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il collezionista - Rivista Cadillac

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CADILLAC MAGAZINE<br />

Numero Quattro - Anno Primo<br />

Ottobre 2012<br />

Pubblicazione Trimestrale Riservata<br />

Associazione Culturale Cad<strong>il</strong>lac Society<br />

M<strong>il</strong>ano<br />

Direttore responsab<strong>il</strong>e<br />

Alvise Moncretona<br />

Redazione<br />

Michele Crescenzo, Giulio D’Antona,<br />

Natan Mondin<br />

Collaborano<br />

Andrea Ferrari, Mauro Maraschi,<br />

Alessandra Montrasio, Andrea Pastore,<br />

Martino Sacchi, Roberta Venditti<br />

Hanno partecipato a questo numero<br />

Fabio Deotto, Andrea Ferrari, Tivel Hel,<br />

Jonathan Lethem, Roberto Mandracchia,<br />

Antiniska Pozzi, Francesca Scotti,<br />

Stella Littlepoints Venturo<br />

Grafica e impaginazione<br />

Giulio D’Antona, Mauro Maraschi<br />

Correzione bozze<br />

Andrea Pastore<br />

Illustrazione e grafica di copertina<br />

Manfredi Damasco<br />

Abbonamento<br />

www.rivistacad<strong>il</strong>lac.com<br />

www.rivistacad<strong>il</strong>lac.com<br />

redazione@rivistacad<strong>il</strong>lac.com


Lethem non sarebbe Lethem senza suo padre.<br />

Vale anche per gli altri scrittori che<br />

pubblichiamo in questo numero, vorrei mai<br />

che si offendessero. Quando si ha un nome <strong>il</strong>lustre<br />

nell’indice è inevitab<strong>il</strong>e che gli altri autori<br />

passino inosservati. Ho fatto presente ai<br />

ragazzi che non si serve un Krug Grande Cuvée<br />

con una selezione dei migliori spumanti nostrani.<br />

Non mi hanno ascoltato.<br />

Dicevo, Lethem non sarebbe Lethem senza<br />

suo padre, e quando tuo padre vanta un credito<br />

con qualcuno, in qualche modo lo devi pagare.<br />

Richard l’ho conosciuto che aveva appena<br />

divorziato, barba e capelli da chi non riesce a<br />

trovare spicci nemmeno per una lametta. L’ho<br />

pagato perché la smettesse di insistere: voleva<br />

vendermi a tutti i costi uno dei suoi quadri.<br />

L’ho pagato perché <strong>il</strong> più grande dei suoi figli<br />

desse un futuro agli altri due. Ho buttato via i<br />

miei soldi, ma all’epoca non sapevo che Jonathan<br />

fosse appassionato di Ph<strong>il</strong>ip K. Dick.<br />

Mi è bastato richiamare in rubrica <strong>il</strong> suo numero<br />

di telefono, <strong>il</strong> giorno dopo avevamo un<br />

suo racconto inedito nella casella di posta.<br />

Le collezioni: ho incominciato anch’io con i<br />

francobolli, sono passato a catalogare decalcomanie<br />

di alberghi, a parcheggiare auto d’epoca<br />

nella rimessa della mia tenuta in Provenza e<br />

ho finito con le bottiglie di vino.<br />

Junior non sarebbe Lethem, se non avessi<br />

dato a Senior un rotolo di banconote; se non<br />

gli avessi affittato a canone ridicolo un magazzino<br />

a Brooklyn per farne una galleria d’arte;<br />

se amici miei con <strong>il</strong> problema di ripulire qualche<br />

m<strong>il</strong>ione di dollari non avessero fatto lievitare<br />

<strong>il</strong> prezzo dei suoi scarabocchi da Swann.<br />

Bere, ma non mischiare. O meglio, usare un<br />

criterio nell’accostare monovitigni, blend e diverse<br />

gradazioni.<br />

Si parte sempre dal basso, in crescendo. I ragazzi<br />

non mi hanno ascoltato, nemmeno questa<br />

volta.<br />

Non so cosa possano avere in comune un tale<br />

fissato per i penny di rame, un’istrice piallata<br />

sull’asfalto, un giallista norvegese, una vespa<br />

sul fondo del bicchiere di una vecchietta innamorata,<br />

tumulti e olio d’oliva, gazebo fradici<br />

di acqua piovana e scrittori cubani che a Cuba<br />

non hanno mai pubblicato. Non saprei proprio<br />

come metterli insieme senza correre <strong>il</strong> rischio<br />

4<br />

TUTTO<br />

MERITO DI<br />

PERIGNON<br />

editoriale di Alvise Moncretona<br />

di ubriacare. Una sbronza fastidiosa che non<br />

dà pace fino alla prima birra del giorno dopo.<br />

Lethem non sarebbe Jonathan, senza Richard,<br />

avete capito che non c’è niente di edipico,<br />

nonostante si parli di letteratura. Nessuno<br />

indovina indovinelli, inganna sfingi, ammazza<br />

padri per poi giacere nello stesso talamo della<br />

madre. È soltanto una questione di mani<br />

che lavano altre mani. Non c’è forza di gravità<br />

comparab<strong>il</strong>e alla Win-win strategy, una versione<br />

business oriented e politically correct del do<br />

ut des latino. Il giovane Lethem pensa di essersela<br />

cavata con un solo racconto e, per ora,<br />

glielo lascio credere.<br />

Enger, Scotti, Mandracchia, Pozzi, Deotto,<br />

Gutierrez, Ferrari, Crescenzo senza padre non<br />

sarebbero nessuno, senza noi che ve li selezioniamo<br />

e confezioniamo: brut, blanc de blanc,<br />

rosé, m<strong>il</strong>lesimati e grand cru.<br />

Lo champagne ringrazia l’abate Perignon; i<br />

migliori metodi classici ringraziano Veronelli;<br />

a voi tocca rendere omaggio al sottoscritto che<br />

intreccia rapporti di favore e legami di piacere.<br />

Una dote che va sv<strong>il</strong>uppata, io ho incominciato<br />

presto.<br />

Godete, ma con calma. Noi ritorniamo fra<br />

tre mesi, con un anno in più. Concentratevi su<br />

bouquet e persistenza. Il resto, l’etichetta, è<br />

solo una questione di marketing.<br />

Alla salute. •


IN<br />

QUESTO<br />

NUMERO<br />

NON FIORDI, MA OPERE DI BENE<br />

IL NUOVO VOLTO DELLA NORVEGIA<br />

Ovvero: Thomas Enger p. 5<br />

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE<br />

L’UNICA COSA PREZIOSA<br />

di Francesca Scotti p. 8<br />

ULTIMA SPIAGGIA<br />

di Roberto Mandracchia p.13<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS p.16<br />

GENERAZIONE DI MEZZO<br />

di Fabio Deotto p.17<br />

IL COLLEZIONISTA<br />

di Jonathan Lethem p.25<br />

QUANDO FUORI PIOVE<br />

di Antiniska Pozzi p.31<br />

SE FOSSIMO NATI MORTI<br />

COME UNA CAREZZA<br />

La storia di Pedro Juan Gutiérrez p.36


NON<br />

FIORDI,<br />

MA OPERE<br />

DI BENE<br />

a cura di Andrea Ferrari<br />

<strong>il</strong>lustrazione di Stella Littlepoints Venturo<br />

6


Ho conosciuto Thomas Enger in un pomeriggio<br />

di un’umida primavera nei sotterranei<br />

del Dipartimento di Scandinavistica dell’Università<br />

di M<strong>il</strong>ano, e mi sono trovato di fronte<br />

un tipo molto tranqu<strong>il</strong>lo. Un uomo giovane,<br />

convinto dei propri mezzi e tremendamente<br />

timido. Io con i pantaloni corti e i calzini bianchi,<br />

lui con <strong>il</strong> suo pezzato impeccab<strong>il</strong>e. Io con <strong>il</strong><br />

mio norvegese stampellato di Bergen, lui con<br />

<strong>il</strong> suo norvegese madrelingua e capitolino, con<br />

le esse a sciacquone. Lui con <strong>il</strong> piglio del predestinato<br />

che veniva a presentare <strong>il</strong> suo primo<br />

libro in assoluto con in tasca un contratto per<br />

altri cinque, io che navigavo verso la chiusura<br />

del mio quarto volumetto e avevo in tasca tre<br />

euro e l’abbonamento ATM. Insomma, Thomas<br />

Enger è stato cordiale, un po’ ingessato e tremendamente<br />

asettico nonostante <strong>il</strong> suo primo<br />

libro, Morte apparente, non avesse proprio<br />

niente di asettico e ingessato.<br />

Enger è proprio <strong>il</strong> caso tipico dello scrittore<br />

a prescindere. Prescinde cioè dal proprio<br />

aspetto di giornalista inquadrato, da compositore<br />

svolazzante e secchioncello. Enger è doppio.<br />

O triplo. E devo sforzarmi di fregarmene<br />

dell’odio invidioso che mi ha suscitato a pelle,<br />

devo riconoscerne le indubbie qualità.<br />

Morte apparente è un libro coraggioso per<br />

diversi motivi. In primis perché si rifà senza<br />

false velleità d’innovazione ai topoi della<br />

letteratura criminale scandinava, in secundis<br />

perché ha <strong>il</strong> coraggio di parlare di una delle<br />

più grandi e occulte vergogne dei norvegesi: <strong>il</strong><br />

pregiudizio. Il libro ha <strong>il</strong> merito di portare alla<br />

ribalta <strong>il</strong> tema della Sharia in Norvegia, merito<br />

che noi italici lettori riconosciamo all’autore,<br />

ma che abbiamo faticato colpevolmente ad attribuire<br />

a un nostro scrittore, <strong>il</strong> caustico Paolo<br />

Grugni che con <strong>il</strong> suo Italian Sharia ha tracciato<br />

un chiaro segno di rottura con <strong>il</strong> buonismo<br />

imperante che popola le narrazioni mondiali.<br />

È un articolo per incalliti lettori di genere,<br />

questo; me ne dolgo e me ne vanto um<strong>il</strong>mente.<br />

Laddove Grugni mette al centro la Sharia applicata<br />

alla realtà italiana, Enger la usa come<br />

depistaggio, come presunto movente, come<br />

una sorta di senso apparente e comune che diviene<br />

quasi sempre ingannevole. Qui le strade<br />

dei due scrittori si dividono per non incontrar-<br />

7<br />

NON FIORDI, MA OPERE DI BENE<br />

IL NUOVO<br />

VOLTO<br />

ANTIPATICO<br />

DELLA<br />

NORVEGIA<br />

Ovvero: Thomas Enger<br />

si più, così con <strong>il</strong> mio scrivere mi faccio forse<br />

unico trait d’union fra i due.<br />

Il personaggio di Enger, <strong>il</strong> giornalista Henning<br />

Juul è di per sé un outsider, un personaggio<br />

vero <strong>il</strong> cui background non scritto rappresenta<br />

<strong>il</strong> reale mistero da dipanare.<br />

Chi è Henning Juul? Perché è per metà carbonizzato?<br />

Perché lui è sopravvissuto al rogo<br />

che lo ha menomato, mentre suo figlio no? E<br />

soprattutto cosa c’entra <strong>il</strong> suo lavoro con l’incendio<br />

che gli ha cambiato la vita? Domande<br />

che troveranno risposte nelle pagine del libro,<br />

e soprattutto lungo tutta la serie.<br />

Il vero protagonista del libro, comunque, è<br />

<strong>il</strong> dolore. Fisico, morale, mortale, anzi apparentemente<br />

mortale. E questa continua analisi<br />

– interiore ed esteriore – del sentimento del<br />

dolore, del rammarico e dell’impotenza rende<br />

Morte apparente qualcosa di più. Non solo un<br />

noir, non solo un libro d’intrattenimento, ma<br />

un libro di formazione, o di distruzione, dalle<br />

ceneri del quale forse rinascerà una fenice<br />

Thomas Enger ha pubblicato in Italia: Morte<br />

apparente (Iperborea, 2011); Dolore fantasma<br />

(Iperborea, 2012).


uciacchiata e zoppa, ma con una forza sovrumana.<br />

Enger è stato accostato a superautori<br />

da cassetta come Jo Nesbø, ma credo che<br />

la sua dimensione non sia la stessa di questi<br />

bestsellers. Thomas è più intimo, più riservato,<br />

e forse una chiave del suo successo (a mio<br />

avviso così poco scandinavo) sta proprio nelle<br />

parole che non ha scritto e che non ha detto.<br />

Perché, per inciso, anche nella conferenza cui<br />

ho assistito le risposte gliele hanno dovute cavare<br />

con le pinze.<br />

In questi giorni tra l’altro è in uscita, sempre<br />

per Iperborea, <strong>il</strong> secondo episodio della saga,<br />

Dolore Fantasma. •<br />

8<br />

“Henning Juul non sa perché è seduto lì.<br />

Proprio lì. Le assi sono dure. Scheggiate.<br />

Scomode. Eppure si siede sempre lì. Esattamente<br />

nello stesso posto. Morelle rampicanti<br />

crescono tra le gradinate che salgono<br />

verso <strong>il</strong> centro sportivo di Daelerenga.<br />

I calabroni ronzano indaffarati tra le bacche<br />

velenose. Le assi sono umide. Lo sente<br />

sul sedere, pensa che poi a casa dovrà cambiarsi.<br />

Non sa se ne avrà voglia. Un tempo<br />

stava lì a fumare. Non fuma più. Non per<br />

salute o buon senso...”<br />

- Morte apparente -


UNA COSA<br />

PICCOLA<br />

CHE STA PER<br />

ESPLODERE<br />

a cura di Mauro Maraschi<br />

9


La sua guancia aderiva al terreno, pietra pallida<br />

e friab<strong>il</strong>e di cui quel sud era fatto. Gli<br />

occhi fissi guardavano <strong>il</strong> mare. Sembrava che<br />

stesse apprezzando l’orizzonte, non fosse stato<br />

per <strong>il</strong> sangue che gli colava dall’orecchio.<br />

10<br />

L’UNICA<br />

COSA<br />

PREZIOSA<br />

di Francesca Scotti<br />

<strong>il</strong>lustrazione di Manfredi Damasco<br />

Ines e Tom si erano conosciuti in spiaggia,<br />

una mattina presto, quando lui, di solito impegnato<br />

a scattare foto per i clienti del v<strong>il</strong>laggio,<br />

si stava godendo quel poco di mare che gli orari<br />

di lavoro gli consentivano.<br />

La voce delle onde era solo un sussurro, <strong>il</strong><br />

sole, invece, già mordeva.<br />

Ines, che da quando aveva compiuto settant’anni<br />

aveva assistito alla diminuzione costante<br />

delle sue ore di sonno, approfittava di<br />

quella pace mattutina per camminare sulla<br />

sabbia e bagnarsi i piedi di tanto in tanto.<br />

L’inverno precedente, mentre sua figlia, con<br />

la solita fretta, la accompagnava a fare acquisti<br />

natalizi, era quasi scivolata sul ghiaccio. Da<br />

allora aveva avuto bisogno di appoggiarsi a un<br />

bastone, più per sentirsi sicura che per un sostegno<br />

effettivo. Non lo abbandonava nemmeno<br />

quando entrava in acqua, anche se sprofondava<br />

nella sabbia e le onde lo strattonavano.<br />

Quella mattina Tom non si era accorto di non<br />

essere solo, immerso com’era nel pensiero di<br />

Sofia: si erano fidanzati due mesi prima delle<br />

vacanze, quando a scuola si doveva studiare<br />

di più per evitare gli esami a settembre. Tom<br />

non poteva rischiare: lo aspettava un’estate di<br />

lavoro senza tempo per i libri. Eppure si era<br />

innamorato.<br />

Si sf<strong>il</strong>ò maglietta e calzoni e li abbandonò su<br />

una sdraio ancora umida di notte. Si stropicciò<br />

gli occhi, stirò le belle braccia abbronzate e<br />

si confuse con <strong>il</strong> mare, puntando all’orizzonte<br />

già nitido. Nuotava come chi non deve preoccuparsi<br />

di tornare a riva.<br />

Ines lo seguì con lo sguardo finché Tom non<br />

fu solo un punto scuro nel blu. O forse era<br />

un’onda, o un riflesso.<br />

*


I figli di Ines avevano insistito perché trascorresse<br />

almeno una settimana al mare, per<br />

la salute. Era stato inut<strong>il</strong>e spiegare loro quanto<br />

preferisse stare a casa, con le sue abitudini e<br />

<strong>il</strong> pianoforte. Aveva da poco ripreso a studiare<br />

Pap<strong>il</strong>lon di Schumann e quelle note la facevano<br />

tornare ragazza. Una dannata frase non le dava<br />

tregua. Non riusciva a risolverla, le articolazioni<br />

avevano perso ag<strong>il</strong>ità, le spalle si irrigidivano<br />

subito, togliendo energia alle mani. Ecco<br />

come avrebbe voluto impegnare la sua estate:<br />

esattamente come tutti gli altri mesi dell’anno,<br />

a suonare e prepararsi i piatti che preferiva.<br />

Sua figlia era a dieta da tempo immemore e la<br />

accusava di cucinare in maniera troppo pesante;<br />

suo figlio, quelle rare volte che rinunciava<br />

ad andare in palestra durante la pausa pranzo<br />

per passare a trovarla, esigeva insalata e bresaola.<br />

A Ines non piaceva quel cibo senza amore<br />

e continuava a preparare supplì dorati, risotti<br />

f<strong>il</strong>anti e crostate di frutta. Anche se mangiare<br />

quelle prelibatezze da sola era indubbiamente<br />

triste.<br />

Dopo settimane di insistenza incrociata da<br />

parte dei suoi figli aveva finito per cedere.<br />

Scelsero per lei un v<strong>il</strong>laggio sul mare, tra i più<br />

prestigiosi della zona. I pasti erano compresi<br />

ma Ines pretese di avere una suite dotata di<br />

cucina.<br />

«E se poi quello che preparano non mi piace?<br />

Volete che digiuni per un mese?»<br />

La accontentarono.<br />

Tom nuotava assecondando le onde, guardava<br />

<strong>il</strong> fondale, la sabbia percorsa da increspature<br />

regolari: pareva della glassa decorata usando<br />

i denti di una forchetta. Quante settimane<br />

di lavoro ancora gli mancavano? Nove. Una la<br />

fotocopia dell’altra. I clienti cambiavano, certo,<br />

ma dopo i primi tempi, durante i quali si<br />

era divertito a conoscere gli altri, aveva perso<br />

entusiasmo. Anche se doveva simularlo ogni<br />

mattina.<br />

Quando incontrò Ines sul bagnasciuga, si<br />

sforzò di offrirle <strong>il</strong> suo miglior sorriso e di<br />

pronunciare un buongiorno credib<strong>il</strong>e. Ines era<br />

trincerata dietro un paio di occhiali da diva e<br />

un grande cappello dalla tesa floscia. Anche se<br />

*<br />

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE<br />

11<br />

sua figlia le aveva comprato costumi interi fatti<br />

appositamente per dare forma a un corpo che<br />

sfuggiva da tutte le parti, non aveva mai avuto<br />

<strong>il</strong> coraggio di togliersi <strong>il</strong> caftano. Nemmeno ora<br />

