Giulio Angioni, Alba dei giorni bui - Sardegna Cultura

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12.06.2013 Views

è rotolato sul fondo del tiretto e mi è sembrato il terribile rumore… sì, di una siringa, di quelle di Carlo, o di babbo, o di tutti e due. Era di Carlo, sì, ma non una siringa: era la sua penna, la sua penna di marca, una penna antica. Io gliel’avevo regalata alla maturità, passata a pieni voti, con grandi speranze e molti orgogli. È una penna d’oro. Da una penna così Carlo avrebbe ricavato chissà quante dosi. Ma stava ancora lì, come le vecchie maschere, le pinne e le mute per l’apnea profonda, vecchi flaconi di collirio, di quelli che sapevo mettergli bene solo io negli occhi, prima di ogni sprofondo. Una penna dimenticata? O invece proprio conservata? Sto usandola per scrivere queste mie pagine, forse da fare avere a un vecchio amico, addetto ai lavori dei delitti e delle pene, su ciò che ho fatto io e ha ucciso Carlo. Forse per informare meglio Valentina, laggiù agli antipodi, dove sta per finire sistemata, temo, e un poco spero, anche. Lei al mio telegramma su Carlo ha risposto con un altro telegramma: Condoglianze stop. Poi ogni volta che le ho scritto, in queste settimane, non ho saputo fare di meglio che girare intorno all’idea che ormai lei può tornare in questa casa. E ho strappato i fogli. È che non sopporto l’idea che quando guardo avanti, Carlo non c’è più. Carlo ce l’ho ancora nel mio cellulare. Certe volte compare, non ce la faccio e premo il tasto, aspetto, e mi ricordo quanto odiavo prima quell’attesa, o la risposta bilingue che il cliente chiamato non è raggiungibile at the moment. 228 L’ho invitato a cena ed è venuto questo nostro vecchio amico di famiglia, il giudice in pensione che ha comprato la nostra cassapanca antica frauense, lui che sa apprezzarla, lui ch’è un amico di famiglia, e frauense anche lui, compagno di partite di pesca con mio padre, e tifoso di Carlo apneista. Dopo cena siamo passati un po’ in soggiorno, dove avevo dell’altro da servirgli. L’ho fatto accomodare qui di fronte a me, bicchieri in mano. Dovevo stargli di fronte, dopo che per due volte mi ha invitato al tu, lui che i pizzicotti da bambina me li dava sulle gote. Ma al proprio giudice nessuno dà del tu, gli ho detto, dopo avere bevuto un sorso di coraggio, mentre mi ricordavo anche le setole della sua barba sul mio viso di bambina. Chissà quanto impara un giudice da quelli che giudica e condanna. A me sembrava di avere voce in capitolo, per lui, anche se mi è diventato subito chiaro che il mio delitto è impermeabile a quel tipo di giustizia: che il mio è un delitto perfetto, di quelli femminili di Gonaria l’Orecchiona. E io gliel’ho trasmessa, al mio vecchio giudice, la sapienza antica di Gonaria l’Orecchiona, le cose che diceva con logica gelida su in pianerottolo a mia mamma, che sembravano scuse e invece sono pesi. Uno che ha fatto il giudice per quarant’anni sa più di me che devo avere un giudice, e confessare a un giudice. Gliel’ho sentito argomentare tante volte, a lui e pure a babbo, che tutti vogliamo essere giudicati in questa vita, 229

è rotolato sul fondo del tiretto e mi è sembrato il terribile<br />

rumore… sì, di una siringa, di quelle di Carlo, o di babbo,<br />

o di tutti e due.<br />

Era di Carlo, sì, ma non una siringa: era la sua penna,<br />

la sua penna di marca, una penna antica. Io gliel’avevo<br />

regalata alla maturità, passata a pieni voti, con grandi<br />

speranze e molti orgogli. È una penna d’oro. Da una penna<br />

così Carlo avrebbe ricavato chissà quante dosi. Ma stava<br />

ancora lì, come le vecchie maschere, le pinne e le mute<br />

per l’apnea profonda, vecchi flaconi di collirio, di quelli<br />

che sapevo mettergli bene solo io negli occhi, prima di<br />

ogni sprofondo. Una penna dimenticata? O invece proprio<br />

conservata?<br />

Sto usandola per scrivere queste mie pagine, forse da fare<br />

avere a un vecchio amico, addetto ai lavori <strong>dei</strong> delitti e<br />

delle pene, su ciò che ho fatto io e ha ucciso Carlo. Forse<br />

per informare meglio Valentina, laggiù agli antipodi, dove<br />

sta per finire sistemata, temo, e un poco spero, anche.<br />

Lei al mio telegramma su Carlo ha risposto con un altro<br />

telegramma: Condoglianze stop. Poi ogni volta che le ho<br />

scritto, in queste settimane, non ho saputo fare di meglio<br />

che girare intorno all’idea che ormai lei può tornare in<br />

questa casa. E ho strappato i fogli. È che non sopporto l’idea<br />

che quando guardo avanti, Carlo non c’è più. Carlo ce<br />

l’ho ancora nel mio cellulare. Certe volte compare, non ce<br />

la faccio e premo il tasto, aspetto, e mi ricordo quanto<br />

odiavo prima quell’attesa, o la risposta bilingue che il<br />

cliente chiamato non è raggiungibile at the moment.<br />

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L’ho invitato a cena ed è venuto questo nostro vecchio<br />

amico di famiglia, il giudice in pensione che ha comprato<br />

la nostra cassapanca antica frauense, lui che sa apprezzarla,<br />

lui ch’è un amico di famiglia, e frauense anche lui,<br />

compagno di partite di pesca con mio padre, e tifoso di<br />

Carlo apneista.<br />

Dopo cena siamo passati un po’ in soggiorno, dove avevo<br />

dell’altro da servirgli. L’ho fatto accomodare qui di<br />

fronte a me, bicchieri in mano. Dovevo stargli di fronte,<br />

dopo che per due volte mi ha invitato al tu, lui che i pizzicotti<br />

da bambina me li dava sulle gote.<br />

Ma al proprio giudice nessuno dà del tu, gli ho detto,<br />

dopo avere bevuto un sorso di coraggio, mentre mi ricordavo<br />

anche le setole della sua barba sul mio viso di bambina.<br />

Chissà quanto impara un giudice da quelli che giudica e<br />

condanna. A me sembrava di avere voce in capitolo, per<br />

lui, anche se mi è diventato subito chiaro che il mio delitto<br />

è impermeabile a quel tipo di giustizia: che il mio è un<br />

delitto perfetto, di quelli femminili di Gonaria l’Orecchiona.<br />

E io gliel’ho trasmessa, al mio vecchio giudice, la<br />

sapienza antica di Gonaria l’Orecchiona, le cose che diceva<br />

con logica gelida su in pianerottolo a mia mamma, che<br />

sembravano scuse e invece sono pesi.<br />

Uno che ha fatto il giudice per quarant’anni sa più di<br />

me che devo avere un giudice, e confessare a un giudice.<br />

Gliel’ho sentito argomentare tante volte, a lui e pure a<br />

babbo, che tutti vogliamo essere giudicati in questa vita,<br />

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