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Giulio Angioni, Alba dei giorni bui - Sardegna Cultura

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Voglio che sia l’ultima, per tutti e due?<br />

No, non voglio più che sia l’ultima volta, se prima l’ho<br />

voluto veramente.<br />

Corro al telefono e chiamo un’ambulanza.<br />

Gli schizzo in vena il farmaco antagonista.<br />

E allora forza, Carlo, sveglia, un respiro profondo,<br />

uno di quelli col diaframma e torna tutto a posto, forza,<br />

profondo e calmo, piano piano, forza Carlo, una bella<br />

ossigenazione, un’iperventilazione ci facciamo, forza<br />

che ci siamo, così, dài, su col diaframma…<br />

Arriva l’ambulanza e io l’ho già portato giù fino al<br />

portone, solo con le mie forze. Ha un corpo leggero e<br />

tiepido. Lo lascia scivolare una sola volta giù lungo il<br />

mio corpo, meccanicamente, per farlo sedere un attimo<br />

sulla cassapanca del vestibolo che ormai non c‘è<br />

più; poi su per la mezza rampa, giù per l’ascensore, giù<br />

per lo scalone, sotto al riparo dalla pioggia che si avventa<br />

ancora sulle case, con scrosci di frecce appuntite a<br />

bucare l’asfalto.<br />

Lì Carlo si perde in convulsioni, mi vomita addosso.<br />

Prima che arrivino quelli del 118 l’ho già ripulito. E vomita<br />

addosso a un infermiere, che gli molla un pugno<br />

per reazione, o forse per riscuoterlo, mi spiega poi. Ma<br />

sì forza andiamo.<br />

Prima che i lettighieri richiudano il portellone posteriore<br />

dell’ambulanza faccio in tempo a intravedere Gonaria<br />

l’Orecchiona che si affaccia dal portone di casa<br />

avvolta in scialli scuri.<br />

216<br />

Sembra che mi muoia in ambulanza, già nel cortile laterale<br />

del pronto soccorso.<br />

Continua a piovere. Io gli dico cose. Lui sembra capire.<br />

Non mi risponde. Poi mi riesce a dire: – Grazie, sorella.<br />

Mai mi è stato grato, prima. Mi è grato adesso. Di che<br />

cosa mi è grato adesso Carlo, tra le cose che io gli ho fatto<br />

questa sera?<br />

– Carlo, ci salveremo, lo sai…<br />

Non so se mi capisce. Lo stanno già portando via, su<br />

una barella faticosa, pasticciando e parlando di sfinteri<br />

non più controllati, di sala di rianimazione: – Se no ci<br />

esce di scena, questo qui, – dice uno, già dentro l’edificio<br />

neoclassico, giallo di carie e grigio di vecchiaia.<br />

Io rimango lì come nessuno a ricordarmi il nonno livornese,<br />

il terribile nonno Giuseppe nato senza angelo<br />

custode, famoso per le cattiverie che diceva, spesso col<br />

pregio della verità, nonno Giuseppe con le lacrime agli<br />

occhi davanti alla doppia culla <strong>dei</strong> gemelli con nastrini<br />

rosa e celesti: – Tu guarda, nasce un bambino e tu t’illudi<br />

ancora che la vita non è più questa tagliola che ci<br />

ha preso. – E lo diceva a me, e l’ha sentito babbo e l’ha<br />

sgridato e il nonno ha detto che a me quello che diceva<br />

lui non poteva fare né caldo né freddo. Quel giorno<br />

era freddo. Sono uscita fuori a domandarmi se le parole<br />

del nonno sui bambini e sulla vita a tagliola mi faceva<br />

caldo o freddo e mi pareva che mi facesse tutti e<br />

due, caldo e freddo.<br />

217

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