che l’acqua le cingeva la vita. Rispose al saluto<br />

di Tom con un cenno, continuando a guardare<br />

l’orizzonte, come se stesse aspettando la comparsa<br />

di qualcuno.<br />

Trovava tutti così poco autentici in quel luogo<br />

e non voleva averci a che fare.<br />

Tom, soddisfatto della nuotata, ripiegò verso<br />

la riva. Aveva solo mezz’ora per prepararsi<br />

e fare colazione. Si frizionò i capelli corti con<br />

l’asciugamano e poi se lo fermò in vita. Con lo<br />

sguardo cercò i vestiti. Ma non li vide. Si abbassò<br />

per controllare sotto la sdraio. E poi tutto<br />

intorno.<br />

Lettini allineati, ombrelloni ancora chiusi,<br />

sabbia rastrellata e fresca sotto i piedi. Gli unici<br />

elementi a popolare quel deserto mattutino<br />

erano l’anziana signora nell’acqua e la sua borsa<br />

di paglia appoggiata un paio di sdraio oltre<br />

quella dove si trovava lui.<br />

Sapeva bene quanto sarebbe suonato bizzarro<br />

domandare a una sconosciuta se, per<br />

caso, avesse visto i suoi vestiti. Ma si diresse<br />

comunque verso di lei.<br />

Mentre passava accanto alla borsa della<br />

donna però fu attratto da qualcosa di rosso<br />

che spuntava dall’interno. Erano i suoi vestiti,<br />

appallottolati e buttati dentro. Ma che stupido<br />

dispetto era? E poi da una signora di quell’età.<br />

Per un attimo restò immob<strong>il</strong>e, indeciso sul<br />

da farsi.<br />

Il sole lo scaldava e la salsedine gli si stava<br />

rapprendendo sulla pelle. La signora era sempre<br />

ferma, rivolta al mare aperto, e non si voltò<br />

nemmeno quando Tom le fu accanto.<br />

«Buongiorno, scusi se la disturbo.»<br />

Lei si girò piano, alzando <strong>il</strong> viso per guardare<br />

quello di Tom<br />

«Prima di entrare in acqua ho lasciato i vestiti<br />

sulla spiaggia e ora non li trovo più.»<br />

«Dovrebbe stare più attento alle sue cose,<br />

non crede?»<br />

Tom non si sarebbe mai aspettato una risposta<br />

sim<strong>il</strong>e. Cercò una frase per farle capire<br />

che sapeva benissimo dove si trovavano i<br />

suoi vestiti. Lei intanto si levò gli occhiali da<br />

sole e impresse <strong>il</strong> suo sguardo in quello di


Tom. Nonostante le rughe che le rendevano <strong>il</strong><br />

viso sim<strong>il</strong>e a un foglio di carta stropicciato, i<br />

suoi occhi erano freschi. Quelli di una ragazza.<br />

Tom si meravigliò del pensiero che gli aveva<br />

appena attraversato la mente.<br />

«Grazie in ogni caso» disse voltandosi imbarazzato<br />

e risalendo verso la spiaggia con passo<br />

svelto. Doveva procurarsi una divisa nuova entro<br />

pochi minuti.<br />

Ines e Tom si incontrarono anche la mattina<br />

dopo, e quelle successive. Ines ogni giorno sfoggiava<br />

una mise diversa, sempre elegante sotto<br />

i suoi cappelli di paglia con nastri o conchiglie<br />

decorative. Tom avrebbe voluto fotografarla<br />

ma a quell’ora era senza obiettivo. E durante<br />

<strong>il</strong> resto del giorno lei scompariva. Un giorno,<br />

mentre tornava dalla sua nuotata, le si avvicinò.<br />

«Sa che i suoi cappelli sono molto particolari?<br />

Le dispiacerebbe se le facessi un ritratto?»<br />

La luce del sole era forte e <strong>il</strong> riverbero<br />

dell’acqua lo costringeva a strizzare gli occhi<br />

e a proteggersi con una mano. Lo sguardo di<br />

Ines invece era al sicuro dietro gli ampi occhiali.<br />

«Non mi fa piacere essere immortalata nella<br />

mia vecchiaia.» disse lei brusca.<br />

Erano poche le persone che accettavano subito<br />

di lasciarsi fotografare, ma poi tutti, e questo<br />

ormai Tom lo aveva imparato, cedevano<br />

dopo un paio di lusinghe. Con lei non sarebbe<br />

stato così e Tom sapeva anche questo.<br />

Per Ines e Tom, la mattina in spiaggia era<br />

diventata un tacito appuntamento. Tom non<br />

capiva bene che genere di persona lei fosse e<br />

ne era incuriosito. Si scambiavano solo qualche<br />

occhiata e quando lui le passava accanto<br />

prima di tuffarsi si sorridevano.<br />

Ogni sera Ines riceveva la telefonata della figlia.<br />

«Sì, sto bene, no, non fa troppo caldo. Cosa<br />

vuoi, <strong>il</strong> cibo che servono non è malvagio, ma io<br />

cucino meglio. Quindi pranzo a casa. Ho fatto<br />

una pasta al forno con sopra la ricotta stagionata<br />

che è una meraviglia, dovresti assaggiarla.<br />

Ma sì, lo so che sei a dieta. Ma perché insisti?<br />

Sei bella così, fidati. Va bene va bene, parliamo<br />

d’altro. Sai, qui al v<strong>il</strong>laggio ho conosciuto un<br />

ragazzo. Vuole fotografarmi.»<br />

*<br />

12<br />

Appena Ines pronunciò queste parole si rese<br />

conto di aver usato un tono troppo compiaciuto.<br />

E che sua figlia non avrebbe perso l’occasione<br />

di rimproverarla.<br />

«Ma no che non mi faccio abbindolare da un<br />

ragazzino. Ma quali soldi, quale orologio! E poi<br />

cosa vuoi che mi porti via, <strong>il</strong> cuore? È l’unica<br />

cosa preziosa che indosso.»<br />

Faceva caldissimo quella mattina. Tom aveva<br />

mezza giornata libera e, dopo <strong>il</strong> bagno, desiderava<br />

andare in città. Invece della divisa indossava<br />

una maglietta dell’Hard Rock Cafè di<br />

Londra, meta della gita scolastica. Poi pantaloni<br />

corti a scacchi e un paio di Converse logore.<br />

Si tolse scarpe e i vestiti, che piegò con cura.<br />

Ines passeggiava sul bagnasciuga, le onde le<br />

accarezzavano le gambe pallide e <strong>il</strong> bastone.<br />

Tom aveva nuotato pensando al seno di Sofia,<br />

al suo sapore. Prima che lui partisse avevano<br />

fatto l’amore. Era stata la prima e unica<br />

volta. Non aveva avuto altre fidanzate ed era<br />

certo che sarebbe durata per sempre<br />

Raggiunta la sdraio dove aveva lo zaino,<br />

tenendo ben stretto l’asciugamano in vita, si<br />

sf<strong>il</strong>ò <strong>il</strong> costume e indossò i pantaloncini direttamente<br />

sulla pelle. Abbottonò la camicia e si<br />

sedette per togliersi la sabbia dai piedi e inf<strong>il</strong>arsi<br />

le scarpe. Ma le scarpe non c’erano più.<br />

Si alzò, per guardare dove fosse la signora:<br />

era nell’acqua fino alle ginocchia, <strong>il</strong> caffettano<br />

color limone si stava bagnando.<br />

Andò spedito verso la sua borsa: delle stringhe<br />

spuntavano dalla chiusura.<br />

Arrabbiato, si diresse verso di lei, affondando<br />

i passi nella sabbia tiepida.<br />

Fino a quando non le fu accanto lei non lo<br />

degnò di uno sguardo, sorda ai suoi “mi scusi”<br />

che si mescolavano al frinire delle cicale<br />

Una piccola onda li bagnò entrambi e lei si<br />

voltò di scatto.«Che ne dice di venire a pranzo<br />

da me?» gli propose, facendogli morire in gola<br />

la frase che si era preparato.<br />

«Io veramente...»<br />

«È <strong>il</strong> suo giorno libero, non inventi scuse.»<br />

Si levò gli occhiali e affondò le sue pup<strong>il</strong>le in<br />

quelle di Tom, come si morde un frutto maturo.<br />

*


Lui arrossì.<br />

«Ho preparato i supplì di riso.»<br />

Tom non sapeva cosa rispondere.<br />

«Su, vada a farsi <strong>il</strong> suo giro in paese. L’aspetto<br />

per l’ora di pranzo.» Tom non disse nulla, si<br />

voltò e correndo raggiunse la riva. Scalzo salì<br />

le scale, fino alla reception.<br />

«Sono buonissimi, signora» disse Tom mentre<br />

si puliva le dita unte sul tovagliolo. Lo erano<br />

davvero, perfettamente dorati, <strong>il</strong> riso compatto,<br />

<strong>il</strong> ripieno che si sentiva a ogni boccone.<br />

Ines gli aveva impedito di usare le posate, i<br />

supplì non possono essere tagliati e inforchettati.<br />

Vanno morsi.<br />

Tom le aveva portato dei fiori, i suoi lo avevano<br />

educato a non presentarsi mai a mani<br />

vuote. Ines li aveva messi nella brocca dell’acqua,<br />

dato che nella suite non c’erano vasi, e ora<br />

troneggiavano al centro del tavolo. Anche lei<br />

mangiava con le mani e Tom guardava quelle<br />

dita nodose e macchiate dagli anni. Sembravano<br />

ossa ricoperte di carta sott<strong>il</strong>e. Un po’ gli<br />

facevano ribrezzo a contatto con <strong>il</strong> cibo.<br />

«Chiamami Ines, basta con signora» gli aveva<br />

detto portando in tavola la ciambella all’anguria,<br />

ricoperta da fiori di gelsomino e scaglie<br />

di cioccolato. Gliene servì una fetta: tremolava<br />

nel piatto e i gelsomini sprigionavano un odore<br />

delizioso.<br />

La settimana dopo Ines gli preparò lo sformato<br />

di patate e la torta con crema e pinoli;<br />

quella dopo ancora la parmigiana, e poi i fiori<br />

di zucca ripieni, <strong>il</strong> riso patate e cozze.<br />

Mangiavano insieme, parlavano poco. Si<br />

chiamavano per nome.<br />

*<br />

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE<br />

13<br />

«E va bene, se proprio ci tieni te lo dico:<br />

sono contenta che abbiate insistito per farmi<br />

passare qui l’estate».<br />

Ines sapeva che davanti a una sim<strong>il</strong>e dichiarazione<br />

sua figlia si sarebbe insospettita. Ma<br />

non aveva senso mentire, Tom la rendeva felice.<br />

«Sì, lo vedo ancora. È così gent<strong>il</strong>e. Ma vuoi<br />

smetterla di preoccuparti? Cosa vuoi che succeda,<br />

credi che non sappia badare a me stessa?»<br />

Tom non aveva la forza di sollevare gli occhi<br />

dal piatto, e aveva dovuto attendere <strong>il</strong> sorbetto<br />

alla menta per riuscire a trovare <strong>il</strong> coraggio:<br />

«Ines, questa è l’ultima volta che vengo da<br />

lei.»<br />

Pregava che lei non gli domandasse <strong>il</strong> motivo.<br />

«Qualcuno dell’organizzazione ha avuto da<br />

ridire? Tom, potrà impiegare la sua giornata libera<br />

come meglio crede, o no? Non si angusti,<br />

questo pomeriggio parlo io con i suoi superiori.»<br />

Tom affondò <strong>il</strong> cucchiaino nel sorbetto. Si<br />

scioglieva rapido, creando a contatto con <strong>il</strong> vetro<br />

una sorta di schiuma.<br />

«Non c’entra l’organizzazione. È la mia ragazza,<br />

è gelosa.»<br />

Ines si mise a ridere aprendo la bocca.<br />

«Gelosa di noi? Sia serio e non le dia retta.<br />

Lasci pure <strong>il</strong> sorbetto, non è un granché. L’aspetto<br />

settimana prossima» disse lei stendendo<br />

<strong>il</strong> braccio scheletrico verso <strong>il</strong> bicchiere.<br />

Tom le fermò <strong>il</strong> polso con la mano. Quella risata<br />

di scherno lo aveva irritato.<br />

«Ci tengo a Sofia, non voglio che soffra.<br />

Perciò questo è <strong>il</strong> nostro ultimo incontro.» E<br />

si alzò dirigendosi verso la porta. La mattina<br />

dopo Tom non si presentò in spiaggia e nemmeno<br />

quella successiva.<br />

Ines gli aveva fatto recapitare un messaggio<br />

e ora lui lo rigirava tra le mani, nervoso.<br />

*<br />

*<br />

*


R<strong>il</strong>esse l’orario dell’appuntamento, era la<br />

mattina del giorno seguente, all’apertura del<br />

bar della terrazza sul mare. Accartocciò <strong>il</strong> biglietto<br />

e lo buttò nella spazzatura.<br />

Ines, la mattina dopo, lo stava aspettando<br />

seduta al tavolino più vicino alla spiaggia. Il<br />

sole era già rovente e le cicale si disperavano.<br />

Lei aveva già bevuto una spremuta e una vespa<br />

stava assaggiando ciò che era rimasto sul<br />

fondo del bicchiere.<br />

«Benarrivato, cosa ti faccio portare?» chiese<br />

sorridente, ma era palese che Tom non fosse<br />

per niente a suo agio<br />

«Sono a posto così, sono passato solo per salutarla,<br />

visto che me lo ha chiesto.»<br />

L’intesa che si era creata durante quei pranzi<br />

era svanita. Ines sospirò. Ma Tom non riusciva<br />

a sentirsi in pena per lei, anche se aveva trattato<br />

con leggerezza <strong>il</strong> suo amore.<br />

14<br />

«Allora mi accompagni in spiaggia, poi ci salutiamo.»<br />

Si alzarono entrambi, producendo un rumore<br />

sgradevole con le sedie. Quando arrivarono<br />

in cima alle scale lei cambiò mano al bastone e<br />

gli porse <strong>il</strong> braccio.<br />

«Posso contare sul tuo aiuto per quest’ultima<br />

volta?»<br />

Tom, controvoglia, annuì. Non le stava più<br />

simpatica ma non le avrebbe mai negato una<br />

cortesia.<br />

Scesero i primi due gradini lentamente,<br />

quando fu la volta del terzo Tom si vide <strong>il</strong> bastone<br />

tra i piedi. Prima di perdere l’equ<strong>il</strong>ibrio<br />

lasciò andare <strong>il</strong> braccio di Ines. Cadde da solo,<br />

rotolando lungo tutta la scalinata.<br />

Che modo assurdo per far finire un amore.<br />

•<br />

Francesca Scotti (M<strong>il</strong>ano, 25 apr<strong>il</strong>e 1981) vive a Kyoto. Suona <strong>il</strong> violoncello, si è laureata in<br />

giurisprudenza, ma non fa l’avvocato. Ha imparato a scrivere sulle pareti di casa, ma ora<br />

lo fa sulla carta. Nel 2011 ha pubblicato la raccolta di racconti Qualcosa di sim<strong>il</strong>e (Ed. Italic<br />

PeQuod – Premio Fucini). Con <strong>il</strong> racconto La pace di chi ha sete e sta per bere ha vinto “Esor.<br />

dire 2011”. È stata selezionata per partecipare a “Scritture Giovani” – Festivaletteratura<br />

Mantova, Hay Festival, Internationales literaturfestival Berlin 2012.


