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Giulio Angioni, Alba dei giorni bui - Sardegna Cultura

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stro padre è morto otto anni fa, mamma da sei anni: ci<br />

sono anche certezze a questo mondo.<br />

È notte, è tardi. In soggiorno, poca luce dai vetri, siedo<br />

sul divano, provo le due poltrone, vado avanti e indietro,<br />

giro per la casa. Aspetto al <strong>bui</strong>o, penso che sto<br />

pensando e che sarebbe meglio non pensare a ciò che<br />

non riesco a non pensare. Rifaccio ordini immaginari<br />

nella vita di Carlo e nella mia. Mi dico che questo è un<br />

esercizio di speranza.<br />

Non sono paurosa. Sono una donna che ha paura. Di<br />

notte in casa a volte la paura è quella del <strong>bui</strong>o da bambina,<br />

con antiche presenze minacciose. Paure di dentro.<br />

Ma neanche da bambina io mi rintanavo, andavo a<br />

controllare come adesso, tutta la casa.<br />

– La notte, non si scherza, – parola di babbo, uomo di<br />

mare e delle notti in mare nella pancia delle navi. L’ho<br />

imparato bene che alla notte non si sfugge. L’ho imparato<br />

in anni di notti di lavoro, al mio laboratorio di genetica,<br />

a fare i conti con la notte.<br />

– La notte, non si scherza, – mi ripete Carlo, e mi fa<br />

male il modo.<br />

Carlo ha un cellulare ma non mi risponde, nelle sue<br />

notti fuori. E le mie notti in casa sono anche più sue.<br />

Soprattutto le notti, prima così mie. Non posso andare<br />

a letto senza avere tentato di sapere o immaginare almeno<br />

dove sia, cosa farà, o riuscire a dormire prima che<br />

rientri. C’è solo questo, contro la paura. Per questo lui<br />

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mi chiama ufficiale di picchetto, quando rientra e vede<br />

la mia faccia. Se gli gira bene, fa perfino lo scemo con<br />

appelli e contrappelli e pantomime da ciurma imbarcata,<br />

come babbo con lui, da bambino. Se gli gira male, rientra<br />

un cattivo patrigno avvinazzato.<br />

Mi guardo allo specchio del soggiorno, per pensare,<br />

non con l’occhio al vestito o in seduta di make-up:<br />

– Per vederti dentro, – come diceva mamma.<br />

Dove andremo a finire? Questo mi chiede la mia faccia<br />

nello specchio.<br />

Se questa domanda mi scappa con Carlo, ride cattivo,<br />

come babbo da vecchio che sapeva troppo, dove si<br />

va a finire.<br />

Nel silenzio teso giù all’ingresso ecco lo scatto di<br />

partenza del nostro ascensore, il vorticare di ansimi<br />

del vecchio meccanismo, che poi si ferma al pianerottolo,<br />

più su di mezza rampa sopra il nostro piano. Solo<br />

mamma carica di spesa prendeva l’ascensore nei<br />

suoi ultimi anni per salire a casa fino al terzo piano.<br />

Noi altri invece tutti più o meno sportivi in casa nostra,<br />

prima. Ormai che in questa casa siamo rimasti soli<br />

io e lui, Carlo adesso a volte prende l’ascensore, come<br />

mamma.<br />

E riconosco il passo, quei rumori. Nel silenzio notturno<br />

s’ingrandiscono, mi risuonano dentro: esce dalla<br />

cabina, scende i sei gradini, fa i sette metri in pianerot-<br />

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