verso un secondo emblema<br />

(cfr. La prigioniera, 1967), altre volte si accampa solo, senz’altra<br />

significazione che la propria, al centro dell’immagine, con<br />

un’immensa tensione di annuncio. Risolutive in questo senso ap-


paiono, tra le Architetture cosmiche, quelle che combinano il<br />

tema stilistico della circolarità o dell’ellissi con questa del reticolo<br />

(circa 1964). Si ha allora non più e non solo la sovrimpressione<br />

di diversi oggetti liberi sulla stessa icona (come in certe<br />

Nuove figure del 1965), ma una coincidenza, una risoluzione<br />

dell’uno nell’altro: del cerchio nell’occhio e di questo nella grata.<br />

Figura unica di una crescita che non concede separazioni ed ha,<br />

non a caso, nelle centricità il suo luogo privilegiato.<br />

Nella serie degli emblemi inaugurati dalle Architetture umane,<br />

dove l’assembramento di larvali presenze crea dei corpi ambigui<br />

in crescita verso l’alto padiglione a vele rigonfie, l’impatto figurale<br />

dell’opera risulta forse più competitivo nei confronti dello<br />

spettatore. Si considerino tra le opere esposte le tre Architetture<br />

umane e la Figurazione strutturale del 1963: sono grovigli, matasse<br />

pulsanti, percorse da accensioni interne, talora poverissime<br />

di materia ma pregnanti e frontali sul piano della presenza. L’oggetto<br />

non è scomparso ma sta al limite della dissoluzione: un<br />

emblema oggettivo e corporeo nella misura in cui la corporeità<br />

può costituirsi – per omologia strutturale con la natura prima –<br />

nell’ambito della pittura non rappresentativa. Una nascita di figure<br />

di questo tipo ha così il potere di proporre nel territorio dell’oggettivo<br />

“un contestato ed ulteriore mondo di natura”, ossia,<br />

come è stato detto, il “mondo di tutte le realtà e di tutte le possibilità”<br />

(Toniato).<br />

Corporeità ‘altra’, corporeità cosmogonica dove le pressioni<br />

umane (si badi alle parvenze quasi gestuali emergenti dal fondo<br />

dei grandi corpi) divengono elementi di una pressione vasta, definitiva,<br />

in grado di ricevere le spinte di una liricità condotta fino<br />

ai confini dell’espressività più turbata.<br />

Sotto il segno della stessa poetica, di una teoria che ha nell’occhio<br />

il suo medium di attraversamento, prende successivamente<br />

rilievo tutta un’altra categoria di figure, sulle quali, chiamandole<br />

significativamente nuove, torna l’artista dopo il 1965: si tratta<br />

di emblemi liberi ricavati dalle avventure precedenti: i volti, le<br />

mani, i cieli, i tondi, le animule; e con essi, in primissimo piano,<br />

tutta l’antica, ossessiva metaforica dell’occhio, fino alla cancellazione,<br />

lucida come un teorema, dell’ “opera annullata”. Cancellazione<br />

poi sorprendente perché recupera nel segno della croce<br />

proprio quella figura della totalità e dell’incrocio (un ossimoro visualizzato)<br />

che costituisce uno dei tratti stilistici più risolutivi sia<br />

152<br />

dei Giudizi sia degli Occhi nello spazio.<br />

Ma se abbiamo a che fare con degli oggetti della seduzione (e<br />

l’emblema dell’occhio ne è il capostipite), è anche vero che lo<br />

spazio è il luogo di assorbimento, qualcosa di cavo che deruba e<br />

violenta, sicché può nascere per un momento il desiderio di far<br />

silenzio e di imporre, emblematicamente, il potere della visione,<br />

di un occhio centrale che fissa il vuoto. Ma ecco poi rifluire subito<br />

intorno allo sguardo immobile l’intera circolarità del mondo<br />

(cfr. Tondo, 1967) e con essa il dramma della caduta di occhi accecati<br />

nei Cieli antichi.<br />

Guidi chiude e riapre in tal modo l’esperienza di tutta la sua pittura,<br />

coinvolgendovi altre serie di sensi e moltiplicandovi le risonanze<br />

dell’oggetto immaginario. Ma è una stagione di ricerca<br />

ancora aperta per la quale, forse, può aver senso esplorare, al di<br />

là dello specifico della forma e con la forza dell’impertinenza,<br />

l’ambiguità concettuale delle opere recenti.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Grandi volti”, Loggia di Giulio Romano,<br />

Mantova, 9-29 giugno 1973.


Arte come antiarte<br />

Ernesto Grassi (1)<br />

L’individuazione di una serie ‘significativa’ di analogie, per lo più<br />

inconsapevoli e, perciò sorprendenti, tra la riflessione artistica<br />

contemporanea, in alcuni suoi indirizzi (da Rimbaud a Lautréamont<br />

a Kandinsky, eccetera), e gli enunciati non-estetici della<br />

teoria del bello nell’antichità greco-latina, dà articolazione affatto<br />

speciale e tuttavia rigorosa al libro di E. Grassi (titolo originale:<br />

Die Theorie des Schönen in der Antike, Colonia, 1962), pubblicato<br />

in edizione italiana a cura di E. Mattioli.<br />

A dieci anni dalla sua uscita in lingua tedesca (come primo volume<br />

di una storia dell’estetica che comprende anche gli studi di<br />

R. Assunto, per il Medioevo, e di L. Anceschi per il Seicento),<br />

l’opera si rivela indiscutibilmente utile per le prospettive teoriche<br />

che la sostengono oltreché per l’originale uso consultivo dei materiali<br />

di lettura. Se in Germania, secondo quanto avverte l’A.<br />

nella prefazione, essa aveva fruttato elementi di dibattito e talora<br />

obiezioni dalla parte di esteti ‘puri’ benché eterodossi (Sedlmayr,<br />

ad esempio), oggi appare probabile - in un’area che si<br />

ispira a premesse fenomenologiche - un uso diretto del libro,<br />

grazie anche al clima di attivazione critica cui sono sottoposte le<br />

nozioni di mito e di simbolo in rapporto all’arte.<br />

Relativamente noto in lingua italiana (poco citato anche il saggio<br />

Mito ed arte, “Rivista di Filosofia”, n. 2, 1956 che anticipa di<br />

un anno il volume Kunst und Mythos, Amburgo, 1957), il G. va<br />

ricordato invece per aver posto tra i primi negli anni degli strenui<br />

esercizi formalistici il tema di un fondamento ontologico del<br />

fatto artistico e, conseguentemente, la necessità di una nuova<br />

ermeneutica. Tema quest’ultimo ormai ricorrente se si bada al rilievo<br />

di cui oggi godono ‘archeologi’ come Bataille, Foucault, Deleuze,<br />

eccetera, o alla rinnovata lettura di Nietzsche e di Husserl.<br />

Se l’A. dichiara fin troppo modestamente che « i filologi troveranno<br />

assurdo il riferimento all’età moderna» in un lavoro che<br />

vuol essere di esplorazione storica nel territorio del pensiero<br />

classico, risulta invece trasparente la ragione scientifica e filosofica<br />

sottesa all’indagine, riconducibile com’è nel suo stesso puntiglio<br />

linguistico ed etimologico alla questione teoretica del ritorno<br />

alle origini del pensiero occidentale (una possibile radice heideggeriana<br />

è indicata da G. Morpurgo Tagliabue, L’Esthétique<br />

153<br />

contemporaine, 1960, p. 526). Apparirebbero altrimenti incomprensibili<br />

o appena curiosi i procedimenti attuati dal ricercatore,<br />

quel suo rimescolare le carte dell’avanguardia e della tradizione<br />

nel gioco dei rimandi orizzontali e dei confronti paralleli.<br />

Nei quattro capitoli che costituiscono il corpo centrale del libro<br />

sono successivamente esaminate le nozioni-chiave dell’estetica<br />

dai presocratici a Plotino, così da produrre, con evidenza, la continuità<br />

di una tradizione metafisica che non si arrestò neppure<br />

dopo la dissociazione aristotelica tra bello ontologico e bello<br />

estetico, dopo l’apporto cioè di una considerazione dell’ arte<br />

come mimesis delle possibilità umane, e non più come rivelazione<br />

dell’originario. Proprio sull’analisi, spesso fatta di prima<br />

mano, dei testi preplatonici e in particolare di alcuni passi del<br />

Simposio di Senofonte ricevono una prima illuminazione i concetti<br />

di imitazione e di somiglianza ed il nesso bontà-bellezzaeros.<br />

Presenti al fondo del commento si indovinano le suggestioni<br />

di Eliade e di Kerényi: l’arte sussiste come entità epifanica della<br />

Totalità che si manifesta attraverso la provocazione dell’eros, di<br />

uno ‘sguardo’ vinto e trascinato dall’immagine amata ed anzi<br />

portatore in sé dell’eidos: la somiglianza è il suo fine (p. 43). Appartiene<br />

a Senofonte, ricorda l’A., la prima probabile teorizzazione<br />

della imitazione artistica, formulata nel duplice senso di una<br />

mimesis della realtà sensibile e dei valori spirituali. Secondo i pitagorici<br />

e Senofonte, infatti, l’opera d’arte non “sta dinanzi all’uomo<br />

come oggetto di mera contemplazione”, si costituisce invece<br />

“come qualcosa di impegnativo” su cui cala il silenzio.<br />

Si dà a questo punto l’opportunità di un raffronto con le testimonianze<br />

a noi contemporanee; raffronto per altro singolarmente<br />

fruttuoso perché sollecita una sorta di parentela formale fra materiali<br />

omologhi a livello di récit, tra atti di poetica appunto.<br />

Prima di Platone - annota Grassi - non si registrano riflessioni coscienti,<br />

« ma denominazioni immediate, usate in descrizioni e<br />

trattati»; la poetica come meditazione interna o come « poesia<br />

della poesia» costituisce senza alcun dubbio una caratteristica tipica<br />

anche degli scritti di Léger, di Klee o di Kandinsky. Ma fino<br />

a che punto il chiarimento della nozione di bellezza può aiutarci<br />

nella interpretazione dei temi dell’arte attuale? Alla domanda,<br />

l’A. risponde discutendo talune pagine di Arp e di Mondrian; così<br />

conclude: “Ogniqualvolta il concetto del bello assume un significato<br />

ontologico, risorge la critica dell’impostazione estetica”. A


commento di tale conclusione, proponiamo un pensiero singolarmente<br />

analogo di Blanchot: «Nei periodi in cui l’uomo non è<br />

ancora presente a se stesso e in cui ciò che è presente e attivo<br />

è invece l’inumano, il non-presente, il divino, l’opera è più che<br />

mai prossima alle sue esigenze e tuttavia nascosta e come ignorata.<br />

Quando l’arte è il linguaggio degli dei; quando il tempio è<br />

il soggiorno dove dimora il dio, l’opera è invisibile e l’arte è sconosciuta.<br />