Dalla strada statale alla spiaggia quarantadue<br />

passi di funerale. Tre bambini tengono<br />

sollevato un vecchio lenzuolo su cui è steso un<br />

gatto arancione e morto. Nelle ore precedenti,<br />

i tre hanno scavato una buca nella sabbia e<br />

adesso, in s<strong>il</strong>enzio, vi adagiano dentro <strong>il</strong> gattaccio<br />

con <strong>il</strong> suo sudario a fiori rossi su sfondo<br />

blu. Poi, in piedi sul bordo della buca, i bambini<br />

guardano dentro: <strong>il</strong> gatto ha i visceri di<br />

fuori e un occhio in meno. Perché seppellirlo<br />

qui, chiede <strong>il</strong> più piccolo. Scemosei te lo abbiamo<br />

già detto cento volte, dice <strong>il</strong> più grande<br />

dopo aver sbuffato. Perché <strong>il</strong> mare pulisce tutto,<br />

risponde <strong>il</strong> mezzano che è anche <strong>il</strong> fratello<br />

del mocciosetto. Perché <strong>il</strong> mare pulisce tutto,<br />

chiede <strong>il</strong> piccolo. Gli altri due neanche rispondono.<br />

Per scavare la buca hanno usato delle<br />

vecchie palette di plastica – le stesse adoperate<br />

per trasferire l’animale dall’asfalto rovente<br />

al lenzuolo – e adesso, per ricoprirla, usano<br />

le mani. Vedendo <strong>il</strong> gatto scomparire a poco a<br />

poco, ricoperto dalla sabbia scura, <strong>il</strong> bambino<br />

più piccolo scoppia a piangere. Scemosei, dice<br />

<strong>il</strong> grande. Scemosei, ripete <strong>il</strong> mezzano. Il piccolo<br />

riesce a trattenere le lacrime, ma non i singhiozzi<br />

che gli scuotono <strong>il</strong> corpo. Dal chiosco<br />

delle bibite e dei gelati proviene una canzone<br />

di Vasco Rossi che piace a tutti e tre. Il sole non<br />

si decide a tramontare.<br />

Tutto era iniziato con un istrice, piallato da<br />

una macchina notturna lungo la strada statale<br />

che separa la spiaggia dalle v<strong>il</strong>lette dei bambini<br />

e rimasto lì, per ore, sotto <strong>il</strong> sole che abbrustoliva<br />

e ne aumentava la corruzione, fino<br />

a quando <strong>il</strong> mezzano e <strong>il</strong> piccolo, i due fratelli,<br />

non lo avevano adocchiato. Si erano avvicinati,<br />

lo avevano classificato come porcospino ed<br />

erano corsi a riferire la macabra scoperta all’amico<br />

che stava giocando con un gameboy seduto<br />

su una sdraio. Morto morto, domandava <strong>il</strong><br />

grande. Sì, rispondevano gli altri due. Il grande<br />

aveva alzato gli occhi dal videogioco per guardare<br />

la strada e <strong>il</strong> mare. Dobbiamo fargli <strong>il</strong> funerale,<br />

aveva detto posando lo sguardo sui due<br />

compagni di giochi. Il funerale, aveva chiesto <strong>il</strong><br />

mezzano. Come ai nonni, aveva chiesto <strong>il</strong> piccolo.<br />

I nonni sono persone e questo è un animale<br />

e a questo gli facciamo <strong>il</strong> funerale sulla spiaggia,<br />

aveva detto <strong>il</strong> grande tornando a premere i<br />

pulsanti del gameboy. I due avevano annuito. E<br />

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE<br />

15<br />

ULTIMA<br />

SPIAGGIA<br />

di Roberto Mandracchia<br />

<strong>il</strong>lustrazione di Manfredi Damasco<br />

così palette, buca, di nuovo palette, una busta<br />

plastificata del supermercato e processione. Il<br />

sole che bastonava senza pietà. I bagnanti sulla<br />

spiaggia non li avevano notati e quei pochi<br />

che l’avevano fatto non avevano compreso di<br />

certo <strong>il</strong> loro rito pagano: per gli adulti l’estate<br />

significa non interessarsi alle cose. Preghiamo,<br />

aveva chiesto <strong>il</strong> mezzano togliendosi la sabbia<br />

di dosso. Scemosei si prega per le persone,<br />

aveva risposto <strong>il</strong> grande. Io voglio pregare lo<br />

stesso, aveva detto <strong>il</strong> piccolo. Il mezzano gli<br />

aveva mollato un ceffone sulla testa e <strong>il</strong> piccolo<br />

aveva preso a piangere e a smoccolare lanciandogli<br />

la sabbia, con rabbia. Il mezzano allora<br />

lo aveva fatto cascare giù e gli teneva immob<strong>il</strong>i<br />

le braccine. Il grande, guardandoli, desiderava<br />

tornare a giocare col gameboy; oppure tuffarsi<br />

a mare e stare sott’acqua come fosse una buca<br />

e lui un porcospino morto, travolto da un camion<br />

e col padre e la madre che piangevano e<br />

<strong>il</strong> padre smetteva di lamentarsi perché lavorava<br />

e la madre smetteva di lamentarsi perché<br />

non lavorava. Quando si riscosse da quelle immagini<br />

i due fratelli avevano smesso di litigare<br />

e guardavano <strong>il</strong> cumulo di sabbia su quella che<br />

poco prima era stata una buca. Andiamo con<br />

le bici, propose <strong>il</strong> grande. Ma non mi lasciate<br />

indietro con le bici, piagnucolò <strong>il</strong> piccolo. E tu<br />

pedala più forte, gli disse <strong>il</strong> mezzano e poi aggiunse:<br />

io sono Pantani. No io sono Pantani,<br />

disse <strong>il</strong> grande. Un altro litigio sotto <strong>il</strong> sole.<br />

Dopo l’istrice toccò a un gatto nero con la<br />

coda mozzata di netto e finita chissà dove, a<br />

un piccione con la pancia aperta e <strong>il</strong> collo tutto<br />

storto e a una lepre che puzzava alla grande: i<br />

regali della strada. I tre bambini riservarono<br />

loro lo stesso rituale, ormai consolidato – anche<br />

se la lepre li aveva fatti vomitare tutti e tre<br />

quando avevano cercato di staccarla, già mezza<br />

mollacchiosa, dalla strada. Come stanno i<br />

tuoi amichetti, chiedeva ogni tanto <strong>il</strong> padre del


ambino più grande e quest’ultimo sapeva <strong>il</strong><br />

motivo di quella domanda: la madre dei due<br />

aveva una malattia che ti teneva ferma immob<strong>il</strong>e<br />

e muta come una statua; aveva sentito dire<br />

che era una malattia dei calciatori ma dubitava<br />

che quella donna avesse mai calciato un pallone<br />

in vita sua. Una volta gli era capitato di finire<br />

nella camera da letto in cui la donna faceva<br />

la statua e lei lo aveva guardato e lui aveva<br />

provato paura ma non lo aveva fatto capire ai<br />

suoi amici e al padre di loro. La donna-statua<br />

a quanto pare comunicava attraverso <strong>il</strong> marito<br />

che doveva prendere una lavagnetta con delle<br />

calamite a forma di lettere dell’alfabeto e con<br />

quella comporre parole. Il marito, seguendo<br />

<strong>il</strong> movimento degli occhi della donna, disponeva<br />

le lettere sulla lavagnetta. Quella volta<br />

la parola era stata GELATO e <strong>il</strong> marito le disse<br />

che sì, avrebbe offerto del gelato al bambino.<br />

Il bambino sentì <strong>il</strong> cuore preso a morsi e<br />

le gambe gli stavano urlando di correre fuori<br />

da quegli occhi, da quella casa, da quella stanza.<br />

Ma era rimasto immob<strong>il</strong>e, come la donna,<br />

fino a quando l’uomo non li aveva condotti in<br />

cucina, prendendo poi dal frigo tre ghiaccioli<br />

al limone. Il suo, per metà, si era sciolto sulla<br />

mano rendendola appiccicosa. Come stanno i<br />

tuoi amichetti, domandava <strong>il</strong> padre. Bene, rispondeva<br />

<strong>il</strong> bambino chiedendosi se anche i<br />

suoi due amici, da grandi, sarebbero diventati<br />

delle statue con gli occhi che si muovono e che<br />

16<br />

fanno paura. Poi, per almeno una settimana,<br />

niente più regali della strada. I tre si limitavano<br />

ad andare in giro sulle bici o a costruire<br />

grandi castelli di sabbia. Ogni tanto i due fratelli<br />

giocavano a calcio e chiedevano all’amico<br />

di unirsi a loro ma lui rifiutava sempre, brusco<br />

e come impaurito. E dopo una settimana, quel<br />

pomeriggio, si erano accorti del gatto arancione:<br />

era ora di riprendere le palette.<br />

La canzone di Vasco Rossi lascia <strong>il</strong> posto a<br />

una che non conoscono, una straniera. Perché<br />

se <strong>il</strong> mare pulisce tutto non li abbiamo buttati<br />

a mare, chiede <strong>il</strong> mezzano. Il grande sorride<br />

ed è un sorriso da ‘scemosei’. Il mare sta anche<br />

sotto la spiaggia, dice. Il piccolo annuisce<br />

mentre <strong>il</strong> mezzano non sembra convinto della<br />

risposta ma alza le spalle come a dire: chi<br />

se ne importa: è estate; e in questo, sembra<br />

già un adulto. Il sole alla fine si sta decidendo<br />

a diventare rosso e cascare giù. Io torno a<br />

casa, annuncia <strong>il</strong> grande. Ci vediamo domani<br />

mattina, chiede <strong>il</strong> piccolo smettendo per un<br />

attimo di giocare con una conchiglia. Occhei,<br />

dice <strong>il</strong> grande e si incammina verso la sua v<strong>il</strong>letta.<br />

Sente sua madre canticchiare la canzone<br />

di Vasco mentre cucina e trova suo padre che<br />

sta innaffiando <strong>il</strong> giardino. Il bambino si siede<br />

sulla sdraio e per la prima volta si accorge che<br />

la loro palma, d’estate sempre verde e arancione,<br />

adesso è tutta marroncina e sembra una gigantesca<br />

scopa vecchia. Pa’, chiama <strong>il</strong> bambino,


pa’. Il padre, sempre tenendo sollevato <strong>il</strong> tubo<br />

di gomma verde da cui esce l’acqua, si volta<br />

a guardarlo. Perché la palma è così, chiede <strong>il</strong><br />

bambino. Il padre guarda la palma e scuote la<br />

testa. Colpa del punteruolo rosso, dice. E cos’è,<br />

chiede <strong>il</strong> bambino. Un insetto che arriva sulla<br />

palma e la rovina, spiega <strong>il</strong> padre. E la palma<br />

sta male, chiede <strong>il</strong> bambino. Sta male sì, risponde<br />

<strong>il</strong> padre tornando a dargli le spalle. Il<br />

bambino fissa ancora la palma e poi volge lo<br />

sguardo al mare e immagina di scavare sulla<br />

spiaggia una buca enorme, anche se ci vogliono<br />

anni e anni, e poi di inf<strong>il</strong>arci dentro la loro<br />

palma e, dal momento che la buca è così grande,<br />

anche la madre-statua dei suoi amici e anche<br />

i suoi amici-future statue e poi impiegare<br />

altri anni e anni a ricoprirli perché sì, perché <strong>il</strong><br />

mare pulisce tutto. •<br />

Ultima spiaggia è apparso per la prima volta<br />

su www.scrittoriprecari.wordpress.com<br />

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE<br />

Roberto Mandracchia è nato nel 1986 ad Agrigento. È redattore della rivista letteraria TerraNullius.<br />

Suoi racconti sono stati pubblicati su antologie e riviste cartacee e sul web. Il suo<br />

primo romanzo si intitola Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza ed è stato pubblicato da<br />

Agenzia X.<br />

17


18<br />

LINCOLN’S<br />

CORNER<br />

NEWS<br />

editoriale di Giulio D’Antona<br />

P otrei impostare l’editoriale sui racconti di<br />

questo numero quattro ritardatario, come<br />

una risposta al direttore. Una lettera aperta da<br />

subalterno graziato, ma non lo farò. Potrei dire<br />

che abbiamo la fortuna e l’onore di pubblicare<br />

un inedito di quel diavolo di Jonathan Lethem,<br />

e raccontare la giungla di agenti e contatti e<br />

collaboratori che abbiamo attraversato prima<br />

di veder comparire <strong>il</strong> datt<strong>il</strong>oscritto. Non farò<br />

nemmeno questo. È una storia che molti sanno<br />

già, e chi non la sa e vuole conoscerla può chiedermela<br />

personalmente.<br />

La verità è che dopo quattro numeri e più<br />

di un anno di attività, la fortuna e l’onore non<br />

c’entrano niente. Ogni racconto pubblicato e<br />

che io e Mauro abbiamo avuto la fortuna e l’onore<br />

di editare o tradurre – questo sì – è un<br />

mattoncino in più, è un asse in più nella capanna<br />

di Lincoln e finché ce ne sono non c’è niente<br />

che possa andare storto.<br />

Capita sempre più spesso, quasi esclusivamente<br />

in verità, che siamo noi a chiedere<br />

i racconti da pubblicare e non è mai capitato<br />

che rimanessimo delusi. Di seguito trovate sì<br />

Jonathan, ma anche Fabio, che è un autore e un<br />

amico ed è stato in grado di dipingere una realtà<br />

distopica così convincente da farmi venire<br />

timore nell’uscire di casa – sono due mesi che<br />

sto chiuso qui e ora ho finito l’olio – e trovate<br />

Antiniska, che <strong>il</strong> racconto ce l’aveva mandato<br />

tanto tempo fa e che noi abbiamo fatto aspettare,<br />

ma ne è valsa la pena e non può esserci<br />

nulla di più indicato per l’autunno che è appena<br />

cominciato.<br />

Insomma, questa ormai è storia, una gran<br />

bella storia, e <strong>il</strong> resto è quello che ne verrà.<br />

Mattoncino su mattoncino, asse su asse, racconto<br />

su racconto.<br />

A un certo punto ho avuto Lethem in copia<br />

di conoscenza, sta andando tutto bene. •


Sono passati due mesi dall’ultima volta che<br />

sono uscito di casa.<br />

Era un giovedì mattina, avevo finito l’olio<br />

e alle 10 <strong>il</strong> servizio di consegna online aveva<br />

già esaurito le scorte. A dicembre <strong>il</strong> riscaldamento<br />

funzionava ancora, ma la finestra della<br />

cucina mandava spifferi che lasciavano intuire<br />

un tempo carogna. Per ritrovare <strong>il</strong> cappotto<br />

rovistai mezz’ora. Stava su nel ripiano più<br />

alto dell’armadio, sepolto dalle giacche e dai<br />

soprabiti di Irina. Quando me lo caricai sulle<br />

spalle mi sembrò troppo pesante e largo e<br />

impiegai qualche minuto a realizzare quanto<br />

fossi dimagrito. Tra i cappelli di Irina c’era<br />

anche una sciarpa, era sott<strong>il</strong>e, rosacea, visib<strong>il</strong>mente<br />

costosa, ma anche abbastanza logora da<br />

non farmi sembrare una checca. Indossai due<br />

paia di calze. Una strofinata alla barba, un po’<br />

di smorfie davanti allo specchio crepato e mi<br />

sentii abbastanza in forma da uscire.<br />

Che avevo ancora addosso i pantaloni del<br />

pigiama me ne accorsi solo sul pianerottolo.<br />

La vecchia dell’appartamento a fianco, la stessa<br />

che ogni sera si dimentica Baglioni a tutto<br />

volume, usciva in quel preciso istante dall’ascensore.<br />

«Buongiorno, signora» accennai, vedendola<br />

trascinare <strong>il</strong> suo pastore tedesco senza sollevare<br />

gli occhi da terra. La vecchia si bloccò sullo<br />

zerbino e accarezzò la testa del cane che scodinzolava<br />

impaziente picchiando una zampa<br />

sul legno della porta. Ci mise un po’ a voltarsi,<br />

quasi avesse paura che stessi per aggredirla.<br />

«Ho bisogno di cambiare un paio di crediti<br />

in valuta tangib<strong>il</strong>e» dissi «Non esco mai per<br />

fare la spesa, quindi capisce...»<br />

Il sistema pneumatico dell’ascensore era<br />

rotto da mesi e la porta era rimasta spalancata.<br />

Non avevo bisogno di entrare nella cabina per<br />

sapere che Giorgio, <strong>il</strong> cane, aveva un’altra volta<br />

infradiciato <strong>il</strong> tappetino. L’olezzo arrivava anche<br />

a due metri di distanza, spinto da un f<strong>il</strong>o<br />

d’aria gelida che si avvitava su per la tromba<br />

delle scale.<br />

Per qualche altro istante la vecchia si dedicò<br />

a squadrarmi dalle caviglie al petto, quindi si<br />

decise a incrociare <strong>il</strong> mio sguardo. I suoi occhi<br />

erano già velati dal sipario irreversib<strong>il</strong>e delle<br />

cataratte.<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

19<br />

GENERAZIONE<br />

DI MEZZO<br />

di Fabio Deotto<br />

<strong>il</strong>lustrazione di Manfredi Damasco<br />

«Il fatto che non lavori non ti dà <strong>il</strong> diritto di<br />

importunare la gente per bene» sentenziò laconica.<br />

Poi tornò a voltarsi e prese ad armeggiare<br />

con le chiavi di casa.<br />

In un’altra vita avrei preso la vecchia e <strong>il</strong> suo<br />

cane a male parole, le avrei spiegato che l’osteoporosi<br />

non le impediva di farsi due trombe<br />

di scale a piedi. In un’altra vita le avrei intimato<br />

di raccogliere <strong>il</strong> tappetino e lavarlo in un<br />

amen, pena l’interdizione perpetua dall’adorato<br />

ascensore. In questa vita, però, avevo tutto<br />

l’interesse a tenere bassa la cresta.<br />

«Dicevo, sono a corto di contanti, ma posso<br />

versale dei crediti dall’account...»<br />

«Non porto mai soldi con me, né in borsa né<br />

in casa» puntualizzò lei «C’è lo sportello automatico<br />

allo spaccio, prendo ogni volta quello<br />

che mi serve». Poi, dopo aver aggiunto un paio<br />

di altri graffi a quelli che intarsiavano la toppa,<br />

riuscì a inf<strong>il</strong>are la chiave e a scomparire nel<br />

suo appartamento.<br />

«Puttana», mormorai al pianerottolo vuoto.<br />

L’istinto mi fece sollevare lo sguardo alla telecamera,<br />

<strong>il</strong> pallino rosso era acceso, l’occhio<br />

puntato su di me. Strinsi i cordoni del giaccone<br />

e rientrai in casa. Tornai a frugare tra i<br />

vestiti, questa volta nello scomparto più basso<br />

dell’armadio. Metà erano regali di Irina. Pescai<br />

a casaccio un paio di pantaloni di vigogna e<br />

li provai: larghi anche quelli. Questo avrebbe<br />

dovuto farmi preoccupare – dopotutto papà<br />

era più magro di me – ma decisi che non ne<br />

avevo <strong>il</strong> tempo. In fondo all’armadio trovai una<br />

vecchia cintura col fibbione, lo stemma della<br />

Etnies spiccava appuntito fin quasi all’ombelico,<br />

l’ultimo buco stringeva appena attorno ai<br />

fianchi. La inf<strong>il</strong>ai comunque.<br />

Scesi le scale implorando un dio qualsiasi di<br />

non imbattermi in nessuno, nei pochi metri di<br />

viale che mi separavano dallo spaccio.


