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12.06.2013 Views

La Pianura Padana è sempre stata crocevia di popoli e genti, che portarono con se anche materiali vegetali conservabili su lunghe distanze, come semi e talee e, tra questi, sicuramente le piante di vite. L’insediamento di una varietà viticola in un’areale differente da quello originario, dipende dalla sua capacità di adattamento e molti vitigni selezionati in Medio Oriente o in Grecia e trasportati da i Romani nel nord Italia, è probabile si siano adattati con difficoltà al clima freddo ed umido, non sopravvivendo e fornendo produzioni scarse e di cattiva qualità. La loro presenza, anche temporanea, fu però sufficiente per avere una naturale diffusione di polline e l’incrocio con locali piante di vite selvatica Vitis vinifera ssp. Silvestris, dando origine a nuove varietà più adattate al clima. Probabilmente molte delle varietà che consideriamo autoctone dell’Emilia Romagna si sono generate in questo modo e sicuramente questo è il caso della famiglia dei lambruschi: la vite selvatica era presente nella nostra regione già dal tardo neolitico e spesso veniva definita dagli scrittori romani “Lambrusca”. Il termine stesso lambrusco pare indicare, dal latino, una vite selvatica che cresce vicino ai muretti che delimitano le centuriazioni. Le varietà di uve presenti in Italia sono tantissime proprio a causa degli incroci tra quelle importate dall’oriente con le varietà selvatiche locali, insieme al ruolo giocato dalla grande differenza di territori e microclimi, che hanno agito da fattori selettivi. Il frazionamento del Paese in tanti stati, fino a tempi relativamente recenti, ha contribuito poi a preservare le varietà locali. L’Emilia Romagna non rappresenta un eccezione in questo quadro, e tantomeno il nostro territorio provinciale. E i lambruschi, intesi come famiglia di vitigni affini, sono sicuramente le uve più strettamente autoctone del nostro territorio. Nell’800 la viticoltura reggiana è entrata, così si può dire, nell’epoca moderna, per cui facciamo riferimento alle pubblicazioni a partire da questo periodo per capire quali siano le varietà autoctone. L’agronomo Filippo Re nel 1805 parla di una gran varietà di uve reggiane, molte di ottima qualità, ma avvertendo che lo stesso vitigno ha spesso nomi differenti in diverse zone. Nel 1840 Bertozzi detiene una collezione a Baragalla di 110 vitigni tipici del reggiano. La biodiversità agraria a Reggio Emilia VITE (1) I vitigni reggiani ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI” Sez. Tecnica Agraria (indirizzi generale, ambientale e zootecnico) A fine ‘800, nella carta agronomica redatta dalla Regia Scuola “A. Zanelli”, le uve più coltivate a Reggio risultano le seguenti: Lanzellotte, Lambrusche, Berzemine, Sangiovesi e Selvatiche (da seme) e nella bassa il Lambrusco Mazzone (L. Oliva). Nel 1927 Bertolini riporta i seguenti dati: tra i vitigni rossi Lancellotta dominante in tutta la provincia, poi Fogarina nella bassa, e lambrusche Salamino, Sorbara, di Montericco e Mazzone, poi Sgavetta, Scorzamara, e Berzemino; tra i bianchi Spergolina (Spergola), Malvasia, Occhio di Gatto, seguiti a distanza da Retica, Trebbiano e Vernaccia. Si salta al 1965, dove si sta progressivamente insediando una viticoltura specializzata ed erano già operanti le DOC, che prescrivevano solo l’uso dei vitigni ritenuti migliori: l’Ancellotta era il 40% della produzione, seguita da alcuni lambruschi: Salamino, Marani, Oliva, Nostrano; tra i bianchi la Spergola. Attualmente l’Ancellotta rappresenta circa la metà dell’uva prodotta nel reggiano, seguita da Salamino e Marani. La varietà di uve si è notevolmente ridotta e i cosiddetti vitigni minori sopravvivono solo in vigneti marginali, in filari isolati, soprattutto in collina, o in campi collezione come quello dell’Istituto Tecnico Agrario. Non è detto che tutto ciò che venne abbandonato in passato fosse buono, ma sicuramente tra le varietà dismesse tra gli anni ‘60 e ’70 perché poco produttive o più difficili da coltivare, ce ne sono alcune di ottima qualità enologica, come ad esempio la Sgavetta, il Lambrusco Oliva e l’Occhio di Gatto. Alcuni vitigni poi, anche se poco produttivi o meno in sintonia con i gusti enologici attuali, rappresentano comunque un patrimonio di sapori e aromi, legati alla storia e alla cultura della nostra terra, che non bisogna disperdere. Molte cultivar a maturazione tardiva, potranno ritornare utili se davvero si andrà verso un clima più caldo, ricordando che il mantenimento della biodiversità è sempre un investimento per le future generazioni. Seguiranno ora alcune note sui vitigni reggiani considerati più strettamente autoctoni, limitandoci ai vitigni “minori” e quindi tralasciando i vari Ancellota, Malbo Gentile, i lambruschi più in voga e Spergola, autoctoni ma molto coltivati. Sono specificati i vitigni non a rischio di scomparsa, in quanto godono di una stabile, seppur modesta, diffusione provinciale.