Il poema nomina il sacro, e gli uomini sentono il sacro,<br />

non il poema» (Lo spazio letterario, 1967, p. 200).<br />

Nel capitolo successivo viene indagata l’organizzazione, teoreticamente<br />

rigorosa da parte di Platone di tanti temi del pensiero<br />

precedente. Il motivo dell’eros, in primo luogo, di cui si enuncia<br />

il carattere demoniaco e imperfetto, per il suo sussistere tra l’essere<br />

e il non-essere: eros aspira all’assoluto originario senza mai<br />

poterlo comprendere; adombra soltanto una realtà che si manifesta<br />

propriamente come bellezza. Al di là poi della condanna<br />

dell’arte, che costituisce l’aspetto più universalmente noto della<br />

dottrina di Platone, conta accennare alla distinzione tra un’arte<br />

che crea (l’architettura) e un’arte che imita (scultura e pittura) e<br />

alla definizione della mimesis dell’arte come doppia imitazione<br />

(rappresentazione dell’oggetto che è ombra del Valore primigenio).<br />

Anche nel suprematismo ricompare il rifiuto dell’arte soggetta<br />

al «mondo delle ombre», all’illusorio, a tutto favore della<br />

concezione antiestetica. «Secondo la mia opinione la nuova attività<br />

dell’arte dovrebbe consistere solo nel rivelare, con una creazione<br />

inconscia, la realtà cosmica come realtà priva di oggetto»<br />

(Malevič, op. cit., p. 81). Tale concetto di antiarte tanto conforme<br />

alla condanna platonica, nasce però - rileva lucidamente Grassi -<br />

da ragioni affatto diverse da quelle platoniche: «L’odierna arte<br />

come antiarte vuole rivelare la trascendenza dimostrando la libertà<br />

umana... L’arte è per Platone una testimonianza di libertà<br />

umana, ma come realizzazione e compimento dell’originaria natura<br />

divina che esiste nell’uomo».<br />

Particolarmente pregevoli, nelle pagine dedicate ad Aristotele,<br />

sono le considerazioni sull’ampiezza semantica del termine poiesis<br />

(forse assimilabile, come ricordava in altra occasione E.<br />

Mattioli, alla nostra nozione di «poetica»), e le interpretazioni filologiche<br />

della parole mythos e mimesis. Ne deriva un arco assai<br />

ricco di significati di cui bisogna tener conto nella lettura della<br />

Poetica, là dove risulta essenziale sapere se una voce, come mi-<br />

154<br />

mesis, significa solo «rappresentare» o anche «rilevare», «rendere<br />

evidente».<br />

L’esplorazione prosegue con l’esame delle dottrine alessandrine,<br />

intorno alle quali si registrano opinioni assai simili a quelle sostenute,<br />

in sede di dibattito sull’avanguardia, da F. Jesi (cfr. Letteratura<br />

e mito, p. 58): «Quanto conosciamo dell’ellenismo ci indica<br />

uno sforzo genuinamente creativo e rivoluzionario di evocazione<br />

di realtà perdute in età classica, le quali ebbero la loro<br />

“età d’oro” nella protostoria ellenica... Lo stesso atteggiamento<br />

dell’avanguardia moderna di fronte al linguaggio potrebbe essere<br />

descritto come una ripristinata ortodossia al primordiale valore<br />

dell’«efflato», vicina al dramma ellenistico di chi riproponeva<br />

ortodossie sapendo quanto s’era perduto nel passato...».<br />

A conclusione e a premessa dell’excursus storico stanno le dichiarazioni<br />

di metodo e le letture di momenti della teoria artistica<br />

di oggi, considerazioni tutte che servono a chiarire effettivamente<br />

alcuni aspetti, e l’autore tiene a sottolinearlo, della ricerca<br />

contemporanea. A noi interessa soprattutto rilevare, a tale riguardo,<br />

il contributo offerto da Grassi alla comprensione di una<br />

idea di realismo che si associa singolarmente, e tanto più in questi<br />

giorni, al riaffacciarsi dell’ontologia nell’arte. Inutile, forse, citare<br />

autori e tendenze; tanto sono dinanzi a tutti, e non soltanto<br />

nelle arti figurative sulle quali riflette con maggiore insistenza<br />

lo studioso. Un’osservazione vorremmo fare, ad ultimo, sul<br />

procedimento argomentativo dell’autore, che incrocia di continuo<br />

il registro dell’evidenza con quello apparentemente più<br />

‘freddo’ della prosa analitico-descrittiva. Anch’esso ha, di sicuro,<br />

la sua ragione filosofica, come provano i particolari esercizi di<br />

scrittura evocativa prodotti nei saggi che precedono il libro, dal<br />

già ricordato Arte e Mito alle Sudamerikanischer Meditationen<br />

del 1955: un discorso che si muove anche stilisticamente nel superamento<br />

della logica tradizionale.<br />

(1) Articolo comparso sulla rivista “Il Verri”, n° 2, giugno 1973, in occasione<br />

della pubblicazione di Arte come antiarte, di Ernesto Grassi, Paravia,<br />

Torino 1973, edizione italiana a cura di E. Mattioli.


Teatralizzazione<br />

Lucia Tampellini (1)<br />

Se è una necessità, per un giovane, cercare nel confronto col pubblico la verifica del proprio<br />

lavoro, costituisce poi un titolo di merito, il fatto di presentarsi con una fisionomia<br />

chiaramente differenziata nei risultati e nelle ragioni operative. È questo il caso di Lucia<br />

Tampellini alla sua prima consistente uscita dalle pareti del laboratorio privato.<br />

Quali siano le sue scelte stilistiche, apparirà subito chiaro a chi vorrà osservare con attenzione<br />

le opere. Né vale qui preoccuparsi di definirle in un sistema di relazioni con la<br />

cultura attuale, poiché ciò che conta è che le scelte ci siano e che siano state fatte con<br />

la coscienza di un ruolo da giocare nel contesto del gusto di oggi.<br />

Mi limiterò allora a segnalare un procedimento che appare dominante nel montaggio<br />

delle opere, una figura per così dire ricorrente nel trattamento della visione, ossia l’uso<br />

della metonimia, la tendenza a dare la parte per il tutto, a scavare e a sezionare selezionando<br />

determinati elementi dell’immagine per sottolineare certi valori insoliti e sottratti<br />

all’attenzione normale. Questo modo di agire sul segno implica naturalmente una alternativa<br />

fra esibizione e occultamento, fra un mettere in primo piano il dato che interessa<br />

e il cancellare le parti che si vuole producano il movimento dell’immaginazione, una specie<br />

di sospensione e di assenza. Da qui deriva ci sembra, la forte teatralizzazione impressa<br />

agli elementi della raffigurazione, sia in quanto ad impianto generale dell’opera<br />

oggetto sia nell’approntamento dei settori formali come quinte e parti di una scena. Ma<br />

L. Tampellini, Paesaggio, 1973, olio su tela, cm 60x70.<br />

155<br />

si verifica spesso anche la circostanza<br />

opposta e a nostro avviso più produttiva;<br />

vale a dire la sottrazione della superficie<br />

dalla tela o dal foglio di zone consistenti<br />

dell’oggetto rappresentato, con l’interruzione<br />

di certi percorsi ritmici e sequenze<br />

di segni. Si produce così qualcosa di decisamente<br />

spaesato, una pressione dell’assenza<br />

e del vuoto, con forte suggestione<br />

fantastica. Si vedano allora i disegni<br />

e in particolare la serie delle teste e<br />

delle mele. Per le pitture mi sia consentito<br />

esprimere almeno una predilezione<br />

per Paesaggio?, 1972, così nuovo e sottilmente<br />

calibrato nei rapporti di colore.<br />

Da esso, non c’è dubbio, proviene la garanzia<br />

sugli svolgimenti futuri della ricerca<br />

della Tampellini.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Lucia<br />

Tampellini”, Galleria d’Arte “Cama”, via G.<br />

Matteotti 30, Poggio Rusco (Mn), 22 settembre-13<br />

ottobre 1973.


Uno sguardo precipitato nella natura<br />

Giulio Perina (1)<br />

Due anni, questi ultimi di Perina, occupati nei viaggi, nella messa<br />

a punto dei progetti e nella ricerca; soprattutto vissuti sotto il<br />

segno di un ritorno critico alle radici storiche e, al tempo stesso,<br />

di una sperimentazione condotta quasi al limiti dello sbaraglio e<br />

della negazione.<br />

Non ha quadri, o almeno non molti, da mostrare, ma centinaia<br />

e centinaia di appunti, di carte schizzate e di pastelli. È tutto un<br />

universo inedito di segni che sta, per così dire, in attesa di un<br />

evento ulteriore e di una precipitazione nello statuto prediletto<br />

della pittura. Attesa che è, però, presenza del segno e sua rivelazione,<br />

perché di pittura si deve parlare, e con rigore, per la<br />

serie selezionatissima dei pastelli che egli presenta nella mostra<br />

e che, sia detto per chi inquisisce sulla fedeltà ai generi artistici<br />

e sulle coerenze tecniche, si legano a giovanili e specifiche esperienze<br />

del pittore su certe materie e protocolli della visione. Nessun<br />

dubbio può sussistere infatti sulle ragioni interne, formalmente<br />

concluse, del lavoro ultimo. L’attesa sussiste nel corpo di<br />

una visione incandescente che non potrà non esplodere e procurare<br />

altre rivelazioni.<br />

Un ritorno alle radici, si diceva: una rivisitazione dei luoghi e dei<br />

modelli cardinali, tra i quali il Monet estremo, i vetri gotici, Pisanello.<br />

Ci si aspettava la continuazione - senza scosse - dei valori<br />

e delle certezze consolidate. Ed invece tutto ciò ha fruttato diversamente,<br />

pur nella sostanzialmente intatta geografia del<br />

gusto e degli orientamenti. Si è avuto cioè uno strappo violento<br />

verso il puro possibile grazie ad una logica di sviluppo imprevista<br />

e imprevedibile, una logica che soltanto il movimento interno<br />

e quasi insensato della visione poteva portare allo scoperto.<br />

Ed allora sarà da dire, innanzitutto, qualcosa su un’attitudine<br />

nuova dello sguardo e sulla sua direzione; di uno sguardo che si<br />

sapeva in lenta progressione verso le cose e di un occhio teso a<br />

valicare gli sbarramenti atmosferici e tonali per addossarsi finalmente<br />

al corpo della natura.<br />

Ora le immagini ci vengono incontro provocatoriamente, richiedendo<br />

degli sbilanciamenti, delle contorsioni, degli impatti frontali<br />

e degli scivolamenti obliqui nel tessuto della rappresentazione.<br />

Non c’è più il paesaggio visto all’altezza dell’uomo impressio-<br />

156<br />

G. Perina, Paesaggio, 1973, pastello su carta.


nista, ricevuto sulla misura normale, en plain air, dell’osservatore<br />

o nel punto di vista privilegiato della distanza contemplativa.<br />

Non si osserva attraverso lo spazio, ma si entra, ci si abbassa, si<br />

spia dentro la natura. La materia si è fatta prossima, si sgretola,<br />

si dirama in una miriade di nervature e di articolazioni. L’orizzonte,<br />

unico dato superstite di orientamento, sta alto sopra di<br />

noi, lo indoviniamo come una pressione e una spinta. Si ha così<br />

una discesa verso il profondo, nelle cavità e nei grembi naturali,<br />

ricevendone dei sensi di coinvolgimento e di immersione che<br />

bruciano per sempre le messe a punto cartesiane del paesaggio.<br />

Dunque una precipitazione dello sguardo che ha perso l’ultima<br />

nozione di distanza ed è operante dentro le cose. Nessuna quantificazione<br />

è possibile quando la presenza del reale fa tutt’uno<br />

con la curvatura dell’occhio che vi si annienta. Lo sguardo è divenuto<br />

uno strumento mobile della conoscenza, si agita e si addentra,<br />

esplora e penetra.<br />

È naturale, in simili condizioni, che gli oggetti perdano i loro elementi<br />

comuni di identificazione e si sia tentati di leggere le immagini<br />

come ‘altro’ rispetto al naturale. È quasi fatale che si cerchino<br />

altrove, in altre esperienze, le chiavi per interpretarle: nell’astratto,<br />

nel segnico o nel materico. In realtà, poi, questi indici<br />

non funzionano a fondo, non aprono le porte dell’intelligenza.<br />

Benché ci aiutino in qualche modo a cogliere la modernità di<br />

questo lavoro e benché talune parentele siano istituibili, si tratta<br />

di rinvii preconcetti ed erroneamente qualificanti. Certo, Alechinsky,<br />

Appel, Jorn sono nomi che vengono subito alla mente<br />

per certe circostanze particolari, ma sono appunto circostanze<br />

che contrassegnano un groviglio, un impasto, una matassa di<br />

linee e di colori. D’altra parte, se una simile pittura li ammette,<br />

vuol dire che le sue articolazioni sono molteplici, che il suo stile<br />

è aperto e mobilissimo. Si correrebbe così un grosso rischio a dimenticare<br />

quale sia l’elemento scatenante del ‘raptus naturale’,<br />

di quella disposizione che è tipica della pittura lombarda, come<br />

ha scritto F. Arcangeli, ossia la provocazione sensibile della natura.<br />

Lo continua a ripetere insistentemente anche Perina a chi<br />

stenta ad accogliere questa lampante motivazione.<br />

La sensazione è dunque motrice. Si ricordi, però, che lo era<br />

anche per un Wols e un De Staël, e tanto basta a riqualificarla.<br />

Ci interessa poi mettere in evidenza, al di là dell’atto di nascita<br />

del segno, l’omologia strutturale che collega quell’origine alla<br />

157<br />

metodologia produttrice della visione. Non riproduzione, ma sintonia<br />

dei processi creativi, che cos’è questa scatenata tempesta<br />

di grafie, questo germinare che è parso gestuale dei tracciati cromatici,<br />

se non il deposito stilisticamente autonomo di una mano<br />

che reinvesta nei suoi percorsi e nelle sue illuminazioni i modi e<br />

le forme creative della natura? Che cosa sono queste immagini<br />

se non natura potenziata e precipitata nei segreti della germinazione?<br />

Da qui le figure terrestri e viscosamente produttive, ‘profonde’,<br />

del pittore: gli intrichi di arbusti, i varchi aperti nella vegetazione,<br />

le vigne e le colline. Da qui anche il sovrastare della terra,<br />

quella sua occupazione degli spazi atmosferici respinti oltre i<br />

confini del quadro, al di sopra e dietro di noi. Da qui infine, e non<br />

sembri un paradosso, il tema delle vetrate, diaframmi luminosi<br />

che negano gli spazi rarefatti e convogliano e addensano masse<br />

piene di luce.<br />

Un visibile indagato con ampia ricchezza di registri cromatici e<br />

varietà di percorsi ritmici, fino alle dissolvenze più tenui, come<br />

stanno a dimostrare le interpretazioni che Perina ci dà del “sensitivo”<br />

Pisanello.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Pastelli di Giulio Perina”, tenutasi<br />

presso la Galleria d’Arte “Teatro Minimo”, via Principe Amedeo 17, Mantova,<br />

dal 29 settembre al 12 ottobre 1973; pubblicato nel foglio di presentazione<br />

della mostra.