Illuso.<br />

Incrociai un gruppo di pischelli ancor prima<br />

di aver svoltato l’angolo.<br />

«Oh, va che legna!» esclamò uno, appena si<br />

trovò l’ombra del mio cappotto sulla testa incappucciata,<br />

«Bagaz, legna seria!»<br />

I pischelli più cresciuti erano troppo impegnati<br />

a gestire la situazione a Roma per preoccuparsi<br />

di chi bazzicasse i loro marciapiedi,<br />

quelli sotto i venti invece non te ne lasciavano<br />

passare una. Galvanizzati dalla mia apparizione,<br />

gli altri mocciosi si unirono entusiasti a<br />

quel coro incomprensib<strong>il</strong>e di fonemi. Nei loro<br />

occhi adolescenti br<strong>il</strong>lava un’arroganza che<br />

ancora oggi fatico a comprendere. Un osservatore<br />

distratto li avrebbe potuti scambiare<br />

per bambini che hanno trovato la PlayStation<br />

sotto l’albero di Natale. In realtà avevano più<br />

gli occhi del randagio che trova una bistecca<br />

sdraiata in una ciotola. Non gli sembrava vero<br />

di averne incrociato uno, così, senza nemmeno<br />

bisogno di doverlo rincorrere.<br />

Il più piccolo dei quattro, un ragazzino incappucciato<br />

avvolto in un numero imprecisato<br />

di indumenti neri, si avvicinò a me, gli altri lo<br />

seguirono obbedienti. Arrivò a sfiorare le mie<br />

Doc Marteen’s con la punta delle sue scarpe di<br />

tela e alzò lo sguardo: due occhi chiari e incazzati<br />

spuntavano a malapena tra <strong>il</strong> cappuccio e<br />

lo sciarpone nero.<br />

«Bè» disse dopo avermi fissato per un po’<br />

«C’hai niente da dire?»<br />

Avevo fin troppo da dire. In un’altra vita<br />

gli avrei volentieri chiesto che ci facevano in<br />

strada a quell’ora del giorno, perché non se ne<br />

stavano a scuola a dormire come tutti i loro coetanei.<br />

Ma poi ricordai che da due settimane<br />

la scuola era sospesa, e ai pischelli più piccoli<br />

non pareva vero di poter scorrazzare per le<br />

strade in pieno giorno a bullarsi della Vittoria.<br />

«Qualche problema, eh, indignado?» incalzò<br />

<strong>il</strong> ragazzo, vedendo che non distoglievo <strong>il</strong> mio<br />

sguardo dal suo.<br />

Mi morsi l’interno della guancia e scossi<br />

la testa. Mi sforzavo di risultare innocuo, ma<br />

sapevo che non sarebbe servito. Un istante<br />

dopo ce li avevo addosso. Due di loro si lanciarono<br />

ad afferrare i risvolti del giaccone e<br />

me lo strapparono dalle spalle, gli altri due si<br />

concentrarono sulle scarpe e si adoperarono a<br />

20<br />

staccarmele dai piedi a forza: sembravano un<br />

branco di piranha con le sciarpe di p<strong>il</strong>e. Ben<br />

presto mi ritrovai in maglietta e pantaloni, le<br />

calze che si appiccicavano al cemento gelido.<br />

A nemmeno a dieci metri dalla porta di casa.<br />

«Fammi indovinare» riprese <strong>il</strong> pischello.<br />

Sembrava molto più tranqu<strong>il</strong>lo, ora che mi vedeva<br />

saltellare infreddolito sul marciapiede<br />

«Hai finito la carta igienica per asciugarti dopo<br />

le seghe?»<br />

Gli altri del branco esplosero a ridere. Lui invece<br />

rimase serio, continuava a scrutarmi con<br />

quegli occhi a fessura.<br />

«Allora, che sei uscito a fare?»<br />

«Ho finito l’olio»<br />

«Non te lo portano a casa?»<br />

«Lo spaccio web non ne ha più.»<br />

Da dietro le spalle del capo arrivarono le<br />

urla di un altro:<br />

«Va’ che te lo diamo noi, l’olio!»<br />

Inclinai la testa in tempo per vedere uno di<br />

loro zamp<strong>il</strong>lare un fiotto di piscio dritto sul<br />

giaccone che era stato di mio padre. Nel frattempo,<br />

un altro pischello cercava di dargli<br />

fuoco passando l’accendino sotto una delle<br />

maniche. A giudicare dalle espressioni delle<br />

loro facce, dovevo essermi imbattuto in un<br />

assortimento genetico piuttosto sfortunato.<br />

Quelli non sarebbero stati in grado nemmeno<br />

di aprirla, una brochure universitaria.<br />

A parte forse <strong>il</strong> capo, che nel frattempo si era<br />

girato a urlare al ragazzino con la patta sbottonata<br />

«Ferda, ti si vede la faccia. Copriti, gesucristo!»<br />

Tra tutti, sembrava l’unico dotato di un cervello<br />

funzionante.<br />

Tornò a fissarmi: «Lo sai, vero, perché ti stiamo<br />

facendo questo?»<br />

Annuii. Chiaro che lo sapevo. Ero la personificazione<br />

del fallimento globale, <strong>il</strong> capro espiatorio<br />

che avevano scelto per giustificare quegli<br />

ultimi anni di sfascio sociale.<br />

«Dove erano quelli come te mentre gli altri<br />

si mangiavano tutto?» la sua voce assunse un<br />

tono misurato, quasi gli desse fastidio snocciolarmi<br />

quel sermone «Quanti anni avete passato<br />

a farvi i cazzi vostri? Indignados mantenuti<br />

del mio cazzo. Cosa pensavate, che sarebbe<br />

tornato tutto a posto così, con un giro di piog-


gia? Che bastava gonfiare palloncini e sventolare<br />

bandiere colorate?»<br />

Una risposta ce l’avevo, ma le sue non erano<br />

davvero domande.<br />

«Lo sai quanti di noi ci sono rimasti secchi,<br />

in questi mesi? Eh, lo sai?»<br />

Lo sapevo, e con esattezza pure.<br />

«M<strong>il</strong>lequattrocentocinquantuno» s<strong>il</strong>labò lui,<br />

lentamente, la voce rotta dall’emozione «Senza<br />

contare gli stranieri, e quelli che ci hanno<br />

lasciato le palle tra rappresaglie e vendette. E<br />

voi? Eh, quanti di voi?»<br />

«Nessuno...» sospirai.<br />

«Non ho sentito.»<br />

Alzai la voce: «Nessuno.»<br />

Il ragazzino sputò in terra, un po’ di saliva<br />

mi sfiorò l’alluce contratto dal gelo. «Esatto. Ve<br />

ne siete stati alla finestra a guardare, vi siete<br />

divertiti a riempire i vostri blog buonisti, mentre<br />

noi sputavamo sangue e ci riprendevamo<br />

tutto. E ora volete tornare in strada a fare la<br />

bella vita. Mantenuti del mio cazzo...»<br />

«In realtà faccio la fame» intervenni io «Tra<br />

le traduzioni e gli articoli ci vivo a malap...»<br />

Non la prese come speravo. Si avvicinò lentamente<br />

e abbassò la voce:<br />

«Muto. Devi stare muto, capito? Ti va bene<br />

che non ti prendiamo a calci nel culo, ti va.»<br />

In gola mi si andava gonfiando un bolo d’orgoglio<br />

grosso quanto un pugno. Lo mandai giù<br />

a fatica e annuii di nuovo.<br />

Il ragazzino liberò un altro scaracchio e fece<br />

segno agli altri di andare. Quelli mollarono a<br />

terra i miei vestiti e lo seguirono. Aspettai di<br />

vederli scomparire dietro l’angolo prima di<br />

correre a spegnere le fiamme che si stavano<br />

divorando la manica sinistra del giaccone. Lo<br />

trascinai nella neve, lo scrollai e lo alzai in controluce.<br />

Si poteva ancora indossare. Delle Doc<br />

Marteen’s riuscii a ritrovarne solo una e, quando<br />

la inf<strong>il</strong>ai, la pianta del piede atterrò su qualcosa<br />

di umido. Mi incamminai verso lo spaccio<br />

sperando che fossero sputi.<br />

Irina se ne era andata da quasi sei mesi. In<br />

casa aveva lasciato un ingombrante vuoto fatto<br />

di cartelle del pc, blu-ray e vecchi vestiti.<br />

Alla fine le avances del vecchio avevano funzionato.<br />

Il perché lo sapevamo entrambi. Non<br />

si trattava di egoismo. Il fatto era che in due,<br />

così, non ce la si poteva fare, ne avevamo par-<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

21<br />

lato tante volte. Lei però aveva voluto lo stesso<br />

chiuderla a porte sbattute. Forse perché era<br />

più fac<strong>il</strong>e incolpare me che accettare l’ineluttab<strong>il</strong>ità<br />

di quella situazione. Mi aveva dato del<br />

frocio e dell’inetto, aveva sfasciato un paio di<br />

vecchie cornici, mentre turbinava per casa raccattando<br />

vestiti a casaccio. Poi aveva inf<strong>il</strong>ato la<br />

porta senza salutare. Un copione scritto e riscritto.<br />

Non la biasimai. La scelta era stata fatta,<br />

ne eravamo convinti entrambi e non c’era<br />

modo di uscirne con <strong>il</strong> sorriso sulle labbra. Da<br />

quando sta dal vecchio non si è più fatta sentire.<br />

Spero stia bene. Dico sul serio.<br />

Anche da lontano, si intuiva un grande affollamento<br />

davanti allo spaccio. Decine di pensionati<br />

si agitavano alla ricerca di un carrello libero.<br />

Alcuni scivolavano tra la folla inchiodati sui<br />

Segway, vecchie ottuagenarie galleggiavano<br />

spiaggiate sulle loro autoseggiole, come tante<br />

api che ronzavano al rallentatore intorno a un<br />

alveare. Strinsi quello che rimaneva dei cordoni<br />

del giaccone e mi misi in coda per procurarmi<br />

un carrello.<br />

Superai la torma di anziani senza troppi fastidi.<br />

Un paio di vecchi si impennarono sui loro<br />

bicicli appena in tempo per cant<strong>il</strong>enarmi uno<br />

dei loro insulti in dialetto stretto, e io oltrepassai<br />

le porte in vetro riflettendo che se uno di<br />

quei ruderi si fosse trovato a interloquire con<br />

uno dei pischelli che mi avevano accolto fuori<br />

casa nessuno dei due avrebbe afferrato nulla.<br />

Ancora sovrappensiero, passai di fronte al<br />

bancone degli ortaggi senza accorgermi che<br />

proprio davanti a me c’era l’ultimo cespo di<br />

lattuga e che, alle mie spalle, una vecchia cicciona<br />

sbavava preoccupata infossata nella sua<br />

autoseggiola. Non feci in tempo ad allontanarmi<br />

che una mano mi afferrò per un gomito.<br />

Era un poliziotto, la divisa lucida e <strong>il</strong> cappello<br />

calcato sulla fronte non bastavano a celare la<br />

sua vera età. Sicuramente non superava i venticinque.<br />

«Devo chiederti di spostarti» mi disse, con<br />

un misto di educazione e disprezzo «Non sei<br />

qui per la lattuga, vero?»<br />

Mi liberai dalla stretta e mi allontanai verso<br />

gli scaffali centrali. Con la coda dell’occhio<br />

scorsi la vecchia che si inclinava in avanti proiettando<br />

l’autoseggiola verso <strong>il</strong> cespo. Potrei<br />

scommettere di averla sentita grufolare.


Erano anni che non passavo dallo spaccio,<br />

l’ordine degli scaffali era stato stravolto. Avrei<br />

giurato che le bottiglie d’olio fossero giusto accanto<br />

ai cartoni del vino, e invece al loro posto<br />

spiccava la schiera biancastra delle grappe.<br />

Quando mi ritrovai per la terza volta davanti al<br />

bancone dei surgelati la mia scorta di pazienza<br />

era ormai in riserva. Nello spaccio si schiattava<br />

dal caldo, mi sarei levato volentieri <strong>il</strong> giaccone<br />

bruciacchiato, ma a quel punto sarei rimasto<br />

in maglietta, e non ci voleva una laurea a capire<br />

che la mia t-shirt slavata dei Joy Division<br />

avrebbe attirato troppi occhi indiscreti. Oltretutto<br />

era ormai mezz’ora che giravo tra gli<br />

scaffali spingendo un carrello vuoto con una<br />

sola scarpa.<br />

«Ehi!»<br />

Quello che forse voleva essere un sussurro,<br />

suonò più come un urlo con la sordina. Mi voltai.<br />

«Hai finito di far cigolare quell’affare? Sembri<br />

scappato da una corsa a premi»<br />

A meno di un metro dal mio carrello, le braccia<br />

ficcate in uno scatolone di insaccati, una ragazza<br />

mi puntava addosso due occhi grigi delineati<br />

da un orlo impercettib<strong>il</strong>e di trucco. Era<br />

carina, un po’ troppo bassa forse. Il suo corpo<br />

era una progressione armoniosa di curve<br />

strozzate dentro la rigida uniforme rossa degli<br />

addetti alla clientela. Appese un altro salame<br />

all’espositore e si decise a incrociare di nuovo<br />

<strong>il</strong> mio sguardo. La poca cortesia di circostanza<br />

che aveva usato fino a quel momento svanì in<br />

un’espressione infastidita.<br />

«Che vuoi?»<br />

«L’olio.»<br />

Si sollevò dallo scatolone e sbuffò.<br />

«È ancora in magazzino. Fai a meno per stavolta.»<br />

«Non puoi andare a prendermene una bottiglia?»<br />

La ragazza allargò gli occhi sbalordita e sollevò<br />

la visiera del berretto per asciugarsi la<br />

fronte.<br />

«Che cosa ci fai qui?» chiese, tornando a rimestare<br />

nello scatolone.<br />

«Te l’ho detto. Mi serve l’olio.»<br />

«E non puoi procurartelo online come tutti<br />

gli altri?»<br />

«Il mio spaccio ha esaurito le scorte.»<br />

22


Lei non diede segno di avermi ascoltato.<br />

Mentre armeggiava con gli insaccati la sua<br />

coda di capelli neri si agitava in controtempo<br />

con le sue spalle.<br />

«Colpa degli scontri» aggiunsi.<br />

Per un po’ la ragazza continuò a darsi da fare<br />

coi salami, poi chinò la testa esausta, ne prese<br />

in mano uno e lo ributtò nello scatolone con<br />

violenza.<br />

«Insomma, vuoi levarti dalle palle?» disse,<br />

alzandosi in piedi.<br />

«Sono venuto qui solo per l’olio.»<br />

«E per crearmi problemi, a quanto pare.»<br />

Era preoccupata, continuava a guardarsi intorno.<br />

Prese a squadrarmi lentamente. Per prima<br />

cosa notò la manica carbonizzata, poi la calza<br />

lercia. La sua fronte cominciò ad appianarsi.<br />

«Cristo. Incazzati?»<br />

Annuii.<br />

«Ma non dormono, la mattina?»<br />

«Non oggi, stanno ancora festeggiando. Toccherà<br />

farli stancare un bel po’, prima della nanna.»<br />

Le scappò un sorriso. Aveva un bel sorriso.<br />

La ragazza mosse lo sguardo ad abbracciare<br />

l’intero corridoio e, trovandolo vuoto, si r<strong>il</strong>assò<br />

un poco.<br />

«Tu cosa sei?»<br />

«Indovina.»<br />

Si morse <strong>il</strong> labbro inferiore.<br />

«Secondo me sei un Scienze della Comunicazione.»<br />

«Acqua. Biotecnologie. Tu?»<br />

Sorrise di nuovo: «Indovina».<br />

«F<strong>il</strong>osofia» risposi, a bruciapelo.<br />

«Bravo. Ora dimmi come cazzo hai fatto.»<br />

«L’hai detto tu. Ho tirato a indovinare.»<br />

Questa volta la vidi arrossire. Ma durò poco.<br />

Quando si voltò a scrutare <strong>il</strong> fondo del corridoio<br />

una coppia di vecchie stava guardando dalla<br />

nostra parte. Tornò a indossare la sua espressione<br />

rigida.<br />

«D’accordo, vado a prenderti l’olio. Tu vedi<br />

di non muoverti da qua, però, stai diventando<br />

un fenomeno da circo con quel carrello.»<br />

La guardai sgambettare fino a scomparire<br />

dietro i portoni del magazzino. Solo quando<br />

mi diedi un’occhiata intorno capii cosa intendesse.<br />

L’androne dello spaccio era occupato<br />

dal s<strong>il</strong>enzio masticato dei suoi clienti abituali,<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

