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Percorsi tematici - pdf

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<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong><br />

I <strong>Percorsi</strong> Tematici che qui proponiamo hanno la finalità di proporre<br />

ad insegnanti e studenti un lavoro di sintesi, guidando il<br />

lettore a ricercare un tema, un motivo che si ripresenta nel corso<br />

dell’intero svolgimento dei Promessi Sposi e che assume talora<br />

significati omogenei, talora valori diversi. Si suggerisce così una<br />

rilettura del testo che richiede una rielaborazione critica, un approfondimento<br />

che aiuti a cogliere il messaggio complessivo dell’opera.<br />

I <strong>Percorsi</strong> si svolgono su due linee:<br />

• quelli relativi ai luoghi ripercorrono ed evidenziano la presenza<br />

di un tema all’interno del romanzo.<br />

• quelli relativi ai personaggi si allargano a una lettura intertestuale<br />

attraverso confronti con testi precedenti del Manzoni, quali<br />

l’Adelchi e il Cinque maggio. Si intende così aprire la via ad una<br />

comprensione documentata dell’itinerario ideologico e poetico<br />

dell’autore.<br />

I <strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> possono essere utilizzati anche come piste di<br />

lettura, oggetto di una programmazione didattica.


La casa<br />

1 Lo spazio dell’intimità familiare<br />

<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● La casa<br />

Il tema della casa assume un’importanza centrale nel romanzo non solo perché il racconto si basa sulle vicende<br />

di due Promessi Sposi, che nella casa vedono l’approdo concreto della loro speranza d’amore, il simbolo del<br />

nucleo familiare; ma anche perché questo tema esprime un aspetto essenziale della visione cristiana del mondo<br />

del Manzoni. Per l’autore, infatti, solo l’amore, non in quanto passione, ma come affetto profondo, forma<br />

superiore di ‘caritas’, è la forza capace di superare il male presente nel mondo. E proprio il contrasto fra bene e<br />

male si riflette nell’armonia degli affetti domestici, nella disarmonia creata dall’autoritarismo o dalla violenza<br />

della storia, che coinvolge anche la casa. Un valore particolare assume, pertanto, la casa degli umili<br />

La casa e l’autenticità dei valori<br />

Manzoni proietta il suo ideale di vita familiare nell’ambiente degli umili, portatori di un modello di<br />

vita dal quale è esclusa ogni ipocrisia, legata alla forza economica o a quella del potere, ma anche la retorica<br />

falsa delle emozioni, dei sentimenti passionali fonte di una gioia temporale e mondana.<br />

La casa, e in particolare la casa degli umili, diviene simbolo di questi valori; essa non corrisponde al<br />

mito dell’idillio borghese caro a tanta letteratura fra Settecento e Ottocento, non è, cioè, l’immagine<br />

del cuore e della capanna remoti dal mondo, ma lo spazio sereno e raccolto dell’intimità affettiva, aperto<br />

anche alla solidarietà cordiale verso gli altri.<br />

La casetta di Lucia<br />

L’immagine della casa, che più d’ogni altra resta impressa nella memoria del lettore, è quella di Lucia,<br />

anche se essa non viene mai compiutamente descritta, ma evocata attraverso indiretti riferimenti del<br />

narratore o di qualcuno dei personaggi. Dapprima apprendiamo che, diversamente da quella di Renzo<br />

ch’era nel mezzo del villaggio, questa era infondo, anzi un po’ fuori del paese; già questa collocazione, cui si<br />

aggiungono altri pochi particolari (Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada<br />

ed era cinto da un murettino), è sufficiente a suggerire l’ambiente sereno della campagna, a fissare quella<br />

topografia, che riemergerà più volte attraverso la nostalgia dei protagonisti nel corso del romanzo. Ma<br />

questa casa non è solo un rifugio sereno, è anche lo spazio della quotidiana attività domestica di Agnese<br />

e di Lucia; così mentre la madre compare tutta intenta, in apparenza, all’aspo che faceva girare, anche<br />

Lucia viene evocata in un atteggiamento simile attraverso il ricordo di Bortolo, il cugino che accoglie<br />

Renzo, a Bergamo: «Povera Lucia Mondella! Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza... e quando<br />

si passava da quella sua casuccia, sempre si sentiva quell’aspo, che girava, girava... »<br />

I particolari descrittivi, che servono a delineare l’interno della casetta, emergono dalla spedizione<br />

notturna del Griso e acquistano un particolare risalto proprio perché contrastano con l’azione violenta<br />

dei bravi. Al piano terreno una stanza si affaccia sulla strada, un’altra è più interna; una scala porta al<br />

piano superiore dove a una prima stanza da letto segue un’altra stanza; in essa il letto è fatto e spianato,<br />

con le rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale. L’immagine evoca il gesto della mano femminile<br />

intenta a quella domestica occupazione; un gesto quotidiano, che esprime, nella sua semplicità, la cura<br />

costante e affettuosa per la casa. Ma è nella scena dell’Addio che l’immagine della casa natia acquista un<br />

suo poetico risalto attraverso lo sguardo accorato di Lucia, che cerca e scopre nel profilo dei suoi monti,<br />

scuri sullo sfondo del chiarore lunare, le cose a lei più care:... scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del<br />

fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera... E con una malinconia ancor più<br />

profonda il tema della casa ritorna quando Lucia lascia di nuovo il paese per seguire a Milano donna<br />

Prassede. La fanciulla, senza Agnese e senza Renzo, perduto ormai per sempre a causa del voto, sta per<br />

inoltrarsi sola in un mondo ignoto; di qui la sua nostalgia: Lucia... uscì dalla sua casetta; disse per la seconda<br />

volta addio al paese, con quel senso di doppia amarezza, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro,<br />

e che non può esserlo più. La casa in questo momento rappresenta la sintesi di tutte le memorie, di tutti


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● La casa<br />

gli affetti che hanno dato significato ad una esistenza. E quando finalmente la vicenda si conclude, col<br />

ritorno di Renzo al paese, la sua conversazione con Agnese, in attesa di Lucia, verte sempre sul tema<br />

della casa: quella da metter su nel paese del bergamasco, dove la famiglia si trasferirà, e dove Renzo,<br />

effettivamente, trova una casa più grande e la rifornisce di mobili e d’attrezzi. Mentre ricca di commozioni<br />

è la scena in cui Agnese torna da Pasturo nella sua casetta e trova ogni cosa come l’aveva lasciata e<br />

dichiara che trattandosi d’una povera vedova e d’una fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli. Nelle parole<br />

dell’umile donna il sentimento della casa si illumina della luce della Provvidenza e viene definitivamente<br />

consacrato come simbolo della famiglia.<br />

La casa e l’ospitalità<br />

Altre dimore di umili sono rappresentate nel romanzo, anch’esse viste nella prospettiva dell’intimità<br />

affettuosa e cordiale. Così per la casa di Tonio, quando Renzo va a cercarlo per chiedergli di fargli da<br />

testimone. La famiglia è raccolta, concentrata con uno sguardo bieco d’amor rabbioso su quella polenta che<br />

parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Ma, nonostante la miseria e la fame, le donne non trascurano<br />

di invitare Renzo a restar servito. L’ambiente rustico e povero è ingentilito dal sentimento dell’ospitalità.<br />

Come ospitale si dimostra l’amico senza nome che per due volte accoglie Renzo nella sua<br />

casa in un clima di serena amicizia. E proprio il sentimento di ospitalità affettuosa emerge in particolare<br />

dalla casa del sarto, la sola, fra l’altro, in tutto il romanzo in cui compare un completo nucleo familiare.<br />

Dai gesti della donna che provvede a ristorare Lucia emerge il quadro, non descritto, della cucina col<br />

focolare, il calderotto, il buon cappone al fuoco. Da queste cose semplici deriva un conforto diretto e<br />

concreto per la fanciulla, che trova conferma esplicita nelle parole del sarto: ben venuta, ben venuta! Siete<br />

la benedizione del cielo in questa casa. Come son contento di vedervi qui!... E lo stesso clima di schietta intimità<br />

torna a illuminare l’accoglienza cordiale e premurosa di cui sono oggetto da parte di questa famiglia<br />

don Abbondio, Perpetua e Agnese, profughi a causa della guerra.<br />

La quiete raccolta della canonica<br />

Analoga e pur diversa è la rappresentazione di un’altra casa del paese: la canonica di don Abbondio.<br />

Di essa sappiamo che si trova in fondo al paesello, dal lato opposto a quella di Lucia e, anche in questo<br />

caso, la rapida indicazione evoca un’impressione di quiete raccolta. Nemmeno questo interno è descritto,<br />

ma alcuni oggetti nominati danno vita all’ambiente: il salotto, la tavola, il fiaschetto del vino, il seggiolone,<br />

il lume. Sono gli stessi che ricompaiono nella sequenza che precede l’episodio del matrimonio<br />

per sorpresa. Don Abbondio, infatti, appare seduto sul suo seggiolone... ravvolto in una vecchia zimarra, con<br />

in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. La ripetizione<br />

non è casuale in quanto suggerisce il ripetersi di care e placide consuetudini. Anche in questo<br />

caso l’ambiente della casa corrisponde ad un’atmosfera raccolta e rassicurante, alla quale contribuisce la<br />

presenza di Perpetua la serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare. Ma in questo interno domestico,<br />

placido e protettivo, manca un qualsiasi segno che rimandi ad un’apertura verso gli altri.<br />

Le case di Milano nel corso della peste<br />

Anche nella rappresentazione di Milano torna più volte il riferimento alle case, ma esse, viste nel<br />

dilagare della peste, proprio in quanto simbolo concreto della realtà umana, diventano espressione dello<br />

sfacelo dell’intera città: Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci di strada, salvo quelli che fossero spalancati<br />

per esser le case disabitate, o invase; altri inchiodati o sigillati, per esser nelle case morta o ammalata gente di peste;<br />

altri segnati d’una croce fatta col carbone, per indizio ai monatti, che c’eran de’ morti da portar via.


2 Il palazzo e il castello<br />

<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● La casa<br />

In modo evidentemente contrapposto alle case degli umili vengono rappresentate nei Promessi Sposi le dimore<br />

dei potenti, che, pur nella diversità dei singoli casi, hanno un elemento in comune: esse non corrispondono, infatti,<br />

al tema della casa simbolo degli affetti familiari, ma piuttosto sono presentate dallo scrittore come espressione<br />

figurativa del tema del potere, che in vari modi (attraverso l’azione e attraverso la parola) ha un suo rilevante<br />

spazio nel romanzo. Proprio perché collegate alla classe dominante e in vari casi a personaggi storici, queste dimore<br />

divengono uno strumento utile per la rappresentazione di un’epoca, sono, cioè, ricche di ‘colore storico’.<br />

Un sontuoso palazzo barocco<br />

È il caso, come primo esempio, del palazzo in cui il nobile, fratello dell’uomo ucciso dal giovane<br />

Lodovico, raduna i parenti per farli assistere alla scena del perdono. Anche se nessun particolare descrive<br />

la struttura o l’arredamento di questo interno, basta il ‘coro’ dei presenti, ricco di elementi sfarzosi, a<br />

ricostruire l’atmosfera sontuosa di una dimora signorile del Seicento: era un girare, un rimescolarsi di gran<br />

cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un muoversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato<br />

di rabescate zimarre. E come venuto fuori da un ritratto barocco è il padrone di casa, che per la sua<br />

posa altezzosa ricorda l’immagine del Conte Duca d’Olivares dipinta dal Velazquez (Cfr. pag. XXXVII<br />

del testo). A uno scorcio fastoso, tipico dell’epoca, rimanda anche il cameriere in gran gala che porta a<br />

padre Cristoforo il pane del perdono sur un piatto d’argento. Tutto in questo palazzo è spettacolo; anche<br />

l’effetto dell’autentica umiltà del frate commuove l’uditorio per un momento; quando egli se ne è andato,<br />

la compagnia riprende a recitare le lodi della propria grandezza, variando un poco il copione, ma<br />

conservando la consueta vanità.<br />

Il palazzo del principe padre di Gertrude<br />

Anche il palazzo del principe padre di Gertrude richiama un motivo imperante in questa età, quello<br />

della ‘ragion di stato’, tradotto in questo caso in ‘ragion di famiglia’. Nella dimora domina un clima<br />

ossessivo frutto dell’autoritarismo del principe, al quale nessuno si sottrae. Questa famiglia, retta da un<br />

potere tirannico, costituisce l’antitesi dell’ideale famiglia di Renzo e Lucia, che pone le sue fondamenta<br />

in un amore limpido e sincero. Al potere si accompagna l’ipocrisia, il contrasto fra apparenza e realtà:<br />

nella sala della conversazione,... parenti e amici che vengono a fare il loro dovere recitano a soggetto complimentandosi<br />

con la sposina che ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. C’è qualcosa di macabro e crudele nella<br />

pompa colorata, nel frastuono delle feste, che travolge la povera Gertrude fino a farle desiderare il silenzio<br />

del chiostro.<br />

Il Convito nella dimora del conte zio<br />

Del resto l’idea della superiorità e della potenza domina anche nello scorcio, che rapidamente disegna<br />

l’interno del palazzo del conte zio, colto in quel convito, che egli organizza con intendimento sopraffino<br />

per preparare il suo colloquio con il padre provinciale. La corona dei commensali comprende infatti<br />

Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo...e alcuni clienti legati alla casa per<br />

una dipendenza ereditaria. Di intimità e di dialogo sincero non c’è alcuna traccia: l’onor del casato non<br />

è una questione di affetto.<br />

Il palazzo di don Rodrigo<br />

Fra le varie dimore dei potenti un particolare rilievo, data l’importanza del padrone di casa sul piano<br />

narrativo, assume la rappresentazione del palazzotto di don Rodrigo. Di esso viene descritta solo la<br />

facciata, ma bastano gli elementi che la compongono a suscitare un senso di violenza: le rade e piccole<br />

finestre... chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni,... difese da grosse inferriate... e, soprattutto, ...due<br />

grand’avoltoi con l’ali spalancate e co’ teschi penzoloni creano uno scenario di violenza. In questo caso la casa<br />

è già lo specchio del suo padrone, di questo piccolo despota che vuol fare il tiranno, ma non il tiranno


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● La casa<br />

salvatico diversamente dall’innominato. La sua dimora non può essere un castello, ma solo un palazzotto.<br />

Al suo interno ancora una volta compare una scena di gruppo, ma la corona dei personaggi che partecipano<br />

al banchetto di don Rodrigo non ha l’elegante pomposità di quelli presenti nei palazzi cittadini,<br />

che abbiamo intravisto. Non manca anche qui un richiamo all’etichetta del mondo signorile secentesco<br />