Lambrusco di Montericco Lambrusco Barghi Lambrusco Corbelli o di Rivalta Una varietà di lambrusco diffusa un tempo dalla pianura alla collina reggiana, si ritiene debba il nome al Conte Corbelli, che lo coltivò estesamente nelle sue tenute a Rivalta e Castelnuovo Sotto. Lambrusco Barghi A lungo era stato ritenuto sinonimo del lambrusco Corbelli, ma in realtà le indagini genetico-molecolari indicano che probabilmente è un vitigno differente. Lambrusco dei Vivi (o Perla dei Vivi) Lambrusco su cui si hanno pochissime notizie orali, e presente solo in un vigneto in provincia; nel 2007 è stato però iscritto al Registro Nazionale delle Varietà della Vite. Lambrusco Benetti La sua prima citazione risale al 1945 ed è quindi relativamente recente; è tipico della zona di confine tra Modena e Reggio. Lambrusco Nostrano o a Foglia Frastagliata (non a rischio) Vitigno storico, rilevato a partire dalla fine della prima guerra mondiale è diffuso ancora su di una superficie abbastanza ampia (20 ha); diffuso anche in Trentino col nome di Enantio. Lambrusco di Montericco (non a rischio) Detto anche “lambrusca selvatica di Montericco”, vitigno tipico di alcuni comuni La biodiversità agraria a Reggio Emilia VITE (2) I vitigni reggiani VITIGNI LAMBRUSCHI A PIÙ STRETTA AUTOCTONIA ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI” Sez. Tecnica Agraria (indirizzi generale, ambientale e zootecnico) Lambrusco Pjcoll Ross Lambrusco Oliva della fascia collinare, nel cui clima cresce meglio, ha una prima citazione storica del 1891; negli anni ’70 era diffuso su 149 ha, ora è ridotto a poche aziende. Lambrusco Oliva o L. Mazzone (non a rischio) Citato la prima volta nel 1811, era uva molto coltivata in tutta la provincia e ancor oggi, pur se molto ridotta, ha una discreta diffusione e c’è un ritorno di interesse nei suoi confronti per la qualità enologica. Lambrusco Pjcoll Ross (non a rischio) Deve il nome al colore rossastro del picciolo. Vitigno storico di alcuni comuni della Val d’Enza (Sant’Ilario, Montecchio e Gattatico), è ancora discretamente presente nei terreni ghiaiosi prossimi al torrente. In passato venne considerato erroneamente un clone di lambrusco Grasparossa, mentre le analisi genetiche hanno dimostrato che coincide col Terrano del Carso, anche se si tratta di un ecotipo locale. Non si hanno notizie sul perché e il quando il Picoll Ross sia arrivato nel reggiano. Lambruscone o L. di Fiorano (non a rischio) Citato come Lambruscone già nel 1700, è vitigno originario dell’omonima località modenese. Era diffuso anche nel reggiano, soprattutto in montagna perché resistente al freddo; oggi ne sopravvivono solo poche piante in provincia.

La Pianura Padana è<br />

sempre stata crocevia di<br />

popoli e genti, che portarono<br />

con se anche materiali<br />

vegetali conservabili<br />

su lunghe distanze,<br />

come semi e talee e,<br />

tra questi, sicuramente<br />

le piante di vite. L’<strong>in</strong>sediamento<br />

di una varietà<br />

viticola <strong>in</strong> un’areale<br />

differente da quello orig<strong>in</strong>ario,<br />

dipende dalla<br />

sua capacità di adattamento e molti vitigni selezionati <strong>in</strong> Medio<br />

Oriente o <strong>in</strong> Grecia e trasportati da i Romani nel nord Italia, è<br />

probabile si siano adattati con difficoltà al clima freddo ed umido,<br />

non sopravvivendo e fornendo produzioni scarse e di cattiva<br />

qualità. La loro presenza, anche temporanea, fu però sufficiente<br />

per avere una naturale diffusione di poll<strong>in</strong>e e l’<strong>in</strong>crocio con locali<br />

piante di vite selvatica Vitis v<strong>in</strong>ifera ssp. Silvestris, dando orig<strong>in</strong>e<br />

a nuove varietà più adattate al clima. Probabilmente molte delle<br />

varietà che consideriamo autoctone dell’Emilia Romagna si sono<br />

generate <strong>in</strong> questo modo e sicuramente questo è il caso della famiglia<br />

dei lambruschi: la vite selvatica era presente nella nostra<br />

regione già dal tardo neolitico e spesso veniva def<strong>in</strong>ita dagli scrittori<br />

romani “Lambrusca”. Il term<strong>in</strong>e stesso lambrusco pare <strong>in</strong>dicare,<br />

dal lat<strong>in</strong>o, una vite selvatica che cresce vic<strong>in</strong>o ai muretti che<br />

delimitano le centuriazioni.<br />

Le varietà di uve presenti <strong>in</strong> Italia sono tantissime proprio a causa<br />

degli <strong>in</strong>croci tra quelle importate dall’oriente con le varietà<br />