23<br />

nell’aria vibrava solo <strong>il</strong> ronzio ovattato delle<br />

autoseggiole. In fondo al corridoio, due grasse<br />

signore si sporgevano a confabulare dalle loro<br />

monovetture senza perdermi d’occhio. Quando<br />

si accorsero di essere state viste si ritrassero<br />

contro gli schienali e ritornarono placide a<br />

galleggiare tra gli scaffali.<br />

Là dentro la vita scorreva alla moviola, e le<br />

mie scorrazzate col carrello dovevano aver<br />

sortito tra quei plantigradi l’effetto di un inaspettato,<br />

rut<strong>il</strong>ante gran premio.<br />

La coda più corta era quella degli acquisti<br />

da cinque pezzi, ma per qualche motivo idiota<br />

avevo deciso di procurarmi un carrello. Appoggiai<br />

la bottiglia d’olio di traverso sulla griglia<br />

metallica e procedetti fino alla cassa dei<br />

tabacchi, dove una decina di vecchi col Segway<br />

si incolonnavano a sfiorare <strong>il</strong> bancone gelati.<br />

L’occhio mi cadde sulle lancette dell’enorme<br />

cipollone che uno di loro portava al polso. Si<br />

stava facendo tardi e io avevo un pezzo da pubblicare<br />

per pranzo. A quel tempo potevo ancora<br />

permettermi di segare una commissione,<br />

ma erano comunque cinque euro buttati.<br />

Mentre aspettavo, diedi un’occhiata allo<br />

schermo sopra la cassa. Il canale all news monitorava<br />

ininterrottamente la situazione a<br />

Roma. In zona Tuscolana c’erano ancora edifici<br />

che bruciavano e, in attesa del passaggio di<br />

consegne ufficiale, i servizi di soccorso erano<br />

stati ridotti al minimo.<br />

Le immagini che scorrevano sullo sfondo<br />

erano le stesse da giorni: i video amatoriali<br />

delle prime rivolte, quelle dell’Agosto Rovente.<br />

Migliaia di ragazzini che mettevano a ferro e<br />

fuoco le piazze in ogni quartiere e legioni di<br />

sbirri in antisommossa che sparavano lacrimogeni<br />

ad altezza di pischello. Le prime interviste<br />

ai leader della rivolta, le teste scosse<br />

e i proclami dei politici che, all’epoca, ancora<br />

pensavano di poter cavalcare un’altra protesta.<br />

Poi la svolta: l’avanzata dei Novecentom<strong>il</strong>a,<br />

l’ondata nera di ragazzini che, bloccati all’imbocco<br />

di Piazza Colonna, con un movimento<br />

sincrono, terrificante, si levavano le sciarpe e<br />

gli zaini, scoprivano guance glabre e fronti corrucciate<br />

e cominciavano a urlare.<br />

Il s<strong>il</strong>enzio che seguì credo non riuscirò mai<br />

a dimenticarlo, io come nessun altro. Mentre i<br />

poliziotti della prima f<strong>il</strong>a r<strong>il</strong>assavano le spal-


le e si alzavano la visiera, una prima schiera<br />

di Incazzati si staccò dal corteo e affondò le<br />

mani negli zaini. Ne uscirono molotov, pietre,<br />

fionde, fiale sedative, qualcuno già aveva cominciato<br />

a portarsi in piazza le pistole. Erano<br />

pochi, troppo pochi, per poter rappresentare<br />

una vera minaccia. Gli agenti dell’antisommossa<br />

caricarono praticamente all’istante.<br />

A quel punto <strong>il</strong> f<strong>il</strong>mato si interrompeva per<br />

concentrarsi sulle singole immagini. Nella<br />

prima, una dozzina agenti inginocchiati puntavano<br />

i lancia-lacrimogeni come fossero fuc<strong>il</strong>i,<br />

mentre i reparti mob<strong>il</strong>i si proiettavano in<br />

avanti in un’unica nuvola sfocata. La seconda,<br />

scattata da un elicottero, mostrava lo sparuto<br />

gruppo di Incazzati che attendevano a gambe<br />

larghe, apparentemente calmi, gli zaini in<br />

mano e <strong>il</strong> volto scoperto. La terza e ultima immagine<br />

mostrava i celerini che interrompevano<br />

bruscamente la carica e andavano a fermarsi<br />

a pochi metri dal gruppo di ragazzini armati.<br />

Il perché lo si capiva solo guadando ai margini<br />

dell’inquadratura . Dalle vie laterali, si stavano<br />

riversavano nella piazza centinaia di persone<br />

munite di manganelli, caschi e divise. Nessuno<br />

avrebbe saputo distinguerli da poliziotti<br />

veri: le visiere, le pettorine, gli stivali, persino<br />

i parastinchi erano state riprodotti nei minimi<br />

dettagli.<br />

Durante le lunghe riunioni che, nei giorni<br />

successivi all’Agosto Rovente, avevano occupato<br />

gli uffici del Ministero degli Interni, erano<br />

state valutate le eventualità più inverosim<strong>il</strong>i.<br />

Nessuno, però, aveva preso in considerazione<br />

la possib<strong>il</strong>ità che <strong>il</strong> movimento seminasse inf<strong>il</strong>trati<br />

tra le f<strong>il</strong>e della Polizia di Stato.<br />

In un primo momento i poliziotti provarono<br />

a contrastare la carica. Il f<strong>il</strong>mato mostrava due<br />

onde nere e speculari che si scontravano nel<br />

centro della piazza. Gli sbirri resistettero per<br />

una decina di minuti, poi, una volta che le due<br />

compagini si furono mescolate, in assenza di<br />

numeri di identificazione sulla pettorina o sul<br />

casco, finirono per aggredirsi tra loro.<br />

La voce dello speaker ripercorreva monocorde<br />

la cronologia degli eventi, e intanto sullo<br />

schermo scorrevano i primi piani dei volti carbonizzati<br />

di due poliziotti, le fronti tumefatte<br />

degli studenti meno veloci, le ambulanze che<br />

sfrecciavano nella notte come in un’improba-<br />

24<br />

b<strong>il</strong>e competizione.<br />

«Non abbiamo niente da dire». Lo slogan degli<br />

Incazzati, che a quel punto aveva già perso<br />

gran parte del suo fascino (dato che i pischelli<br />

ormai non perdevano occasione per sciorinare<br />

i loro proclami), sventolava a caratteri cubitali<br />

su uno stendardo lasciato in mezzo alla<br />

piazza, tra i sanpietrini sbeccati e le auto rovesciate.<br />

L’idea gliel’aveva data un parlamentare.<br />

Quando gli Incazzati si erano presentati<br />

in massa a Montecitorio a chiedere udienza,<br />

quello li aveva liquidati borbottando che non<br />

c’era bisogno di allungare i microfoni: «tanto<br />

non hanno nulla da dire». I ragazzi lo avevano<br />

preso alla lettera, e <strong>il</strong> settembre successivo<br />

quel parlamentare era stato uno dei primi a<br />

lasciare Montecitorio dentro un sacco chiuso.<br />

Le immagini si spostarono dai moti di Piazza<br />

Colonna a quelle del raccordo anulare, intasato<br />

giorno e notte dai pullman degli Incazzati<br />

che confluivano da tutti i grandi centri abitati,<br />

per raggiungere Piazza Montecitorio, dove stava<br />

cominciando la prima delle Sei Giornate di<br />

Roma. Quello che al tempo sorprese tanti commentatori,<br />

nei salotti televisivi, fu <strong>il</strong> numero<br />

crescente di “facce brune” - come aveva avuto<br />

l’ardire di chiamarli un noto opinionista - che<br />

avevano iniziato a punteggiare folle altrimenti<br />

composte da studenti e precari. Il tizio, l’opinionista,<br />

era un povero coglione razzista, uno<br />

dei tanti che al tempo intasavano le frequenze<br />

televisive, ma in qualche modo ci aveva visto<br />

giusto. Per la prima volta immigrati di prima<br />

e seconda generazione scendevano in piazza<br />

confondendosi fra gli studenti e i precari. Non<br />

era un corteo tematico, non c’erano diritti da<br />

rivendicare. Le rivolte di Roma non avevano<br />

niente a che spartire con le tante manifestazioni<br />

di settore a cui <strong>il</strong> paese (e la polizia) si<br />

erano placidamente abituati. Non c’erano megafoni,<br />

bandiere e persone che incrociavano le<br />

braccia. Semplicemente, un gruppo di ragazzi<br />

aveva dichiarato guerra al Palazzo, e in migliaia<br />

li avevano seguiti.<br />

A rivederle, quelle immagini avevano un che<br />

di ridicolo: da una parte un centinaio di parlamentari<br />

intrappolati nelle aule della Camera,<br />

dall’altra la folla di Incazzati che si accalcava<br />

prima attorno all’obelisco di Montecitorio, poi<br />

attorno ai portoni. Un coagulo compatto, so-


stanzialmente immune ai sempre più timidi<br />

interventi di esercito e forze dell’ordine.<br />

Spinsi <strong>il</strong> carrello di qualche centimetro dietro<br />

alla colonna di vecchi e mi sorpresi a sorridere.<br />

Questo forse fa di me un cinico. Il fatto<br />

è che negli ultimi sei giorni erano morte decine<br />

di politici e centinaia di ragazzini. Avremmo<br />

dovuto essere tutti in lutto, invece le strade<br />

pullulavano di mocciosi che festeggiavano<br />

e pensionati che si aggrappavano ancora più<br />

forte alle loro abitudini. L’immagine che concludeva<br />

la carrellata era emblematica: un Capo<br />

dello Stato alle soglie dei novant’anni e un ragazzo<br />

di ventitré si stringevano la mano dopo<br />

aver firmato quello che i giornali avrebbero<br />

battezzato come l’Accordo. Erano nemici giurati,<br />

appartenevano a due mondi inconc<strong>il</strong>iab<strong>il</strong>i,<br />

ti saresti aspettato di vederli saltarsi vicendevolmente<br />

alla gola.<br />

Invece sorridevano, tutti e due.<br />

Alla quinta carrellata di articoli pregenerati<br />

gli occhi mi vanno insieme e le scritte sullo<br />

schermo si confondono in un amalgama grigiastro.<br />

Sono già le sei, l’alba si avvicina e a me<br />

mancano ancora tre sessioni prima di potermi<br />

prendere una pausa.<br />

Mi strofino gli occhi, facendo attenzione a<br />

non cavarmi una lente, e mi rimetto a sfrondare<br />

la robaccia che continua a riempirmi <strong>il</strong> feed:<br />

gallery vecchie di settimane, collage di virgolettati,<br />

articoli di sport arrabattati da software<br />

privi di sintassi, mosaici di vecchi pezzi travestiti<br />

da approfondimento. Mentre mi impegno<br />

a cestinare decine su decine di contenuti web,<br />

mi convinco che da qualche parte nella Rete ci<br />

debba essere un esercito di bot progettati per<br />

rendermi la vita impossib<strong>il</strong>e. Quando ero piccolo<br />

(e quando ancora esistevano gli spot televisivi)<br />

c’era una pubblicità in cui un idraulico<br />

si dannava a strozzare decine di rubinetti che<br />

a turno inondavano d’acqua un improbab<strong>il</strong>e<br />

gabinetto piastrellato. Ecco, io sono l’equivalente<br />

di quell’idraulico nell’Anno Domini 2021,<br />

solo che al posto del gabinetto piastrellato c’è<br />

<strong>il</strong> buco nero del Web 2.9 e al posto dei rubinetti<br />

una schiera interminab<strong>il</strong>e di feed.<br />

Sono passati due mesi dalla firma dell’Ac-<br />

*<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

25<br />

cordo, e a pensarci bene anche dall’ultimo pezzo<br />

originale che ho scritto e pubblicato. Dopo<br />

tre settimane di sospensione sono stato promosso<br />

a F<strong>il</strong>tro, ora passo dodici ore al giorno a<br />

sfrondare la robaccia che bot e stagisti sguinzagliano<br />

in Rete. Un lavoro del cazzo, eh, ma se<br />

non altro si mangia.<br />

Nell’appartamento rimbalzano le note isteriche<br />

di Minstrel in the Gallery dei Jethro Tull,<br />

soffocate a tratti dal ronzio insolente del robotaspirapolvere.<br />

Oggi letteralmente smanio all’idea<br />

di uscire, solo che manca ancora mezz’ora<br />

all’Orario di Raccordo, e non ho nessuna<br />

voglia di fare brutti incontri. La mia prossima<br />

domenica libera è fra venti giorni, per allora<br />

forse avrà smesso di fare freddo. Ho provato a<br />

chiedere che mi alzassero <strong>il</strong> riscaldamento, mi<br />

hanno risposto che l’Accordo non lo prevede.<br />

Non prima dei cinquanta.<br />

Ogni due per tre <strong>il</strong> robot-aspirapolvere mi<br />

finisce contro un piede, o si incastra in un angolo<br />

e mi tocca andare a mollargli un calcio<br />

per farlo ripartire. Dovrei dargli un’aggiustata,<br />

ma le istruzioni ce le aveva mamma e non ho<br />

voglia di andarle a cercare. Stare seduto tutto<br />

<strong>il</strong> giorno ti mette addosso una gran brama di<br />

correre, oltre che di scopare. In compenso ti<br />

passa la voglia di farti la doccia e l’odore che<br />

sale dalle ascelle comincia a disgustare persino<br />

me.<br />

Finisco di strappare le mie erbacce digitali e<br />

dò un’occhiata alla pendola della nonna: le 6 e<br />

40. È ora. Torno in camera dei miei e pesco dal<br />

bozzolo dell’asciugatrice una maglietta a caso.<br />

Mi rimane appalottolata in mano una vecchia<br />

t-shirt dei Bad Religion. Per qualche motivo,<br />

mi trovo a ripensare alla prima volta che l’ho<br />

indossata.<br />

Al tempo era nera, con <strong>il</strong> simbolo della croce<br />

vietata ancora ben distinguib<strong>il</strong>e. A sedici anni<br />

comprare una maglietta ha la stessa valenza<br />

simbolica di una prima comunione, soprattutto<br />

se i Bad Religion vengono a suonare nella<br />

tua città nella prima data italiana degli ultimi<br />

cinque anni. L’avevo comprata all’ingresso,<br />

staccandola dalla schiera delle magliette taroccate.<br />

Quella sera avevo pogato tanto forte<br />

da farmi scoppiare la testa, al primo circle pit<br />

la cucitura della spalla sinistra era andata in<br />

vacca, aprendo un grosso sbrego sulla clavi-


cola che resiste intatto ancora oggi. Pogavamo<br />

per pura urgenza fisica, ci lanciavamo nella<br />

mischia come s<strong>il</strong>uri di muscoli e ossa e ne<br />

uscivamo solo quando sentivamo <strong>il</strong> cervello<br />

sbattere contro le pareti del cranio. Pogavamo<br />

perché avevamo passato la settimana chini sui<br />

libri, ad imp<strong>il</strong>are i mattoni che avrebbero dovuto<br />

garantirci un futuro solido. La nostra non<br />

era ancora rabbia, era ansia di vivere, e noi la<br />

gestivamo così. Qualcuno aveva mollato le lezioni,<br />

altri avevano trovato lavoro, la maggior<br />

parte di noi però ci dava dentro ogni pomeriggio.<br />

Perché era quello che ci voleva, dicevano,<br />

per cucinarsi un’esistenza dignitosa. Nessuno<br />

sospettava fosse tutta una grossa presa per <strong>il</strong><br />

culo.<br />

Ritorno in soggiorno strisciando i piedi sulle<br />

piastrelle fredde, sperando in qualche modo di<br />

riscaldarli. Nell’altro appartamento i cani latrano<br />

come ossessi. Continuano da ore ormai,<br />

e stamattina sono sicuro di non aver sentito la<br />

vecchia girare la chiave nella porta. Ci dev’essere<br />

morta, alla fine, in mezzo ai suoi cani del<br />

cazzo.<br />

Scendo le scale seguito dal ronzio delle telecamere<br />

e atterro in strada appena in tempo<br />

per intercettare i primi chiarori della giornata.<br />

Le strade di febbraio sono ancora coperte da<br />

Fabio Deotto è nato 30 anni fa a Vimercate. Da allora ha pubblicato racconti su Linus, Follelfo,<br />

Eleanore Rigby, Inchiostro, Carm<strong>il</strong>laonline. Nel 2007 uno dei suoi racconti si è classificato<br />

secondo al premio “Storie del Novecento - Serravalle Scrivia” ed è stato pubblicato<br />

nell’antologia Di vita, di morte e di canzoni. Le storie del Novecento (MobyDick editore,<br />

2007). Per Edizioni BD ha tradotto dall’inglese <strong>il</strong> saggio Osamu Tezuka. Il dio del manga e<br />

l’autobiografia Alice Cooper. La mia vita tra golf e rock’n’roll. Per Codice Edizioni ha tradotto<br />

<strong>il</strong> saggio La bussola del piacere. Tra <strong>il</strong> 2008 e <strong>il</strong> 2012 ha pubblicato articoli per le testate<br />

online Wired.it, Owni.eu, <strong>il</strong> Sole24Ore.it e Web-target.com. Oggi lavora come traduttore e<br />

giornalista freelance in condizioni di italianissima precarietà, scrive regolarmente per l’edizione<br />

web del magazine Wired e collabora con la sezione tech e scienza di Panorama.it.<br />

Nel tempo libero picchia le pelli di una vecchia Sonor Force 1000 in una band progressivepunk.<br />