La pittura di Ruberti e gli oggetti del costume di casa<br />

<strong>Francesco</strong> Ruberti (1)<br />

Uno dei segreti dell’uomo Ruberti è la sua vocazione al racconto.<br />

Certe sue battute di spirito ed estrose imitazioni di personaggi,<br />

consumate ora sul filo dell’amore e altre volte su quello della rappresaglia,<br />

hanno il carattere della perfezione. Chi lo frequenta conosce<br />

la sua abilità di rimettere in tensione, attraverso il gesto e<br />

la parola, quel che della vita quotidiana dell’arte va di solito irrimediabilmente<br />

perduto: gli umori nascosti, le inclinazioni bizzarre<br />

della serietà, la genialità di un gesto di cronaca.<br />

Grazie a lui, alla sua virtù della evocazione aneddotica, chi lo<br />

ascolta può tornare a sentire vicine le presenze di artisti che sono<br />

contati e contano nel panorama contemporaneo, e non solo di<br />

quello mantovano: da Vaini a Facciotto, da Nodari-Pesenti a Di<br />

Capi, da Mazzacurati a Turcato a Treccani. Evocati dal mimo ecco<br />

tornare in vita gli sprechi aristocratici e senili di Pesenti, i risparmi<br />

prodigiosi di Di Capi, i turbati silenzi di Vaini o la triste generosità<br />

di Facciotto. Uno spirito interpretativo, quello di Ruberti, che tutto<br />

riprende, manipola, taglia e ricuce, cogliendo con una battuta il segreto<br />

di una personalità, riplasmando come se fosse materia di<br />

una favola la vita sua e degli altri. Sicché il racconto diventa attiva<br />

partecipazione e scontro, giudizio sui fatti e selezione di valori.<br />

Ma il mimo gli si è anche rovesciato addosso se è vero che l’aneddotica<br />

è nata sull’uomo e sul pittore Ruberti. Un’aneddotica critica,<br />

intendo dire, e consapevole da parte dei lettori dell’opera sua, perché<br />

in realtà c’è bisogno di avvicinarsi al suo lavoro di pittore attraverso<br />

una serie di note e di aggiustamenti, in certo senso, concreti<br />

che ricolleghino la sua ricerca artistica alla vita, al comportamento,<br />

a particolari attitudini polemiche contro taluni aspetti del<br />

costume di oggi. Ed ecco allora la scelta antitecnologica e povera<br />

dello sport, la pratica anti-predilezione per la vita contadina.<br />

Forme di vita non innocue ma ideologicamente orientate; scrupolosamente<br />

definite, dato che per Ruberti l’ideologia è qualcosa cui<br />

si risponde in prima persona, al di là delle parole e prima del quadro.<br />

Perciò la difesa del quotidiano, l’aggressione parodistica, l’invenzione<br />

recitativa si propongono seriamente come gli atti di una<br />

poetica maturata sul versante del vissuto, del reale, dell’oggettività;<br />

di una poetica che in parte difende un antico patrimonio di<br />

idee, quello legato ai valori spontanei e naturali, e ancor più at-<br />

158<br />

tacca e corrode le convenzioni della cultura inautentica. Ma tutto<br />

ciò potrebbe anche non bastare, e difatti non basta. Tutti sanno<br />

che il tema della spontaneità e l’amore per la natura corrono al<br />

fondo di alcune ricerche artistiche valide del nostro tempo ma,<br />

contemporaneamente, costituiscono un alibi per gli aggruppamenti<br />

di retroguardia e possono servire benissimo da puntello ai<br />

discorsi della reazione. Per cui, trattandosi di motivi coniugati nei<br />

modi più diversi e spesso arbitrari, occorrerà rendersi conto volta<br />

per volta di che cosa essi vogliono effettivamente dire e quale sia<br />

la qualità dell’opera che vi trova la sua pronuncia.<br />

Ora, a proposito di Ruberti, cercherò di rispondere all’interrogativo<br />

richiamandomi al suo lavoro in generale e ad una serie di risultati<br />

recenti che mi sembrano particolarmente sollecitanti sia per il<br />

loro carattere parzialmente inedito sia perché aggiungono qualche<br />

apporto originale all’area della neofigurazione. Mi riferisco ai quadri<br />

ispirati al tema degli interni, a quel luogo della fantasia che vorrei<br />

chiamare del ‘costume di casa’. Si tratta per altro di opere non<br />

F. Ruberti, Rue Caroline a Monaco, 1949, olio su tela, cm 58,5x44.


igidamente circoscritte in un arco determinato di tempo, ma parallele<br />

e coesistenti ad altre esperienze, ora ritagliate nel territorio<br />

formale dello stile liberty, ora rivolte ad approfondire precedenti ricerche<br />

sul colore. Cosicché non si esclude molte volte l’interrelazione<br />

dei piani di lavoro, la complementarietà appunto della superficie<br />

pittorica. Oltre alla declinazione neoliberty c’è infatti una<br />

terza direzione formale che ad alcuni è sembrata puristica in quanto<br />

rivolta a superare il dato iconografico e a dissolverlo in piani di<br />

pura stesura cromatica, stilizzando l’immagine e riducendola a pochissimi<br />

elementi essenziali, a partiture ritmiche dei toni e delle<br />

campiture. Questo è forse l’aspetto più noto della pittura di Ruberti,<br />

evidente soprattutto nei paesaggi e nei ritratti.<br />

Se non v’è dubbio che egli sia un pittore della realtà, non foss’altro<br />

per la chiarezza con cui mantiene sempre leggibile l’immagine<br />

e per la fedeltà agli spunti della sensazione luminosa che gli oggetti<br />

emanano attorno a sé, il suo realismo appare però spesso in<br />

alternativa al presente della realtà stessa, svolto com’è in una chia-<br />

F. Ruberti, Il Po, 1963, olio su tela, cm 59x49.<br />

159<br />

ve fortemente emotiva, personale, interiorizzata. Sulle trame realistiche<br />

dell’oggetto, sulla sua nuda figuratività, si deposita sempre<br />

il carico dei sentimenti che quell’oggetto ha suscitato nella sensibilità.<br />

Il suo oggetto non è mai, per così dire, istantaneo, impressionisticamente<br />

ricevuto nella immediatezza della percezione e<br />

neppure è la somma delle percezioni avute nel tempo. Si pensi a<br />

quadri assai noti come Campo di grano (1964), Collina (1963), La<br />

vallata del Mincio (1963), dove gli elementi figurali si presentano<br />

piuttosto come degli oggetti-cumulo di memorie. Ecco perché di<br />

solito, l’immagine appare nei suoi quadri insieme vicina e lontana,<br />

riconoscibile e sfumata, proprio come una entità che emerge di<br />

lontano e porta con sé tutto lo spessore del tempo psicologico. Un<br />

oggetto ‘vissuto’, dunque, antico e fuori dalla cronaca.<br />

Ed è una motivazione, questa, che chiarisce la predilezione dell’artista<br />

per l’iconografia della conservazione e della casa, un’iconografia<br />

che presa così alla lettera potrebbe apparire fuori dall’attualità<br />

e dal presente. Gli è invece che un certo oggetto, poeticamente,<br />

si presenta idoneo all’attivazione dello sguardo, mentre un<br />

altro, magari più modernisticamente contrassegnato, non si presta<br />

ad accogliere l’inseminazione del tempo emotivo. Non ci sono immagini<br />

più vere di altre, più qualificate, ma semplicemente delle<br />

immagini operativamente in grado di sopportare il processo di stilizzazione<br />

e pertanto stilisticamente ‘giuste’ e stimolanti. Infatti ciò<br />

che prende corpo è quel ‘di più’ che si aggiunge alla trama figurativa,<br />

ossia la memoria, l’interpretazione e la risposta affettive.<br />

È una osservazione, questa, fatta sovente da chi si è occupato<br />

della pittura di Ruberti, laddove si è messo in evidenza il fatto che<br />

il frammentismo della rappresentazione viene ridotto ad unità attraverso<br />

una disposizione evocativa che raccoglie e filtra gli elementi<br />

dispersi della cronaca; in modo che il paesaggio, il ritratto<br />

o interno d’ambiente sono prima di tutto il ‘ricordo’ di una cosa e<br />

non la cosa stessa, fedelmente osservata e descritta. Di qui anche<br />

deriva il dominio dell’elemento colore sul dato disegnativi e lineare.<br />

Ruberti disegna poco e si capisce perché: la grafia netta e<br />

precisa tende a definire, a chiudere e a fissare l’immagine bloccando<br />

il processo di accumulo e di indeterminazione, mentre il<br />

colore è uno strumento (almeno nell’accezione più comune e tecnica)<br />

di dilatazione evocativa, capace di espandere e di suggerire<br />

significati.<br />

Eppure, l’esperienza più recente di Ruberti mostra quanto egli sia


F. Ruberti, Nudo e poltrona, 1970, olio su tela, cm 90x80.<br />

incline a rivedere criticamente e in certo senso a contraddire con<br />

elementi di contrasto, almeno fin dove la poetica glielo consente,<br />

il suo più comune procedimento stilistico. Se qualche anno fa l’oggetto<br />

in genere era tenuto lontano nella sua consistenza fisica e<br />

fatto emergere invece nell’alonatura delle emozioni e delle memorie,<br />

egli va cercando oggi di ridargli peso, corposità, durezza<br />

materiale, quasi a considerare oggettualmente quello stesso carico<br />

di ricordi che vi si sono accumulati sopra. C’è insomma un’attitudine<br />

più sorvegliata, disposta a mettere sotto processo quella<br />

stessa memoria alla quale la pittura è stata per tanto tempo legata,<br />

è una critica dell’affetto, svolta con strumenti formali. Tutto<br />

ciò che di crepuscolare aveva dato materia ad una difesa, oggi<br />

sembra diventare motivo di una verifica dell’intelligenza distaccata<br />

e ironica. Se altre volte l’immaginazione e il senso della fiaba<br />

alteravano l’immagine per avvicinarla al modello che contava nell’interiorità,<br />