(Un servitore, portando sur una sottocoppa un’ampolla di vino, e un lungo bicchiere informa di calice, lo presentò<br />

al padre), ma questa volta predomina, accanto all’arroganza di don Rodrigo, del conte Attilio e del<br />

podestà, una patina di superficialità e di rozzezza che accentua, quando il discorso cade sulla guerra e<br />

sulla carestia, l’insensibilità nei confronti del dolore e, soprattutto, della miseria. Ma un’altra suggestiva<br />

pennellata completa il quadro barocco di questo ambiente; essa emerge dall’episodio dei ritratti degli<br />

antenati, appesi alle pareti della sala in cui ha avuto luogo il tumultuoso colloquio fra don Rodrigo e<br />

padre Cristoforo. Descritti con particolare minuzia e con una punta di amara ironia essi non solo ricostruiscono,<br />

in maniera quasi documentaria, il costume di un’epoca, ma esprimono lo spirito su cui si<br />

fonda questa casa. Il terrore, che da essi promana, è il simbolo di una persistente tradizione di feudale<br />

barbarie. Questa è l’eredità raccolta dal nipote, magari in forma piuttosto involgarita.<br />

Il castello dell’innominato<br />

Un singolare rilievo per l’effetto simbolico e per l’effetto artistico che raggiunge ha la rappresentazione<br />

del castello dell’innominato, in cui l’ambiente e il paesaggio sono veduti in stretto rapporto con<br />

il personaggio. Nell’ambiente è dapprima sottolineato l’aspetto dell’altezza (il castello è posto sulla cima<br />

d’un poggio che sporge infuori da una aspra giogaia di monti), al quale è associato quello dell’asprezza (... il<br />

resto è scheggi e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fossi e sui ciglioni). Da queste<br />

impressioni deriva l’effetto di drammatica solitudine, scelta e destino del selvaggio signore: Dall’alto<br />

del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio<br />

dove piede d’uomo potesse posarsi e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Il castello è visto<br />

dall’esterno con pochi richiami alle finestre e alle feritoie, mentre all’interno lo sguardo del narratore indugia<br />

sull’andirivieni di corridoi bui, sulle varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane. Nel ritrarre<br />

questa dimora il Manzoni non indulge a quelle suggestioni pittoresche tipiche di un certo gusto<br />

romantico per l’orrido, ma anche senza questa insistenza l’aspetto del castello rimanda alla fama del suo<br />

signore, la cui vita era un soggetto di racconti popolari e il cui nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano,<br />

di favoloso. Cambiata con la conversione la scelta di vita del personaggio, resta costante il rapporto fra<br />

l’innominato e il suo castello che, in occasione della calata dei lanzichenecchi, si apre ad un’eccezionale<br />

ospitalità. In questo caso il narratore si sofferma non solo sui preparativi atti a trasformare il castello in<br />

alloggio per tante persone, ma fornisce anche una descrizione particolareggiata della pianta dell’edificio.<br />

Ne deriva un effetto grandioso che sottolinea la carità senza limiti di quest’uomo, il quale, però, resta<br />

ancora isolato in un’atmosfera di malinconica grandezza, che mantiene la sua suggestione leggendaria.


3 La violenza della storia e la malizia degli uomini<br />

<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● La casa<br />

Il tema della casa che, come abbiamo veduto, si collega in genere nel romanzo al sentimento della pace, dell’intimità<br />

che esclude le minacce e i pericoli del mondo esterno, viene presentato dallo scrittore anche in modo<br />

diverso quando la casa è fatta oggetto di violenza: «Manzoni che ha evitato di presentarci l’immagine, tanto<br />

frequente nella tradizione narrativa, di corpi straziati da ferite, di persone su cui si eserciti la violenza degli<br />

uomini, ha trasferito la rappresentazione della violenza sulla casa, su questa realtà che è in certo modo parte<br />

integrante della persona» (G. Getto).<br />

La canonica di don Abbondio invasa<br />

Il motivo comincia a svolgersi nel secondo incontro di Renzo con don Abbondio, quando il giovane<br />

ormai inasprito dalla tattica dilazionatoria del curato, requisisce la chiave della stanza, attuando<br />

un vero ricatto ai danni del suo antagonista. E ancora una volta è la quieta, silenziosa canonica a trasformarsi<br />

in un campo di battaglia nel corso del matrimonio per sorpresa. La pace notturna del paese<br />

immerso nel chiarore lunare è squarciata dallo sgangherato grido di don Abbondio; la situazione è così<br />

paradossale che il narratore trova necessario soffermarsi in una pausa riflessiva: In mezzo a questo serra<br />

serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui,<br />

che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza di<br />

un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre<br />

attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima, eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Cosi<br />

va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo. La riflessione corrisponde all’esigenza<br />

dello scrittore di andare al di là delle apparenze, di ricercare con sincerità di giudizio la responsabilità<br />

personale di chi opera il male. Ma ben più grave è la violenza subita dalla canonica al passaggio della<br />

guerra. Quando don Abbondio e Perpetua, reduci dall’ospitale castello dell’innominato, rientrano senza<br />

aiuto di chiavi in casa, li aspetta una vera devastazione. E lo sfacelo è reso più crudele dagli avanzi<br />

e frammenti dei vari oggetti (il seggiolone, il piede di tavola, una doga della botticina, dove ci stava il vino che<br />

rimetteva lo stomaco a don Abbondio), che ristabilendo una connessione col passato suscitano la nostalgia di<br />

un quieto vivere così costantemente difeso. Ancora una volta la scoperta da parte di Perpetua che varie<br />

masserizie di casa si trovano nelle case di certi paesani riporta l’attenzione sulla convinzione dell’autore,<br />

per cui il male non è l’effetto di una forza anonima, ma risale a responsabilità individuali.<br />

La violenza in casa di Lucia<br />

Ma nemmeno le case di Lucia e di Renzo restano immuni dalla violenza. La povera casetta delle due<br />

donne è oggetto della spedizione del Griso, tesa al rapimento di Lucia. La descrizione ironica dei gesti<br />

cautelosi dei bravi, resi vani dall’assenza degli abitanti, rende meno vistosa la violenza da loro operata,<br />

ma il contatto di quelle mani con quel letto spianato e composto assume il valore di una profanazione.<br />

E del resto le tracce trovate dai paesani sono più che vistose: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata... e<br />

poi l’uscio del terreno aperto e sconficcato anche quello. Ma più grave è soprattutto la conseguenza di questa<br />

violazione dell’intimità domestica: Lucia, Agnese e Renzo sono infatti costretti a fuggire per evitare il<br />

pericolo ancora incombente. E nella fuga il pensiero ritorna sulla dimora abbandonata. «E la casa?» disse<br />

a un tratto Agnese»; ma la sua domanda ansiosa resta senza risposta. A padre Cristoforo saranno consegnate<br />

le chiavi e nel compiere quel gesto Agnese ancora una volta esprime, anche per gli altri, il suo<br />

rimpianto: Quest’ultima, levandosi di tasca la sua chiave, mise un gran sospiro, pensando che in quel momento,<br />

la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire! A questo sconforto, però, si<br />

contrappongono le parole di padre Cristoforo che richiama i poveretti a confidare nella Provvidenza<br />

divina e assicura il suo aiuto fattivo e costante ai suoi poveri cari tribolati.


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● La casa<br />

La violenza in casa di Renzo<br />

Altrettanto grave è la violenza subita dalla casa di Renzo, anche se dal testo emergono solo rapidi<br />

cenni. Dopo i tumulti di Milano, quando il nome Lorenzo Tramaglino è messo, da parte della giustizia,<br />

in relazione con quello di un pericoloso capopolo, il console del paese riceve, con apposito dispaccio<br />

delle competenti autorità, l’incarico di ricercare il presunto malfattore e, non potendo far altro, fa perquisire<br />

la casa: Si sfonda l’uscio, si fa la debita diligenza, vale a dire che si fa come in una città presa d’assalto. Il<br />

cenno è rapido, ma la gravità del fatto consiste nel rapporto fra violenza e amministrazione della giustizia.<br />

Ancora una volta si verifica uno scambio fra vittima e oppressore ed è sempre Renzo a farne le<br />

spese! Se il tono della pagina è ironico, la sostanza della vicenda è drammatica e la riflessione del narratore<br />

è pessimistica. Quando Renzo, nel corso della peste, torna al paese per avere notizie di Lucia e di<br />

Agnese, si sofferma anche nella sua casa. Scopre allora lo stato disastroso della sua vigna e vede anche gli<br />

effetti provocati all’interno della sua casuccia da quella perquisizione, dalle intemperie e dall’abbandono:<br />

Diede un’occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate, affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli.<br />

Non c’era altro. Ma il suo cuore è afflitto da ben altre ansie; questa rovina appartiene al passato e non lo<br />

tocca più di tanto.<br />

I monatti nel palazzo di don Rodrigo<br />

Il tema della casa violata non si limita, comunque, alle modeste abitazioni degli umili indifesi come<br />

Renzo e Lucia, si allarga a comprendere anche i palazzi dei potenti, come nel caso del vicario di<br />

provvigione, o le case di incolpevoli cittadini come avviene quando, profittando della calamità della<br />

peste, i monatti spadroneggiano in Milano: Entravano da padroni, da nemici nelle case e, senza parlare dei<br />

rubamenti, e come trattavano gli infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e<br />

scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano,<br />

o non venivano riscattati con denari.<br />

E proprio dai monatti viene violata la casa di don Rodrigo in una scena che è fra le più fosche e<br />

crudeli del romanzo. Annunciati dallo squillo lontano dei campanelli degli apparitori, e da una serie di<br />

rumori che insospettiscono il malato, essi appaiono a un tratto nel loro aspetto ripugnante: due logori e<br />

sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, e dietro loro si profila mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un<br />

battente socchiuso, riman lì a spiare. La vittima assiste impotente allo scatenarsi della loro violenza; abbandonato<br />

dal fedel Griso, dagli altri bravi, don Rodrigo vanamente cerca di reagire, afferrando la pistola<br />

che tiene sotto il cuscino. Nello sguardo pietoso del narratore l’arrogante e presuntuoso signorotto diviene<br />

lo sventurato Rodrigo, vittima dell’aguzzino che lo tiene fermo e lo deride, costretto a veder il Griso<br />

affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti. Finché crolla nell’incoscienza del coma<br />

e, ridotto a miserabil peso, vien portato via, al lazzeretto. La violenza in questo caso assume la forma di<br />

un castigo per un uomo che, come don Rodrigo, non hai mai receduto dai suoi propositi e nemmeno<br />

ai primi cenni del male ha avvertito una spinta al pentimento. «Castigo, però, non è dannazione; e dal<br />

momento in cui, dopo un grand’urlo, cade rifinito e stupido, nella condizione in cui sarà dinanzi agli<br />

occhi di Renzo, egli ci appare già come uomo, che umanamente, ha pagato, come una povera creatura<br />

umana, immersa nel gran mistero del proprio destino». (E.N. Girardi).


L’osteria<br />

<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● L’osteria<br />

Luogo della trasgressione e fonte di concreta esperienza<br />

Nella storia di Renzo, nel suo avventuroso cammino, al quale lo costringe il sopruso di un potente, ha una parte<br />

notevole l’osteria, prima nel suo villaggio, nel momento in cui egli sta organizzando con Tonio e Gervaso il<br />

progetto del matrimonio per sorpresa, poi a Milano la sera del tumulto di San Martino e, infine, a Gorgonzola<br />

nel corso della sua fuga verso l’Adda. Se in ogni episodio, in rapporto con l’intreccio e con la diversa situazione<br />

del protagonista, l’ambiente dell’osteria viene rappresentato con particolari differenziati, riemergono ogni volta<br />

elementi comuni, che conferiscono a questo luogo un significato preciso.<br />

Tradizione letteraria e inventiva manzoniana<br />

Certamente lo scrittore, nell’affrontare questo tema, ha avuto presenti modelli celebri della tradizione<br />

letteraria, dalla taverna medievale, luogo privilegiato dei canti goliardici e della poesia comico realistica<br />

(cfr. Cecco Angiolieri: Tre cose solamente mi so’ in grado,/... cioè la donna, la taverna e ‘l dado...)alle<br />

locande, luogo di incontri avventurosi dei vari protagonisti del genere romanzesco da don Chisciotte<br />

di Miguel Cervantes a Tom Jones di Henry Fielding. In tutti questi casi l’osteria è luogo d’incontro<br />

della classe popolare: in essa si va per bere, giocare, chiacchierare liberi da precisi vincoli morali. L’osteria<br />

diviene, pertanto, il luogo della trasgressione, che si traduce nel rischio e nell’azzardo delle carte o<br />

dei dadi, ma soprattutto nell’uso ambiguo della parola e dei gesti che l’accompagnano. In questo ‘motivo’<br />

letterario si inserisce la rappresentazione manzoniana dell’osteria, che, però, in coerenza con la<br />

concezione e la struttura dell’intero romanzo, non resta un luogo pittoresco, ma assume una funzione<br />

collegata all’itinerario di formazione, alla presa di coscienza di Renzo. Nell’analizzare i tre episodi,<br />

che hanno come sfondo ambientale l’osteria, risultano, in primo luogo, evidenti gli elementi comuni.<br />

Intanto in tutte e tre i casi Renzo fa il suo ingresso nell’osteria sul far della sera: ognuno degli episodi<br />

non è una semplice sosta, né comporta una pausa nel racconto, ma piuttosto rappresenta l’epilogo di<br />

un’intensa giornata: nel primo caso, al paese, Renzo è stato immerso da mattina a sera nei vari concerti<br />

per mettere a punto il matrimonio per sorpresa; nel secondo caso, a Milano, il giovane sta uscendo da<br />

un’esperienza singolarmente emozionante, la partecipazione alla sommossa; nel terzo, poi, a Gorgonzola,<br />

Renzo, ormai fuggiasco perseguito dalla giustizia, ha camminato tutto il giorno in cerca della via<br />

per Bergamo e della propria salvezza.<br />

L’osteria, un porto di mare<br />

Ma l’osteria è, soprattutto, un luogo specifico: è uno spazio chiuso, che assume un significato contrapposto<br />

allo spazio protettivo e raccolto della casa, che Renzo si è lasciato forzatamente alle spalle.<br />

Ma al «dentro» dell’osteria corrisponde un «fuori», il paese o la città con i quali essa comunica; divenendo<br />

un «palcoscenico della vita sociale» (M. Corti). Come afferma l’oste del villaggio essa con tanta<br />

gente che va e viene: è sempre un porto di mare. Per questo l’attenzione del narratore non si concentra tanto<br />

sulla descrizione dello spazio quanto sulla rappresentazione dei frequentatori. Comunque, soprattutto<br />

per l’osteria della luna piena, non mancano riferimenti a tratti descrittivi quali, ad esempio, l’insegna,<br />

dalla quale prende nome il locale. Essa è un richiamo ad un simbolo della vita popolare contadina, che<br />

da rilievo, per contrasto, all’ambiente: un usciaccio, un cortiletto buio, un altro uscio, che immette<br />

direttamente in una cucina immersa in una mezza luce, che spiove da due lumi a mano, pendenti da<br />

due pertiche, attaccate alla trave del palco. È proprio il gioco di chiaroscuro creato dalla luce incerta e concentrata<br />

su alcuni punti a creare i pochi effetti di colore, che rimandano ai contrasti di ombre e di luci<br />

caratteristici di certa pittura seicentesca, che Manzoni ben conosce. Ma, al di là di pochi altri tratti descrittivi<br />