26<br />

un sott<strong>il</strong>e manto di brina, le prime cince azzurre<br />

frusciano i loro canti tra gli alberi spogli e<br />

tutte le auto sono parcheggiate s<strong>il</strong>enziose. L’unico<br />

suono è quello delle mie Timberland che<br />

comprimono l’ultima neve dell’inverno.<br />

Poco più avanti, sulla strada, una porta viene<br />

aperta e sbattuta. Un pischello deve aver fatto<br />

tardi, e ora corre a consumare le nove ore di<br />

sonno che lo separano dalla prima campanella<br />

della Serale. I pensionati, invece, le loro sette<br />

le devono ancora finire. Non saranno in strada<br />

prima di un’altra mezz’ora.<br />

Qualcuno dice che si ammazzerebbe, piuttosto<br />

che avere quarant’anni nel 2021. Qualcuno<br />

dice che noi della generazione di mezzo siamo<br />

i più miserab<strong>il</strong>i, carcerati urbani costretti<br />

a ritagliarsi una mezz’ora d’aria nella manciata<br />

di minuti in cui la popolazione che conta<br />

appoggia la testa al cuscino. Magari hanno<br />

ragione. Ma a dirla tutta, <strong>il</strong> Raccordo coincide<br />

con la parte più evocativa dell’intera giornata,<br />

quando la notte ancora si sforza di sopravvivere<br />

mentre <strong>il</strong> sole lentamente sfonda la linea<br />

dell’orizzonte, spruzzando fasci arancio-giallastri<br />

sulle campagne.<br />

È l’unico momento di vera bellezza di tutta<br />

la giornata.<br />

Gli altri non sanno cosa si perdono. •


Il <strong>collezionista</strong> aveva cominciato con i penny.<br />

O con le conchiglie, non ricordava bene. Le<br />

due cose, per quanto agli antipodi, nella sua<br />

visione ossessiva erano un tutt’uno. Le conchiglie,<br />

indifferenti e primitive, gli venivano<br />

portate dalla risacca, oppure gli arrivavano, in<br />

pacchetti imbottiti di carta velina, dalle scorte<br />

di qualche magazzino. Non ne esistevano due<br />

uguali, come le impronte digitali o i fiocchi di<br />

neve, ma si prestavano a una gerarchia di valore<br />

basata sulla scarsità, diventando oggetto di<br />

cataloghi e liste. Fu <strong>il</strong> fatto che in fin dei conti<br />

si trattasse di teschi, di assemblaggi di carapaci,<br />

a spianare la strada alla morbosità della<br />

sua passione. Abramo Lincoln era un gettone<br />

screpolato e senza valore, marrone e barbuto,<br />

una cascata sporca e disargentata, in caduta<br />

libera dalle tasche dei suoi genitori, da riorganizzare<br />

segretamente in bustine di cartone.<br />

Un penny non era denaro, quanto <strong>il</strong> DNA del<br />

denaro. Trovare l’incisione dell’anno e del conio<br />

sotto <strong>il</strong> naso di Lincoln era <strong>il</strong> primo passo<br />

verso la decodifica dell’iscrizione segreta alla<br />

base dell’universo, l’embrione della cospirazione<br />

planetaria. I penny con la spiga incisa su<br />

una delle facce erano la prova di un passato di<br />

innocenza, e che gli americani erano stati scacciati<br />

dall’Eden. I cent di alluminio del periodo<br />

della guerra erano la prova dell’esistenza di<br />

vita su Marte.<br />

C’era qualcosa di speciale nell’ordinare teste<br />

di Lincoln in f<strong>il</strong>e regolari, era lo sport ideale<br />

per i pomeriggi fiacchi. Il loro prof<strong>il</strong>o discontinuo<br />

formava un sequenza di cifre, un codice<br />

binario che a sua volta disegnava una freccia<br />

diretta dal passato al futuro. E sebbene in quel<br />

futuro le avrebbe archiviate per sempre in<br />

qualche barattolo, per <strong>il</strong> disprezzo di suo padre,<br />

era inchiodato al presente dalla precisione<br />

e dalla ripetitività dei penny, e trascorreva<br />

ore pigre e oziose tra le braccia dei raccoglitori<br />

blu dalla copertina ruvida. Il problema erano<br />

le conchiglie, alle quali era molto più diffic<strong>il</strong>e<br />

dare un valore. Negli angoli delle loro scatole<br />

si accumulavano briciole che ne provavano <strong>il</strong><br />

degrado, la complicità con la polvere cosmica,<br />

con l’inumano flusso dell’entropia. Un giorno,<br />

durante una visita alla vicina dei nonni, notò<br />

sul tavolino della sala un terrib<strong>il</strong>e orologio decorato<br />

di conchiglie proveniente dalla Florida,<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

27<br />

IL<br />

COLLEZIONISTA<br />

di Jonathan Lethem<br />

traduzione di Giulio D’Antona<br />

diverse specie di indubbio valore, probab<strong>il</strong>mente<br />

rovinate da grumi di colla e lustrini. In<br />

quel momento capì che le conchiglie seguivano<br />

un ciclo. Erano orologi. Stavano appostate<br />

in fondali algosi e fangosi, immerse nella merda<br />

di polpo e di squalo.<br />

Furono queste le prime due collezioni che<br />

rovinò, le mappe di una prematura vergogna.<br />

Le cerniere dell’incantato raccoglitore dei<br />

penny si erano consumate. Le monete di un<br />

certo conio rifiutano di migrare sulla costa,<br />

di andare in pensione. Può darsi che esistesse<br />

un ragazzino identico a lui, da qualche parte,<br />

con l’inverso della sua raccolta, tutti i suoi<br />

pezzi mancanti, come succede a Gin Rummy o<br />

Go Fish. A proposito di pesci, le conchiglie puzzavano.<br />

Si portavano dietro non solo <strong>il</strong> rumore<br />

del mare, ma anche l’odore. Si ribellavano<br />

all’essere archiviate, erano solo di passaggio.<br />

Cominciò ad associarle ai riccioli di moccio<br />

giallo calcificato che conservava distrattamente<br />

sotto la scrivania.<br />

Un giorno sua madre gli diede un libretto<br />

di risparmio aperto accumulando gli assegni<br />

di compleanno della nonna. Gli mostrò come<br />

arrotolare le monete in c<strong>il</strong>indretti di carta, per<br />

farle valutare, trascinandosi allo sportello di<br />

una banca una volta a settimana, quindi gli offrì<br />

quella marea di schifosi penny incastrati nei<br />

cassetti e stipati nei barattoli sparsi dovunque.<br />

Lui capitolò, smise di esaminare le monete per<br />

leggerne la storia e smise di raccoglierle. Dopotutto,<br />

non valevano niente. Riconoscere <strong>il</strong>


valore di una solo di loro in mezzo a migliaia<br />

era troppo sim<strong>il</strong>e a guardarsi i piedi mentre<br />

si cammina. Dopo un po’ bisogna rassegnarsi<br />

ad accettare che un piede capiterà di fronte<br />

all’altro per sempre, anche se non ci si presta<br />

attenzione.<br />

Si chiese se non fosse destinato a collezionare<br />

qualsiasi cosa per <strong>il</strong> resto della sua vita.<br />

Cedette al richiamo delle figurine del baseball<br />

per circa cinque minuti, <strong>il</strong> tempo necessario<br />

per attraversare – alla velocità del suono – la<br />

fase manierista, modernista, minimalista e<br />

postmoderna. Le figurine dicevano troppo,<br />

con i loro emblemi scint<strong>il</strong>lanti, i simboli della<br />

squadra sparsi ovunque senza pudore, gli<br />

sguardi patetici e supplicanti dei veterani con<br />

un piede nella fossa e delle reclute senza speranza,<br />

sorrisi falsi e deprimenti. Il retro grigio<br />

era intasato da battute insulse e da statistiche,<br />

preistorie di lotte nelle leghe minori, nonché<br />

polveroso e inamidato. Chissà se qualcuno collezionava<br />

le gomme da masticare in regalo nei<br />

pacchetti… Le figurine servivano agli studi statistici<br />

– non per essere scambiate – non per essere<br />

conservate in bustine laminate – no, non<br />

erano che un prodotto, uno specchietto per le<br />

allodole, e <strong>il</strong> commesso della drogheria era infastidito<br />

dal fatto che uno non lo capisse subito<br />

e non convincesse suo padre a comprare tutto<br />

lo stock in una volta, anziché ciondolare attorno<br />

allo scaffale supplicandolo per settimane.<br />

Alla fine mandò in frantumi quella collezione<br />

in un unico, sconvolgente, atto di risentimento,<br />

uno spasmo di possessività e collage<br />

che coinvolgeva un paio di forbici giocattolo<br />

e un flacone di colla Elmer. All’interno del suo<br />

raccoglitore i California Angels presero a volteggiare,<br />

rosei putti del baseball, sopra un inferno<br />

roboante di Reds e Dodgers lambiti dalle<br />

fiamme. Guantoni smembrati sciamavano sulle<br />

pagine come falene, disgustati e attratti allo<br />

stesso tempo, esattamente come lui.<br />

Il flacone di colla sembrava essere <strong>il</strong> Ground<br />

Zero di ogni collezione, quei noduli di un bianco<br />

perlaceo e traslucido che tenevano assieme<br />

<strong>il</strong> caos turbinoso, devastando irrimediab<strong>il</strong>mente<br />

<strong>il</strong> valore di ogni singolo pezzo, stando al<br />

*<br />

28<br />

parere degli specialisti. Eri un idiota del cazzo<br />

se incollavi qualcosa a qualcos’altro, ma lo facevi<br />

comunque. Un vero <strong>collezionista</strong> tollerava<br />

l’instab<strong>il</strong>ità, la perdita e persino la natura implicitamente<br />

effimera della propria raccolta,<br />

catalogando monete e figurine e conchiglie in<br />

guaine, cofanetti e cornici delicate. Tu invece<br />

incollavi ogni cazzo di cosa al suo supporto<br />

come un maniaco. Avresti inchiodato i libri<br />

alla mensola, se avessi potuto. La supercolla,<br />

che aveva la reputazione di poter saldare le<br />

dita alle palle degli occhi, era troppo spaventosa<br />

per essere tenuta in casa, conoscendo le<br />

tue inclinazioni.<br />

Il suo impulso a incollare fu particolarmente<br />

infido quando venne <strong>il</strong> momento dei francobolli.<br />

Aveva ereditato, da uno zio di Las Vegas,<br />

gli album e una fornitura di partenza di un<br />

m<strong>il</strong>ione di angoli di buste ritagliati. Aveva per<br />

le mani un’altra pista da seguire fedelmente:<br />

ogni francobollo mai emesso negli Stati Uniti e<br />

i loro tetri cugini, i bolli dei resi postali. In due<br />

anni di duro lavoro non era riuscito a stare al<br />

passo con gli arretrati da staccare inumidendo<br />

le buste o passandole al vapore. Il francobollo<br />

ideale, però, non aveva nulla a che vedere con<br />

questo lavoro ingrato, era completamente privo<br />

di timbri, mai leccato, magari anche parte<br />

di una serie da quattro intatta. Veniva venduto<br />

all’ottavo piano dell’ufficio postale, chiamato<br />

Collector’s Counter, in un rituale oscuro, quasi<br />

religioso, che ricordava i viaggi allo sportello<br />

della banca e non somigliava per niente alle<br />

battute di caccia-alla-figurina. Alla fine si trovò<br />

faccia a faccia con un francobollo immacolato<br />

e lo spazio vuoto ad esso consacrato nell’album,<br />

un appuntamento col destino. Come trattenersi<br />

dal leccarlo e schiacciarlo al suo posto?<br />

Che cazzo di senso aveva, in fondo, <strong>il</strong> montaggio<br />

a secco? In una giornata umida si sarebbe<br />

comunque leccato da solo, auto-rovinandosi,<br />

quindi perché non approfittarne? La colla dei


francobolli vecchi di trent’anni aveva <strong>il</strong> retrogusto<br />

stuzzicante di un vino d’annata già stappato.<br />

Che cosa stava aspettando, se non lui?<br />

Forse l’unica cosa che collezionava, in fin dei<br />

conti, era la colla.<br />

Droghe e musica arrivarono insieme. Erano<br />

come conchiglie o polvere cosmica da metterti<br />

in corpo. Dove viveva lui, in una città che era<br />

una colata di cemento fino al mare, le droghe<br />

e la musica furono la prima occasione per importare<br />

la natura all’interno dei propri confini.<br />

Erano un invitante surrogato del sesso o delle<br />

foreste, più soddisfacente di qualsiasi possib<strong>il</strong>e<br />

esplorazione e sicuramente più sicure. La<br />

droga e le canzoni erano conchiglie che poteva<br />

cercare di trasformare in penny. Prima vedevi<br />

una band, assorbivi l’essenza della musica dal<br />

vivo che evaporava nei tuoi organi come i fumi<br />

degli stupefacenti, non lasciando prova del suo<br />

passaggio a parte un’alterata percezione di te<br />

stesso e tutta la sfacciataggine possib<strong>il</strong>e. Poi<br />

cominciavi a collezionare i loro album, tutti i<br />

b-sides e le rarità della zecca. Nelle droghe si<br />

d<strong>il</strong>ettò come un turista esperto, senza fermarsi<br />

da nessuna parte ma accumulando assaggi<br />

come i timbri sul passaporto: quaalude, mescalina,<br />

hashish olandese. La sua collezione di<br />

dischi, invece, l’aveva gettato nel baratro della<br />

dipendenza. Era salito a bordo di una giostra<br />

turbinante di pura e infinita insoddisfazione,<br />

senza alcuna possib<strong>il</strong>ità di scendere. Raramente<br />

ascoltava una canzone fino alla fine, aumentando<br />

di continuo la dose con l’irrequietezza<br />

di un tossico. Gli intenditori imparano in fretta<br />

che ogni pezzo ha alcune versioni che ne incrementano<br />

<strong>il</strong> valore. La musica era una specie di<br />

zona disastrata e discontinua.<br />

La prima volta che mise un cartone sulla<br />

lingua pensò: hanno stampato le statistiche<br />

direttamente sulla gomma. E io sono <strong>il</strong> giocatore.<br />

Sono l’intera squadra: <strong>il</strong> pitcher, <strong>il</strong> catcher,<br />

<strong>il</strong> battitore, persino <strong>il</strong> suggeritore di terza base<br />

che manda segnali frenetici dal suo box di calce<br />

viva disegnato sull’erba nell’area di foul. Si<br />

tocca <strong>il</strong> naso, l’orecchio, <strong>il</strong> cavallo dei pantaloni,<br />

la visiera – ehi, cosa sta cercando di dirmi?<br />

Se sono io l’allenatore, perché non afferro i<br />

*<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

29<br />

segnali?<br />

Se sono la mia collezione, com’è che sono<br />

schizzato fuori dal mio corpo?<br />

Se è la mia band preferita, perché non mi<br />

piace nessuno dei loro album?<br />

Poi qualcuno mise su un gruppo: quattro tizi<br />

in una cantina, gli strumenti recuperati al banco<br />

dei pegni che tradivano un certo disaccordo<br />

su quali adesivi fossero i più fichi, naufraghi in<br />

un mare di jack, in uno spazio ricavato in mezzo<br />

al caos degli oggetti di famiglia abbandonati,<br />

inclusa – non poté fare a meno di notarlo<br />

– una p<strong>il</strong>a di album pieni di francobolli marcescenti,<br />

le prime spasmodiche note vac<strong>il</strong>lanti<br />

senza nessun indizio su come sarebbe andata<br />

a finire la storia, eccetto magari la continua<br />

discussione riguardo alla certezza di arrivare,<br />

prima o poi, a sfondare, <strong>il</strong> che avrebbe risolto<br />

abbastanza fac<strong>il</strong>mente <strong>il</strong> problema di come<br />

concludere <strong>il</strong> pezzo. Qualcun altro ristrutturò<br />

una v<strong>il</strong>letta coloniale a Culver City per farne<br />

una fabbrica di marijuana indoor: impianto di<br />

luci a giorno, irroratori di acqua ricca di nutrimenti,<br />

f<strong>il</strong>e di piante verdi pulsanti di materia<br />

profumata, germogli estatici, steli sopraffatti<br />

che avevano bisogno di impalcature, stampelle,<br />

appoggi. Il d<strong>il</strong>emma era che potevi inst<strong>il</strong>lare<br />

<strong>il</strong> DNA della migliore erba che avessi mai fumato<br />

nella piantamadre allevata in uno sgabuzzino<br />

e come uno scienziato pazzo avresti<br />

conquistato <strong>il</strong> mondo, mentre non potevi inst<strong>il</strong>lare<br />

<strong>il</strong> DNA dei Sex Pistols nella tua band di<br />

merda ed eri destinato a non conquistare proprio<br />

niente.<br />

Un giorno alcuni di loro andarono a Borrego<br />

Springs fatti di funghetti: fu un esperienza<br />

esaltante quanto The Living Desert, <strong>il</strong> documentario<br />

della Disney. In quel momento realizzò<br />

che tutto quello che amava di più al mondo<br />

era come le conchiglie, di passaggio. Forse era<br />

venuto <strong>il</strong> momento di andarsene dalla città.<br />

Diventò un birdwatcher, con tanto di binocolo<br />

e guida. Esplorava i boschi ma cercava anche<br />

di attirare a sé la collezione, calamitava i<br />

suoi soggetti come ferro di deposito. Li attirava<br />

sulla siepe di casa, sulle piccole piattaforme e<br />

sulle mangiatoie a forma di camino appoggiate<br />

*


o penzolanti dai rami, con montagne di semi e<br />

cereali e frutta secca ad adescare le creature<br />

piumate. Li spiava dalla finestra, annotandoli<br />

sul quaderno come un guardone al contrario.<br />

Passero, scricciolo, cardellino, corvo. La casa<br />

sembrava la testa di un cartone animato colpito<br />

da un pugno, con stormi di uccelli che le volteggiavano<br />

attorno, mentre lui correva, come<br />

un’unica pup<strong>il</strong>la tra le orbite stordite, da una<br />

finestra all’altra. Recuperò anche un orologio<br />

da birdwatcher che cinguettava ogni ora un<br />

richiamo diverso. Durante una gita al mare osservò<br />

una coppia di scolopacide che correvano<br />

come puntini ordinati lungo la riva, poi fu preso<br />

alla sprovvista da due banali sterne a caccia<br />

di conchiglie tra gli scogli. Sul suo quaderno,<br />

con aria colpevole, annotava solo le rarità. Non<br />

tutti gli uccelli erano uccelli, questo pensava.<br />

Era ass<strong>il</strong>lato dalle aberrazioni di categoria.<br />

Sentiva la necessità di una divisione tra acqua<br />

e aria. Si rese conto che stava cercando<br />

la purezza, errore fatale per un <strong>collezionista</strong>.<br />

Repentinamente tagliò fuori le schifose sterne.<br />

Tra gli uccelli scelse quali erano i funghetti e<br />

quali le specie non psichedeliche. Di notte si<br />

fermava ad osservare le stelle. Le tasche del<br />

suo completo m<strong>il</strong>itare traboccavano di guide.<br />

Una luce accesa portò alla sua finestra falene<br />

di tutte le dimensioni, come decalcomanie<br />

auto-aderenti. Non incollava niente a niente<br />

probab<strong>il</strong>mente da anni. Qualsiasi cosa avesse<br />

voluto appiccicare era fuori dalla portata del<br />

beccuccio del flacone di Elmer.<br />

Poi arrivarono gli scoiattoli, anti-uccelli che<br />

gli chiarirono radicalmente le cose. Rubacchiavano<br />

semi e granaglie, si arrampicavano sui<br />

cavi, sballavano tutti i suoi piani e – da pessime<br />

comparse – facevano scappare gli uccelli con i<br />

loro str<strong>il</strong>li. Erano parassiti e dovevano essere<br />

combattuti, <strong>il</strong> che gli diede un nuovo, diabolico<br />

scopo vitale. Ben presto si delineò una guerra<br />

logistica: nutrire una specie e affamarne un’altra.<br />

Ma gli scoiattoli eludevano ogni trappola.<br />

Si rese conto che la morte non era solo la soluzione<br />

più indicata, ma anche la migliore, per<br />

quei bastardi. Si era trasformato in Taddeo <strong>il</strong><br />

cacciatore, un vero segugio da tana. Il coniglio<br />

è in tvappola. Il giorno in cui trovò la prima vittima<br />

rannicchiata come una “e” commerciale<br />

tra le foglie morte, con la boccuccia contorta<br />

30<br />

dal disprezzo e la coda rigida, capì. Gli uccelli<br />

non c’entravano più niente. Il veleno era la<br />

nuova colla.<br />

Anni dopo fu ospite a un ricevimento a casa<br />

di un facoltoso cacciatore, un uomo con <strong>il</strong> gusto<br />

per <strong>il</strong> selvaggio. Dietro casa aveva una vecchia<br />

rimessa piena di trofei. L’aveva lasciata aperta<br />

perché gli ospiti potessero visitarla. Mentre<br />

entrava nella rimessa, in mezzo a un gruppo di<br />

invitati, con in mano un drink in un bicchiere di<br />

plastica, <strong>il</strong> <strong>collezionista</strong>, che si sarebbe aspettato<br />