ora quelle alterazioni e quelle piegature, anche minime,<br />

nella fisionomia di un volto o nella struttura di un ambiente<br />

vengono esposte con determinazione, in primo piano, nettamente:<br />

in esse lo sguardo sente il bisogno di giudicarsi, di riconoscersi,<br />

lui stesso come ‘soggetto’ della contemplazione.<br />

160<br />

Un simile procedimento si coglie assai chiaramente dove il tema<br />

è stato per così dire ridotto, miniaturizzato, stralciato, sezionato in<br />

una angolazione particolare, là dove non si ha più ‘tutto’ il paesaggio<br />

o ‘tutta’ la figura ma i loro frammenti e dove questi frammenti<br />

‘parti’ vengono portati in primo piano, frontalmente. Allora<br />

accade che anche l’implicita (un tempo) simbologia contenuta nei<br />

materiali recettori della memoria sia costretta a denunciarsi e a<br />

esibirsi.<br />

Se si osserva un quadro come Il letto (1967) si nota la rigorosa<br />

messa a punto della suppellettile della casa in direzione critica, in<br />

una sorta di smontaggio del sogno connesso alla liturgia del boudoir:<br />

è chiaro infatti che la testiera ottocentesca del letto, i drappi,<br />

il reggiseno deposto orizzontalmente sullo spigolo della lettiera<br />

stanno lì ad emblemizzare gli utensili chiave del costume domestico,<br />

senza tuttavia darsi come allegorie troppo astratte di qualcosa<br />

d’altro. Sono invece parole concrete nella moda della casa. Si<br />

potrebbe dire in altre parole che l’immaginazione non consuma le<br />

sue icone nella fantasticheria della solitudine, inventando oggetti<br />

irreali; piuttosto si concentra su quella parte del sogno quotidiano<br />

che fa tutt’uno con le immagini di vita con le quali abbiamo a che<br />

fare ogni giorno.<br />

Ecco dunque gli oggetti avanzare come personaggi, diventare<br />

eminenti, compatti, sostanziosi. Anche la pittura si concentra nei<br />

luoghi e nei punti in cui lo sguardo si addossa alle cose, con inevitabile<br />

risvolti ossessivi, erotici, aggressivi.<br />

La rappresentazione viene per lo più ritagliata su un fondale di<br />

pure e decantate campiture, così da isolarla e farla reagire su un<br />

discorso pittorico il più essenziale possibile. Interno (1970) Lo<br />

specchio (1967) Oggetti (1968), Nel salotto (1968), Ritratto di<br />

una poltrona (1967), Telefono (1973), Arcolaio (1973) e i vari<br />

esercizi sul frammento del nudo propongono in diverso modo, ma<br />

sempre con aggettazione corposamente evidente del tema, la<br />

contemplazione distaccata del sentimento provinciale della vita.<br />

Un Ruberti nuovo dunque ma non troppo diverso né contraddittorio<br />

rispetto a quello di sempre. Piuttosto è da riconoscere che la<br />

sua pittura si è aperta, come si diceva sopra, ad un ulteriore capitolo<br />

di esperienze che sembrano capaci di sottoporre la fantasia<br />

del quotidiano alla prova di una sorvegliata oggettivazione.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova il 9 novembre 1973.


Normalità<br />

Artoni Mario (detto Aspiro) (1)<br />

Positivo e negativo autentico e falso, verità e menzogna: questa sembra essere<br />

la polarità entro la quale si situa attualmente l’invenzione di Aspiro. Una<br />

duplicità che si traduce poi nell’assunzione del doppio registro iconografico<br />

dell’umano e del disumano, della realtà e delle maschere.<br />

Ora Aspiro non formula nuove proposizioni dell’occultamento, ma fa esattamente<br />

l’opposto. Non carica la metamorfosi, ma la spoglia. Più che esplorare<br />

le ragioni generative della finzione e innescarne il positivo processo di<br />

M. Artoni, Ritratto in piedi, 1972, olio su tela, cm 70x50.<br />

161<br />

vita, egli è interessato a bloccare lo “status quo”<br />

dell’impostura per decifrarne i sensi nascosti e denunciare<br />

i disvalori. Attitudine non nuova in lui, se<br />

si tien conto di certi ritratti e quadretti satirici di<br />

qualche anno fa. Perciò assume emblemi, lineamenti<br />

e modi tipici (normali, per così dire) della<br />

maschera. I suoi “totem” di oggi nascono sotto il<br />

segno dell’ossessione della normalità, e cioè dell’abitudine<br />

ripetitiva, non sotto quello dell’inatteso<br />

e del nuovo. Evidentemente la loro radice prima<br />

non sta nel laboratorio dell’immaginazione creativa<br />

della cultura. Va invece cercata fuori, nella quotidianità<br />

degli ambiti sociali: tant’è vero che i segni sono<br />

letteralmente ripresi dall’emblematica del costume<br />

divenuto norma (la mano che artiglia, la tiara, il serpente,<br />

la gerarchia figurale del capo e del succube,<br />

l’occhio frontale, ecc.). Questo ad un primo livello,<br />

perché poi sugli emblemi si esercita una forte riduzione<br />

formale: l’immagine viene congelata in ciò<br />

che ha di essenziale per essere proposta nel campo<br />

centrale della tela con la massima concentrazione<br />

ed evidenza. E da ciò si origina l’effetto quasi mostruoso,<br />

teatrologico, della raffigurazione. Quale sia<br />

la polemica sottesa alle due serie è troppo evidente<br />

perché occorra insistervi ancora. Stilisticamente i risultati<br />

migliori di Aspiro si individuano là dove le ragioni<br />

tematiche del suo discorso si incrociano e si<br />

saldano con la meditata rielaborazione di moduli<br />

compositivi che appartengono alla pratica della pittura<br />

simbolica, quando, per esempio, lo schema dell’icona<br />

popolare diventa il supporto di un’immagine<br />

demoniaca e terrificante (si veda Beatitudine) o la<br />

figura umana offre il pretesto per una torsione<br />

astratta della forma (Donna tecnologica). Allora<br />

anche l’essenzialità cromatica dei rossi e dei bianchi<br />

evidenzia nel più persuosivo dei modi una positiva<br />

trasformazione del linguaggio.<br />

(1) Tratto da “Artisti a Mantova nei sec. XIX e XX, Archivio<br />

Sartori Editore, dicembre 1999.


La pittura come specchio<br />

Renzo Schirolli (1)<br />

Due entità, due elementi apparentemente in contrasto entrano<br />

in gioco sulla tela di Schirolli: da un lato e con maggiore evidenza<br />

un insieme di sostanze esatte, di forme rarefatte e geometriche<br />

(il parallelismo assonometrico, la triangolarità, la rotazione<br />

prismatica); dall’altro una insorgente luminescenza mondana, disordinata<br />

e fulminante. Dunque l’ordine e il caos, ma un ordine<br />

e un caos che vogliono dissolversi l’uno nell’altro, sovrapporsi, riflettersi,<br />

perdersi in quanto ‘distinti’. Una logica figurale, questa,<br />

che tocca il cuore dell’identità e respinge la contiguità dialettica,<br />

la tradizionale meccanica degli opposti. Ha osservato recentemente<br />

F. Trebbi: “L’immagine si fa taglio e ripresa, differenza e<br />

ripetizione, identità e variazione: essa si taglia e si riprende, diviene<br />

differente e si ripete, permane identica e introduce la variazione”.<br />

La geometria è allora una forma riflessiva, assorbente:<br />

R. Schirolli, Struttura paesaggio n. 1, 1972, olio su tela (19 tele), cm 197x105+7 elementi mobili.<br />

162<br />

simile ad una matrice rigenerante si lascia avvolgere ed investire<br />

dall’inseminazione fitta del colore, vi si confonde e lo rilancia<br />

nella scansione dei piani di rotazione.<br />

Si badi alle superfici dipinte, perfettamente regolari, esattamente<br />

contornate, chiuse da spigolature nette e taglienti, levigate<br />

come il piano di un vetro. Ebbene, dello specchio e della sua<br />

forza riproduttiva riprendono, ripetono e moltiplicano la proprietà<br />

di doppiare l’immagine, restituendola con ‘irresponsabile’ e<br />

innocente naturalezza.<br />

Ma l’icona così restituita è in realtà una falsificazione, un travestimento.<br />

L’immagine specchiata, pur assomigliando a quella<br />

vera, la nomina soltanto e la espone nel suo linguaggio: è un<br />

segno della cosa e non la cosa stessa. C’è qualcosa nella brillantezza<br />

e nella piattezza dello specchio che de-realizza il mondo<br />

sensibile, gli toglie spessore e impalpabilmente lo allontana. Chi<br />

mai, infatti, potrebbe abbracciare il proprio corpo riflesso, questo<br />

suo doppio separato a filo a piombo da lui? Che cos’altro fare se


R. Schirolli, Paesaggio 2, 1974, olio su tela, cm 190x250.<br />

non contemplare la forma in cui ci osserviamo nominati?<br />

Una maniera questa di produrre vertigine e straniamento ed è la<br />

stessa della geometria speculare di Schirolli: il segno folle della<br />

duplicazione mette in mostra una natura fatta linguaggio, divenuta<br />

segno e non denotato, forma di un doppio senza profondità,<br />

quasi-natura. Ora c’è da dire che quel dato naturalistico, materico<br />

e mondano di cui la geometria prende possesso e da cui<br />

si lascia possedere è in realtà già di per sé un linguaggio, è la<br />

pittura di un tempo di Schirolli. Lo straniamento speculare è perciò<br />

doppiamente linguistico, è un riparlare sulla pelle della parola,<br />

un precipitare nell’abisso della ripetizione. Spalancare la pittura<br />

come uno specchio, sottoporla al gioco delle riflessioni e<br />

delle trasparenze significa, almeno metaforicamente, che al<br />

mondo ci si avvicina doppiandolo, lasciandolo riflettere come<br />

una somiglianza addosso alla parola.<br />

Che senso hanno alcune di queste pitture-oggetto, concepite<br />

come elementi di scena, superfici mobili, quadri-a-terra e forme<br />

di rotazione se non quello di prodursi come trasparenze e luoghi<br />

di attraversamento? Uno di essi, cornice senza tela, è l’emblema<br />

di una simile pittura pellicolare, una misura della possibile occupazione<br />

ottica del territorio circostante: delicata e puramente illusiva<br />

uscita dallo sguardo contaminato dalla tela e virtuale pro-<br />

163<br />

iezione sul reale della sequenza speculare. Ma si tratta pur sempre<br />

di un esito estremo e, per così dire, dimostrativo; di un’operazione<br />

in cui ciò che conta è l’immagine effettivamente contenuta<br />

e dipinta. E questo contenuto è lì fermo, di fronte allo spettatore,<br />

che può sì muoversi per vedere meglio, senza che questo<br />

movimento produca un coinvolgimento totale e fisicamente<br />

pregnante. La contemplazione è allora sovrana. Se qualche cosa<br />

si muove, se qualche spostamento si deve pur fare, se alcune<br />

superfici si presentano con inclinazione inconsueta, ciò appartiene<br />

ancora ad una retorica dello sguardo. Allora appare chiaro<br />

come il contenente si rovesci nel contenuto. Gli angoli di riflessione<br />

sempre uguali, queste svolte e piegature identiche sono<br />

esse stesse delle icone: non solo ordinano, ma si ordinano, sicché<br />

l’enunciato discorsuale esibisce se stesso. È lui a mettersi in<br />

primo piano dialogando con la natura ‘seconda’. Nella geometria<br />

si riflette la geometria. Come lo specchio non può dare la realtà,<br />

così la pittura non può dare che la pittura e nelle forme del<br />

gioco ripetitivo, combinandosi alla propria immagine, essa ritorna<br />

a sé, unico contenuto possibile.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Renzo Schirolli”, Galleria d’Arte<br />

“L’Argentario”, Trento, 1973; pubblicato nel foglio di presentazione della<br />

mostra.


