Giulio Angioni, Alba dei giorni bui - Sardegna Cultura
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no, mai accadute: – Carlo, tu ci pensi molto a babbo e<br />
mamma?<br />
Mi guarda sorpreso. Non parla e sembra babbo colto<br />
in fallo.<br />
– Lo fai apposta?<br />
– Cosa?<br />
Già che cosa? Come dirlo?<br />
– Cosa?<br />
– Cambiare così… queste trasformazioni insomma.<br />
– Io? No. In natura, lo sai, nulla si crea, nulla si distrugge,<br />
tutto si trasforma, eccetto Gonaria l’Orecchiona.<br />
Preferisco i silenzi. Preferisco i silenzi di Carlo. So<br />
come impadronirmi io <strong>dei</strong> suoi silenzi. Lui lo sa. Lui<br />
mi offre i suoi silenzi. Poi mi chiede il prezzo, in contanti.<br />
Perché più niente è necessario. Solo quello.<br />
Mi siedo in casa al <strong>bui</strong>o mentre aspetto Carlo e mi<br />
domando: era così mia madre veramente, ha mai strillato<br />
come adesso Carlo che di mamma rifà la voce e i<br />
gesti e sporca ogni ricordo?<br />
Era così mio padre, così lamentone e sentenzioso come<br />
lo rifà adesso Carlo, ha mai taciuto duro in questo<br />
modo, è uscito cupo ed è rientrato cupo così spesso<br />
quanto Carlo, come se fuori casa non avesse fatto altro<br />
che incupire il malumore?<br />
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Brutte, esagerate, però anche vere, le cose che Carlo<br />
mi reincarna: quelle che <strong>dei</strong> tuoi cari non hai voluto<br />
mai vedere, che devi ignorare e caso mai dimenticare,<br />
che qualche volta hai sospettato in te stesso ereditate.<br />
Ma non è giusto che ritornino così.<br />
Certe volte mi si addossa, Carlo, avido e circospetto,<br />
per ottenere in qualche modo il tanto per la roba: mi si<br />
avvicinava giusto come mamma, la mia mamma già vedova,<br />
vecchia e scombinata, la mamma già dimenticata<br />
in questa sua finale fase di senilità, il viso denudato e<br />
indurito dalla crocchia bianca che le teneva i capelli<br />
sulla nuca come adesso Carlo coi capelli stretti dietro<br />
in una coda di cavallo: Carlo tutto sua madre che mi<br />
spia dall’uscio ed entra nella stanza, un poco vergognosa,<br />
sì, ma troppo bisognosa di sapere, con in mano<br />
una foto ingiallita, rughe che sembrano spasmi di dolore<br />
rappresi, la mia povera mamma che deve sapere,<br />
altrimenti non avrebbe più pace, non dormirebbe più,<br />
non vivrebbe, e mi mostra la foto, come una cosa immonda:<br />
– La conosci, sai chi è?<br />
Guardo la foto: – È la zietta Cecilia di Livorno.<br />
– Eh no, a me non me la fai, è una delle sue donnacce.<br />
– Ma cosa dici, mamma.<br />
– Lo so io cosa dico. Lo so, tu gli tenevi mano, a tuo<br />
padre, lui te ne parlava, te le faceva anche conoscere,<br />
le sue donnacce.<br />
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