al massimo qualche testa di alce malmessa,<br />

restò scioccato dal ritrovarsi tra i locali di<br />

un vero e proprio tempio della morte terrena. I<br />

muri erano stracolmi di cadaveri impagliati in<br />

bella mostra: uno stambecco, uno yak, un bufalo<br />

d’acqua, una capra scozzese dalla barbetta<br />

ispida. Stanza dopo stanza dalle pareti balza-<br />

vano fuori altri corpi: puma e pitoni sistemati<br />

a formare un tableau elaborato, in posizione<br />

d’attacco, congelati nel momento della morte,<br />

a eterna dimostrazione che <strong>il</strong> cacciatore aveva<br />

sparato per legittima difesa. Il pavimento sotto<br />

i piedi degli ospiti era una pelle d’orso, poi di<br />

tigre, poi <strong>il</strong> dorso gibboso di un coccodr<strong>il</strong>lo. Le<br />

placche sotto le teste impagliate riportavano<br />

la data di uccisione, rivelando <strong>il</strong> metodico lavoro<br />

di una vita e nessuna pietà per <strong>il</strong> destino del<br />

mondo. Alcune fotografie ritraevano la squadra<br />

di indigeni che aveva aiutato <strong>il</strong> cacciatore<br />

a catturare le vittime, accerchiandole in attesa<br />

della sua pallottola. Lui con la faccia bianca<br />

e trionfante al centro, lo stivale appoggiato a<br />

una testa dalla lingua a penzoloni.


Osservando <strong>il</strong> lavoro che un anonimo tassidermista<br />

aveva fatto su un occhio, apprezzò<br />

l’eloquenza della colla.<br />

Tornato in casa, i due furono presentati. Gli<br />

occhi del cacciatore luccicavano con impazienza<br />

sulla faccia rubiconda, osservando le impacciate<br />

scimmie glabre che si aggiravano tra i<br />

suoi trofei. Vedendosi riflesso in quello sguardo<br />

tagliente, <strong>il</strong> <strong>collezionista</strong> si sentì collezionato<br />

a sua volta, o quantomeno preso in considerazione.<br />

Il cacciatore aveva affinato una stretta<br />

di mano tutta sua, disegnava uno stretto anello<br />

per poi spremere la linea delle nocche e provocare<br />

un dolore indubbiamente intenzionale.<br />

Bisogna ammettere che non era cosa da poco:<br />

una stretta di mano dalla quale l’unico modo<br />

per liberarsi era strapparsi <strong>il</strong> braccio a morsi.<br />

«Certe volte quando vedo un Lincoln penny<br />

penso ancora che un S.V.B.D. del 1909 sia l’ideale».<br />

«Ti ricordi di Burroughs, quando in Drugstore<br />

Cowboy frugava tra i medicinali sparsi sul<br />

copr<strong>il</strong>etto alla ricerca di un D<strong>il</strong>audid? Diceva<br />

che tutto <strong>il</strong> resto era merda, che <strong>il</strong> D<strong>il</strong>audid era<br />

l’unica p<strong>il</strong>lola che valesse qualcosa”.<br />

«Quando ero ragazzino mi confondevo tra<br />

astronauti e dinosauri. L’unica prova dell’esistenza<br />

di entrambi erano le impronte. E le rocce».<br />

“Amico, e se <strong>il</strong> birdwatching non fosse osservare<br />

<strong>il</strong> maggior numero di specie di uccelli,<br />

*<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

31<br />

ma osservarne solo uno? Scegliere un uccello<br />

– non una specie, ma un singolo uccello – e<br />

seguirlo ovunque, osservarlo per tutta la vita.<br />

Tipo, non un birdwatching orizzontale ma verticale.<br />

Sarebbe piuttosto fico, cazzo».<br />

«Sai quegli affari che schiacciano un penny e<br />

lo fanno diventare un souvenir della forma di<br />

un monumento o di un palazzo? Non sai quanto<br />

mi deprimono».<br />

«Quello che mi deprime è che pagando puoi<br />

dare <strong>il</strong> tuo fottuto nome a una stella o a un cratere<br />

lunare che non ti ha mai fatto niente di<br />

male, non ti ha nemmeno mai guardato.»<br />

«Una volta ho messo un quarto di dollaro in<br />

una mola e l’ho tagliato in due con una sega<br />

elettrica. Poi me ne sono andato in giro con le<br />

due metà in tasca, chiedendomi se fossero ancora<br />

valide».<br />

«Io e mio fratello una volta abbiamo speso<br />

una banconota da cinque dollari con sopra<br />

l’autografo di Mohammed Alì. Ci servivano cinque<br />

dollari.»<br />

«Ho sentito un comico dire che tiene la sua<br />

collezione di conchiglie sparsa per le spiagge<br />

del mondo».<br />

«Gli uccelli però mi piacciono ancora».<br />

«Piacciono abbastanza anche a me, bello.<br />

Solo non più di altre cose. I mammiferi, per<br />

esempio».<br />

Quando suo zio, che viveva solo in un appartamento,<br />

fu trasferito in una casa di cura, suo<br />

padre gli chiese di raggiungerlo a Las Vegas<br />

per dare una mano. In un istante, appena attraversata<br />

la porta, <strong>il</strong> rapporto tra la sua vita<br />

e quella solitaria dello zio celibe, un rapporto<br />

che lui non si era mai accorto di portare avanti,<br />

andò in frantumi. I mucchi di quotidiani e<br />

di corrispondenza mai aperta, tenuta insieme<br />

con lo spago, formavano <strong>il</strong> labirinto in cui viveva<br />

una creatura a malapena umana, in un<br />

intrico di canali scavati coi denti attraverso i<br />

quali occorreva contorcersi solo per raggiungere<br />

la porta del bagno: la tazza stessa era un<br />

avamposto segreto in quella tana rosicchiata<br />

tra montagne di riviste. Un divano era stato<br />

seppellito nove anni prima, come provava una<br />

*


veloce ispezione: un Newsweek con <strong>il</strong> Bhopal<br />

in copertina.<br />

Tornato a casa provò a scaricare nel water la<br />

collezione di francobolli. Puzzavano di marcio,<br />

come una carcassa in decomposizione, la pelle<br />

di tanti anni buttati, buste lavorate al vapore<br />

le cui rotte incrociate avrebbero potuto descrivere<br />

<strong>il</strong> sistema nervoso del mondo. Lo scarico<br />

soffocò. Si ritrovò a dover disintasare <strong>il</strong> water.<br />

Alcuni francobolli, inumiditi per la terza volta<br />

sulla via del loro ultimo viaggio, galleggiarono<br />

sulle piastrelle e oltre lo stipite per naufragare<br />

sulla barriera corallina del tappeto. Altri finirono<br />

nelle crepe della tazza, dove per liberarli<br />

dovette usare uno spazzolino curvo come gli<br />

specchietti dei dentisti. Si sentiva come un uccello<br />

pulitore di cessi, che pescava nella bocca<br />

di ceramica di un ippopotamo in miniatura.<br />

In quei giorni si chiese se le aspirine e le sigarette<br />

in circolazione fossero come i penny,<br />

se provenissero da diverse zecche e se la loro<br />

Jonathan Lethem è nato a Brooklyn nel 1964. Ha pubblicato numerosi romanzi, saggi e<br />

raccolte di racconti, tra cui Concerto per archi e canguro (Tropea, 1994), Amnesia moon<br />

(minimum fax, 1995), L’inferno comincia nel giardino (monimum fax, 1996), Ragazza con<br />

paesaggio (Tropea, 1998), Motherless Brooklin (Doubleday, 1999), La fortezza della solitudine<br />

(Tropea, 2003), Men and cartoons (minimum fax, 2004),Memorie di un artista<br />

della delusione (minimum fax, 2007), Chronic city (Il Saggiatore, 2009). Ha inoltre sceneggiato<br />

la graphic novel Omega the unknown (Panini Comics, 2011).<br />

32<br />

origine, come la data di messa in circolazione,<br />

fosse deducib<strong>il</strong>e dall’incisione del minuscolo<br />

numero di serie.<br />

Considerò la possib<strong>il</strong>ità di una collezione di<br />

aspirine o sigarette, conservate nei raccoglitori<br />

imbottiti come la sua raccolta di monete<br />

perduta.<br />

Sarebbe stata naturalmente destinata al<br />

fallimento, come le altre. Gli scomparti di cartone,<br />

fatti per contenere aspirine e sigarette,<br />

sarebbero rimasti um<strong>il</strong>mente vuoti.<br />

Fantasticava sulla possib<strong>il</strong>ità di laminare <strong>il</strong><br />

tavolino da caffè, inglobando nella plastica tutto<br />

ciò che c’era sopra. Riviste, monete, un sandwich<br />

morsicato, <strong>il</strong> posacenere.<br />

La verità era che doveva smettere di fumare,<br />

pulire l’appartamento, scovare i penny annidati<br />

ovunque. Sarebbe stato laminato dopo la<br />

sua morte, che fretta c’era?<br />

Sarebbe stato bene, prima o poi. L’universo<br />

era la colla che lo teneva assieme. •


Quando fuori piove, c’è qualcuno, in un angolo<br />

di città o in fondo a un sentiero di provincia,<br />

che si sente meglio. Di solito è qualcuno<br />

che ha avuto un’infanzia troppo poco infelice<br />

per definirla infelice e non abbastanza felice da<br />

poterla rimpiangere.<br />

Insomma piove. E’ un fatto. Un fatto che mi<br />

piace da morire, perché avendo avuto un’infanzia<br />

moderatamente infelice e pochi inviti<br />

per le festicciole degli amichetti nel parco, la<br />

pioggia a me è sempre sembrata la cosa più<br />

democratica di tutte, quella che rovinava i pomeriggi,<br />

le giornate, gli appuntamenti, i programmi,<br />

le feste, la vita, a tutti.<br />

Quando piove io mi sento bene. Mi sento<br />

uguale agli altri. Avverto quel minimo comun<br />

denominatore che, altrimenti, non avverto<br />

quasi mai.<br />

State in casa, state chiusi da qualche parte.<br />

Aspettate. Piove forte, meglio non uscire.<br />

Meglio ancora se c’è qualche esondazione e<br />

bloccano le linee della metro.<br />

Meglio se l’acqua scende a fiumi, se non accenna<br />

a fermarsi, f<strong>il</strong>tra dalle grondaie allagando<br />

i terrazzi dei piani alti.<br />

Meglio quando ti ricorda che siamo tutti sottoposti<br />

alle stesse leggi.<br />

Quando fuori piove, c’è qualcuno che sta al riparo,<br />

e qualcuno che se la prende tutta. Di solito<br />

è qualcuno che sta lavorando e la pioggia non è<br />

un motivo valido per interrompere <strong>il</strong> lavoro. A<br />

volte è qualcuno cui la pioggia fa la gent<strong>il</strong>ezza<br />

di creare un’ambientazione consona per le situazioni<br />

tragiche della vita.<br />

Anche se a dirla tutta io l’ultima volta che ha<br />

piovuto ero fuori.<br />

In mezzo al fango che più fango non si può,<br />

in una location naturale che i registi di f<strong>il</strong>m<br />

horror se la sognano. Pioveva forte. Piove sempre,<br />

nelle mie giornate migliori.<br />

Prima abbiamo preso un numerino e ci siamo<br />

messi in attesa, lì sulle scale dell’anticimitero,<br />

dove svolgono tutta la burocrazia della<br />

morte.<br />

Già perché mica te li fanno gratis, certi servizi.<br />

Vuoi essere cremato? Serve un’urna? Preferisci<br />

cambiare loculo, o addirittura cimitero?<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

33<br />

QUANDO<br />

FUORI<br />

PIOVE<br />

di Antiniska Pozzi<br />

<strong>il</strong>lustrazione di Tivel Hel<br />

Basta comp<strong>il</strong>are moduli, pagare bollettini, ritirare<br />

numeri e ricevute.<br />

Non è che si spalancano le porte del cielo e si<br />

sentono le trombe.<br />

Io mi sono seduto, come nella sala d’aspetto<br />

del dottore. C’è qualche sedia, lì, nell’anticimitero.<br />

Qualche vecchietta mi guardava male. Lo<br />

so, avrei dovuto cedere <strong>il</strong> posto come comanda<br />

la buona creanza. Ma avevo uno strano bisogno<br />

di avvertire qualcosa di solido sotto <strong>il</strong><br />

mio culo, mentre sentivo <strong>il</strong> fruscio dei moduli,<br />

<strong>il</strong> frullo del bancomat, lo scorrere dei numeri.<br />

54, 55, 56 e 57, campo 12, seguite l’ufficiale.<br />

Avevamo <strong>il</strong> numero 61. Non avevo capito<br />

che fosse una cosa di gruppo.<br />

Coglione, come solito. Figurati se c’è <strong>il</strong> tempo<br />

di star lì a esumare i morti uno ad uno.<br />

La terra serve, bisogna fare spazio, restituire<br />

i vani, ripiantare le rose.<br />

Quando fuori piove, c’è qualcuno che guarda<br />

dalla finestra e pensa alla vita. Qualcuno che si<br />

abbiocca sul divano perché <strong>il</strong> ticchettio gli conc<strong>il</strong>ia<br />

<strong>il</strong> sonno<br />

Mica te lo dicono che è una cosa così violenta.<br />

Tu per anni entri al cimitero come se fosse<br />

un grande parco del riposo, con in testa l’immaginario<br />

foscoliano di cipressi e mitologie e<br />

pianti e bellezza, e tutto è perfetto, è ordinato,<br />

coi vialetti di sassolini bianchi, pieno di fiori<br />

in ogni dove, le tombe tutte in f<strong>il</strong>a come tanti<br />

candidi dentini nella bocca di Cristo Signore…<br />

Poi un giorno chiamano <strong>il</strong> tuo numero, ti<br />

giri, e trovi un puttanaio immondo. Cristo.<br />

Le tombe le hanno tolte, le piante son sparite,<br />

montagne di terra rivoltata ovunque, crateri<br />

affacciati sulle casse di legno e fango, fango


a non finire, perché da tre giorni piove, piove e<br />

tutto è un pantano senza confini.<br />

Non mi sono neanche messo della scarpe<br />

adeguate e mi è venuto da ridere perché dovevate<br />

vedere quelli che ci hanno accolti al campo<br />

12. Una decina di uomini in tuta bianca e<br />

stivali a mezza coscia, tipo RIS. Con le mascherine,<br />

pure, certo perché se devi aprire una bara<br />

mica lo puoi fare masticando un chewingum. E<br />

caschetti gialli, unico tocco di colore nel fango<br />

grigio del mio campo visivo.<br />

Quando fuori piove le cose si bagnano, si bagnano<br />

le persone, le scarpe, la terra, i pensieri.<br />

Quando fuori piove tutto diventa liquido e l’acqua<br />

passa da fuori a dentro, s’insinua, s’inf<strong>il</strong>tra.<br />

E anche dentro piove.<br />

http://tivel.daportfolio.com/<br />

34<br />

Gazebo bianchi, all’ingresso del campo, i gazebo<br />

dei mercati, quelli delle campagne elettorali,<br />

perché quasi sempre le cose sono cose<br />

generiche, e tutta questa specializzazione in<br />

cui ci fanno credere sia organizzata l’esistenza,<br />

non c’è. Gazebo allestiti come per una specie di<br />

festa al contrario, con qualche sedia e un tavolino<br />

per gli invitati.<br />

Sul tavolino, un cesto. Dentro, alla rinfusa, le<br />

foto impresse sulla ceramica salvate dalla demolizione<br />

delle tombe: prendi la foto del tuo<br />

defunto!<br />

Prendimi, prendimi, dice la foto di mio padre<br />

in camicia di jeans e sorriso smagliante.<br />

Eravamo in vacanza, in Toscana, già ne aveva<br />

parecchi di capelli bianchi, anche qualche baffo<br />

dei suoi si era imbiancato ma lui era contento,<br />

sempre contento quando era in vacanza<br />

con noi, anche se mia madre a dirla tutta non è<br />

che fosse proprio la simpatia in persona, quindi<br />

la sua contentezza valeva doppio.<br />

Lei è una di quelle persone che mettono la<br />

tragedia anche dove non c’è, e quando c’è tendono<br />

ad accentuarla. Ma la tragedia non ha superlativi,<br />

è tragedia, e basta. Insomma, mamma,<br />

lascia stare, siamo qui dopo tredici anni,<br />

c’è l’esumazione, piove e <strong>il</strong> fango mi arriva alle<br />

ginocchia, c’è pure bisogno di fare la voce contrita?<br />

Certo che no. Certo che no.<br />

Poi ci hanno chiamato, tutti insieme, tutti in<br />

f<strong>il</strong>a, come all’appello degli esami universitari.<br />

Ognuno <strong>il</strong> suo cadavere, <strong>il</strong> suo finto agente RIS,<br />

i suoi due occhi per confermare, le sue quattro<br />

assi. Per confermare cosa? Che <strong>il</strong> cadavere<br />

fosse proprio quello? Ma chi cazzo lo ruba<br />

un cadavere qualunque? Mio padre non era<br />

mica Mike Bongiorno. Eppure è previsto così.<br />

E’ previsto che si muoia più di una volta, che<br />

l’ultimo riposo non sia proprio l’ultimo, è previsto<br />

che si guardi bene da vicino cosa succede<br />

alla carne quando la si mette in una scatoletta<br />

sotto terra.<br />

Quando fuori piove, quando dentro piove,<br />

quel che c’è si gonfia e lentamente marcisce.<br />

Qualche germoglio spunta, qualche germoglio<br />

muore. Lo sguardo galleggia e perde l’orizzonte.