1974<br />

Da Carlo Bondioli Bettinelli<br />

a L’autoamputatore e l’assassino<br />

L’utopia cartesiana di Bondioli<br />

Carlo Bondioli Bettinelli<br />

Figure dell’incastro e metafore<br />

dell’aria nel linguaggio di Licini<br />

Osvaldo Licini<br />

L’autoamputatore e l’assassino<br />

Van Gogh, l’orecchio ombelicale


L’utopia cartesiana di Bondioli<br />

Carlo Bondioli Bettinelli (1)<br />

Quale che sia il punto di vista dell’osservatore i lavori di Bondioli<br />

appaiono sempre consumati sotto il segno della misura e della<br />

discrezione. È un esercizio, il suo, che non arriva mai al punto di<br />

rottura, all’eccesso, alla messa in crisi dello strumento tecnico e<br />

dell’oggetto raffigurato. Al contrario: ciò che vi si intravede è l’assiduità<br />

di uno scrupolo esecutivo volto ad illuminare, per così<br />

dire, dal di dentro le materie e i temi del disegno, come se l’immagine<br />

e i segni possedessero una loro interna, segreta calibratura,<br />

in grado di assicurare ritmo e chiarezza all’esercizio formale.<br />

È questa, se si vuole, una dimostrazione di fiducia nella tèchne<br />

e nei media artistici, una utopia positiva che accomuna, oggi,<br />

tanti ricercatori ‘umanisti’ attenti a non perdere, nel lavoro di<br />

rinnovamento, quell’ordine mentale che la cultura figurativa<br />

seppe scoprire nei suoi esordi novecenteschi. Per questo l’esercizio<br />

di Bondioli, che per alcuni aspetti presenta qualche debito<br />

nei confronti del neoimpressionismo scientista di un Seurat, è in<br />

primo luogo l’estensione di una emozione formativa e di una misura<br />

intellettuale nella materia grafica.<br />

Da qui anche la sua ossessione per tutto ciò che è sinonimo di<br />

equilibrio concettuale: la chiarezza, la tensionalità controllata<br />

delle forme, la rispondenza delle parti all’insieme.<br />

E tuttavia questa esigenza di chiarezza è, per sua natura, complessa<br />

e tale, in ogni caso, da non pretendere di esaurire per un<br />

sovrappiù di sicurezza la totalità dell’immagine che l’artista intende<br />

raffigurare. Una simile totalità è piuttosto evocata attraverso<br />

un lungo e minuzioso lavoro di allusioni e di segnali luminosi.<br />

Non si dà la figura descritta ma un reticolo di riferimento<br />

percettivo in cui l’icona possa riposare: non in forma definitiva,<br />

ma in uno dei suoi possibili modi di equilibrio. Sicché i disegni,<br />

nelle loro varianti e riprese tematiche, si costituiscono alla stregua<br />

di catene di ‘luoghi’ rasserenati dell’immaginazione, di serialità<br />

‘armoniche’ per l’intelligenza e per l’oggetto, dietro alle<br />

quali - per chi sappia vedere - sussiste una ricerca mobile e tutt’altro<br />

che rasserenata dei corretti riferimenti visuali.<br />

Varie componenti vengono a commisurarsi e ad interferire sulla<br />

superficie dei fogli: da un lato v’è una accensione della sensibi-<br />

166<br />

lità, uno shock visivo provocato da una qualche qualità luminosa<br />

del mondo esterno, dall’altro stanno le esigenze formative<br />

proprie dei mezzi e dei segni impiegati. Ognuna di queste componenti,<br />

aspirando a comporsi con le altre, deve rinunciare a una<br />

parte di sé, spogliarsi dei suoi valori più materiali e pesanti, darsi<br />

nel grado ‘alto’ della sua purezza: così l’oggetto perde in gravità<br />

concreta, si disossa e si trasforma in un essenziale traliccio grafico;<br />

al tempo stesso i segni e le superfici, che in altra temperie<br />

avrebbero potuto prestarsi al gioco materico dei grovigli e delle<br />

pastosità, vengono impegnati per la loro forza di vibrazione profonda,<br />

come valori di risonanza ed energia ottica. Ne deriva che,<br />

se ciascun elemento appare riconoscibile nella sua origine, contemporaneamente<br />

si metamorfosa in qualcosa di diverso da sé<br />

in virtù dei nuovi rapporti di complementarietà e di armonizzazione<br />

cui è stato sottoposto.<br />

Ora, a distanza di un anno dalla sua mostra di paesaggi e nature<br />

morte, l’artista si è deciso, al di là delle comuni intenzioni dimostrative,<br />

a presentare un altro aspetto del suo lavoro grafico:<br />

quello tenuto fino ad ora chiuso nella zona del laboratorio e della<br />

esperienza privata. Si tratta di disegni e di esercizi eseguiti sotto<br />

la spinta di illuminazioni improvvise, di occasioni formali frammentarie,<br />

ma non per questo meno impegnative: più appunti<br />

che non lavori eseguiti col proposito della completezza ad ogni<br />

costo. E tuttavia essi permettono di entrare in presa diretta con<br />

la ricerca più generale dell’artista.<br />

Se pure simili prove, per questa particolare occasione, sono state<br />

oggetto di una selezione severa e di una coerente e unitaria configurazione<br />

(anche il tema è unico: la figura), esse rimandano ad<br />

interessi lontani nel tempo, quando si consideri che argomento<br />

e segni rinviano a precise e puntigliose ricerche di vent’anni fa.<br />

A confronto con quelle, le grafie degli ultimi anni mostrano il<br />

passaggio graduale dalla notazione impressionistica dell’immagine<br />

ad una scrittura più attenta e decisa sul piano delle configurazioni<br />

e degli insiemi strutturali.<br />

Il punto di partenza resta, al solito, percettivo: un’osservazione,<br />

una emozione di luce o una tensione lineare proveniente dai<br />

corpi, dalle immagini familiari degli interni determina ancora lo<br />

scatto iniziale del percorso grafico. Ma questo cerca poi, al disopra<br />

della prima suggestione, una sua autonomia direttamente<br />

sul foglio: tende ad aver peso soltanto per sé, si costruisce in una


C. Bondioli Bettinelli, Paesaggio, s.d., incisione, cm 19x30.<br />

nuova tessitura, che è insieme rispettosa e metamorfosante.<br />

Meno atmosferica che nel passato, l’architettura segnica si solidifica<br />

in immagini fortemente ritagliate e solide. Altre volte le<br />

retinature si condensano o si dissolvono in configurazioni mobili,<br />

quasi in costellazioni ritmiche e pulsazioni pulviscolari. Oppure,<br />

ma è modalità più rara, la linea si snoda in corsività velate,<br />

in inchiostrature ed assorbenze di sapore tachiste.<br />

Tra le cose più notevoli, di fianco alle prove note di Bondioli, vorremmo<br />

indicare l’esercizio condotto sulle tensioni asimmetriche,<br />

sulle direttrici diagonali del campo disegnativo, dove l’equilibrio<br />

è raggiunto in certo modo a forza di sospensioni tra le energie<br />

luminose e i pesi chiaroscurali ribaltati, ad incastro e a chiasmo.<br />

Simili itinerari liberi del segno, minuziosamente indagati e ottenuti<br />

nelle proporzioni minime delle carte da disegno, richiedono<br />

che anche il lettore aderisca dall’interno alla natura di questa<br />

167<br />

esperienza. Non sono, queste, immagini da esaurire subito, da<br />

bruciare con un solo colpo d’occhio. Occorre che l’osservatore ricalchi<br />

la minuziosa circolazione molecolare che lo sguardo del<br />

pittore ha lentamente percorso nel suo progetto di costruzione;<br />

non v’è dubbio infatti, a nostro modo di vedere, che Bondioli sia<br />

dalla parte di una cultura aristocraticamente nemica dell’impazienza<br />

e della disattenzione, di quegli atteggiamenti ‘negativi’<br />

che sono per contrasto quotidianamente alimentati dalle comunicazioni<br />

macroscopiche dei media di massa.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra Carlo Bondioli Bettinelli. L’utopia<br />

cartesiana di Bondioli, Galleria d’Arte “La Torre”, Mantova, maggio<br />

1974.


Figure dell’incastro e metafore dell’aria nel linguaggio<br />

di Licini<br />

Osvaldo Licini (1)<br />

Segni e non sogni: questo il capitale avvertimento dato da Licini<br />

nel 1937 a proposito della sua pittura e questo anche l’approdo,<br />

pare ormai fuori discussione, della lettura critica. Eppure, nonostante<br />

la chiara configurazione linguistica dell’immaginario liciniano,<br />

sussiste qualche resistenza ad avviare l’analisi verso una<br />

determinazione retorica della formalizzazione visiva, quasi che<br />

la sospensione interpretativa e la dichiarazione di ineffabilità<br />

della forma possano salvare la qualità ‘poetica’ di questo segno.<br />

Ma se non v’è dubbio che la significazione è povera ai livelli denotativi<br />

e referenziali, come è naturale che sia in un linguaggio<br />

altamente metaforizzato, è viceversa vero che i sensi si presentano<br />

percorribili nelle relazioni interne e strutturali della forma.<br />

Una riprova decisiva o se si vuole una controprova è data dalla<br />

parola liciniana, per varie ragioni ineluttabile qualora si intenda<br />

procedere al riconoscimento dei modi espressivi profondi dell’autore,<br />

di quelle figure costanti della ‘scrittura’ che non sono<br />

elementi privilegiati della sola fabbricazione visiva. Perché mai<br />

la gradatio o il climax dovrebbero appartenere, quasi tra parentesi,<br />

ai modi del récit di Bruto o costituire una specifica declinazione<br />

della prosa epistolare? Perché mai l’immaginario dovrebbe<br />

emergere soltanto nello statuto della pittura e anche, sostanzialmente<br />

simile, nell’espressione verbale? Che cosa significano<br />

le ‘somiglianze’ tematiche tra certi emblemi dei racconti e<br />

taluni luoghi contaminati dallo sguardo? È proprio irrilevante che<br />

anche nell’esercizio narrativo compaia una speciale disposizione<br />

all’inquietudine, al mescolamento dei topoi che si manifesta<br />

nella pittura? Che valore attribuire, infine alla gestazione ‘nominale’<br />

dei simboli, o per lo meno alla continuità tra parola e<br />

segno visivo, anzi alla frequente precipitazione della lettera nel<br />

campo della visibilità?<br />

È perlomeno sorprendente constatare che alcuni luoghi fantastici<br />

appaiono prima sulla pagina scritta che sulla tela – con anticipazione<br />

di addirittura due decenni – . Si pensi all’emblema della<br />

merda, a quelli della luna, del cuore, dell’amante dei fiori, per i<br />

quali si potranno trovare gli ascendenti laforghiani o crepuscolari,<br />

letteratissimi e mentali, ma sui quali intanto si deposita tutto<br />

168<br />

lo spessore della memoria verbale, un terreno di abitabilità estetica<br />

che l’occhio sarà destinato ad occupare sempre più nel corso<br />

dell’esperienza.<br />

Salvo che per le poesie nulla si sapeva del lavoro sulla parola. E<br />

pure assume grande valore la circostanza che Licini abbia scritto<br />

e insieme dipinto fin dai primi anni, che mai abbia smentito –<br />

neppure presso gli amici marchigiani – quella maniera di interrogare<br />

la propria intelligenza e che spesso, all’origine di un simbolo<br />

figurativo, agisca un motto di spirito, un gioco di parola, una<br />

insolita disquisizione nella polisemia del segno verbale: amalassunta/la-male-assunta,<br />

merda/eradm/emrad eccetera, una<br />

sorta di senhal nominativo. Altrettanto significativamente si osserva<br />

che quella stessa maniera di formulare gli ideogrammi<br />

verbali, di costituire delle mitologie fantastiche – parallele alla<br />

pitture e non programmaticamente confluenti in essa – continua<br />

senza interrompersi mai nella corrispondenza, e insistentemente<br />

in quella rivolta agli interlocutori per così dire candidi e angelici:<br />

alle amiche soprattutto e ai compagni di confidenza. C’è,<br />

tanto per limitarci ad un caso, tutta una lunga riflessione sull’aspetto<br />

oscuro dell’elemento femminino, una congiunzione tra<br />

il paesaggio e l’immagine della donna che si innesca a proposito<br />

del motivo della “Sibilla”, un analogon, almeno come procedimento,<br />

della male-assunta, questa volta però su un regime<br />

terrestre dell’immaginazione.<br />

Emblemi? Simboli? Temi? Ci sono certamente le ragioni per sostenere<br />

la pertinenza, nei vari casi, dell’uno o dell’altro termine<br />

definitorio, per cui di simbolica pare si possa parlare correttamente<br />

attorno a taluni elementi molecolari quali la bocca, gli<br />

occhi, la mano, eccetera, convogliati entro una dimensione visionaria<br />

del pensiero, mentre ‘emblematica’ costituisce espressione<br />

più soddisfacente in ordine ai valori tecnici e ‘freddi’ della<br />

costruzione dei contesti poetici e ‘tematica’ infine, per il suo carattere<br />

neutrale e generalizzante, permette una larga articolazione<br />

degli argomenti. Che dire poi delle numerose configurazioni<br />

quasi araldiche e degli arabeschi in cui si esercita lo schematismo<br />

delle strutture sintetiche, particolarmente delle tavolette portafortuna?<br />

Individuazione questa tutt’altro che incongrua, se si considera<br />

quel preciso territorio dell’invenzione che l’autore volle più<br />

volte disporre e commentare nel circuito dell’ornato e della superdecorazione,<br />

e condizione in cui s’individua finalmente la re-


Dal volume “O. Licini, errante, erotico, eretico”, appunti di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, p. 51.<br />

Dal volume “O. Licini, errante, erotico, eretico”, appunti di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, p. 58<br />

