Giulio Angioni, Alba dei giorni bui - Sardegna Cultura

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12.06.2013 Views

della belva, lui resisteva un poco, poi cedeva al riso e doveva anche mangiare, ahhhm! È in me che adesso Carlo si trasforma. Carlo diventa Alba, quell’Alba lì di quando recitavo la mia parte di nutrice, con tutte le moine, le paroline sante e i visi e i giochi delle parti. No, questo non me l’aspettavo. Troppo nuovo. Non ci credo, fa un male mai sentito, mi sento perduta come forse succede con il malcaduco: non più in mamma e babbo o in un se stesso di altre età, è in me che si trasforma Carlo lì davanti a me, rifà un me guasto, sono e non sono io ma sono spaventosa, faccio schifo e pena. No Carlo no questo non dovevi farlo. Questo non lo sopporto. Mi piego sullo stomaco. Lui va avanti così, Carlo fatto Alba, tende l’indice alla mia faccia, qui, alla mia guancia: – Lì ci hai una macchia di cacao, uhm buona, fammela leccare! – come facevo io con lui perché il neo sulla guancia ce l’ha lui, come l’aveva mamma, e io glielo leccavo, ma prima recitavo la voglia di leccarlo, poi la soddisfazione a schiocchi della lingua, uhmm! Miliardi di anni fa. Lo fa per la dose, come già ieri e l’altro ieri: – Solo una botta piccola, per continuare a uscirne. – Al solito. L’automatismo dell’insetto. Solo però che adesso Carlo è Alba, con quei gesti antichi e le parole biascicate. Alba ne deve uscire. Finirò chissà dove ma ne devo uscire. Subito. Sento che per riuscire a respirare devo stare al gioco. Se Carlo è me io sono Carlo. Se Carlo ha 200 bisogno della dose, Alba ha bisogno della dose. Sono Carlo. Eccomi, sono pronta. Devo uscirne anch’io: tutto farei adesso per fuggire via da questo me stessa mostruoso. Sono decisa, non so bene a cosa, ma decisa. Non ce la faccio più, sì, mi manca l’aria, bisogna respirare, subito: fuggire via, da questo male indiavolato che ti spacca l’anima. Allungo il braccio, gli faccio solo il gesto di aspettare. Prendo me stessa e vado. Mi fermo fuori della sua stanza, spalle al muro. Mi manca ogni terreno sotto i piedi. Vertigine e nausea. Fermati, rifletti. Ma penso solo che se c’è una qualche novità, in Carlo è una replica stantia. E mi toglie l’anima, l’aspetto, quello che sono e ciò che sono stata. Meglio darsi da fare. Di tramiti oramai io ne conosco già diversi, per la roba. E ho già sperimentato pericoli e risorse, esche, trappole, insidie. Ormai nel mondo di Carlo un poco so combattere. Al telefono niente Manintasca, proprio stavolta che devo ritrovarlo, quel nostro reciproco spiacersi, dovunque ci incontriamo, ai giardinetti pubblici, davanti a una chiesa, nel parcheggio allo stadio, come nei brutti film di spionaggio: arrivo, sto aspettando e lui mi sbuca sempre all’improvviso da un luogo imprevisto. 201

della belva, lui resisteva un poco, poi cedeva al riso e<br />

doveva anche mangiare, ahhhm!<br />

È in me che adesso Carlo si trasforma.<br />

Carlo diventa <strong>Alba</strong>, quell’<strong>Alba</strong> lì di quando recitavo<br />

la mia parte di nutrice, con tutte le moine, le paroline<br />

sante e i visi e i giochi delle parti. No, questo non me l’aspettavo.<br />

Troppo nuovo. Non ci credo, fa un male mai<br />

sentito, mi sento perduta come forse succede con il<br />

malcaduco: non più in mamma e babbo o in un se stesso<br />

di altre età, è in me che si trasforma Carlo lì davanti a<br />

me, rifà un me guasto, sono e non sono io ma sono spaventosa,<br />

faccio schifo e pena. No Carlo no questo non<br />

dovevi farlo. Questo non lo sopporto.<br />

Mi piego sullo stomaco. Lui va avanti così, Carlo fatto<br />

<strong>Alba</strong>, tende l’indice alla mia faccia, qui, alla mia<br />

guancia: – Lì ci hai una macchia di cacao, uhm buona,<br />

fammela leccare! – come facevo io con lui perché il neo<br />

sulla guancia ce l’ha lui, come l’aveva mamma, e io glielo<br />

leccavo, ma prima recitavo la voglia di leccarlo, poi la<br />

soddisfazione a schiocchi della lingua, uhmm!<br />

Miliardi di anni fa.<br />

Lo fa per la dose, come già ieri e l’altro ieri: – Solo una<br />

botta piccola, per continuare a uscirne. – Al solito.<br />

L’automatismo dell’insetto. Solo però che adesso Carlo<br />

è <strong>Alba</strong>, con quei gesti antichi e le parole biascicate.<br />

<strong>Alba</strong> ne deve uscire. Finirò chissà dove ma ne devo<br />

uscire. Subito. Sento che per riuscire a respirare devo<br />

stare al gioco. Se Carlo è me io sono Carlo. Se Carlo ha<br />

200<br />

bisogno della dose, <strong>Alba</strong> ha bisogno della dose. Sono<br />

Carlo. Eccomi, sono pronta. Devo uscirne anch’io: tutto<br />

farei adesso per fuggire via da questo me stessa mostruoso.<br />

Sono decisa, non so bene a cosa, ma decisa.<br />

Non ce la faccio più, sì, mi manca l’aria, bisogna respirare,<br />

subito: fuggire via, da questo male indiavolato<br />

che ti spacca l’anima.<br />

Allungo il braccio, gli faccio solo il gesto di aspettare.<br />

Prendo me stessa e vado.<br />

Mi fermo fuori della sua stanza, spalle al muro. Mi<br />

manca ogni terreno sotto i piedi. Vertigine e nausea.<br />

Fermati, rifletti. Ma penso solo che se c’è una qualche<br />

novità, in Carlo è una replica stantia. E mi toglie l’anima,<br />

l’aspetto, quello che sono e ciò che sono stata.<br />

Meglio darsi da fare.<br />

Di tramiti oramai io ne conosco già diversi, per la roba.<br />

E ho già sperimentato pericoli e risorse, esche, trappole,<br />

insidie. Ormai nel mondo di Carlo un poco so<br />

combattere.<br />

Al telefono niente Manintasca, proprio stavolta che<br />

devo ritrovarlo, quel nostro reciproco spiacersi, dovunque<br />

ci incontriamo, ai giardinetti pubblici, davanti<br />

a una chiesa, nel parcheggio allo stadio, come nei brutti<br />

film di spionaggio: arrivo, sto aspettando e lui mi<br />

sbuca sempre all’improvviso da un luogo imprevisto.<br />

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