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Giulio Angioni, Alba dei giorni bui - Sardegna Cultura

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vicino a me lì sulla cassapanca, coi piedi penzoloni, i<br />

gomiti ai ginocchi e il viso tra le mani, le mani che poi<br />

stringe qui sotto le ascelle, sicure di pensare e di sentire<br />

le stesse cose, tutti e due.<br />

Al momento di uscire nella notte, Carlo, stasera, come<br />

se notasse per la prima volta i due ritratti, ci si ferma<br />

davanti e ne rifà le pose, di babbo, di mamma, poi ancora<br />

di babbo e anche di mamma: come faceva da bambino,<br />

quando giocava a recitare da solo molte parti. Io<br />

non posso guardare, ma vedo abbastanza. Devo correre<br />

in bagno a vomitare. E mentre sono ancora dentro il<br />

bagno Carlo viene e bussa: vuole i soldi, sa che oggi ce<br />

ne sono.<br />

E adesso, sola nella notte, chissà a che gioco sto giocando,<br />

ma prendo i due ritratti incorniciati, li butto a<br />

terra e li calpesto, li riduco a pezzi, li butto nella spazzatura.<br />

Mentre scendo con la busta piena per gettarla per<br />

strada in un bidone, mi riscuoto, mi pento, corro ai ripari:<br />

torno su in ascensore per paura d’incontrare l’Orecchiona<br />

e invece sulle scale incontro il più vecchio<br />

<strong>dei</strong> Marongiu, convalescente dopo un trapianto di rene,<br />

con la pancia di prima. Verso i pezzi e i cocci sul tavolo<br />

e mi do da fare. Ci metto ore a rintracciarne ogni<br />

frammento, recuperarlo e sistemarlo, come le tessere<br />

di un puzzle. Tutti e due i quadretti. E mentre cerco e<br />

metto a posto nasi orecchie menti gote colli occhi e te-<br />

176<br />

ste, mi viene da pensare, per niente genetista, o forse<br />

invece come genetista, che siamo tutti, non soltanto<br />

Carlo, fatti di pezzi più o meno bene assortiti <strong>dei</strong> nostri<br />

genitori. Rimessi tutti i pezzi al loro posto qui sotto la<br />

lampada, cado in ginocchio come in chiesa. Io però<br />

non prego. Io protesto: tutto il resto sì, ma questa doppia<br />

e tripla somiglianza è troppo sconcia. Insopportabile.<br />

E ho voglia di gridare. So di avere da molto questa<br />

voglia di gridare. E invece piango. Piango di un pianto<br />

nuovo e duro. Penso che non saprò smettere mai più.<br />

– Piangete troppo, voi donne, – dice Carlo chiudendo<br />

un occhio come faceva babbo per il fumo della sigaretta.<br />

E mi dà le spalle.<br />

– Io non sono voi donne. Io piango di più, Carlo, –<br />

dico mentre piango senza ritegno appoggiata alla sua<br />

schiena.<br />

Sì, piango sempre. Con la paura che i pianti come<br />

questo rimangano in eterno sconsolati.<br />

– Piangi, sfogati, fai bene, – dice Carlo, con la voce e<br />

il tono di babbo quando parlava a mamma per farle capire<br />

qualcosa di sottile, come se lei potesse capire solo<br />

con quel tono e quella voce, più dal tono che dal senso<br />

delle parole: – Sì, fai bene.<br />

– Perché faccio bene?<br />

– Soffocatela dentro, una cosa, e te la sentirai gridare.<br />

– È una frase di babbo, detta col tono di babbo perché<br />

mamma capisse, però mi fa male.<br />

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