(particolare).<br />

169<br />

ciprocità fra lettera ed immagine, l’incontro delle scritture.<br />

Occorre dunque insistere sull’opportunità di adoperare le chiavi<br />

di lettura in sintonia con l’effettivo scorrimento, con la mutabilità<br />

e la circolarità dei segni della pittura; occorre tener conto della<br />

natura, vuoi complessa o composita, di talune immagini ottenute<br />

per via di incastri e di stratificazioni successive, immagini in<br />

un certo senso da sfogliare e da sbucciare perché si manifestino<br />

completamente. Un esempio tra i molti potrebbe essere offerto<br />

da quell’icona estrema che Licini intitolò Angelo di San Domingo<br />

dove, sul fondo di un’assenza-presenza (il simbolismo universale<br />

della croce), s’indovina l’incastro di una evidenza (l’angelo)<br />

con una serie di somiglianze: le Croci (1953), i Mulini a<br />

vento (1935), i Fiori fantastici (1954-1955). Una sequenza di<br />

temperature anche stilistiche e fantastiche (la surrealtà dell’angelo,<br />

l’astrattezza del mulino, si direbbe per schematizzare). E ciò<br />

vuol dire stile e tematica, fattura retorica: una “geometria del<br />

raddoppiamento delle figure”, qualcosa come un’antifrasi continuata<br />

e pertanto portatrice di sensi ulteriori e di ambiguità.<br />

Del resto quest’oscillazione sussiste nella critica e, ancor prima,<br />

in Licini. Basta scorrere, anche sommariamente, i diversi capitoli<br />

della sua fortuna per imbattersi in proposte interpretative tra<br />

loro lontane, orientate ora sulla metafisica ora sul surrealismo e<br />

altre volte sul realismo magico; lontane si diceva, ma contigue e<br />

non escludentisi, in grado di coesistere legittimamente tra loro.<br />

Che dire di una stessa fluttuazione autonominativa di Licini, che<br />

al “sono ermetico” intreccia un “W il Surrealismo”, al “siamo<br />

astrattisti per la legge psicologica di compensazione” fa seguire<br />

un “(proclamiamo) in faccia a Dio e agli uomini l’avvento di una<br />

mai veduta, perenne, strepitosa, frenetica, scintillante nostra<br />

dolcissima irrealtà”, o il “W la bella Irrealtà”? Ci sono poi le dichiarazioni<br />

asistematiche, gli appunti sparsi, le formule suggerite<br />

dai contatti esterni, ma non vincolanti e tutte intese invece a<br />

toccare, da diverse parti, i temi dell’immaginario o suoi particolari<br />

aspetti. Sicché accade, non di rado, che il vocabolario in cui<br />

Licini si riconosce finisca col toccare i corollari del sistema cui va<br />

approssimandosi, che esso si rovesci dentro il momento operativo<br />

e divenga tutt’uno con questo. Che cosa sono, ci si chiede,<br />

tanti richiami allo “sconfinato” e al “soprannaturale”, ai “sogni”,<br />

al “fantastico”, alla “follia” e all’“oltretomba” se non anche delle<br />

provocazioni consumate sui capitoli reali, sui sensi delle forme e


O. Licini, Pastorello, 1925, olio su tela, cm 29,2x21,2.<br />

170


O. Licini, Ritratto di Nella, 1926, olio su tela, cm 80,5x64,5.<br />

171


dei segni? Non è importante constatare che il lessico secondario<br />

della poetica è anche, spesso, il lessico della poesia? Se è vero<br />

che si possono e si debbono distinguere delle stagioni di ricerca,<br />

che occorre periodizzare la ‘sua’ storia perché più di una fu l’avventura<br />

del pittore, è pur vero che tante esplorazioni appartengono<br />

ad una pressoché medesima strategia dell’immaginario.<br />

Dunque si tratta di un’oscillazione di parole in certo modo interna<br />

e sincronica, e non solo progressiva e diacronica.<br />

E tuttavia fra le tante formulazioni proposte e tra i numerosi termini<br />

impiegati dal pittore con la scontata avvertenza di non irrigidirne<br />

nessuno, abbiamo l’impressione che la determinazione<br />

contenuta in una parola come irrealtà, assai duttile e compren-<br />

O. Licini, Paesaggio con uomo, 1926 ca., olio su tela, cm 64,5x80.<br />

172<br />

siva, finisca col far coagulare meglio di altre la immaginazione<br />

formativa di Licini: non a caso su di essa il pittore insiste sempre<br />

più frequentemente nel corso degli anni maturi.<br />

Ma procedendo oltre la questione nominalistica, pur necessaria<br />

se si vuol chiarire lo scarto tra un surreale e un surrealista, si scoprono<br />

presenti in Licini le maniere di comporre il senso che appartengono,<br />

per via canonica, a certi settori dell’avanguardia europea:<br />

e qui vorremmo dire, ripetendo, alcuni nomi: Kandinsky e<br />

Klee, ma anche Breton, Man Ray.<br />

L’analisi dei Racconti di Bruto ha confermato l’incidenza dei procedimenti<br />

metaforici provenienti da Laforgue, Lautrèamont, Palazzeschi<br />

in un singolare impasto con gli stilemi crepuscolari e


quell’analisi si è ulteriormente illuminata nella ipotesi di una prosecuzione<br />

successiva, nei possibili (ed effettivamente poi documentati)<br />

addossamenti ad Apollinaire, Valéry, Eluard, Breton, a<br />

quella zona di cultura artistica in cui non sussistevano rigide partiture<br />

di statuti e dove la parola era attiva insieme allo sguardo<br />

e lo spostamento dei livelli di visibilità era accompagnato o provocato<br />

da una esplosione verbale, da un gioco di parole, da un<br />

controsenso o da un senso aggiunto. Non costituisce d’altra parte<br />

problema se Licini non ha praticato la ‘doppia’ scrittura in maniera<br />

esplicita (ma in seguito sì, con le poesie e i progetti di racconto),<br />

poiché qualcosa, pure, resta e di determinante su quei<br />

differenti piani della fabbricazione dell’immagine che sono l’aral-<br />

O. Licini, Paesaggio marchigiano, 1926, olio su tela, cm 64x82.<br />

173<br />

dica, l’uso dei simboli e la formulazione del titolo. Mentre gli<br />

astrattisti italiani, negli stessi anni in cui Licini esponeva in gruppo<br />

con loro, si servivano quasi esclusivamente di nomenclature<br />

asettiche e depurate per denominare l’oggetto da esibire (composizione,<br />

pittura, scultura), egli metteva in campo anche altri<br />

enunciati di altissima carica fantastica, quasi un inventario di luoghi<br />

simbolici: castello in aria, equilibrista, l’incostante, sagittario,<br />

assaggiare, il bilico, bocca, il drago, aquilone, mulino a vento,<br />

addentare, uccello notturno, eccetera: enunciati che non sono<br />

una pura e semplice esplicazione orientativa per l’osservatore,<br />

ma si incarnano nei segni di quei contenuti formalizzati. E il confezionamento<br />

dei titoli, si sa, era tutt’altro che un’operazione se-


O. Licini, Il bilico, 1932, olio su tela, cm 21,5x14,5..<br />

174


O. Licini, Equilibrista, 1932, olio su tela, cm 31,5x22,5.<br />

175


condaria per gli animatori dei “Cahiers d’Art”, coi quali Licini era<br />

in contatto fin dai primi numeri della rivista.<br />

Se si esamina, per esempio, Ritmo rosso (1932) o Notturno n. 1<br />

(1931-32) si scopre una intelaiatura in certo senso emblematizzata<br />

della geometria. I rapporti tra le linee-forza vengono a disegnare<br />

delle figure doppiamente riconoscibili (nella funzione<br />

geometrica e in quella evocativa) che accolgono a loro volta<br />

degli spezzoni di immagini in quel particolare equilibrio del ritmo<br />

o sospensione che è stato più volte indagato in termini di formatività.<br />

I triangoli e i poligoni delineano un rècit, un racconto<br />

metaforico abitato da cerchi-lune, frecce, aquiloni e insieme da<br />

oggettivi correlativi liberi (mano, piede, stella). Questo andamento<br />

del quadro come una forma del racconto, qui come altrove,<br />

si impernia sul funzionamento di un tipico formulario retorico,<br />

sull’uso cioè delle figure della sospensione in un ‘miracoloso’<br />

tout se tient della catena compositiva, Così l’Equilibrista (1932)<br />

Dal volume “O. Licini, errante, erotico, eretico”, appunti di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, p. 57 (particolare).<br />

176<br />

contiene allo stesso tempo degli elementi che crescono bilanciandosi<br />

l’uno sull’altro ed è nell’insieme un’immagine funambolica,<br />

una struttura sintetica dell’equilibrio. Il tema dell’opera<br />

designa anche il metodo stilistico della sua realizzazione, il topos<br />

coincide col tropo.<br />

Ora, è un dato abbastanza tipico di Licini il fatto che le Composizioni<br />

anziché proporsi sulla linea dell’assolutezza non rappresentativa,<br />

del totalmente astratto, vengano sempre a darci delle somiglianze,<br />

propongano delle similitudini, siano insomma percettivamente<br />

o mentalmente riconoscibili.<br />

Se il bilicamento delle forme geometriche sui vertici è uno stilema<br />

ritmico, ed anche una tecnica della ripetizione, il bilico è l’oggetto<br />

finale che lo sguardo deve cogliere per poter leggere: un<br />

oggetto-emblema mutevole, variamente pronunciabile, con un<br />

volto provvisto di chiara identità. Che cosa vuol dire che la “geometria<br />

può diventare sentimento”? Non certo che essa idealisti-


camente si depuri e respinga i depositi della mondanità. Al contrario:<br />

è un segno della memoria, un modo di scrivere e di accumulare<br />

significati sensibili. Ed ecco allora il suo disporsi come<br />

una segnaletica, ossia come un indice di riconoscibilità, proprio<br />

perché essa si addossa dei compiti a livello evocativo. Come<br />

l’arabesco (ed è importante che Licini vi si cimentasse fin dal<br />

1913: “Adesso mi sono rimesso a dipingere. Faccio del paesaggio<br />

arabesco”, scriveva a Pratella) non è una pura e semplice formstil,<br />

anche la geometria riesce a convogliare dei significati, dà<br />

degli oggetti. Bocca, mulino a vento, uccello: ecco un uso metaforico<br />

della parola tutt’altro che esornativo e arbitrario. Esercita<br />

piuttosto una funzione super-indicativa e ultrascritturale, parallela<br />

alla superdecoratività della geometria.<br />

Un simile rilievo del titolo-tema si trova in Klee quando ordina le<br />

configurazioni in capitoli e in serie di argomenti, allorché cerca<br />

l’evidenza nella costituzione di un contenuto riassuntivo e trova<br />

nel funambolo “l’estrema incarnazione simbolica dell’equilibrio<br />

delle forze” o nella scacchiera l’architettura “ponderale a due dimensioni”<br />