-due panche, una tavola stretta e lunga, tovaglie e piatti alla rinfusa - l’attenzione progressivamente<br />

si concentra su quegli elementi che denotano il carattere trasgressivo dell’ambiente. Già nell’osteria del<br />

paese di Renzo e Lucia il tono di voce, l’atteggiamento e i gesti provocatori dei bravacci rimandano al


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● L’osteria<br />

mondo della violenza, come nell’osteria della luna piena a Milano il richiamo all’uso di monete rubate<br />

contribuisce a disegnare un pubblico di frequentatori che vive fuori o ai margini della legalità: ladri,<br />

giocatori, bevitori, una collettività popolare degradata, non certo riscattata dalla presenza dell’unico che<br />

rappresenta la legge, il falso spadaio Ambrogio Fusella, spia nel pieno delle sue funzioni.<br />

Diverso il pubblico presente nell’osteria di Gorgonzola, costituito dagli sfaccendati del paese che, in<br />

apparenza, sembrano colpevoli solo di eccessiva curiosità. Ma, in effetti, la loro reazione alle parole del<br />

fin troppo eloquente mercante rivela un perbenismo ipocrita, che accetta, senza spirito critico, la violenza<br />

dell’interessato tutore della morale della bottega. La trasgressione al vero morale domina, dunque,<br />

anche in questo caso.<br />

L’osteria, il regno dell’utile<br />

Del resto nell’osteria si va spinti da una ricerca del piacere (il gioco, il bere, il chiacchierare) oppure<br />

in essa si vive mossi dalla ricerca dell’utile, due principi entrambi estranei a quello del rigore morale,<br />

che si traducono nella babilonia di discorsi degli avventori o nella morale del guadagno sostenuta da parte<br />

degli osti, i grandi protagonisti di questo movimentato mondo, capaci di tacere e di parlare al momento<br />

opportuno. Se pur caratterizzati in modo autonomo, essi hanno in comune un elemento, la furbizia,<br />

strumento essenziale per la tutela del loro interesse: è questo che giustifica l’esclamazione di Renzo -<br />

Maledetti gli osti!... più ne conosco, peggio li trovo - L’oste di Gorgonzola parla poco, ma sono sufficienti<br />

quei due occhi pieni di curiosità maliziosa e la reticenza con la quale risponde alle richieste di Renzo per capire<br />

di che panni si vesta. Non è uno che si comprometta ingenuamente, che metta a rischio la propria<br />

sicurezza per gli altri. Ben più eloquenti di lui gli altri due ‘colleghi’, che, in modo diverso, teorizzano<br />

a parole la morale dell’utile e mettono diversamente in pericolo, coi fatti, la sicurezza di Renzo. «Le<br />

azioni, caro mio, l’uomo si conosce alle azioni...» predica l’oste del paese, sottolineando che i clienti degni di<br />

rispetto sono quelli che consumano abbondantemente, pagano senza discutere, si fanno i fatti loro senza<br />

inguaiare l’oste. Ma il personaggio fra i tre più completo è l’oste della luna piena, al quale il narratore<br />

dedica anche un rapido ritratto e al quale lascia un’ampia presenza sulla scena, presenza contraddistinta<br />

dal significativo contrasto fra il suo opportunistico silenzio e il suo interiore monologare, che hanno<br />

un comune intento: sopravvivere, navigando con astuzia fra le difficoltà quotidiane, sottraendosi alla<br />

violenza dei clienti e alla sopraffazione della giustizia. Come gli altri due osti lui sa come va il mondo,<br />

rappresenta la voce dell’esperienza quotidiana, che non lascia spazio a ideali utopistici, ad aspirazioni di<br />

una giustizia irrealizzabile nel mondo del possibile ben diverso dal mondo dell’assoluto. Con tutto questo<br />

i tre osti non sono sostenitori del male e della violenza, anzi tutti e tre si pronunciano a favore dei<br />

galantuomini e non solo in senso ironico. Quello del paese sembra stare dalla parte di Renzo, che presenta<br />

come «un buon giovine; assestato...» L’oste di Gorgonzola, richiesto da Renzo sul modo di passare<br />

l’Adda, segnala solo i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sé. Quello della luna<br />

piena, solo perché costretto dalla presenza dello sbirro, gioca a Renzo il brutto scherzo legato all’uso di<br />

carta, penna e calamaio per saperne le generalità e nel suo soliloquio assicura di aver fatto di tutto per salvarlo.<br />

Eppure il primo oste denuncia l’identità di Renzo ai bravi; il secondo denuncia Renzo al notaio<br />

criminale; il terzo gli rifiuta ogni aiuto concreto. Evidentemente di fronte all’utile la legge morale per<br />

costoro perde la sua forza e ciò emerge chiaramente dal fatto che non esiste coerenza ma contrapposizione<br />

fra le loro parole e le loro azioni.<br />

L’esperienza di Renzo<br />

E di fronte a questo mondo dell’osteria come si comporta e cosa impara Renzo? Nell’osteria del suo<br />

paese egli appare ingenuo; crede ancora in maniera assoluta alla buona fede degli altri, prende alla lettera<br />

le parole dell’oste. D’altra parte al suo paese conosce tutti; sa che quei bravi sono gli sgherri di don<br />

Rodrigo. È insospettito e taciturno; deve non sbagliare le sue mosse per non compromettere il proprio<br />

progetto. Il secondo episodio è fra i tre il più interessante per la conoscenza del personaggio, di cui rappresenta<br />

una grave caduta: Renzo si ubriaca di vino e di parole. Egli non è in grado di comprendere<br />

la realtà; scambia gli avventori, e perfino la spia, per amici e vede nell’oste il principale nemico. Si fissa<br />

nel celare la propria identità e non si accorge di indossare la maschera pericolosa del rivoluzionario e<br />

del furfante. Non capisce (non solo a causa del vino) ma per mancanza di esperienza il senso vero delle<br />

parole, dei gesti, degli ammiccamenti. Ma, quando si risveglia davanti al notaio, tutto gli diviene chiaro.


0 <strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● L’osteria<br />

Comincia a essere più cauto; comincia a imparare.<br />

Nell’osteria di Gorgonzola egli è in grado di mettere a frutto l’esperienza compiuta: non si fida dei<br />

curiosi, non si fida dell’oste e scopre attraverso il mercante il drammatico contrasto fra apparenza e realtà;<br />

sentendo presentare la propria innocente impresa a difesa di Ferrer come l’azione di un capopopolo<br />

indemoniato. Renzo entra da questo momento in polemica con quel mondo nel quale finora cercava<br />

giustizia, vive il contrasto fra spirito di rivincita e spirito di carità. Si avvia alle prove che lo attendono<br />

con maturità nuova.


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● La biblioteca<br />

La biblioteca<br />

Un centro di diffusione della cultura o un luogo separato dalla vita?<br />

Nel rapporto fra il personaggio e la parola scritta occupa una posizione di particolare rilievo il libro e, collegato,<br />

ad esso, uno spazio - simbolo della cultura: la biblioteca. Veramente di biblioteca in senso proprio si può parlare<br />

solo per gli episodi collegati con i personaggi del cardinale Federigo Borromeo e di don Ferrante, mentre più<br />

volte i libri compaiono o vengono nominati a proposito di vari personaggi, in modo diverso tanto da consentire<br />

di individuare gli aspetti positivi e negativi che lo scrittore collega al problema della trasmissione della cultura<br />

affidata alla carta stampata.<br />

I libri come oggetto di arredamento: la biblioteca d’Azzecca-garbugli<br />

La prima volta che nel romanzo compare una, sia pur ridotta, biblioteca è nel corso della descrizione<br />

dello studio del dottor Azzecca-garbugli, in cui una parete è coperta da un grande scaffale di libri vecchi<br />

e polverosi mentre nel mezzo si [distingue] una tavola gremita di allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride.<br />

Qui i libri restano sepolti sotto la loro polvere e costituiscono solo un elemento di arredamento. Non<br />

i libri ma le gride servono al dottore, e non tutte, ma solo quelle fresche, che fanno più paura. Come del<br />

resto indica anche la toga consunta, ridotta all’uso modesto di veste da camera, Azzecca-garbugli ha<br />

da tempo abdicato al ruolo attivo di intellettuale, ha rinunciato alla cultura, degradato a servo del potente<br />

don Rodrigo, di cui gode la protezione. Per lui i libri sono divenuti segni dello squallore in cui<br />

è immerso.<br />

Leggere per star lontano dai guai: la biblioteca di Don Abbondio<br />

Diverso il clima nel quale appare immerso don Abbondio, colto seduto sul suo seggiolone con un libricciolo<br />

aperto davanti nel celeberrimo incipit del capitolo VIII: «Carneade! Chi era costui?» Il curato rumina,<br />

quasi stentasse faticosamente a digerire il contenuto di un testo troppo difficile e remoto dai suoi interessi.<br />

Don Abbondio, del resto, non possiede personalmente dei libri; taccagno com’è, non impiega<br />

i suoi denari in una spesa improduttiva, né mostra di avere particolari interessi culturali. Per lui la lettura<br />

è solo un passatempo, un’abitudine tranquillizzante, che accentua la sua separazione dalle beghe<br />

del mondo. La sua cultura si riduce alla conoscenza dei nomi più famosi, di qualche letteratone del tempo<br />

antico e, a pensarci bene, da come si comporta non sembra aver letto troppo attentamente nemmeno<br />

quello che per lui, sacerdote, doveva essere il libro dei libri: il Vangelo.<br />

La presunzione vanitosa dei libri: la biblioteca del sarto<br />

Una piccola raccolta di libri, se non una vera biblioteca, è quella del sarto, che Lucia incontra nel<br />

paesetto ai piedi del castello dell’innominato dopo la propria liberazione. Si tratta di libri di un contenuto<br />

culturale modesto, che costituiscono però un segno del perdurare delle tradizioni nelle classi popolari.<br />

Il sarto, era un uomo che sapeva leggere, che aveva letto infatti più d’una volta il Leggendario dei Santi, il<br />

Guerrin meschino e i Reali di Francia...<br />

In questo caso il rapporto vivo con il libro, che costituisce un eccezionale privilegio in un mondo<br />

di analfabeti, offre luogo alla sorridente ironia del narratore per la vanitosa presunzione del modesto<br />

letterato, che, quando si trova all’improvviso nell’occasione di sfoggiarla non riesce a spremere, dinanzi<br />

al cardinale, altro che quell’insulso si figuri! La cultura non costituisce, però, in questo caso un elemento<br />

negativo.<br />

Essa per il sarto è il valore supremo, il Borromeo è un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto<br />

tutti i libri che ci sono..., e, se può apparire comico il suo modo di rapportare i vari casi reali del mondo<br />

alle letture romanzesche che può aver fatto, egli non perde di vista il rapporto fra sapere e fare, si rende<br />

conto, infatti che quelle del cardinale non sono solo belle parole in quanto si sa che anche lui vive da<br />

pover’uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati.


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● La biblioteca<br />

L’emblema della cultura moderna: la biblioteca ambrosiana<br />

Ma la biblioteca che domina con imponente presenza nelle pagine dei Promessi Sposi è la biblioteca<br />

ambrosiana, fondata in Milano dal cardinale Federigo Borromeo.<br />

Mentre la biografia del grande personaggio è condotta in un tono sobrio, anche per sottolineare le<br />

virtù interiori e non la pompa esteriore di questa figura, il timbro della pagina diviene grandioso e solenne<br />

quando lo scrittore si sofferma a descrivere il grande impegno profuso nella organizzazione della<br />

biblioteca. Immenso lo spazio al quale si riferisce la ricerca dei libri (...spedì otto uomini, dei più colti ed<br />

esperti che potè avere...per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia,<br />

al Libano, Gerusalemme).<br />

Imponenti le cifre dei volumi e dei manoscritti raccolti; notevole l’insieme dei collegi e degli istituti<br />

ad essa connessi con particolare riguardo alla stamperia di lingue orientali, che sottolinea il dilatarsi degli<br />

interessi culturali al di là dei confini della cultura occidentale cristiana. Ma soprattutto significativa<br />

l’attenzione rivolta alla liberalità con la quale in questa biblioteca i libri vengono posti a disposizione di<br />

chiunque li richieda, che si vede offrire anche da sedere e carta, penne e calamaio (senza pericolo, questa<br />

volta, di quegli imbrogli temuti da Renzo nella sua polemica invettiva all’osteria della luna piena!).<br />

La biblioteca ambrosiana si contrappone per questo a ogni altra pubblica biblioteca italiana, i cui i<br />

libri restano, di norma, chiusi negli armadi. Questo argomento serve, certo, a evidenziare l’anticonformismo<br />

del fondatore, Federigo Borromeo, ma apre anche uno spiraglio sulle ombre del Seicento.<br />

La biblioteca diviene emblema della cultura secondo il pensiero che l’autore eredita dall’Illuminismo,<br />

che ha introdotto la polemica contro la vuota erudizione, alla quale si contrappone il collegamento<br />

fra il sapere e la pubblica utilità.<br />

Questa è l’idea che viene ripresa e approfondita dalla cultura romantica, che sostiene quella funzione<br />

educativa del libro, di cui gli stessi Promessi Sposi sono un esempio.<br />

II piacere vano e egoistico della cultura: la biblioteca di don Ferrante<br />

A contrasto con l’ambrosiana emerge nel capitolo XXVII, inserita nel ritratto di don Ferrante un’altra<br />

biblioteca, che ne è l’immagine rovesciata: don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una<br />

raccolta di libri considerabili, poco meno di trecento volumi... per don Ferrante il libro non è un puro oggetto<br />

di arredamento come per Azzecca-garbugli né fonte di svago come per don Abbondio.<br />

Per lui i libri sono la sua vita, ma purtroppo al di fuori di essi egli non trova modo di dar senso alla<br />

vita, mentre il cardinale Borromeo è un uomo di cultura, che trasferisce in vita attiva per sé e per gli altri<br />

quanto dai libri può essere attinto. La biblioteca di don Ferrante rappresenta in modo paradossale la mania<br />

seicentesca per l’erudizione: in essa tutto lo scibile umano è catalogato per materie, ogni disciplina ha<br />

i suoi testi sacri da memorizzare. «Don Ferrante - come scrive il critico Donadoni - è il passato, e per il<br />

passato. Il decimosettimo è il secolo che vide nascere l’astronomia e don Ferrante è competentissimo in<br />

astrologia, il secolo del Galileo e del Viviani e della fisica: e don Ferrante è un furioso cultore della magia<br />

e delle scienze occulte. È il secolo in cui la Historia naturalis di Bacone tracciava il metodo per giungere<br />

alle leggi della vita organica e inorganica: e don Ferrante è un lettore dei lapidali, degli erbari, e bestiari<br />

del Medioevo. Il secolo decimo settimo rise di un riso europeo alla lunga, gioconda beffa del Cervantes<br />

contro la cavalleria e lo studio principale di Don Ferrante, quello che dava una parvente ragione d’essere<br />

alla sua vita, e che solo poteva trarlo dalla sua biblioteca fra gli uomini, era la scienza cavalleresca. Il<br />

secolo decimo settimo è il secolo di lord Bacone e di Cartesio, cioè dell’insurrezione universale contro<br />

l’Aristotele delle scuole: e don Ferrante sceglierà proprio come modello il suo bravo Aristotele».<br />

Pertanto la sua biblioteca resta il simbolo, non tanto del Seicento, che ha avuto anche le sue luci,<br />

ma di una cultura libresca, negata alla vita, fonte di un piacere vano ed egoistico che non può sopravvivere<br />

a chi l’ha custodita.<br />

E, in effetti, alla morte di don Ferrante il narratore propone una domanda. E quella sua famosa libreria?<br />

È forse ancora dispersa su per i muriccioli: una sorte malinconica che corrisponde alla vanità di una cultura<br />

libresca, separata dal turbine della storia. Solo questo del resto può essere il giudizio su una simile<br />

biblioteca da parte di un intellettuale come il Manzoni, per il quale il libro ha una funzione in quanto<br />

appello alla responsabilità della coscienza e alla razionalità, sostenuta da una fede autentica.