selvatiche locali, <strong>in</strong>sieme al ruolo giocato dalla grande differenza<br />

di territori e microclimi, che hanno agito da fattori selettivi. Il<br />

frazionamento del Paese <strong>in</strong> tanti stati, f<strong>in</strong>o a tempi relativamente<br />

recenti, ha contribuito poi a preservare le varietà locali. L’Emilia<br />

Romagna non rappresenta un eccezione <strong>in</strong> questo quadro, e<br />

tantomeno il nostro territorio prov<strong>in</strong>ciale. E i lambruschi, <strong>in</strong>tesi<br />

come famiglia di vitigni aff<strong>in</strong>i, sono sicuramente le uve più<br />

strettamente autoctone del nostro territorio.<br />

Nell’800 la viticoltura reggiana è entrata, così si può dire,<br />

nell’epoca moderna, per cui facciamo riferimento alle pubblicazioni<br />

a partire da questo periodo per capire quali siano le varietà<br />

autoctone.<br />

L’agronomo Filippo Re nel 1805 parla di una gran varietà di uve<br />

reggiane, molte di ottima qualità, ma avvertendo che lo stesso<br />

vitigno ha spesso nomi differenti <strong>in</strong> diverse zone.<br />

Nel 1840 Bertozzi detiene una collezione a Baragalla di 110 vitigni<br />

tipici del reggiano.<br />

La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />

VITE (1)<br />

I vitigni reggiani<br />

ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />

Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />

A f<strong>in</strong>e ‘800, nella carta<br />

agronomica redatta<br />

dalla Regia Scuola “A.<br />

<strong>Zanelli</strong>”, le uve più coltivate<br />

a Reggio risultano<br />

le seguenti: Lanzellotte,<br />

Lambrusche, Berzem<strong>in</strong>e,<br />

Sangiovesi e Selvatiche<br />

(da seme) e nella<br />

bassa il Lambrusco<br />

Mazzone (L. Oliva).<br />

Nel 1927 Bertol<strong>in</strong>i riporta<br />

i seguenti dati: tra<br />

i vitigni rossi Lancellotta dom<strong>in</strong>ante <strong>in</strong> tutta la prov<strong>in</strong>cia, poi<br />

Fogar<strong>in</strong>a nella bassa, e lambrusche Salam<strong>in</strong>o, Sorbara, di Montericco<br />

e Mazzone, poi Sgavetta, Scorzamara, e Berzem<strong>in</strong>o; tra<br />

i bianchi Spergol<strong>in</strong>a (Spergola), Malvasia, Occhio di Gatto, seguiti<br />

a distanza da Retica, Trebbiano e Vernaccia.<br />

Si salta al 1965, dove si sta progressivamente <strong>in</strong>sediando una viticoltura<br />

specializzata ed erano già operanti le DOC, che prescrivevano<br />

solo l’uso dei vitigni ritenuti migliori: l’Ancellotta<br />

era il 40% della produzione, seguita da alcuni lambruschi: Salam<strong>in</strong>o,<br />

Marani, Oliva, Nostrano; tra i bianchi la Spergola.<br />

Attualmente l’Ancellotta rappresenta circa la metà dell’uva prodotta<br />

nel reggiano, seguita da Salam<strong>in</strong>o e Marani.<br />

La varietà di uve si è notevolmente ridotta e i cosiddetti vitigni<br />

m<strong>in</strong>ori sopravvivono solo <strong>in</strong> vigneti marg<strong>in</strong>ali, <strong>in</strong> filari isolati,<br />

soprattutto <strong>in</strong> coll<strong>in</strong>a, o <strong>in</strong> campi collezione come quello<br />

dell’Istituto Tecnico Agrario. Non è detto che tutto ciò che venne<br />

abbandonato <strong>in</strong> passato fosse buono, ma sicuramente tra le<br />

varietà dismesse tra gli anni ‘60 e ’70 perché poco produttive<br />

o più difficili da coltivare, ce ne sono alcune di ottima qualità<br />

enologica, come ad esempio la Sgavetta, il Lambrusco Oliva e<br />

l’Occhio di Gatto.<br />

Alcuni vitigni poi, anche se poco produttivi o meno <strong>in</strong> s<strong>in</strong>tonia<br />

con i gusti enologici attuali, rappresentano comunque un patrimonio<br />

di sapori e aromi, legati alla storia e alla cultura della<br />

nostra terra, che non bisogna disperdere.<br />

Molte cultivar a maturazione tardiva, potranno ritornare utili se<br />

davvero si andrà verso un clima più caldo, ricordando che il<br />

mantenimento della <strong>biodiversità</strong> è sempre un <strong>in</strong>vestimento per<br />

le future generazioni.<br />

Seguiranno ora alcune note sui vitigni reggiani considerati più<br />

strettamente autoctoni, limitandoci ai vitigni “m<strong>in</strong>ori” e qu<strong>in</strong>di<br />

tralasciando i vari Ancellota, Malbo Gentile, i lambruschi più<br />

<strong>in</strong> voga e Spergola, autoctoni ma molto coltivati. Sono specificati<br />

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