(si noti tra l’altro il titolo da lui adottato di superscacchi).<br />

L’accrescimento nominale corrisponde ad una vera e propria<br />

creazione di mitologie. Altrettanta cura nella messa a punto dei<br />

titoli, seppure orientata in direzione assai divergente, avevano<br />

altri artisti conosciuti dal pittore marchigiano. In loro (da Arp a<br />

Man Ray) l’accompagnamento della parola assolveva alla funzione<br />

di rigenerare l’oggetto visuale, rivelandone connotati insoliti<br />

e spessissimo spaesando la ricezione del lettore. In Licini,<br />

però, non si riscontra l’abitudine a straniare attraverso il titolo<br />

l’immagine, poiché egli si serve delle parole in funzione assecondativa<br />

del senso, calca relativamente sulle identità, vuol dare<br />

insomma delle super-immagini. In ogni caso la scrittura è pregnante<br />

e frequentemente viene assunta all’interno del dipinto<br />

con tutto il suo peso di astanza (cfr. Bocca, 1934). Licini si tiene<br />

infatti sempre stretto al contesto e poiché non preleva mai,<br />

come nell’esercizio cubistico del collage e nei dadaisti, le lettere<br />

da ciò che sta fuori della pittura, necessariamente il suo esercizio<br />

insiste sulla consistenza grafematica della scrittura, sul simbolismo<br />

dei caratteri, sulle loro intime capacità allusive ed evocative.<br />

Negli anni successivi lettere e numeri si incarneranno ancora<br />

più internamente nelle immagini, venendo a far parte dei<br />

ritmi di riconoscibilità delle figure, contestualizzandosi – per così<br />

177<br />

dire – nell’emblema, nella serie calligrammatiche dei 9, 6, 5,<br />

delle T e delle Q generatrici delle linee degli occhi, delle bocche<br />

e dei volti: incastro e moltiplicazione ‘nel contesto’, costruzione<br />

retorica per accumulo e complicazione.<br />

Sulla oggettivazione in figura dei ritmi lineari e dei valori cromatici<br />

un esempio interessante, anche per la consonanza tematica<br />

con i contenuti di lavoro di un Arp, per esempio, ma anche<br />

di Man Ray, è fornito da Uccello (1936 ca.), in cui la funzione<br />

simbolica del valore è depositata in un campo di opposizioni e<br />

di similitudini triangolari, leggermente sfasate e graduate in una<br />

sorta di costruzione allitterativa.<br />

Le filettature di ritaglio si ispessiscono gradualmente e alternativamente<br />

ai vertici del triangolo maggiore cosicché la figura accenna<br />

ad un leggero spostamento di rotazione come se alitasse<br />

nello spazio. Un’immagine sì fantastica, ma che si naturalizza nel<br />

movimento, in quest’accenno dell’animazione circolante del volo.<br />

Un oggetto dello sguardo viene così costruito per accrescimento<br />

grazie all’incastro di funzioni diverse e all’accostamento del geometrico<br />

al naturale. Se ci chiediamo quali siano gli ingredienti<br />

puramente materiali del montaggio e se pure è lecito dissociarli,<br />

troviamo che sussiste una sequenza di forme astratte simili,<br />

ma non uguali: i triangoli. Accanto a questa serie, anzi a contatto<br />

strettissimo, un secondo gruppo di segni di funzione opposta<br />

che potremmo catalogare nella tavola dei valori concreti di grande<br />

risonanza: a) strutture vitali della percezione: nel caso specifico<br />

la intelaiatura rotante dell’immagine e l’insieme delle spinte<br />

che vi si convogliano; b) la parola ‘concreta’ uccello (da registrare<br />

nell’elenco delle voci come testa, assaggiare, eccetera).<br />

Dunque un montaggio che fa leva sulla contiguità delle risonanze<br />

astratte e di quelle concrete per dar vita a ‘suoni’ misti, di incroci<br />

di serie.<br />

Abbiamo chiamato più sopra quell’immagine finale un oggetto<br />

dello sguardo. Vorremmo ribadire ora, proprio per il caso particolarissimo<br />

e forse unico di Uccello, la proprietà di una terminologia<br />

indulgente ai valori concreti richiamando l’attenzione sulle<br />

modalità di confezionamento del quadro, sull’imballaggio divenuto<br />

cornice dell’opera secondo una notizia raccolta da Birolli. Ci<br />

si domanda: perché proprio una cassetta? E perché il caso ha<br />

dettato la scelta? Se la cosa appare eccezionale nella pratica liciniana,<br />

risulta tuttavia significativa perché l’immagine ha potuto


sopportarla nella sequenza degli altri indici concreti. È un sovrappiù<br />

che carica ed innalza, leggibile come climax. Forse la<br />

massima concessione agli oggetti di un Man Ray e di un Arp,<br />

punto di convergenza – comunque – con “Abstraction-Creation”.<br />

Altri esempi di incontro delle due serie, quella fredda dell’astratto<br />

e quella calda del concreto (“la geometria può diventare sentimento”),<br />

si trovano frequentemente nelle opere dello stesso<br />

periodo. Si prenda Addentare (1936): anche lì, nel contesto della<br />

riflessualità geometrica, viene ad incidere la presenza di un emblema<br />

corporeo boccadenti, col risultato che le serie dei sensi si<br />

spostano producendo la metafora visiva e una precipitazione<br />

analogica delle funzioni significative.<br />

O. Licini, Personaggio giallo, 1944.<br />

178<br />

Fabbricazione di sensi o di non-sensi? Si direbbe piuttosto di<br />

sensi ‘miracolosi’, di immagini acrobatiche, poste sui vertici più<br />

alti e nei punti più eminenti dell’universo, sul “cocuzzolo” delle<br />

cose o al “Polo Sud”, per usare espressioni care all’artista. Si è<br />

visto come la parola, il titolo e i segni corporei agiscano sempre<br />

in direzione assecondativa rispetto all’immagine, non la neghino<br />

ma la facciano crescere e la innalzino. Il titolo, però, pur assistendo<br />

le figure all’atto della ricezione, ha radici fantastiche nel<br />

terreno delle mitologie liciniane ed entra in quella relazione con<br />

il fantastico-concreto che abbiamo visto costituire una delle materie<br />

della invenzione. Grazie a questa parentela il riconoscimento<br />

degli emblemi può essere guidato, acquista spessore e


sapore suoi propri. Come dimenticare infatti che di un cuore da<br />

regalare parla Bruto (“si mise il suo cuore nel cavo della mano”,<br />

“lo strinse forte nella mano”, “legò il cuore con uno spago e lo<br />

gettò a cavalcioni sui fili”, eccetera), e che di angeli e di cuori ha<br />

scritto uno dei poeti prediletti, Apollinaire? Come dimenticare<br />

queste radici quando, osservando le Amalassunte, ci imbattiamo<br />

in tutto un rituale dell’esibizione del cuore, stretto fra due dita,<br />

posto nel palmo della mano o sulla fronte, volante nello spazio?<br />

Un rituale orfico ed ironico insieme, portato all’evidenza della visibilità,<br />

fatto nascere anche dalla cultura della parola.<br />

In modo simile Klee non urtava contro le leggi del visibile sposando<br />

alla pittura la musica, la scrittura alchemica, il teatro o la<br />

O. Licini, Personaggio grande, 1945, olio su tela, cm 24x29,5.<br />

179<br />

letteratura. Lo scorrimento dei significati, la metaforizzazione<br />

dell’astratto, la sintonia della parola con lo sguardo, la risonanza<br />

del segno concreto, la funzione spaesante-accrescitiva dei titoli<br />

segnano tanti punti di contatto tra gli artisti europei. Si tratta di<br />

meccanismi che Licini impiega a suo modo, però, e fin dai primi<br />

esercizi della maturità, anche lui per produrre humour attraverso<br />

l’incastro e giochi di spirito, con le conseguenti deviazioni eretiche<br />

rispetto alla maggior parte dei comaschi e dei milanesi.<br />

Restando ancora alla questione generale, colpisce nella dichiarazione<br />

agli amici del Milione e nello scritto successivo, di due anni<br />

più tardo, Natura di un discorso, la relazione sotterranea fra rigore<br />

e piacere, col noto corollario del segno che non è un sogno.


Se rileggiamo quelle righe sotto l’angolazione di una teoria del<br />

diletto, dell’oggetto estetico come oggetto del soddisfacimento<br />

pre-logico, irrazionale (“Quadri che non rappresentino nulla, ma<br />

che a guardarli procurino un vero riposo dello spirito”), ci imbattiamo<br />

in un’oscillazione del pensiero che getta ponti tra una nozione<br />

di astratto in sede progettuale e una idea dell’opera (sia<br />

nel suo atto di nascita sia nel suo destino) che la infrange continuamente,<br />

battendo sul polo della piacevolezza e dell’inganno.<br />

Ecco alcuni elementi della prima serie: “I segni esprimono la<br />

forza, la volontà, l’idea”, “Dubitare non è una debolezza, ma è<br />

un lavoro di forza, come forgiare, ha detto Cartesio”, “Con la<br />

testa sola”, “la pittura è l’arte dei colori e dei segni”: arte come<br />

techne, appunto. E sul versante opposto i correttivi del tipo: “A<br />

che serve un quadro se non a superdecorare un muro, a rallegrare<br />

una parete? Questa è la sua funzione, la sua sola giustificazione”,<br />

“L’Arte è la più nobile delle dilettazioni”, “Come tutte<br />

le cose della natura, enigmatica, menzognera, bella ma con<br />

frode”, “L’importante è che la menzogna sia geniale”, eccetera.<br />

Ora, da dove vengono simili formulazioni, un lessico così esatto<br />

e calcolato? Se non si deve credere che sia un estro qualsiasi a<br />

dettare gli enunciati, occorrerà ancora una volta riconoscervi uno<br />

spessore critico, un deposito culturale e delle relazioni. Ed allora<br />

assume grande rilievo il fatto che ci sia un’area storica dell’immaginario,<br />

di cui il pittore è informato, della quale consulta i documenti<br />

e da cui, ci pare, riprende talora lo schema dell’argomentazione.<br />

Come spiegare la polemica contro il sogno, quando<br />

non la si pensi come un’irradiazione della lunga polemica di<br />

“Cercle et Carrè”, di “Abstraction-Création” e poi dei “Cahiers<br />

d’Art” nei confronti del sogno surrealista, che è una “menzogna<br />

sensoriale, e dunque naturalistica”? Come non riscontrare nella<br />

Lettera liciniana l’eco diretta degli astrattisti riuniti a Parigi, dei<br />

loro manifesti per l’arte non imitativa e di intere frasi del tipo:<br />

“Il quadro non è più un collegamento fra la natura e lo spettatore,<br />

agisce direttamente su questo per la virtù che hanno le<br />

forme e i colori sulla nostra sensibilità…”, “il fine ultimo della pittura:<br />

il diletto; poesie in forme e colori, sorelle del poema moderno<br />

il cui solo fine è il lirismo e il sogno, sorelle della musica<br />

libera”? Quando Licini scrive di voler fare dei “quadri che non<br />

rappresentino nulla, ma che a guardarli procurino un vero riposo<br />

per lo spirito” non mostra, forse, più di una parentela con le<br />

180<br />

idee sul silenzio da imporre intorno all’opera d’arte di cui parla<br />

anche Seuphor in quegli anni? “Bisogna guardare questa pittura<br />

con gli occhi e fare quasi silenzio in se stessi, e cioè…mettersi in<br />

stato ricettivo e acritico”, si legge sul catalogo dell’esposizione<br />

Art d’Aujourd’hui: “Questo atteggiamento è necessario perché il<br />

gioco delle forme colorate agisca e provochi, se il quadro ne è<br />

capace, lo stato lirico che esso ha il solo scopo di provocare nello<br />

spirito dello spettatore”.<br />

Eppure non tutto collima perfettamente. Altri elementi, lo stesso<br />

ossessivo richiamo all’irrazionalità, rinviano al surrealismo, o meglio<br />

ad alcuni suoi motivi. Sicché viene a configurarsi, nella singolare<br />

fisionomia della doppia accettazione e dell’altrettanto duplice<br />

correzione, l’atteggiamento di Licini di fronte a due nodi capitali<br />

della cultura delle immagini. Del resto l’estremistico W il<br />

Surrealismo! è controbilanciato dalla proclamazione drastica, in<br />

tutt’altra direzione, di W l’Astrattismo! Nessuno dei due e tutt’e<br />

due insieme, poiché – com’egli scriveva per caratterizzarsi nella<br />

presa di valori lontanissimi e non per spirito di conciliazione – “ci<br />

rifiutiamo di dare una definizione esatta”. E dunque varrà mettere<br />

in luce che la ‘correzione’ avviene sulle idee elaborate in Europa<br />

e a Parigi in particolare. Con queste egli istituisce il suo dialogo<br />

più serio, visto che nelle pagine teoriche sono rintracciabili,<br />

se si osserva in filigrana, due registri allocutivi: per un verso egli<br />

parla sul fronte delle polemiche milanesi (“Poi sono venuti Ojetti,<br />

Waldemar George e tutti i Maraini della terra”, eccetera) e per<br />

un altro manovra concetti e suggestioni di più largo respiro.<br />

Se è così, tutto il capitolo delle metafore liciniane viene ad essere<br />

illuminato. Sono figure che entrano nella dimensione del<br />

decorativo e dell’immaginario, di una fantastica dell’arabesco (la<br />

parola è di Licini). Non vanno letti e interpretati come figurazioni<br />

oniriche, con un peso quotidiano e naturalistico, ma come<br />

sigle e oggetti sintetici dell’immaginazione retorica, appunto<br />

come emblemi, immagini superdecorative. Ed ancora: come tali,<br />

gli emblemi sono parole, pezzi di un vocabolario che aspettano<br />

di essere coniugati e messi in relazione tra loro.<br />

Gran parte dei quadri del pittore sono questa coniugazione, il<br />

montaggio di una narrazione e di una situazione immaginaria. E<br />

poiché tutto, alla fine, fa parte del récit (colore, figure, percorsi<br />

ritmici ecc.), ognuno dei dati costitutivi viene ad assumere rilievo<br />

sul piano della significazione, sicché dovrebbe essere indaga-


ta anche la funzione significante dei colori e delle linee, e di ogni<br />

altro materiale del montaggio. La parola liciniana, quella scritta<br />

vogliamo dire, è insieme facilmente penetrabile e resistente. La<br />

leggerezza è lo stile delle confessioni, uno stile che si lascia garbatamente<br />

