Giulio Angioni, Alba dei giorni bui - Sardegna Cultura

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12.06.2013 Views

zombie che girava per casa non cosciente, facendo e dicendo cose che non avevano più niente a che fare con babbo, e poco anche con la sua normale biologia: – Fatemi andare via da tutto questo, – che proprio alla fine non era quasi più nient’altro che una voglia delirante di gelato, al pistacchio, al kiwi, al torroncino, golosità drammatica di panna al cioccolato, al limone, alla fragola, alla nocciola, in cono, in coppa, in bicchiere di carta, in brioscia siciliana, quello del gelataio dell’infanzia sul lungomare di Livorno col triciclo e il fischietto. – O fammi fuori tu, – diceva a mamma muta e barcollante. Così anche Carlo adesso. Solo che lui ne cava un frutto, subito, in contanti. E mi accusa di essere io una pessima controfigura di mamma con i miei adesso basta, ti stai ammazzando, Carlo tieni duro, lascia quella robaccia… Sei noiosa. Ti odio, sì, ti odio. E si rifà com’era da bambino con i suoi capricci da bambino. – Fammi fuori tu, – diceva babbo a mamma, e alla fine anche a me senza distinguermi da mamma. Uno non vorrebbe, non dovrebbe mai ricordare certe cose. E invece le ricorda. Che si ricordino da sé, per forza di reincarnazione? Ma io non li ho già pianti abbastanza morti, babbo e mamma? Io l’ho già fatta dieci e sei anni fa, per babbo e 186 mamma rispettivamente, la fatica del lutto dei miei cari, lutto fiero e tetro, appassionato, come in altri tempi nell’antica Fraus. E lutto in solitudine, dove si dice che ci ritroviamo, e non è vero. Anche Carlo li ha pianti a non finire, babbo e mamma, come un’ingiustizia insopportabile. Si sedeva per terra con la schiena al muro, piangeva con la testa piegata sui ginocchi. Poi zitto e spaventato si afferrava a me, a Valentina, a mamma quando è toccata a babbo, come a volerci trattenere qui. Di tutto questo che cosa ritrovo? Ricordi acuti negli armadi, resti di chi sta sottoterra, scarpe neppure inaugurate. Ogni ricordo è anche un’accusa. Va distrutto tutto, messo sottoterra? È stato un lutto anche efficace, che mi ha insegnato la rassegnazione, il sereno dolore, mi ha reso normale avere anch’io i miei morti in cimitero, nel santuario di casa, morti da ripensare con fiducia. E adesso, che legge genetica, quale ordine dell’universo è stato ritto in questa casa? – Ma la genetica… Eh sì, la genetica è la scienza del futuro, del nuovo millennio, – dice il mio direttore. Devo credergli, gli credo ancora. Molte risposte sono lì, noi al laboratorio le cerchiamo, qualche cosa troviamo, in sinergia planetaria. Ma la genetica…: quel ma, sempre lì davanti, è un ma di rivalsa, perché il nostro progetto di genetica al dipartimento è anche chiacchierato, qui in città, per- 187

zombie che girava per casa non cosciente, facendo e dicendo<br />

cose che non avevano più niente a che fare con<br />

babbo, e poco anche con la sua normale biologia: – Fatemi<br />

andare via da tutto questo, – che proprio alla fine<br />

non era quasi più nient’altro che una voglia delirante<br />

di gelato, al pistacchio, al kiwi, al torroncino, golosità<br />

drammatica di panna al cioccolato, al limone, alla fragola,<br />

alla nocciola, in cono, in coppa, in bicchiere di<br />

carta, in brioscia siciliana, quello del gelataio dell’infanzia<br />

sul lungomare di Livorno col triciclo e il fischietto.<br />

– O fammi fuori tu, – diceva a mamma muta e barcollante.<br />

Così anche Carlo adesso. Solo che lui ne cava un frutto,<br />

subito, in contanti.<br />

E mi accusa di essere io una pessima controfigura di<br />

mamma con i miei adesso basta, ti stai ammazzando,<br />

Carlo tieni duro, lascia quella robaccia… Sei noiosa. Ti<br />

odio, sì, ti odio. E si rifà com’era da bambino con i suoi<br />

capricci da bambino.<br />

– Fammi fuori tu, – diceva babbo a mamma, e alla fine<br />

anche a me senza distinguermi da mamma. Uno non<br />

vorrebbe, non dovrebbe mai ricordare certe cose. E invece<br />

le ricorda. Che si ricordino da sé, per forza di reincarnazione?<br />

Ma io non li ho già pianti abbastanza morti, babbo e<br />

mamma? Io l’ho già fatta dieci e sei anni fa, per babbo e<br />

186<br />

mamma rispettivamente, la fatica del lutto <strong>dei</strong> miei cari,<br />

lutto fiero e tetro, appassionato, come in altri tempi nell’antica<br />

Fraus. E lutto in solitudine, dove si dice che ci<br />

ritroviamo, e non è vero. Anche Carlo li ha pianti a non<br />

finire, babbo e mamma, come un’ingiustizia insopportabile.<br />

Si sedeva per terra con la schiena al muro, piangeva<br />

con la testa piegata sui ginocchi. Poi zitto e spaventato<br />

si afferrava a me, a Valentina, a mamma quando<br />

è toccata a babbo, come a volerci trattenere qui.<br />

Di tutto questo che cosa ritrovo? Ricordi acuti negli<br />

armadi, resti di chi sta sottoterra, scarpe neppure inaugurate.<br />

Ogni ricordo è anche un’accusa. Va distrutto<br />

tutto, messo sottoterra?<br />

È stato un lutto anche efficace, che mi ha insegnato<br />

la rassegnazione, il sereno dolore, mi ha reso normale<br />

avere anch’io i miei morti in cimitero, nel santuario di<br />

casa, morti da ripensare con fiducia.<br />

E adesso, che legge genetica, quale ordine dell’universo<br />

è stato ritto in questa casa?<br />

– Ma la genetica… Eh sì, la genetica è la scienza del<br />

futuro, del nuovo millennio, – dice il mio direttore.<br />

Devo credergli, gli credo ancora. Molte risposte sono<br />

lì, noi al laboratorio le cerchiamo, qualche cosa troviamo,<br />

in sinergia planetaria.<br />

Ma la genetica…: quel ma, sempre lì davanti, è un<br />

ma di rivalsa, perché il nostro progetto di genetica al<br />

dipartimento è anche chiacchierato, qui in città, per-<br />

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