Al via dell’ufficiale, i finti RIS hanno cominciato<br />

a schiodare le assi. Chissà quante altre<br />

volte l’avevano fatto quel giorno. E quando<br />

hanno iniziato… è stato come esser rapiti dalla<br />

realtà per ficcarcisi dentro ancora di più. Solo<br />

la musica, sapevo io, ha questo potere. Ma non<br />

solo, non più.<br />

Li ho guardati che sollevavano <strong>il</strong> coperchio,<br />

affondati nel fango, con la vanga e tutto l’armamentario.<br />

Mio fratello non ha voluto partecipare.<br />

Io stavo lì sotto la pioggia e pensavo alla<br />

lezione che si stava perdendo, lui che da anni<br />

cerca di girare un corto sugli zombie. Quando<br />

sei abituato a vedere certe cose, poi è come se<br />

non sapessi più davvero cosa sono. Io credo sia<br />

per questo che non è voluto venire a vedere.<br />

Hanno rovesciato <strong>il</strong> coperchio e hanno iniziato<br />

a ravanare in quel che era rimasto del<br />

corpo. Io guardavo la nostra tomba, ma non<br />

potevo non vedere tutte le altre. Agivano insieme,<br />

all’unisono, tutti lì in f<strong>il</strong>a davanti a me,<br />

dieci corpi morti, dieci corpi vivi che li guardavano<br />

vis à vis, una ventina di osservatori, un<br />

paio di direttori del traffico.<br />

A un certo punto <strong>il</strong> RIS di quelli a fianco ha<br />

tirato su un osso della gamba e l’ha sf<strong>il</strong>ato da<br />

una calza nera di nylon. Com’è che le mie calze<br />

non durano lo spazio di un pomeriggio e quelle<br />

di questa vecchietta avevano attraversato<br />

più di un decennio e gli agenti fisiochimici della<br />

decomposizione?<br />

Intatte, nero opaco, 40 denari.<br />

Intanto sf<strong>il</strong>avano nella buca sotto di me tutte<br />

le ossa di mio padre, una ad una. Il tizio col<br />

caschetto giallo, un africano con le mani grandissime<br />

nel ruolo dell’uomo nero della mia<br />

infanzia, tirava fuori le gambe dai pantaloni, e<br />

poi le braccia dalla giacca.<br />

«Era la sua giacca preferita» dice mia madre.<br />

Chissà se è vero o se è la trasfigurazione<br />

post mortem dei sentimenti che le fa dire queste<br />

stronzate.<br />

L’avete mai visto <strong>il</strong> cuore di un uomo dopo<br />

tredici anni che ha smesso di battere?<br />

Somiglia a colla secca, dura e f<strong>il</strong>amentosa. E’<br />

la carne mummificata che s’attacca alle ossa,<br />

materia biancastra che <strong>il</strong> mio africano stava faticando<br />

a rimuovere dalle costole. Le costole<br />

che abbracciavo quando mia madre mi sgridava<br />

perché avevo preso un’insufficienza a scuo-<br />

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI<br />

35<br />

la. Le costole che ancora non hanno smesso di<br />

fare crac nella mia testa.<br />

Poi sento la voce dei parenti della vecchietta<br />

a fianco, ormai senza calze, senza gonna, senza<br />

più niente a dispetto del pudore. L’avresti<br />

detto, nonnina, che degli estranei un giorno ti<br />

avrebbero vista così tanto nuda?<br />

«Scusi mi fa vedere un attimo la testa?» chiede<br />

<strong>il</strong> figlio.<br />

Io lo dico da sempre che in giro c’è un sacco<br />

di gente col senso del macabro.<br />

Così <strong>il</strong> RIS prende <strong>il</strong> piccolo cranio (ma forse<br />

sarebbe più corretto chiamarlo teschio) e<br />

lo solleva con la mano sinistra per mostrarlo<br />

agli astanti, una cosa che più shakespeariana<br />

si muore (scusate la battuta, ma <strong>il</strong> tema è chiaramente<br />

abusato da secoli).<br />

Ci sono ancora i capelli attaccati. Dice che<br />

quelli non si consumano. La vecchia ce li aveva<br />

lunghi, e ora sono tutti spettinati, arruffati,<br />

alcune ciocche incastrate dentro le orbite. Non<br />

c’è tempo per la messinpiega, signora mia.<br />

Adesso che lei ha tutta l’eternità, non c’è tempo<br />

per <strong>il</strong> parrucchiere.<br />

Il nostro RIS continua. Da quanto stiamo<br />

andando avanti? L’agonia sembra più lenta da<br />

morti che da vivi. La cassetta di metallo è piccola.<br />

Mi chiedo come farà lo scheletro di mio<br />

padre a starci tutto, lì dentro. È semplice. Pigiare,<br />

compattare.<br />

L’africano sistema le ossa in un Tetris che<br />

non prevede livelli successivi. Vertebra dopo<br />

vertebra, scheggia dopo scheggia, seguendo<br />

un’anatomia che non coincide con quella riportata<br />

dai manuali di medicina.<br />

Quando fuori piove c’è qualcuno che lascia libero<br />

<strong>il</strong> corso dei pensieri, e si convince che tutto<br />

si può fare, che tutto è a portata d’idea. Quando<br />

fuori piove c’è dentro qualche scatola un cuore<br />

che batte, un ricordo impolverato.<br />

Siamo venuti a prenderti, papà. Volevamo<br />

fare una di quelle cose che si vedono nei f<strong>il</strong>m,<br />

sai, prendere le tue ceneri, mettere l’urna nel<br />

sed<strong>il</strong>e posteriore dell’auto e andare in quel posto<br />

che ti piaceva un sacco, tra le rovine degli<br />

Etruschi. E poi spargerti lì, respirare un po’ e<br />

sentirci meglio. Invece no. Non abbiamo potuto.<br />

Le solite leggi degli uomini. Non c’è nessun


documento che testimoni la tua volontà. Loro<br />

hanno bisogno di carta. La famosa carta che<br />

canta. Nero su bianco. Ufficialità. Non gli basta<br />

la nostra testimonianza vivente. Come se uno<br />

si preoccupasse più della propria morte che<br />

della propria vita e in giovane età redigesse<br />

testamenti sui luoghi preferiti in cui volesse<br />

essere sparso.<br />

Così, nulla. Ti abbiamo spostato in un piccolo<br />

loculo di marmo, che mi dà un vago senso<br />

di claustrofobia. Sono solo ossa, lo so, però mi<br />

viene l’affanno a pensarle lì tutte schiacciate a<br />

forza in 30 centimetri cubi.<br />

Quando fuori piove è meglio stare dentro.<br />

Chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie e ripetersi<br />

che adesso smette. Adesso smette. •<br />

Antiniska Pozzi è nata a M<strong>il</strong>ano nel 1978. Scrive di M<strong>il</strong>ano per Chiamam<strong>il</strong>ano.it, di libri e<br />

cinema per Hideout.it e di osterie per la guida Osterie d’Italia (Slow Food ed.). Ha pubblicato<br />

<strong>il</strong> monologo L’insalata di pomodori, vincitore al concorso nazionale “Per voce sola” 2008<br />

(Nerosubianco) e <strong>il</strong> romanzo Dove vanno le iguane quando piove (Cab<strong>il</strong>a, 2009). Ha anche<br />

un blog, un figlio, e un gatto.<br />

36


SE<br />

FOSSIMO<br />

NATI<br />

MORTI<br />

a cura di Michele Crescenzo<br />

37


Piove. Una coppia cammina sul lungomare<br />

dell’Avana. Si fermano e aspettano <strong>il</strong> verde<br />

al semaforo. Lei ha tra le mani un pacchetto rivestito<br />

di carta stagnola, grande quanto un libro.<br />

Lo tiene stretto sul petto, per proteggerlo<br />

dall’acqua. Due auto scolorite gli passano velocemente<br />

accanto. Lui gli sbraita contro, alzando<br />

i pugni, ma smette subito e, con un gesto di<br />

protezione, mette <strong>il</strong> braccio sulla spalla della<br />

donna.<br />

Dall’ultimo piano di un vecchio edificio di<br />

calle Lorenzo, Pedro Juan Gutiérrez allontana<br />

lo sguardo dalla tela a cui sta lavorando. Osserva<br />

la coppia che attraversa la strada e saluta<br />

un uomo sotto un ombrello. Gesti educati che<br />

nascondono imbarazzo. Si muovono entrambi<br />

nervosamente verso una delle piccole traverse<br />

della città. Forse quella carta stagnola racconta<br />

uno scambio, forse è solo un regalo.<br />

Lo scrittore si affaccia dal suo balcone e li<br />

segue con lo sguardo un altro po’, poi prende<br />

un appunto. Costruisce in questo modo i suoi<br />

romanzi. Da intrecci di incontri spiati dal suo<br />

balcone o nei bar. I suoi protagonisti sono<br />

persone costrette a sopravvivere sulla soglia<br />

dell’<strong>il</strong>legalità, contraffacendo sigari e prostituendosi,<br />

ma anche con la voglia più sfrenata<br />

di fare festa, di sfuggire in tutti modi allo sconforto,<br />

seguendo <strong>il</strong> ritmo della musica, del sesso.<br />

Le sue storie contraddicono l’immagine da<br />

cartolina dell’isola dalle spiagge bellissime e<br />

della sua gente spensierata e innamorata della<br />

rivoluzione. Proprio per questo <strong>il</strong> suo primo<br />

romanzo, Tr<strong>il</strong>ogia sporca dell’Avana, non è<br />

stato pubblicato a Cuba ma in Spagna e subito<br />

dopo in Italia da e/o. In cinque anni è stato tradotto<br />

in quattordici paesi.<br />

Verso la fine del 1998 l’autore fece un viaggio<br />

in Europa per promuovere <strong>il</strong> libro, ma<br />

quando tornò a Cuba venne licenziato dal quotidiano<br />

per cui lavorava da ventisei anni. Senza<br />

nessuna spiegazione fui buttato fuori dal giornalismo.<br />

Ancora oggi c’è gente, soprattutto della<br />

televisione, che mi conosce benissimo e non<br />

mi saluta più. È gente che quando m’incontra,<br />

mi gira letteralmente le spalle. È da allora che<br />

sono un fantasma all’Avana.<br />

Dopo la Tr<strong>il</strong>ogia sporca, Gutiérrez ha scritto<br />

Il re dell’Avana ma solo con <strong>il</strong> suo terzo libro<br />

38<br />

COME<br />

UNA<br />

CAREZZA<br />

Ovvero: Pedro Juan Gutiérrez<br />

Animal tropical è apparso nelle librerie cubane.<br />

Questo romanzo accosta la sarabanda erotica<br />

della sua città all’efficienza gelida di Stoccolma,<br />

<strong>il</strong> Sud e <strong>il</strong> Nord del pianeta, due modi<br />

antitetici di concepire la vita.<br />

Con El insaciable hombre araña del 2002<br />

(non tradotto in Italia) e Carne di Cane (2003)<br />

si conclude quello che lo stesso autore cubano<br />

ha indicato come <strong>il</strong> “Ciclo di Centro Avana”.<br />

Gutiérrez viene definito “Il Bukowski cubano”<br />

ma <strong>il</strong> paragone non è apprezzato dall’autore.<br />

Queste sono trovate editoriali per vendere<br />

libri! Tra l’altro Bukowski non mi piace. Le somiglianze,<br />

in realtà, sono molte. Ut<strong>il</strong>izzano entrambi<br />

un linguaggio diretto, storie spesso autobiografiche,<br />

scelta dello stesso tipo di donne,<br />

quelle di strada, istintive, volgari, caratterizzate<br />

e valorizzate da scene di sesso descritte, da<br />

entrambi, con realismo e passionalità. Credo<br />

di ut<strong>il</strong>izzare <strong>il</strong> sesso sempre come un elemento<br />

drammatico, mai in modo gratuito, e comunque<br />

un’autocensura mi sembrerebbe davvero brutale<br />

[...]Noi non siamo anglosassoni, tedeschi<br />

o francesi. Siamo cubani e per noi <strong>il</strong> sesso è la<br />

cosa più normale del mondo. Gli elementi fondamentali<br />

della nostra cultura sono l’erotismo<br />

e la musica: qui in qualsiasi casa si mette salsa<br />

tutto <strong>il</strong> giorno e capita che si faccia sesso. Come


un’espressione d’amore o anche solo d’affetto.<br />

Come una carezza.<br />

Gutiérrez ha svolto fin da ragazzino molti<br />

mestieri: gelataio, str<strong>il</strong>lone, soldato, istruttore<br />

di kayak, bracciante e tagliatore di canna<br />

da zucchero, lavorante in un cantiere di costruzioni,<br />

disegnatore tecnico, annunciatore<br />

radiotelevisivo, giornalista, infine insegnate<br />

universitario. A Cuba è conosciuto come poeta,<br />

scultore e pittore più che come narratore. Ha<br />

avuto quattro figli da quattro donne diverse.<br />

Anche se la sua vita sembra non avere alcuna<br />

linearità, la sua scrittura, nuda e diretta, ha<br />

una direzione molto chiara, un’ambizione precisa.<br />

Non credo nell’arte passiva, l’arte dell’intrattenimento.<br />

Penso che uno scrittore debba<br />

aiutare <strong>il</strong> lettore a pensare. Deve costringerlo<br />

a confrontarsi con zone buie della natura umana.<br />

Deve lavorare con personaggi in situazioni<br />

estreme. Altrimenti può diventare Walt Disney:<br />

melenso, dolce e sciocco. Tutta l’arte è un atto di<br />

ribellione. Ci vuole coraggio. Se non hai coraggio<br />

e cerchi solo soldi e la fama, allora finisci per<br />

scrivere cose solo divertenti, ma sai che non stai<br />

lasciando un segno nel cuore e nella mente dei<br />

tuoi lettori. •<br />

Pubblicati in Italia: Tr<strong>il</strong>ogia sporca dell’Avana:<br />

senza un cazzo da fare (e/o, 1998);<br />

Il re dell’Avana (e/o, 1999); Animal Tropical<br />

(e/o, 2001); Malinconia dei leoni (e/o,<br />

2002); Carne di cane (e/o, 2003); Tr<strong>il</strong>ogia<br />

sporca dell’Avana (e/o, 2004); Il nostro GG<br />

all’Avana (e/o, 2005); Il nido del serpente<br />

(e/o, 2006); Non aver paura, Lulù (Ed.<br />

Estemporanee, 2006).<br />

39<br />

SE FOSSIMO NATI MORTI<br />

Dalla mia terrazza sul tetto<br />

L’Avana di notte<br />

fiocamente <strong>il</strong>luminata<br />

frugale e stoica<br />

L’Avana sopporta questi anni<br />

come una vecchia dama / saggia e s<strong>il</strong>enziosa<br />

Non schiude le labbra<br />

per protestare<br />

e si lascia leccare <strong>il</strong> costato<br />

dalla schiuma e dalla salsedine<br />

La vecchia signora cela le sue ferite<br />

occulta le sue cicatrici<br />

e mi confessa / a tarda notte:<br />

Non importa<br />

tu passerai<br />

tutti passeranno<br />

Io sono eterna<br />

e sarò sempre qui<br />

con <strong>il</strong> mio enorme cuore<br />

che palpita al vento<br />

Dono <strong>il</strong> mio amore / e non soffro<br />

Sono la città di pietra<br />

La città eterna.<br />

- La vita segreta,<br />

da Non aver paura Lulù -


40<br />

RINGRAZIAMENTI<br />

(IN ORDINE SPARSO)<br />

Lucy Benjamin, Cam<strong>il</strong>la Ferrier, W<strong>il</strong>liam<br />

Morris Endeavor Agency - New York City,<br />

Giulia Cuomo, edizioni e/o, Giorgio Fontana,<br />

Dan<strong>il</strong>o Deninotti, Matteo Scandolin e Gianluca<br />

Liguori.<br />

NOTA SULL’ILLUSTRAZIONE A P.34<br />

Compare per gent<strong>il</strong>e concessione dell’autrice<br />

(http://tivel.daportfolio.com/).


CON IL<br />

SUPPORTO<br />

E IL SOSTEGNO DI<br />

via Carlo Forlanini, 76C<br />

Garbagnate M<strong>il</strong>anese (MI)<br />

41


CADILLAC SOCIETY<br />

Associazione Culturale<br />

via Giuseppe di Vittorio, 8<br />

20021 - Bresso (MI)<br />

CF. 07620310157<br />

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