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

Il personaggio<br />

1 Dal diacono Martino a Renzo: fra armonia della natura<br />

e dramma della storia<br />

L’interesse del Manzoni per la realtà comprende anche l’attenzione per il tema della natura, presente in vario<br />

modo in tutte le sue opere con una netta distinzione fra gli scritti giovanili e quelli successivi alla conversione<br />

religiosa. Un confronto fra testi, anche cronologicamente, appartenenti a momenti diversi consente di raggiungere<br />

una comprensione più approfondita delle pagine dei Promessi Sposi dedicata alla rappresentazione del<br />

paesaggio e al rapporto fra la natura e la storia inferiore dei personaggi<br />

L’antefatto: «Adda» e «Urania»<br />

Sia nell’epistola in versi «Adda», con la quale il poeta rivolge al poeta Monti l’invito ad un soggiorno<br />

in campagna nella villa del Galeotto, sia, successivamente, nel poemetto «Urania», in cui la Musa richiama<br />

Pindaro al valore della poesia civilizzatrice, Manzoni rappresenta il paesaggio seguendo gli schemi<br />

dei modelli classici, da Virgilio a Parini: la campagna è il luogo ameno che offre un rifugio sicuro e distaccato<br />

dagli affanni della vita civile e placa gli animi con la sua bellezza composta ed armonica.<br />

Lo scrittore si limita, pertanto, ad una poesia descrittiva, che si vale di uno stile che tende alla grazia<br />

e alla solennità. Evidentemente egli è ancora legato alla concezione classica dell’arte, la quale ha la funzione<br />

di indurre alla contemplazione rasserenante della bellezza.<br />

Dall’«Adelchi»: il percorso alpestre del diacono Martino<br />

Con la conversione religiosa Manzoni vive una trasformazione ideologica, che ha i suoi riflessi anche<br />

sul piano letterario: egli non solo cerca di comprendere i problemi legati al «vero» morale, cioè a quei<br />

valori ideali che devono costituire il fondamento della coscienza, ma tende anche ad esprimere situazioni,<br />

temi, che abbiano per oggetto la realtà in cui l’uomo vive.<br />

Così la natura diviene lo spazio in cui la persona compie le sue fondamentali esperienze e in cui riscopre<br />

la viva traccia della presenza di Dio. Perciò non basta più darne una rappresentazione descrittiva,<br />

ma occorre arricchire i richiami allo sfondo naturale con i riferimenti allo stato d’animo, alle vicende<br />

interiori dei personaggi e, soprattutto, al loro rapporto con la storia.<br />

Esemplare in questo senso il monologo, con il quale il diacono Martino («Adelchi», Atto II, scena<br />

III) riferisce a Carlo la sua ‘miracolosa’ scoperta di un passaggio attraverso le Alpi, che consente ai<br />

Franchi di superare quelle montagne situate fra la Francia e la Val di Susa ritenute fino a quel momento<br />

un ostacolo insuperabile, che impediva di cogliere alle spalle le truppe di Adelchi. Siamo ormai lontani<br />

dalla dolcezza descrittiva dei paesaggi che decorano i versi dell’«Adda» e dell’«Urania»: già il luogo alpestre,<br />

l’accenno ai monti erti, nudi, tremendi cancella ogni traccia di abbandono contemplativo, mentre<br />

apre la rappresentazione di un mondo reale, severo e sublime nella sua asprezza.<br />

Fin dall’inizio si confrontano infatti le difficoltà reali del cammino e la forza di un’interiore speranza.<br />

L’angusta valle, nella quale il diacono procede, si apre; lo spazio si dilata ed è questo il primo segnale di<br />

incoraggiamento all’impresa.<br />

Nella vasta solitudine della natura la sola presenza umana è quella del pastore, il quale non ha più<br />

niente dell’astratta compostezza di certe figure delle liriche giovanili che ripetono gli atteggiamenti dei<br />

personaggi presenti nella poesia ‘bucolica’ classica; consapevole di vivere nell’ultima stanza de’ mortali,<br />

egli è caratterizzato storicamente come umile popolano medievale, turbato dalla superstiziosa credenza<br />

negli spirti abitatori delle misteriose solitudini alpestri. Per lui le montagne sono un baluardo invalicabile,<br />

il segno di una realtà sovrumana che si deve passivamente accettare. Ben diverso l’atteggiamento<br />

spirituale di Martino, animato da una sicura fiducia in un Dio ordinatore dell’universo, di cui si sente<br />

umile, ma attivo strumento. Egli scorge nella solitudine pur aspra delle valli e delle montagne non<br />

l’aspetto selvaggio, che può ispirare nell’uomo un superstizioso terrore, ma avverte, invece, il fascino<br />

del silenzio, l’armonia di quei luoghi intatti, nei quali meglio si scopre la bellezza della creazione. La<br />

natura, allora, in quanto opera di Dio, diviene depositarla di un mistero, che la Provvidenza può svelare


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

anche al più umile dei mortali, purché questi si impegni a ricercarne il senso.<br />

Il silenzio assoluto delle Alpi, interrotto solo dalla voce delle acque, del vento, dagli stridi del falco<br />

e dell’aquila, perde ogni connotato orrido o romanzesco, così come l’alternarsi del giorno e della notte<br />

richiama ad una scansione ordinata del tempo, che conforta il faticoso cammino del diacono. Nessun<br />

indugio sentimentale nella rappresentazione del paesaggio montano; solo a tratti la montagna offre un<br />

accessibil pendio, ma subito prevalgono aspetti di imponenza severa; ogni vetta è un ostacolo da superare.<br />

Di fronte alle difficoltà però Martino non si smarrisce né si esalta, in quanto egli non è protagonista di<br />

un’avventurosa peripezia, ma di un coraggioso percorso nella storia. Storia è, infatti, lo svolgersi della<br />

sua umana vicenda, il suo cammino alla ricerca di un varco da tutti ritenuto inesistente; ma storia è,<br />

soprattutto, il suo percorso interiore, che si traduce nel progressivo convincimento di essere testimone<br />

ed esecutore di un progetto sovrannaturale. Di qui la sua prontezza nel cogliere nella natura il segno,<br />

che avvia alla soluzione del viaggio: quando fra le altre individua una vetta coronata di piante, il diacono<br />

indirizza verso di essa il suo cammino e da quella cima, finalmente, scorge - quasi per una rivelazione<br />

sacra - il campo di Carlo e, soprattutto, il sentiero che a quello conduce.<br />

Il racconto di Martino è sorretto da una crescente tensione, che nella parte conclusiva si arricchisce,<br />

sul piano espressivo, di citazioni bibliche: e vidi... oh! vidi le tende di Israello, i sospirati padiglion di Giacobbe.<br />

Attraverso queste espressioni l’umile figura del diacono assume la dignità di un antico profeta, che raggiunge<br />

la Terra promessa. E, in realtà, nel suo itinerario egli è stato un veggente, capace di leggere oltre<br />

l’aspetto reale e quotidiano delle immagini naturali. Il paesaggio, pertanto, non ha una valenza esclusivamente<br />

descrittiva e tanto meno pittoresca, in quanto ogni immagine rimanda all’esperienza del personaggio,<br />

il quale compie, insieme, un faticoso cammino e un profondo itinerario interiore.<br />

Per la sua connotazione sociale il personaggio di Martino anticipa i protagonisti dei Promessi Sposi, in<br />

quanto anch’egli è un umile che diviene protagonista di storia. Il suo viaggio, infatti, mentre annuncia<br />

la funzione positiva della Chiesa ‘bassa’ nel romanzo, (si pensi al ruolo di aiutante benefico svolto da<br />

padre Cristoforo) mette in evidenza che non Carlo o Adelchi, ma un ignoto diacono da la svolta decisiva<br />

alla guerra franco-longobarda. Ma il viaggio di Martino consente soprattutto un confronto con<br />

il drammatico cammino di Renzo alla ricerca dell’Adda, che è un percorso nella natura e, insieme, un<br />

percorso nella coscienza.<br />

Dai Promessi Sposi: il cammino di Renzo verso l’Adda<br />

Nel romanzo il collegamento fra natura e storia è una costante resa più visibile dall’inserimento della<br />

descrizione nella trama di un racconto. Se già nella pagina di apertura la storia si inserisce nella rappresentazione<br />

del paesaggio (Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare...), un particolare interesse,<br />

per il confronto che consente con l’episodio del diacono Martino, presenta la grande sequenza<br />

che nel cap. XVII corrisponde alla fuga di Renzo alla ricerca dell’Adda. Emergono, infatti, in queste<br />

pagine alcune differenze e molte analogie con il monologo dell’«Adelchi».<br />

La differenza principale consiste nella fisionomia e nella situazione del personaggio. Renzo, infatti, si<br />

trova in una circostanza drammatica che può sembrare analoga a quella del diacono: anche lui cammina<br />

per lasciarsi alle spalle dei nemici ed è in cerca della salvezza, seguendo un percorso nella natura. Ma<br />

Renzo non è totalmente innocente come Martino; non solo ha commesso degli errori nelle sue giornate<br />

milanesi, ma nutre nel cuore un, pur umano, risentimento contro chi lo fa soffrire, contro l’ingiusta<br />

giustizia degli uomini, stimolato dalle provocatorie menzogne del mercante, che ha ascoltato, allibito,<br />

nell’osteria di Gorgonzola. Renzo non ha, quindi, la fede intatta e profonda del diacono, non si muove<br />

come un profeta per annunciare agli altri la salvezza. Per questo egli vive più drammaticamente il<br />

rapporto con la natura. Sul piano artistico a ciò corrisponde la meditata conquista del realismo da parte<br />

dello scrittore. Ma pur con questa diversità molte e significative sono le analogie fra i due testi e, soprattutto,<br />

è evidente, anche nel caso di Renzo il rapporto che lo scrittore stabilisce fra natura e storia.<br />

Il rinnovarsi del rapporto fra natura e storia<br />

Renzo, come Martino, non conosce lo spazio in cui si muove; le tenebre, impedendogli la vista dei<br />

contorni reali delle cose, danno un aspetto ostile e orrido alla natura. Renzo con il suo udito percepisce<br />

suoni, rumori che favoriscono le allucinazioni; anche per lui, come per l’umile diacono, ogni passo è<br />

un ostacolo da superare, l’armonia della natura è sparita; ad essa si è sostituito un senso di caos: la natu-


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

ra desolata, immersa nella notte, è un segno di quanto sia difficile l’itinerario che si compie all’interno<br />

dell’animo del personaggio.<br />

Ma il forte turbamento di Renzo non si ferma alla constatazione della difficoltà presente: egli attraverso<br />

un flusso di pensieri, passando dalla polemica alla paura, rievoca il tempo trascorso, ritorna alle<br />

radici della sua esistenza, rivive, cioè, la propria storia. Renzo recupera, così, le preghiere dell’ infanzia,<br />

ma non ha ancora in sé la forza sufficiente per vincere la sua prova.<br />

Ma Renzo, come Martino, conosce la meta che intende raggiungere. Come le montagne che si<br />

oppongono a Martino e che celano in sé il segreto sentiero per la Francia anche l’Adda costituisce una<br />

linea dì separazione fra Lombardia e Veneto; è un confine che ripartisce un territorio, ma insieme funge<br />

da collegamento con l’altra sponda, che rappresenta l’approdo alla salvezza. Per questo Renzo cerca dì<br />

coglierne la voce (l’Adda ha buona voce), quella voce che è per lui la prova di come Dio non dimentica<br />

la gente di nessuno e garantisce la speranza del perdono dopo l’esperienza cittadina.<br />

E proprio quando il giovane montanaro sta per arrendersi, nel silenzio si distingue l’indizio che Dio<br />

gli offre per salvarsi: la voce amica dell’Adda prima è solo un rumore, poi un mormorìo, poi ancora un<br />

mormorio d’acqua corrente.<br />

Come premio della sua speranza e come segno della Provvidenza anche Renzo riconosce il segno<br />

(analogo alla vetta coronata di piante), vede (e vidi... oh! vidi...) il luccicare dell’acqua che rappresenta per<br />

lui il rinnovarsi della vita. La natura diviene amica, la luce della luna torna a illuminare il paesaggio, la<br />

selvatichezza del luogo non suscita più sgomento.<br />

Anche Renzo - come Martino -, dopo aver riconosciuto i segni della Provvidenza negli aspetti della<br />

natura, conclude il suo cammino con la preghiera; per lui, certo, la rievocazione dei valori cristiani, rappresentati<br />

dalla barba bianca e dalla treccia nera sono il segno del passaggio dalla caduta alla resurrezione.<br />