attraversare senza lasciare residui e depositi. Così avviene<br />

che la disavvertenza della scrittura, sempre piana e amabile,<br />

svolga un ruolo di tentazione negativa, lasci in sospeso, non<br />

impegni e dia, al lettore che lo voglia, la possibilità di dimenticare.<br />

È una tentazione a non tener conto, a lasciare andare.<br />

“Tu”, scrive una volta alla cugina, “prendi le cose troppo tremendamente<br />

sul serio”. A Corrado Levi: “Scusi, caro Levi, se mi<br />

permetto un pochino di scherzare “. E altrove: “Pazienza”, “Perdona<br />

la mia pigrizia”. Dunque un sacrificio dell’argomento, una<br />

pratica della reticenza e dell’attenuazione esercitata attraverso<br />

l’inversione della serietà. Eppure la volontà eufemistica della<br />

moderazione mette sull’avviso, proprio per l’assetto ripetitivo che<br />

la connota, che non è il caso di correre via e di lasciar perdere,<br />

e che la resistenza va penetrata.<br />

La reticenza si manifesta allora come il luogo della rivelazione.<br />

Nascondendo e rovesciando l’attenzione, lascia apparire i pensieri<br />

e le asserzioni che contano: “io, me ne vado un po’ svolazzando<br />

per conto mio, nei cieli della fantasia: e così… sono diventato<br />

un angelo abbastanza ribelle, con la coda, ecc”. Dove,<br />

pur reiterando i giochi attenuativi dell’un po’ e abbastanza, Licini<br />

rivela la sua figura argomentativa dominante, il chiasmo dell’angelismo<br />

e della ribellione.<br />

E se è pur vero che la prosa non è lo specchio dell’immagine pittorica,<br />

come negare che essa vi si armonizza grazie alla presenza,<br />

si voglia pure disadorna, della quotidianità stilistica, di un<br />

isomorfismo retorico delle figure di discorso?<br />

L’analisi, appena tentata nelle pagine precedenti, di alcuni campioni<br />

figurativi dell’epoca astratta ha messo in evidenza, ci sembra,<br />

un sistema dinamico di emblemi che tendeva ad organizzarsi<br />

secondo una metaforica dell’instabilità e dell’equilibrismo. Il<br />

récit delle similitudini dell’aria (equilibrista, uccello, ritmo rosso,<br />

eccetera) si mantiene pressoché al centro della pittura di quegli<br />

anni, dai mulini ai castelli in aria agli erranti, richiamando su di<br />

sé un’ampia costellazione di figure secondarie, combinandosi con<br />

degli emblemi – in certo senso – ciclici (il triangolo come immagine<br />

di sostegno, in bilico o alitante nel volo). Il protocollo moti-<br />

181<br />

vatore della sospensione aerea sta al fondo, con la metafora portante<br />

dell’ascesa, delle rappresentazioni ad incastro, dei ritmi di<br />

opposizione (si vedano le alternanze nere-bianche-rosse-blu) e<br />

soprattutto della costruzione a chiasmo, che appare sempre come<br />

la figura universalmente riassuntiva di tutto un vocabolario.<br />

Il chiasmo, questa x figurativa, è la sintetica rappresentazione<br />

della totalità e delle sue conciliate disarmonie. Contiene i doppi<br />

e gli opposti, permette di salire e di scendere, è una scala per le<br />

somiglianze e le differenze. La povertà e al tempo stesso l’alta<br />

variabilità interna del lessico liciniano si spiegano forse nella<br />

adesione ad una simile struttura della forma. I segni, troppo facilmente,<br />

talora, semantizzabili nella direzione mistica o in quella<br />

erotica (cuori, mani, piedi, lune eccetera), in realtà vivono nell’incastro<br />

di più sensi sovrapposti e sedimentati a strati. Si capisce<br />

allora perché Licini, ad un certo momento della sperimentazione<br />

sugli emblemi, si avvii verso una incarnazione decisiva<br />

delle strutture di base, allarghi e ispessisca la sostanza dei corpi<br />

immaginari e, occultando l’armatura, dilati l’inventario delle rassomiglianze<br />

concrete. Un riempimento, si vorrebbe dire, del<br />

museo mediante il peso, la tramatura e le corposità dei miti.<br />

È documentato che attorno al ’40 ed anche più tardi molti dei<br />

quadri spediti in soffitta un decennio prima vennero ripresi. Altrettanto<br />

si può dire per qualche opera astratta, almeno in alcune<br />

parti e dettagli. L’operazione rende trasparente il processo di<br />

stratificazione dell’immagine e il recupero di un pensiero collegato<br />

a quella che il pittore stesso non esitava a chiamare per eccesso<br />

la sua stagione “realista”; stagione invece depositaria di<br />

mitologie paesistiche e di visioni ora riemergenti sotto altra costellazione.<br />

Gli Arcangeli, il Paesaggio con nudi del ’24-’25,<br />

Montefalcone, il Capro: ecco tante attitudini fantastiche riguadagnate<br />

all’invenzione. Ma, con questi, altri strati di senso funzionano<br />

insieme: l’imagery della cultura letteraria, la memoria grafematica,<br />

la tematica del ciclo, l’ironia simbolica.<br />

Si prenda uno dei nuovi emblemi, ossessivi e dunque rivelatori:<br />

l’unità ossimorica della mano e del piede (l’amica, l’amalassunta)<br />

agganciati sulla chiave della bocca. Un oggetto volante che<br />

è anche volto e corpo, ma soprattutto un chiasmo perfetto, un<br />

bilico della triangolarità. Segno erotico dell’erranza.<br />

A questo punto, poiché tante tentazioni di riempimento semantico<br />

sono possibili, ci serviremo dei soli sensi forniti dal contesto


182<br />

O. Licini, Composizione (Studio<br />

per Castello in aria), 1932.<br />

O. Licini, Notturno, 1932, olio su<br />

tela, cm 20x28..


oggettivo dell’immagine, dalla sua armatura verticale (la tradizione<br />

interna del testo): 1) la rappresentazione è iscrivibile nella<br />

geometria dell’equilibrio; 2) lo spazio manca di coordinazioni<br />

prospettiche ed è libero per la fluttuazione suggerita dall’entità;<br />

3) piede e mano rientrano nella miniaturizzazione del corpo connessa<br />

alla mitologia dell’ascensione; 4) mano e piede, ancora,<br />

sono ostensioni dell’antico io liciniano, Bruto; 5) l’oggetto, Amalassunta-luna,<br />

è una dominazione astrale; 6) la rappresentazione<br />

è ordinata su un basso (i seni-orizzonte-colli) e su un alto (la<br />

luna); 7) tutte le figure rispondono all’ossessione del volo-caduta,<br />

del sopra-sotto. Lo spazio dell’immaginario viene così a riempirsi<br />

di valori ognuno dei quali non conta per sé ma è un contenuto-contenente.<br />

I segni si intersecano nella corrente ossimorica,<br />

dunque in un meccanismo formale che vuol rendere visibile<br />

proprio la sospensione dei sensi, la circolarità della visione, la<br />

vertigine creativa della struttura dell’incastro. Un meccanismo,<br />

questo, evidentemente potenziato e non formalisticamente sterile<br />

se si lascia toccare dall’erotizzazione dei feticci.<br />

Questo stesso segno si rivela poi fertilissimo nei processi di spostamento<br />

e di trasformazione impiegati dal pittore, sì da generare<br />

degli incastri multipli come le associazioni col volto (es. Omaggio<br />

a Cavalcanti, 1954), il disco lunare, il mulino a vento o il paesaggio,<br />

spesso grazie alla tramatura spaziale di un’unica linea<br />

continua, di un filo matissiano che percorre l’intero itinerario della<br />

condensazione rappresentativa. L’energia costruttiva della linea è<br />

allora potenziata fino a descrivere, in un identico tratto di percorrenza,<br />

più emblemi simultanei (fronte-naso-mano-piede). Si aggiunga<br />

che il chiasmo principale si prolunga in una catena di ripetizioni<br />

della stessa figura o si ripresenta, quasi inaspettatamente,<br />

a ritmare un’immagine, come accade in Volare (1956).<br />

Proprio all’interno di simili figure complesse si anima il gioco<br />

delle lettere e delle cifre numeriche. Ci si è domandati quali<br />

siano i significati da attribuire a questi indici della nominazione<br />

ed è risultato sorprendentemente che il loro impiego, anche dal<br />

punto di vista semantico, è tutt’altro che casuale. Ci sono anche<br />

lì delle costanti e delle varianti, delle regole e delle eccezioni. Se<br />

si confrontano i segni tra loro in una tavola di riscontri, è lecito<br />

sostenere che l’interrogazione sia rivolta ai valori contestuali<br />

(alla figuralità del simbolo) e non alla sovradeterminazione dell’emblema.<br />

Come scrive Ricoeur nella sua approssimazione alle<br />

183<br />

strutture artistiche attraverso l’analogia con l’attività onirica, “la<br />

simbolizzazione non costituisce problema, giacché, nella simbolica,<br />

il lavoro è già compiuto altrove; il sogno si serve della simbolica,<br />

non la elabora”. Ed ancora: “le vie proprie all’interpretazione<br />

sono le associazioni di colui che sogna e non già i fatti legati<br />

all’interno del simbolo stesso”. Ora, i simboli numerici dominanti<br />

sono 2, 5, 6, 9, mentre hanno minore frequenza 1 e 4.<br />

Pochissime le presenze di 3. Assente del tutto il 7. Qualche volta<br />

compare il simbolo dell’infinito. Da ricordare che, nella stragrande<br />

maggioranza dei casi, tutte queste cifre sono impiegate per<br />

delineare dei valori interni all’emblema della luna. Ebbene, 2, 6,<br />

9 e tutte le loro combinazioni (66, 69, 96, 99) si trovano associati<br />

all’immagine dell’occhio lunare dell’Amalassunta; 1 e 6 al naso,<br />

5 alla bocca, 2 al seno, all’ombelico. Unica eccezione, l’uso rarissimo<br />

del 3 per figurare l’occhio. Queste condensazioni danno qualche<br />

volta degli insiemi di numeri e di lettere nient’affatto misteriosi,<br />

come 213 e 216, vale a dire dei volti lunari composti in virtù<br />

Q Q<br />

della fantasia numerica.<br />

Tra tutti i casi di associazione immediatamente interessante risulta<br />

quello del 6 e del suo rovescio 9, proprio perché è il più assorbente<br />

a livello metaforico. Il 6 infatti si trova declinato a tutti i<br />

livelli posizionali; obliquo, coricato, rovesciato, eccetera. Ma cos’è<br />

questa declinazione se non una circolarità del segno, una emblematica<br />

delle fasi lunari e, intimamente, dello sguardo di Amalassunta?<br />

Ecco allora il processo di condensazione formale: la ciclicità<br />

come valore figurale della realtà immaginaria, il grande mito<br />

liciniano della femminilità notturna, del cerchio. Ed anche: una<br />

luna interna alla luna più grande, una figura del raddoppiamento,<br />

che è esercitata infine sull’occhio nelle trascorrenze binarie di<br />

due similitudini: 66, o del chiasmo: 96. Sono cifre da investire con<br />

lo sguardo e dunque immagini, dato che il loro senso è consegnato<br />

ad un evento di lampante visibilità quale la rotazione.<br />

L’errante ritorna perciò puntuale anche per le cifre animate nello<br />

spazio, con le caratterizzazioni di volo e di alitazione. Si vedano<br />

le coppie dei 4 in congiunzione (Amalassunta su fondo rosso,<br />

1951), che raddoppiano il sistema dell’ala e del triangolo. Qui e<br />

altrove assume notevole portata la considerazione che cifre e<br />

lettere vengono gestite sulla trama degli schemi geometricoastratti<br />

della riflessibilità, a cominciare da tutti i segni verbali del

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