Di nuovo, pertanto, la rappresentazione di un paesaggio non si è limitata a una pausa descrittiva, ma,<br />

attraverso il collegamento fra la descrizione della natura e la vicenda interiore di un uomo, ha stabilito<br />

un rapporto drammatico con la storia


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

2 L’eroe della non-violenza da Adelchi a padre Cristoforo<br />

Nell’itinerario che Manzoni compie, passando attraverso la tragedia fino al romanzo, non c’è spazio solo per<br />

la condanna dell’azione contaminata dall’opportunismo politico. Egli cerca anche un’apertura positiva, coerente<br />

con la sua fede che ha nel Cristo il modello di una milizia attiva, di una testimonianza capace di riscattare<br />

il male del mondo con il sacrificio supremo. Da questa base religiosa nasce la trasformazione del personaggio<br />

tragico, rappresentato non come trionfatore sulla scena del mondo, ma visto piuttosto come l’individuo che lotta<br />

per liberarsi dal suo destino di potente.<br />

Una rivoluzione cristiana della cultura<br />

La lettura manzoniana della storia rovescia la prospettiva tradizionale della cultura classica e comporta<br />

l’eliminazione dell’eroe titanico, rappresentato nel teatro classico come una figura sublime, proprio<br />

perché impegnato ad affermare il trionfo del suo coraggio e della sua intelligenza contro qualsiasi<br />

difficoltà.<br />

Ad esso si sostituiscono dolenti protagonisti, che si aprono ai valori cristiani dell’umiltà, della rinuncia,<br />

della non-violenza. Sul personaggio dotato di forte sentire (si pensi agli eroi di Alfieri e di Foscolo)<br />

prevale l’eroe agitato dal tormento interiore, che vive con angoscia la crisi della scelta fra bene e male.<br />

L’importanza della sua azione non consiste tanto in un gesto di eccezionale coraggio, quanto nella scelta<br />

responsabile di un comportamento, che incide nella storia propria e in quella degli altri uomini.<br />

In sostanza Manzoni sostituisce alla figura dell’uomo-titano, come modello da imitare, la figura esemplare<br />

di Cristo, protagonista della passione. È lui la vittima innocente, abbandonato nella solitudine del<br />

Getsemani dai suoi apostoli, tradito da un amico: Giuda; è lui che, con la sua sofferenza, riscatta il male<br />

del mondo. E per lo scrittore, che ritorna più volte su questo tema, nella modesta miseria della storia<br />

umana torna ogni volta a incarnarsi la persona di Cristo. È questa sacra, misteriosa presenza, che conferisce<br />

dignità al volto sofferente di ogni singolo uomo e gli garantisce il riscatto della redenzione.<br />

Un personaggio innocente tradito e perseguitato<br />

Così fino dal primo intreccio tragico da lui ideato, quello del «Conte di Carmagnola», Manzoni dà<br />

preminente rilievo alla dignità del personaggio innocente tradito e perseguitato: il valoroso comandante<br />

Francesco da Bussone, il Conte di Carmagnola, combattente di tante battaglie, vittorioso a Maclodio,<br />

nella guerra fra Venezia e i Visconti di Milano, viene, infatti, presentato come vittima senza colpa, tradito<br />

dalle bieche trame dei Senatori, che detengono il potere di Venezia. Ma esemplare diviene, per<br />

questo tema, soprattutto la figura del principe longobardo Adelchi.<br />

Il personaggio di Adelchi, fin dal suo primo comparire sulla scena, vive nel segno della contraddizione,<br />

diviso fra la volontà di ubbidire al padre, il re dei Longobardi Desiderio, e l’ansia interiore di<br />

giustizia. Vanamente egli consiglia il padre a rinunciare alle terre usurpate al papa Adriano e a non affrontare<br />

una guerra ingiusta<br />

DESIDERIO ... Tu, che proponi alfine?<br />

ADELCHI Quel che, signor di gente invitta e fida,<br />

in un dì di vittoria io proporrei: sgombriam le terre de’ Romani;, amici<br />

siam d’Adriano: ei lo desia.<br />

DESIDERIO Perire perir sul trono, o nella polve in pria<br />

che tanta onta soffrir. Questo consiglio più dalle labbra non ti sfugga:<br />

il padre te lo comanda.<br />

Ma più chiaramente si delinea il profilo dell’eroe romantico, scisso fra la tensione verso l’ideale e il<br />

duro contatto con una realtà ostile e umiliante nel corso dell’Atto terzo della tragedia. Nei suoi confidenti<br />

colloqui con lo scudiere e amico Anfrido Adelchi rivela l’aspirazione ad esercitare il potere in un<br />

modo ideale, per il bene di un popolo concorde come avviene per Carlo, suo nemico:


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

ei che su un popolo regna<br />

di un sol voler, saldo, gittata in uno.<br />

La realtà, invece, costringe Adelchi a guardarsi dai duchi, avidi di potere e disposti al tradimento.<br />

Anche sul piano personale la sorte del principe longobardo è deludente: secondo i valori ideali di un<br />

cavaliere del secolo VIII d.C., Adelchi aspira a rivendicare l’onore della sorella Ermengarda, ripudiata<br />

da Carlo, attraverso una ‘singolare tenzone’, un duello in cui provare con il coraggio e la lotta leale la<br />

propria fedeltà ai principi dell’onore e della giustizia offesi:<br />

Ei parte, il vile<br />

offensor d’Ermengarda, ei che giurava<br />

di spegner la mia casa; ed io non posso<br />

spingergli addosso il mio destrier, tenerlo,<br />

dibattermi con esso, e riposarmi sull’armi sue!<br />

Non posso! In campo aperto<br />

stargli a fronte, non posso!<br />

Egli deve adattarsi a custodire il passaggio delle Chiuse e tener lontano il nemico senza affrontarlo,<br />

II lamento di Adelchi si innalza più drammatico e amaro, quando l’amico cerca di confortarlo, ricordandogli<br />

la gloria, di cui gode fra i suoi:<br />

La gloria? il mio<br />

destino è d’agognarla, e di morire<br />

senza averla gustata...<br />

Un’altra impresa, Anfrido,<br />

che sempre increbbe al mio pensier, né giusta<br />

né gloriosa si presenta; e questa<br />

certa ed agevole fia.<br />

Il mio cor m’ange, Anfrido: ei mi comanda<br />

alte e nobili cose; e la fortuna,<br />

mi condanna ad inìque;...<br />

Questo non è certo, il linguaggio di un eroe titanico, che vanti la propria grandezza al di là di ogni<br />

infausto destino. Si profila piuttosto l’immagine della vittima, che si sente condannata alla sconfitta.<br />

Comunque, finora, l’ansia morale di Adelchi vive nell’ambito di un orizzonte terreno: egli crede alla<br />

possibilità un’azione giusta, a una gloria da conquistarsi attraverso prove moralmente valide e, soprattutto,<br />

confida nella conciliazione fra potere e giustizia.<br />

È la sconfitta, la sventura che sconvolge le sue prospettive e lo trasforma. Adelchi è costretto a vedere<br />

il vecchio padre prigioniero del nemico, il suo regno invaso dai Franchi, a sentirsi abbandonato e<br />

tradito dai duchi longobardi, fino al punto di desiderare la morte. Di fronte a queste successive sconfitte<br />

egli, però, non cade nel vittimismo, ma conquista una luce inte-riore, che lo guida a spogliare del loro<br />

fascino illusorio i trionfi umani. Nell’umiliazione e nella sofferenza Adelchi rivive le varie stazioni della<br />

passione di Cristo e in questo itinerario di dolore si innalza in una prospettiva spirituale ultraterrena.<br />

Non per questo si può parlare di conversione, in quanto l’eroe è fin dall’inizio un’anima religiosa,<br />

ma si deve parlare di trasformazione, in quanto ciò che prima egli ha solo astrattamente creduto diviene,<br />

attraverso la «provida sventura», forza operante nella sua vita. Adelchi, infatti, denuncia la violenza<br />

del potere, di ogni potere e lo rifiuta in quanto connesso con l’ingiustizia, col privilegio:<br />

Gran segreto è la vita, e nol comprende<br />

che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno:<br />

deh! noi pianger; mel credi. Allor che a questa<br />

ora tu stesso appresserai, giocondi


si schiereranno al tuo pensìer dinanzi<br />

gli anni in cui re non sarai stato, in cui<br />

né una lagrima pur notata in cielo<br />

fia contra te, né il nome tuo saravvi<br />

con l’imprecar de’ tribolati asceso.<br />

Godi che re non sei, godi che chiusa<br />

all’oprar t’è ogni via: loco a gentile,<br />

ad innocente opra non v’è: non resta<br />

che far torto, o patirlo. Una feroce<br />

forza il mondo possiede, e fa nomarsi<br />

dritto: la man degli avi insanguinata<br />

seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno<br />

coltivata col sangue; e ornai la terra<br />

altra messe non dà. Reggere iniqui<br />

dolce non è; tu l’hai provato: e fosse;<br />

non dee finir così? Questo felice,<br />

cui la mia morte fa più fermo il soglio,<br />

cui tutto arride, tutto plaude e serve,<br />

questo è un uom che morrà.<br />

<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

Adelchi non condanna l’operare in genere, ma l’azione contaminata dalla violenza, dalla sopraffazione.<br />

Con Adelchi che riflette sul segreto della vita si delinea la figura dell’eroe in trasformazione, capace<br />

di concepire la non-violenza come scelta di vita. Come frutto di questa conoscenza prende rilievo nel<br />

testo drammatico il profilo di un personaggio nuovo, rispetto alla tradizione letteraria: quello dell’eroe<br />

che sta dalla parte degli ultimi, dalla parte delle vittime e non da quella degli oppressori.<br />

La scelta della non-violenza nel romanzo<br />

II passaggio dalla sfera della violenza a quella della non-violenza richiama nel romanzo il personaggio<br />

di padre Cristoforo che, pur nella diversità della situazione narrativa può, ad un’ analisi attenta, rivelare<br />

notevoli collegamenti con la figura di Adelchi. Certo sono cambiate la collocazione storica e quella<br />

sociale: il giovane Lodovico non è un cavaliere, ma il figlio di un ricco mercante, un giovane di indole<br />

onesta insieme e violenta, che non riesce a integrarsi nell’aristocratica società seicentesca fortemente classista.<br />

Comunque anche alla base della sua personalità esiste un forte contrasto fra un’aspirazione ideale<br />

alla giustizia e una realtà deludente, anche lui è tribolato continuamente da contrasti interni. Certo, diversamente<br />

da Adelchi, Lodovico, pur assumendo spesso il ruolo di protettor degli oppressi e vendicatore de’ torti<br />

di fronte ai nobili soverchiatori, si trova costretto a adoperar raggiri e violenza, a circondarsi di bravi e vivere<br />

co’ birboni, per amor di giustizia.<br />

Nella storia di Adelchi la ‘singolar tenzone’ col nemico resta una vana aspirazione, mentre Lodovico<br />

è realmente coinvolto in un duello motivato da ragioni ben poco cavalieresche: una questione di<br />

precedenza su una strada, o, per meglio dire, una questione di prestigio, di quel punto d’onore cardine<br />

del galateo seicentesco. Il nobile soverchiatore resta ucciso nello scontro e, anche in questo caso, è il<br />

contatto con la morte, tanto più provocata da Lodovico in modo violento, a avviare la trasformazione<br />

del personaggio. Anche per lui, come per Adelchi, non si può parlare di vera conversione, in quanto<br />

addirittura al giovane, amareggiato e deluso dal proprio modo di vivere, più d’una volta gli era saltata in<br />

mente la fantasia di farsi frate; ma la decisione di scegliere la vita religiosa, di entrare nell’ordine dei cappuccini<br />

è legata, ora, a un pentimento profondo, a un sentimento di umiltà e di carità tale che gli parve<br />

che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada. Il richiamo alla Provvidenza significa che il personaggio (il<br />

quale assume il nome di Cristoforo) collega all’intenzione una consapevole decisione di cambiare il suo<br />

comportamento: per lui comincia, infatti, una vita d’espiazione e di servizio.<br />

Il cristianesimo militante di padre Cristoforo<br />

II personaggio del romanzo non conclude, dunque, il proprio rinnovamento interiore con la morte,<br />

ma, scegliendo, in quanto frate cappuccino, di seguire la regola di San Francesco, si propone come<br />

modello il protagonista esemplare della non-violenza, tradotta attivamente in opere di misericordia


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

compiute in spirito di umiltà.<br />

Questa la differenza sostanziale con la tragedia: secondo la prospettiva più matura dello scrittore, se pur<br />

sempre aderente al pessimismo storico, a Cristoforo è concesso lo spazio per espiare e recuperare i valori<br />

positivi nel corso di questa vita. Padre Cristoforo non perdonerà mai se stesso; nel lazzaretto, a Renzo<br />

sconvolto dal timore di non ritrovare Lucia viva, il cappuccino dirà: «Ho odiato anch’io: io, che t’ho ripreso<br />

per un pensiero, per una parola, l’uomo ch’io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso.»<br />

... «Ah! s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora per l’uomo<br />

ch’io odiavo!...»<br />

Egli diviene veramente l’eroe della carità, dell’umiltà e del perdono: il modello del Cristianesimo<br />

militante come lo concepisce il Manzoni; sempre pronto ad accorrere in soccorso degli oppressi, si tratti<br />

di Lucia e di Renzo o degli ignoti appestati del lazzeretto. Comunque l’affinità profonda fra il personaggio<br />

tragico e quello del romanzo consiste nel fatto che anche in padre Cristoforo, come in Adelchi,<br />

affiora di continuo l’immagine vivente di Cristo umiliato, deriso, vittima innocente dell’ingiustizia del<br />

mondo.<br />

Infatti, sul piano della realtà concreta padre Cristoforo è sempre costretto a subire il fallimento dei<br />

suoi progetti. Si propone di incontrare don Rodrigo per farlo recedere dal suo infame capriccio e spera<br />

addirittura di convertirlo, ma nel palazzotto deve subire allusioni irriverenti e, poi, violenti improperi.<br />

«Eh via! Sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto...»<br />

gli dice ‘amorevolmente’ don Rodrigo. E ancora «Dica, dica se non ha fatto la sua carovana?» E di fronte<br />

al suo debole parere, che esclude sfide, portatori e bastonati, perfino Azzecca-garbugli si permette con<br />

lui un tono da maestro di morale. Ma il peggio tocca al frate nel colloquio col signorotto, che sfodera<br />

contro di lui tutta la sua arroganza, proprio perché privo di validi argomenti.<br />

«Eh padre!... il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe<br />

il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.» Il frate subisce con dignitosa umiltà tutte<br />

le offese che gli vengono rivolte, fino alla turpe insinuazione di aver qualche personale interesse per<br />

Lucia; allora l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e in que’ casi fra Cristoforo valeva veramente per due.<br />

Ma dopo l’esplosione profetica della sua santa ira si raccoglie nella sofferenza e nel silenzio e si lascia<br />

cacciare senza reagire. Sul piano spirituale egli è certo, anche in questo caso, un vincitore e per chiarire<br />

questo basta un segno, la presenza e la promessa d’aiuto del vecchio servitore che gli fa sentire vicina la<br />

protezione della Provvidenza: «Ecco un filo - pensava - un filo che la provvidenza mi -mette nelle mani.»<br />

D’altra parte anche gli altri interventi a favore di que’ suoi poveretti, Renzo e Lucia, non raggiungono<br />

un esito migliore: egli provvede a far rifugiare la fanciulla nel monastero di Monza sotto la ‘sicura’<br />

protezione della signora e, senza volerlo, la espone al rapimento da parte dell’innominato, aiutante<br />

di don Rodrigo.<br />

Indirizza Renzo a Milano al convento di padre Bonaventura e la sorte vuole che il giovane capiti<br />

in una città sollevata e, per un seguito di circostanze, rischi la cattura da parte della polizia e la morte.<br />

Padre Cristoforo è un uomo santo, dotato di spirito profetico, ma nemmeno lui può penetrare il mistero<br />

della vita. Nel congedarsi a Pescarenico dai suoi protetti egli afferma: «il cuor mi dice che ci rivedremo<br />

presto». Ma il narratore soggiunge: Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto. E infatti<br />

trascorrerà una separazione di due anni fra padre Cristoforo e i due ‘promessi’.<br />

Anche quando non è direttamente in scena padre Cristoforo appare come uno sconfitto: vittima delle<br />

irrisioni di Attilio («Quel frate con quel suo fare di gatta morta... io l’ho per un dirittone, per un impiccione)<br />

e peggio ancora delle sue calunnie davanti al conte zio. Presentato dal conte zio al padre provinciale<br />

come un soggetto facinoroso, subisce le conseguenze di questa lotta subdola e malvagia, accettando in<br />

spirito di umiltà e di obbedienza l’ordine di abbandonare il convento di Pescarenico e d’interrompere<br />

ogni rapporto con le sprovvedute creature da lui amate e protette.<br />

Valore positivo dell’azione di padre Cristoforo<br />

D’altra parte nessuna sconfitta concreta e contingente può sminuire il valore della sua opera e soprattutto<br />

della sua fede. Egli è un maestro di vita con il suo esempio in quanto le sue azioni di carità<br />

sono sempre coerenti con le sue parole; è un padre spirituale che incide profondamente nella formazione<br />

della rigorosa personalità di Lucia e riesce a intervenire più volte in soccorso di Renzo preda dello<br />

sconforto e dell’impetuosità del suo temperamento.<br />

Per chiarire questo aspetto è sufficiente richiamare pochi esempi; per primo la preghiera nella chie-


0 <strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

setta di Pescarenico quando Lucia, Renzo e Agnese sono costretti a lasciare il paese. La forza della fede<br />

e della carità è più forte della pena umana: «noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a<br />

questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia se non ve la chiedessimo di cuore per lui: ne ha tanto<br />

bisogno!...»<br />

Questo tema del perdono è il filo conduttore che segna la presenza del personaggio nei vari episodi<br />

e soprattutto in quello conclusivo che ha per sfondo il tragico scenario del lazzaretto. Il ritratto di padre<br />

Cristoforo, ormai preda della peste, ma tutto concentrato nello sforzo dell’animo richiama la sofferenza<br />

di Cristo nel Getsemani; anche per lui «lo spirito è pronto, ma la carne è debole».<br />

Il suo sguardo ha, però, una luminosità particolare, che esprime una gioia segreta: L’occhio soltanto<br />

era quello di prima, e un non so che vivo e più splendido. Del resto, come ha notato recentemente S. Nigro,<br />

la figura di padre Cristoforo più volte è collegata a quella della luce: “Fra Cristoforo spunta insieme al<br />

sole: «Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico...»<br />

E lo segue nel suo corso: «alzò gli occhi verso l’occidente, vide il sole inclinato, che già toccava la cima<br />

del monte...» I suoi occhi «talvolta sfolgoravano... come due cavalli bizzarri...»” L’insistenza su questi richiami<br />

luminosi è un segnale della presenza dello Spirito di Dio, che accende il suo animo.<br />

Egli è l’esempio di come l’uomo sorretto dalla Grazia può raggiungere una sublime capacità di amare,<br />

rinnovando la carità di Cristo che è morto per tutti i peccatori, anche per don Rodrigo: Egli lo ha<br />

amato a segno di morir per lui.<br />

In questa linea la consegna del pane del perdono a Renzo e Lucia, finalmente ricongiunti, diviene il<br />

simbolo di una continuità dell’amore che vince anche la morte. Attraverso le parole conclusive di padre<br />

Cristoforo «si aprono prospettive ora meste ora consolanti su una vita segnata da un lato di mondane<br />

allegrezze e di prepotenti violenze e dall’altro di sofferti travagli e di un’allegrezza raccolta e tranquilla, una<br />

vita destinata comunque a prolungarsi in un’altra vita di gioia pura che non avrà fine» (G. Getto).


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

3 Il recupero del personaggio negativo:<br />

da Napoleone all’innominato<br />

La responsabilità morale dell’uomo, la sua capacità di scegliere liberamente fra il bene e il male e, di conseguenza,<br />

il significato dell’azione sono temi centrali dei Promessi Sposi. In più episodi, di fronte a personaggi come<br />

padre Cristoforo e il cardinale Federigo, torna il problema dei valori ai quali deve ispirarsi l’azione per avere un<br />

senso positivo. Parallelamente lo scrittore propone il mistero dell’uomo dotato da Dio di eccezionale intelligenza<br />

e di impetuosa volontà, che sceglie di operare nel male e diventa grande agli occhi del mondo. Quale può essere<br />

il suo destino? Egli può perdersi per sempre oppure la Grazia può offrirgli l’occasione di riscattarsi?<br />

Napoleone: un potente di fronte alla morte<br />

Da questi temi nasce nel romanzo la figura dell’innominato. Ma esso rappresenta la conclusione di<br />

un lungo itinerario, che parte dagli eroi delle tragedie e culmina nella vicenda di Napoleone, protagonista<br />

del «Cinque maggio», l’ode che si svolge nella prospettiva del recupero dell’oppressore.<br />

Il personaggio di Napoleone per la sua grandezza ha affascinato, come gli altri contemporanei, anche<br />

il Manzoni, il quale, però, per la sua attitudine al meditare si è sottratto sia al servo encomio che al codardo<br />

oltraggio e solo di fronte alla morte dell’«eroe» scioglie all’urna un cantico che forse non morrà. Si avverte<br />

nell’ode la presenza della cultura romantica aperta alla celebrazione dell’individuo, del forte sentire, del<br />

titano protagonista di storia. A questa impostazione potrebbe sembrare legata la prima parte della lirica,<br />

nella quale compare non tanto il personaggio storico, ma il mito di Napoleone: manca perfino il nome<br />

e l’alone di indeterminatezza accresce la suggestione epica dell’eroe; mancano i particolari cronachistici<br />

delle sue imprese, ma l’allusione alla capacità di dominare l’immensità dello spazio e del. tempo suggerisce<br />

una dimensione sovrumana:<br />

Dall’Alpi atte Piramidi,<br />

dal Manzanarre al Reno,<br />

di quel securo il fulmine tenea<br />

dietro al baleno,<br />

scoppiò da Scilla al Tenai,<br />

dall’uno all’altro mar.<br />

Così come il potere, che lo porta a dominare come arbitro nella storia, sembra farne un sostituto di Dio:<br />

Ei si nomò: due secoli,<br />

l’un contra l’altro armato,<br />

sommessi a lui si valsero,<br />

come aspettando il fato,<br />

ei fe’ silenzio, ed arbitro<br />

s’assise in mezzo a lor.<br />

In realtà questi stessi elementi, inquadrati nella visione religiosa del Manzoni, assumono senso opposto:<br />

Napoleone, finché è un potente, è un eroe anticristiano; la domanda del poeta se la sua Fu vera<br />

gloria ha una risposta implicitamente negativa. Il suo ‘peccato’ non anticristiano consiste però nell’azione,<br />

ma nel fine che egli si è proposto: l’orgogliosa affermazione di sé. A ciò si collega l’effetto di<br />

estrema solitudine, che nasce da questi versi, nei quali Napoleone sembra percorrere un mondo privo<br />

di uomini.<br />

L’ode non è celebrativa, ma introspettiva; per questo più alta si innalza la poesia nel momento della<br />

catastrofe e dell’esilio. Ora diverso diviene il significato della solitudine, segno di distacco, d’abbandono,<br />

di condanna:<br />

E sparve, e i dì nell’ozio<br />

chiuse in sì breve sponda...


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

Ma proprio in questa prospettiva comincia ad attuarsi il recupero del personaggio. Il poeta, che con<br />

l’immaginazione completa la storia, ricostruisce l’itinerario interiore dell’eroe, che affronta l’esperienza<br />

della morte, del confronto con l’eternità, e si impone un bilancio della propria vita.<br />

La similitudine del naufrago (Come sul capo al naufrago..:), posta al centro dell’ode, da un lato chiarisce<br />

la situazione dell’esule che sopravvive al crollo della propria esistenza, ma dall’altro si estende a<br />

interpretare anche il senso del tempo anteriore: Napoleone appare, allora, già naufrago anche quando<br />

appariva un trionfatore.<br />

A lui, che cerca di ripercorrerla, la sua vita risulta un misterioso alternarsi di grandezza e di miseria,<br />

senza un filo che dia senso logico ai ‘baleni’ del titano. Inutilmente Napoleone tenta di fare una sintesi<br />

della sua esistenza:<br />

e sull’eterne pagine<br />

cadde la stanca man.<br />

Se apparentemente dalle immagini che si susseguono nella sua memoria emerge il fascino dell’azione<br />

(...il lampo dei manipoli, l’onda dei cavalli...’) più forte è il senso di vuoto e di oppressione, legato alla<br />

consapevolezza di aver sprecato i propri talenti; di qui l’amarezza che rasenta la disperazione. Ma in<br />

essa si cela la vittoria sull’orgoglio e dall’abisso della coscienza anche in Napoleone emerge il volto di<br />

Cristo umiliato e crocifisso:<br />

... più superba altezza<br />

al disonor del Golgota<br />

giammai non si chinò.<br />

Questa umiliazione provoca con la conversione il rovesciamento delle scelte di una vita intera e<br />

questo comporta la svalutazione dell’azione umana, della gloria terrena, sostituita dalla speranza dell’eternità.<br />

L’intervento della Grazia trasforma la sconfitta in provvida sventura e avvia l’uomo redento<br />

ai campi eterni, al premio<br />

che i desideri avanza,<br />

dov’è silenzio e tenebre<br />

la gloria che passò.<br />

La solitudine è superata per la vicinanza amorevole di quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che<br />

consola.<br />

Napoleone non muore volontario come un eroe tragico dell’Alfieri, ma riesce a dare un senso alla<br />

sua morte. Egli è recuperato: l’oppressore è redento ma a prezzo della rinuncia alla vita.<br />

La figura dell’innominato: eroe negativo in crisi<br />

Nel romanzo la vicenda dell’innominato offre un notevole contributo per seguire l’itinerario della<br />

meditazione manzoniana, che si traduce, sul piano narrativo, in una elaborazione rinnovata dal tema<br />

presente nel «Cinque maggio».<br />

Anche l’innominato è un personaggio storico (Bernardino Visconti), anche se non del rilievo di Napoleone;<br />

anch’egli è un individuo particolarmente dotato di volontà impetuosa, di imperturbata costanza.<br />

Anch’egli, soprattutto, è un uomo d’azione, anche se nelle sue gesta non si possono rintracciare i<br />

meriti storici che vanno riconosciuti a Napoleone; le sue imprese rientrano nettamente nella sfera del<br />

male, sono delitti e atrocità: «Quella casa [la citazione è derivata dalla Storia del Ripamonti] era come<br />

un’officina di mandati sanguinosi: servitori la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste:<br />

né cuoco né sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate». Se per l’innominato non si<br />

può parlare di gloria, egli raggiunge, comunque, una sinistra fama: è a suo modo un «titano» nel ruolo<br />

di masnadiere e di tiranno selvatico. Manca nei Promessi Sposi la cronaca delle varie imprese che appariva<br />

dettagliata nella stesura del «Fermo e Lucia» e il Conte del Sagrato compare ormai senza nome ed<br />

acquista per questo qualcosa di irresistibile, di strano, di favoloso.<br />

Anch’egli - come Napoleone - è associato, al suo primo comparire, alla solitudine dello spazio, ma


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

essa corrisponde al suo volontario isolamento dagli uomini. Dall’alto del castellaccio come l’aquila dal suo<br />

nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e<br />

non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.<br />

Un ruolo essenziale anche nella vita ulteriore di questo personaggio assume il sentimento del tempo:<br />

nella crisi, che già si sta annunciando, passato, presente e futuro rifluiscono in un tormentoso ondeggiare.<br />

Anch’egli, come Napoleone, sente vicina l’esperienza della morte e collega ad essa un oscuro, drammatico<br />

senso dell’eternità. Al vuoto del vivere corrisponde la coscienza oscura di un giudizio, di un<br />

ordine, che deriva da una presenza misteriosa e inquietante: Quel Dio, di cui aveva sentito parlare, ma che<br />

da gran tempo non si curava di negare né di riconoscere..., gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però.<br />

L’itinerario del Manzoni attraverso la vicenda dell’innominato<br />

Nonostante le analogie segnalate, notevole e sostanziale è la novità dell’episodio, che ha per protagonista<br />

l’innominato rispetto al «Cinque maggio». Lo spazio dedicato al resoconto delle azioni, come<br />

già detto, viene ridotto a degli accenni; il personaggio perde quei tratti che nel «Fermo e Lucia» lo<br />

rendevano simile a un protagonista del romanzo nero. Se intorno a lui resta un alone romanzesco, il<br />

contenuto avventuroso scompare: l’interesse del narratore si volge non ai fatti, ma alla vicenda ulteriore<br />

e al centro emerge l’evento della conversione. Per di più essa si compie non per il verificarsi di una<br />

provvida sventura, ma per una progressiva trasformazione del personaggio. È lui che sta per accollarsi un<br />

nuovo delitto, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel’avesse comandato, ma proprio per questo viene<br />

assalito in maniera sempre più sconvolgente dall’inquietudine che da tempo lo divora. A questo punto<br />

l’attenzione del narratore si concentra sulla lotta fra due volontà, quella dell’uomo vecchio e quella<br />

dell’uomo nuovo, che, in sostanza, è la lotta fra la volontà umana e la Grazia. Questa condizione spiega<br />

l’effetto prodotto su di lui da Lucia, che non è solo oggetto della sua compassione, ma portatrice<br />

di una verità eterna, una santa protettrice che dispensa grazie e consolazioni. Eppure al pensiero di Lucia<br />

e della sua innocenza si collega anche l’angoscioso confronto con le proprie azioni, l’analisi della propria<br />

vita che lo conduce alle soglie del suicidio, dal quale si salva solo con la speranza di poter fare del<br />

bene a Lucia. C’è una logica nella successione dei pensieri dell’innominato, ma questo aggrapparsi alla<br />

promessa di un atto di misericordia è un salto sul piano logico; è già un atto di fede. Nessuna visione,<br />

nessuna voce celeste in questa conversione, ma si avverte chiaramente un elemento sovrannaturale, che<br />

opera nell’intimo della coscienza.<br />

Dal tempo della morte al tempo della vita<br />

Ma l’innominato non viene colto solo nel momento della ‘passione’: a lui è concesso di vivere anche<br />

il tempo della «resurrezione»: la sua esperienza non si conclude con la morte; dopo la conversione<br />

si apre per il personaggio un nuovo tempo del vivere, nel quale mettere alla prova - attraverso il pentimento<br />

e l’umiltà di cuore - la sua antica capacità di agire, le doti naturali, che non sono sminuite, ma<br />

accresciute dalla Grazia. Così già al ritorno al castello dopo l’incontro col cardinale, quando raduna<br />

i suoi bravi, il suo occhio ha ripreso la solita espressione d’impero, ma le sue parole sono espressione di<br />

carità. Il personaggio negativo è totalmente recuperato tanto che appare agli altri addirittura come un<br />

santo: i bravi vedevano in lui un santo, ma un di que’ santi che si dipingono con la testa alta e con la spada in<br />

pugno. E anche nel momento dell’invasione dei lanzichenecchi, lo scrittore insiste sulla sua umiltà (Era<br />

quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare e che s’era umiliato da se), come pure sulla sua solitudine (Andava<br />

sempre solo e senz’armi), ma quest’isolamento ha assunto un senso nuovo: corrisponde a un’autopunizione<br />

di chi confida nel perdono di Dio, ma sente di non aver mai espiato abbastanza. L’umiltà si<br />

completa con la carità, che trova il momento più alto quando l’innominato offre un’ospitalità d’eccezione<br />

nel suo castello a tutti i profughi vittime della guerra. La sua intrepida volontà torna ad ispirargli<br />

l’azione, ma essa è, ora, indenne dalla violenza, illuminata dall’amore. Se egli conserva il suo tono naturale<br />

di comando, resta, comunque, sempre disarmato alla testa di quella specie di guarnigione.<br />

Il recupero del personaggio, ormai libero dal male della violenza, non si traduce solo nell’immagine<br />

del santo guerriero, ma anche in quella più intima dell’uomo che intrattiene un perenne dialogo con<br />

Dio e che rinnova, nella preghiera, la sua forza di amare.


4 L’amore fra passione e castità verginale:<br />

da Ermengarda a Lucia<br />

<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

Più volte è stato oggetto di indagine critica il silenzio mantenuto dal Manzoni sui sentimenti e le emozioni amorose<br />

di Lucia, la cui figura è apparsa piuttosto fredda in confronto ad altre celebri eroine romantiche, protagoniste<br />

di amori infelici, ma appassionati. Il problema, per di più, ha assunto un rilievo ancora maggiore in quanto lo<br />

stesso Manzoni, nella sua tragedia «Adelchi», ha tenuto presente l’aspetto passionale dell’amore, creando la<br />

suggestiva figura di Ermengarda, la quale presenta varie analogie con la protagonista del romanzo.<br />

La vittima innocente della sventura<br />

Sia Ermengarda che Lucia, vivono l’esperienza della vittima innocente tradita e perseguitata dalla<br />

sventura: separate dall’uomo oggetto del loro unico amore, rivelano nella sofferenza un animo mite<br />

nel quale non trovano spazio i sentimenti dell’odio e della vendetta. Quando il padre di Ermengarda,<br />

Desiderio, si assume l’impegno di vendicare l’umiliazione da lei subita da parte del marito Carlo, che<br />

l’ha ripudiata, Ermengarda risponde:<br />

O padre,<br />

tanto non chiede il mio dolor; l’obblio<br />

sol bramo;... D’amistà di pace<br />

io la candida insegna esser dovea:<br />

il cielo nol volle! ah! non si dica almeno<br />

ch’io recai meco la discordia e il pianto<br />

dovunque apparvi, a tutti a cui di gioia<br />

esser pegno dovea.<br />

D’altra parte nei Promessi Sposi quando Agnese, ritrovata la figlia, scampata miracolosamente al rapimento,<br />

impreca contro don Rodrigo: «Ah anima nera! ah tizzone d’inferno!... ma verrà la sua ora anche<br />

per lui...», Lucia la interrompe con dolcezza ma con determinazione: «No, no! mamma,; no!... non gli<br />

augurate di patire, non l’augurate a nessuno!... preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi<br />

il cuore, come ha fatto a quest’altro povero signore, ch’era peggio di lui; e ora è un santo». Entrambe le protagoniste<br />

femminili vivono la prova della separazione e della rinuncia all’uomo amato, rivelando un<br />

animo delicato, ma anche una forte tempra di carattere, che le rende capaci di affrontare il «martirio»,<br />

provocato dall’amore, nel silenzio, affidando alla voce del narratore l’espressione dei loro sentimenti.<br />

Entrambe esempio di virtù cristiana, rappresentano un modello ideale, in cui si incarna la concezione<br />

religiosa del vivere del Manzoni.<br />

Diversità fra i due personaggi femminili<br />

Non mancano, però, notevoli diversità fra i due personaggi femminili, dovute anche al diverso genere<br />

letterario nel quale trovano spazio. La protagonista della tragedia è un personaggio di alto rango,<br />

figlia di Desiderio, re dei Longobardi, sposa di Carlo, re dei Franchi, essa si trova coinvolta, senza sua<br />

colpa, nel contrasto politico fra questi due personaggi della storia ufficiale, mentre Lucia è un’umile<br />

contadina, inserita nella realtà quotidiana del suo borgo. Anche sul piano dell’intreccio emergono sostanziali<br />

divergenze. Ermengarda è ripudiata, ma soprattutto tradita dal marito, che nasconde dietro la<br />

ragion di stato il distacco da lei, ma in realtà le preferisce un’altra donna, Ildegarde. Lucia, invece, è<br />

costretta a distaccarsi da Renzo a causa dell’infame passione di don Rodrigo e rinuncia all’amore per lui<br />

di sua volontà, quando si assume l’impegno del voto di castità, nella notte trascorsa al castello dell’innominato.<br />

Dell’amore di Renzo, che non intende affatto mettersi il cuore in pace, Lucia è sempre sicura,<br />

anche se proprio questo accresce il suo contrasto interiore. Diverso l’epilogo delle due vicende: quella


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

di Ermengarda si conclude, come si conviene ad un’opera tragica, con la morte, ma proprio la morte<br />

rappresenta per l’«eroina» un approdo di pace, l’inizio di una nuova vita:<br />

Così<br />

dalle squarciate nuvole<br />

si svolge il sol cadente,<br />

e, dietro il monte, imporpora<br />

il trepido occidente:<br />

al pio colono augurio<br />

di più sereno dì.<br />

La storia di Lucia si conclude, invece, con il «lieto fine» del matrimonio, che rappresenta il ritorno<br />

alla normalità, con le sue beghe quotidiane, ma illuminate dalle gioie della vita familiare. La diversità di<br />

questi due epiloghi non è, del resto, dovuta alle scelte imposte dal genere tragico e da quello romanzesco.<br />

È vero piuttosto il contrario: Manzoni abbandona la tragedia, in quanto essa non corrisponde<br />

più al suo modo di intendere e interpretare la realtà, soprattutto per quanto si riferisce al mistero della<br />

sofferenza, in particolare della creatura innocente. Ermengarda, sia pur pia, tenera, in sostanza incolpevole,<br />

appartiene alla rea progenie degli oppressori<br />

cui fu prodezza il numero,<br />

cui fu ragion l’offesa,<br />

e dritto il sangue, e gloria<br />

il non aver pietà...<br />

La sofferenza, che la consuma e la conduce alla morte, la riscatta dai privilegi, di cui, se non per sua<br />

scelta, ha goduto; la rende uguale alle tante donne che hanno patito, ignote vittime della storia; la trasferisce<br />

fra le schiere degli oppressi, purificandola dalla «colpa originale» del potere. La sua sventura è,<br />

pertanto, provida perché la conduce, attraverso il dolore, alla salvezza:<br />

te collocò la provida<br />

sventura infra gli oppressi:<br />

muori compianta e placida;<br />

scendi a dormir con essi...<br />

Nel romanzo questa soluzione, un po’ esterna e meccanica, è superata: la sofferenza della vittima<br />

innocente resta un mistero, ma la Provvidenza diviene una forza interìore, che sostiene l’uomo nel<br />

suo scontro col male e lo rende capace di affrontare le prove, che incontra nel suo umano cammino.<br />

Proprio a Lucia sono affidate, nella conclusione, parole illuminanti su questo tema. Alle affermazioni<br />

fra saccenti e ingenue di Renzo, che sostiene di aver imparato tante cose, Lucia, infatti, interviene dicendo:<br />

«E io, cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar<br />

me...». E poi, con Renzo, arriva ad affermare che la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita<br />

migliore.<br />

L’amore - passione nella tragedia<br />

La trasformazione più interessante, che emerge dal confronto fra Ermengarda e Lucia, riguarda il<br />

modo diverso in cui l’autore affronta il tema amoroso. Nell’«Adelchi» infatti, anche se non affidato direttamente<br />

alla protagonista, compare il motivo dell’eros, dell’amore-passione. Quando apprende dalla<br />

sorella che Carlo non la ama più, avendola sostituita con Ildegarde, Ermengarda cade in delirio e, finalmente,<br />

svela la natura profonda della sua pena:<br />

Amor tremendo è il mio.<br />

Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora<br />

non tel mostrai; tu eri mio: secura<br />

nel mio gaudio io tacea; né tutta mai


questo labbro pudico osato avria<br />

dirti l’ebbrezza del mio cor segreto.<br />

<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

Ed anche nel ‘Coro’, che chiude la scena, tornano insistenti le allusioni ai terrestri ardori, ai ricordi delle<br />

gioie amorose (gli irrevocati dì) e all’ebbrezza della felicità amorosa che turbano la fantasia di Ermengarda,<br />

alla vampa assidua che la tormenta, quando dal tenue obblio torna immortale l’amor sopito.<br />

La situazione ha senza dubbio un’origine letteraria, che risale sia al mito di Arianna abbandonata da<br />

Teseo, sia a quello di Didone abbandonata da Enea, sia a quello di Armida abbandonata da Rinaldo:<br />

anche lo stile solenne della poesia risente l’eco della tradizione classica. Nel motivo si inserisce però<br />

un elemento tutto manzoniano: la sofferenza di Ermengarda non consiste nel rimpianto della felicità<br />

perduta, ma nel doloroso sforzo di sollevarsi dalla sfera dell’amor profano in quella di una pura, totale<br />

consacrazione a Dio.<br />

La trasformazione del tema amoroso nel romanzo<br />

Se comunque nella tragedia, che è un genere ‘alto’, nel quale la tradizione ha un forte peso, Manzoni<br />

può ancora accettare il motivo dell’amore-passione, nel genere nuovo e ‘popolare’ del romanzo si sente<br />

libero di esprimere l’argomento in una maniera rinnovata. Così nei Promessi Sposi il tema dell’amore,<br />

che anima l’intera storia di Lucia, non da luogo a sfoghi appassionati, a scene fortemente emotive, ma<br />

si esprime attraverso la pudica riservatezza o addirittura il controllato silenzio della protagonista.<br />

L’amore di Lucia non si ispira a precedenti modelli letterari, bensì è un amore reale, difeso dal silenzio<br />

perché non perda la sua innocenza. Eppure l’attaccamento profondo a Renzo torna a emergere più<br />

volte nel corso delle varie vicende: davanti a Gertrude, ad esempio, Lucia osa affermare: «quel giovane<br />

che mi discorreva» e qui diventò rossa rossa «lo prendevo io di mia volontà». Quando a Monza, in convento,<br />

giunge la notizia dei guai in cui è coinvolto Renzo a Lucia ch’era a sedere... cadde il lavoro di mano; impallidì,<br />

si cambiò tutta...<br />

E quando, vicina a disperare, formula il voto alla Madonna, la fanciulla Si ricordò di quello che aveva di<br />

più caro, per offrirlo alla Vergine.<br />

Ma proprio il voto, dopo la liberazione provoca in lei costernazione, ... ribollimento di pensieri, rammarico.<br />

E nel momento in cui raccomanda ad Agnese di dividere con Renzo i cento scudi, dono dell’innominato,<br />

Lucia ringraziò la madre con un affetto da far capire a chi l’avesse osservata, che il suo cuore faceva ancora<br />

a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse.<br />

Ma più di tutto i sogni e le memorie rivelano l’intensa delicatezza di questo amore. Nel primo distacco<br />

dal paese, dopo il fallito tentativo del matrimonio, Lucia contempla quella che doveva essere la<br />

sua casa di sposa: Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza<br />

rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. E, soprattutto, a Milano in<br />

casa di donna Prassede, Lucia combatte dolorosamente con le memorie, che non l’abbandonano: non<br />

desiderava più altro, se non che (Renzo) si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse<br />

a dimenticarla... Quell’immagine s’introduceva di soppiatto dietro alle altre... con tutte le persone, in tutti i<br />

luoghi, in tutte le memorie del passato colui si veniva a ficcare... Il non pensare a lui era un’impresa disperata... le<br />

rimembranze, compresse a forza, si svolgevano in folla. Mai comunque ai gesti e ai pensieri di Lucia si collega<br />

il motivo dell’eros o tanto meno delle fantasticherie morbose; il pudore è una virtù che ha plasmato la<br />

profondità del suo animo e si riflette anche nella sua immaginazione.<br />

Lo scrittore, dunque, opera una profonda trasformazione nello svolgere questo tema: egli si stacca<br />

dalla tradizione, che dava la preferenza ad una poesia che avesse per oggetto il sogno e la contemplazione<br />

del bello e vi sostituisce l’indagine del reale.<br />

Rinuncia, poi, alla esaltazione della passione amorosa, perché avverte il rischio per il lettore di lasciarsi<br />

affascinare e di non riuscire, pertanto, a sollevarsi a sentimenti più alti e più puri. Quando, infatti,<br />

l’amore-passione ricompare nei Promessi Sposi esso appartiene decisamente alla zona del male, la<br />

zona di Gertrude.<br />

Esso traspare dalle fantasticherie morbose della giovane educanda e ispira, poi, il colpevole rapporto<br />

della donna consacrata a Dio con Egidio, che arriva fino al delitto. Quella di Gertrude è una condizione<br />

di peccato, ben lontana dalle sofferte memorie di Ermengarda: in tal modo l’eventuale fascino dell’evento<br />

romanzesco viene annullato e il lettore viene orientato verso un limpido giudizio morale.


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

5 Personaggi storici e personaggi di invenzione nella violenza<br />

della guerra<br />

La conversione religiosa pone al centro del pensiero del Manzoni i valori della giustizia e della carità, cardini<br />

della morale cristiana, e lo conduce a giudicare la politica, in quanto regno dell’utile, sfera dell’egoismo, che si<br />

traduce in subdole trame e in violenza che trovano il loro culmine nella guerra. Così dai suoi testi non emergono<br />

i trionfi delle «itale glorie» come avviene, ad esempio, nei «Sepolcri» di Foscolo, ma prende forma la miseria<br />

della storia italiana, vista come antefatto della situazione presente.<br />

Rifiuto della tradizione epica<br />

La tradizione eroica propria del modello classico viene abbandonata e arrovesciata dal Manzoni: per<br />

lui i Romani sono stati un popolo violento, che ha oppresso con superbia e disprezzo le genti sottoposte<br />

al suo potere. Alla concezione aristocratica e individualistica della storia egli sostituisce l’interesse<br />

per i vinti, per le masse ignorate dalla storia ufficiale. In coerenza con questa prospettiva cambia anche<br />

il suo modo di concepire e rappresentare il tema della guerra: nella cultura classica esso ha ispirato l’epopea<br />

di poemi come l’«Iliade» e, successivamente, la rappresentazione eroica e leggendaria dei poemi<br />

cavallereschi fino alla «Gerusalemme liberata». Secondo questa prospettiva nella guerra si sono realizzati<br />

valori essenziali come il coraggio individuale e collettivo, l’amore di patria, il prestigio della stirpe, il<br />

primato della stessa fede religiosa.<br />

Manzoni capovolge questa visione: per lui la guerra è solo frutto di irrazionalità; nasce dalla brama<br />

di potere che esaspera la malvagità degli individui; dietro l’apparenza della prodezza si celano le trame<br />

tortuose dei politici. E la guerra non frutta gloria; porta soltanto lutto, dolore coinvolgendo vittime<br />

inermi, masse popolari che restano vittime dell’ingiustizia senza poterne capire il perché. In questo<br />

senso Manzoni è il primo a illustrare nella nostra letteratura la ferocia, lo spessore tragico e perfino demoniaco<br />

del potere ingiusto.<br />

Il tema della guerra nelle due tragedie<br />

II tema della guerra, però, non compare solo nel romanzo, ma assume una sua forte presenza già<br />

nelle due tragedie storiche («Il Conte di Carmagnola» e l’»Adelchi»), le quali hanno il loro nucleo essenziale<br />

nel contrasto che si verifica tra l’individuo che tende a valori positivi (la lealtà, l’onore, la giustizia)<br />

e la forza negativa del potere, che lo distrugge.<br />

Questo contrasto emerge da due vicende che hanno come soggetto due guerre: quella tra Venezia<br />

e Milano nel «Carmagnola», quella tra Longobardi e Franchi nell’«Adelchi». Al di là dello svolgersi<br />

dell’azione il poeta trova modo di esprimere la sua dolente meditazione e la sua condanna nei ‘Cori’,<br />

che assumono un significato superiore alla situazione contingente e che si dilata in un appello al valore<br />

universale della non-violenza.<br />

Nel ‘Coro’, che chiude il secondo Atto del «Conte di Carmagnola» e che si ispira alla battaglia di<br />

Maclodio, all’apparenza spettacolare della battaglia (squilli di tromba, spiegarsi di colorate bandiere,<br />

avanzare di intrepide milizie) si contrappone subito la realtà orribile della violenza:<br />

...già le spade respingon le spade;<br />

l’un dell’altro le immerge nel seno;<br />

gronda il sangue, raddoppia il ferir.<br />

La riflessione è resa più amara dal fatto che in questi combattenti manca ogni motivazione ideale, sia<br />

pure illusoria; i due eserciti, infatti, sono costituiti (come le bande dei lanzichenecchi che compaiono<br />

nel romanzo) da truppe mercenarie, che combattono solo per denari:


Del conflitto esecrando<br />

la cagione esecranda qual’è?<br />

Non la sanno: a dar mone, a morire<br />

qui senz’ira ognun d’essi è venuto;<br />

e venduto ad un duce venduto,<br />

con lui pugna ed ignora il perché.<br />

<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

E la tensione drammatica del ‘Coro’ cresce quando il poeta richiama l’orrore della guerra fratricida:<br />

I fratelli hanno ucciso i fratelli:<br />

questa orrenda novella vi do.<br />

La storia passata è vista dallo scrittore nella prospettiva del presente: ancora perdura, nel suo tempo,<br />

il particolarismo cioè il prevalere dell’interesse locale delle varie regioni italiane su quello nazionale, che<br />

favorisce gli interessi politici degli stranieri.<br />

Ma nella conclusione il ‘Coro’ trascende l’analisi e la valutazione delle circostanze storiche per dilatarsi<br />

a una riflessione di carattere universale, ispirata dalla prospettiva religiosa dell’autore<br />

Tutti fatti a sembianza d’un Solo,<br />

figli tutti d’un solo Riscatto,<br />

in qual’ora in guai parte del suolo,<br />

trascorremmo quest’aura vital<br />

siam fratelli; siam stretti ad un patto.<br />

Allo spettacolo devastante della guerra si contrappone la speranza dell’amore che si traduce in spinta<br />

alla solidarietà tra i popoli.<br />

Nel primo ‘Coro’ dell’«Adelchi» (fine Atto terzo) Manzoni affronta un tema centrale della sua meditazione:<br />

la sorte delle masse di uomini comuni - in questo caso il popolo latino che nel secolo VIII<br />

d.C. vive sotto la dominazione longobarda -, che non contribuiscono al determinarsi del corso storico<br />

e che sono ignorati dalla storia ufficiale (un’immensa moltitudine di uomini, una serie di generazioni, che passa<br />

sulla sua terra, inosservato, senza lasciare traccia. «Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica»). È<br />

un primo accenno al suo interesse per gli umili, quella gente di nessuno, che sarà al centro del romanzo.<br />

Ma, al di là di questa prospettiva, un altro tema regge questa pagina lirica: la vanità delle illusioni di<br />

quanti confidano nella guerra come strumento di gloria o di liberazione. Sono illusi di mantenere per<br />

sempre il predominio in Italia i Longobardi, che si vedono sconfitti dai Franchi; sono illusi di trovare<br />

gloria e felicità nella guerra di conquista i Franchi, che tralasciano, in vista di una gloria fugace, valori<br />

più autentici.<br />

Lasciar nelle sale del tetto natio<br />

le donne accorate, tornanti all’addio,<br />

a preghi e consigli che il pianto troncò:<br />

han carco la fronte de’ pesti cimieri,<br />

han poste le selle sui bruni corsieri,<br />

volaron sul ponte che cupo sonò.<br />

In apparenza i Franchi sembrano protagonisti di un’epopea cavalleresca, ma la guerra si rivela per<br />

loro un seguito di rinunce, di disagi, di rischi, di progressiva disumanizzazione. Le similitudini ferine<br />

accomunano vinti e vincitori, i Longobardi, divenuti ormai preda inerme e i Franchi, visti come inseguitori<br />

famelici:<br />

Ansanti li vede quai trepide fere,<br />

irsuti per tema le fulve criniere...<br />

E sopra i fuggenti con avido brando,<br />

quai cani disciolti, correndo, frugando da ritta,<br />

da manca guerrieri venir...


<strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

Ma nemmeno l’inerzia del volgo disperso che nome non ha è un alibi morale di fronte alla violenza,<br />

in quanto alla violenza non basta rispondere con la passività, ma occorre contrap-porle quella non-violenza,<br />

che nel romanzo si traduce nell’azione illuminata dallo Spirito della carità (in padre Cristoforo,<br />

nel cardinale, nell’innominato). Così se la pena del poeta per i Longobardi nel momento in cui divengono<br />

oppressi<br />

... deposta l’usata minaccia,<br />

le donne superbe con pallida faccia,<br />

i figli pensosi, pensose guatar<br />

preannuncia il tema del recupero morale degli oppressori attraverso la sofferenza. Il monito ai Latini<br />

inerti che sperano di ottenere dall’azione violenta degli altri la propria salvezza anticipa la condanna<br />

della neutralità disarmata di don Abbondio, e, inoltre, comprende un nuovo richiamo al presente risorgimentale,<br />

all’illusione di quanti confidano che il problema italiano si risolva col solo intervento di<br />

forze straniere.<br />

Il tema della guerra fra ironia e dramma nel romanzo<br />

Nei Promessi Sposi il tema della guerra torna nuovamente con un certo rilievo e tornano, sostanzialmente,<br />

i motivi che esso ha ispirato nelle tragedie: la denuncia delle trame subdole dei politici, della<br />

vanità del tempo speso nelle azioni belliche, il richiamo all’assenza della gloria e, invece, al dilagare della<br />

violenza a danno degli individui e dei popoli incolpevoli.<br />

Siamo ancora una volta in un momento negativo della storia italiana. In pieno Seicento (1628-1630)<br />

il ducato di Milano è sottoposto alla dominazione spagnola, quando nel giro di poco tempo si abbattono<br />

su di esso tre flagelli: la carestia, la guerra per la successione del Monferrato e la peste.<br />

L’argomento della guerra torna più volte nel corso del romanzo, ma, diversamente dalle tragedie,<br />

in cui, per fedeltà ai modi tipici di un genere letterario «alto», che Manzoni non si sente di infrangere,<br />

domina in modo omogeneo un solo modello espressivo solenne, all’interno dei Promessi Sposi variano<br />

la prospettiva e il registro stilistico.<br />

Al lessico proprio del resoconto storico si alterna il linguaggio quotidiano, al tono drammatico si<br />

contrappone quello ironico. Con questa sostanziale novità: l’ironia ha per oggetto i personaggi della<br />

storia ufficiale, i loro piani, i risultati fallimentari delle loro azioni, sottoposti a una critica demolitrice<br />

da parte del narratore; mentre il tono drammatico corrisponde alle rappresentazioni delle distruzioni,<br />

del saccheggio, dei lutti subiti dagli inermi abitanti del territorio lombardo invaso dai lanzichenecchi.<br />

Questo arrovesciamento nell’uso tradizionale dello stile corrisponde alla convinzione dello scrittore che<br />

il popolo è il vero protagonista della storia, in quanto portatore di positivi valori morali.<br />

La demolizione ironica dei politici<br />

Già nel corso del banchetto al palazzotto di don Rodrigo, dopo un accenno del narratore ai raggiri<br />

diplomatici che preludono alla guerra per la successione di Mantova, il tema compare nella gustosa sceneggiatura<br />

della disputa sull’argomento fra il conte Attilio e il podestà: una disputa che dà luogo a una<br />

vera parodia di un dibattito politico, nel quale con i nomi spesso storpiati compaiono i protagonisti del<br />

potere in Europa, dal papa all’imperatore, dal conte duca d’Olivares al cardinale di Richelieu: «Quel<br />

pover’uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fìuta di là, suda, s’ingegna: e poi? quando gli è riuscito di scavare<br />

una mina, trova la contrammina già bell’e fatta dal conte duca...» (è il podestà che parla).<br />

Ma è all’inizio del capitolo XXVII che il narratore deliberatamente sospende il racconto per dare un<br />

resoconto puntuale della situazione politica europea e dell’attività bellica concernente l’assedio di Casale.<br />

Nelle notizie si inseriscono i commenti ironici sulla ingiustizia di tutte le guerre (perché le guerre fatte<br />

senza ragione sarebbero ingiuste), sulla realtà ben poco gloriosa dell’attività militare (don Gonzalo... non ci<br />

trovava tutta quella soddisfazione che s’era immaginato: che non credeste che nella guerra sian tutte rose).<br />

Il resoconto si conclude con la riflessione, anch’essa venata di ironia, sulla vacuità crudele della guerra:<br />

Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse così, a trovarla bellissima, se<br />

fu cagione che in quell’impresa fosse restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e ceteris paribus,<br />

anche soltanto un po’ meno danneggiati i tegoli di Casale.


0 <strong>Percorsi</strong> <strong>tematici</strong> ● Il personaggio<br />

L’effetto che emerge dalla pagina è che il tempo della diplomazia e della guerra è un tempo inutile<br />

che scorre in modo faticoso e inconcludente, tanto più che la vicenda finirà col riconoscimento del<br />

nuovo duca di Mantova, quel Carlo di Nevers per escludere il quale la guerra era stata intrapresa.<br />

L’ironia ritorna nel brontolio di don Abbondio che, costretto dalla guerra ad abbandonare la quiete<br />

della sua canonica, se la prende con i responsabili della politica. La comicità questa volta nasce dalla<br />

sproporzione fra il piccolo orizzonte del curato e il flagello che coinvolge l’intera Europa. Eppure proprio<br />

a lui il narratore affida un’amara verità. «Bisognerebbe» diceva,«che fossero qui que’ signori a vedere, a<br />

provare, che gusto è. Hanno da rendere un bel conto! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa.»<br />

La pena commossa per le vittime innocenti<br />

II tono cambia quando l’attenzione del narratore coglie gli effetti prodotti dalla guerra, mettendo in<br />

scena la popolazione, che è costretta a subirli, ad esempio i contadini accorsi in città: Alcuni che, invase e<br />

spogliate le loro case dalla soldatesca, ... n’erano fuggiti disperatamente... Il ritorno della narrazione si fa incalzante<br />

quando descrive la fuga affannosa degli abitanti su per i monti, la velocità del dilagare dei soldati,<br />

che ricorda l’incalzare dei Franchi nel Coro dell’Adelchi’, la furia del saccheggio e della distruzione.<br />

L’effetto fonico di quel maledetto suon di trombe introduce un tono leggendario che trova poi voce<br />

nella fantasia popolare, la quale esprime lo stupefatto terrore dilagante tra la gente: vengono; son trenta,<br />

son quaranta, son cinquantamila; son diavoli, son ariani, sono anticristi... L’avvenimento non è visto in modo<br />

astratto, ma aderisce concretamente alla vita degli umili, segnalando i disastrosi effetti del passaggio dei<br />

lanzichenecchi nelle campagne e nei paesi attraversati da don Abbondio con Perpetua e con Agnese nel<br />

ritorno verso casa, che si conclude con la scena della canonica saccheggiata.<br />

Da non trascurare che in tanto subbuglio, in simile disastro un soccorso alle popolazioni così colpite<br />

non viene dalle istituzioni, ma dall’intervento volontario di un santo laico, l’innominato, che accoglie<br />

i profughi, allontana il pericolo di incursioni da parte di soldati sbandati.<br />

Così come nella carestia e nella peste a Milano i preti organizzati dal cardinale e i cappuccini nel<br />

lazzeretto sono i soli portatori concreti di una fattiva solidarietà.<br />

Anche da questo tema emerge dunque il fondersi del pessimismo storico e della speranza nel bene<br />

operante nelle coscienze e, d’altra parte, - come già segnalato a proposito dei cori tragici - affiora un<br />

preciso riferimento alla situazione politica presente. Manzoni comincia il romanzo subito dopo il fallimento<br />

dei moti del 1821; nel momento in cui la borghesia liberale subisce una battuta d’arresto nella<br />

sua lotta di liberazione, lo scrittore ricerca nel passato le ragioni dell’arretratezza in cui si trova l’Italia<br />

presente e attraverso la sua polemica costruttiva offre agli Italiani il modello di una società futura per<br />

la quale operare.

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