Scarica i pannelli in PDF sulla biodiversità - Antonio Zanelli
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La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
La <strong>biodiversità</strong> <strong>in</strong> agricoltura (1)<br />
CHE COS’È LA BIODIVERSITÀ<br />
Il term<strong>in</strong>e <strong>biodiversità</strong> può essere spiegato come diversità o<br />
varietà delle forme viventi; si riferisce alla varietà di specie<br />
di animali e vegetali presenti nella biosfera ed è il frutto di<br />
processi evolutivi avvenuti <strong>in</strong> migliaia di anni. La <strong>biodiversità</strong><br />
non è fissa e def<strong>in</strong>ita: specie si sono sempre est<strong>in</strong>te nel corso<br />
della storia della vita <strong>sulla</strong> terra, ma l’evoluzione ha sempre<br />
dato orig<strong>in</strong>e a nuove specie, come risposta alle modificazioni<br />
dell’ambiente.<br />
La <strong>biodiversità</strong> sul pianeta è caratterizzata da tre componenti<br />
differenti:<br />
- la diversità genetica, cioè la ricchezza del materiale genetico<br />
(genotipi, geni, alleli), che rappresenta un patrimonio di<br />
caratteristiche vitali, solo <strong>in</strong> parte espresse, cui è possibile<br />
ricorrere quando le mutate condizioni ambientali lo richiedono;<br />
- la diversità biologica negli ecosistemi, cioè la varietà delle<br />
specie presenti;<br />
- la diversità tra gli ecosistemi all’<strong>in</strong>terno di un’area geografica.<br />
LA PERDITA DI BIODIVERSITÀ<br />
Negli ultimi secoli si è verificato un forte aumento del numero<br />
delle specie est<strong>in</strong>te, co<strong>in</strong>cidente con la notevole crescita demografica<br />
di una sola specie: l’homo sapiens. L’uomo è responsabile<br />
della scomparsa di molte specie, con le modificazioni <strong>in</strong>trodotte<br />
nell’ambiente che riducono la disponibilità di habitat,<br />
con il diffondersi planetario dell’<strong>in</strong>qu<strong>in</strong>amento e con la caccia<br />
(o pesca) di alcune specie selvatiche.<br />
Solo nell’ultimo secolo si sono est<strong>in</strong>te trecentomila specie vegetali,<br />
che cont<strong>in</strong>uano ad est<strong>in</strong>guersi al ritmo di una ogni sei ore.<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
Il fenomeno desta grande preoccupazione nella comunità<br />
scientifica, senza però allarmare ancora a sufficienza l’op<strong>in</strong>ione<br />
pubblica e i decision-makers. È ancora diffusa l’op<strong>in</strong>ione<br />
che sarebbe più funzionale un mondo popolato dall’uomo e<br />
da un numero limitato di specie “utili”, selezionate per le loro<br />
caratteristiche “superiori” e protette dalla nostra tecnologia. Di<br />
fatto così è <strong>in</strong> molti agroecosistemi, dove la specie “utile” è<br />
quella coltivata, le altre, dai parassiti alle “<strong>in</strong>festanti”, sono<br />
specie nemiche da elim<strong>in</strong>are; le specie utili sono protette con<br />
la tecnologia (diserbo, antiparassitari, lavorazioni dei terreni),<br />
e con l’impiego dell’energia ausiliaria derivante dai combustibili<br />
fossili.<br />
LA BIODIVERSITÀ IN AGRICOLTURA<br />
La <strong>biodiversità</strong> negli ecosistemi agrari è m<strong>in</strong>ore rispetto a quelli<br />
naturali: un agroecosistema è, <strong>in</strong>fatti, un ambiente semplificato,<br />
<strong>in</strong> cui l’obiettivo è massimizzare la produzione della specie<br />
di <strong>in</strong>teresse agrario. Sul pianeta la crescente estensione delle<br />
aree coltivate a discapito di quelle naturali, comporta qu<strong>in</strong>di<br />
una drastica riduzione di <strong>biodiversità</strong>.<br />
In realtà molte specie animali e vegetali selvatiche, sarebbero<br />
molto utili per l’agricoltura: basta pensare al ruolo delle siepi nel<br />
controllo del microclima, a quello degli <strong>in</strong>setti predatori e degli<br />
uccelli <strong>in</strong>settivori, nel controllo dei parassiti delle colture.<br />
La presenza di siepi, boschetti, alberi isolati, piccoli corsi d’acqua,<br />
fontanili, ex-marcite, casolari abbandonati e ruderi (<strong>in</strong> cui<br />
possono nidificare rapaci notturni): sono tutti fattori che contibuiscono<br />
ad <strong>in</strong>crementare la <strong>biodiversità</strong>, la complessità e la<br />
qualità ambientale degli agroecosistemi.<br />
Purtroppo il paesaggio agrario italiano è andato drasticamente<br />
semplificandosi a partire dal secondo dopoguerra, con l’avvento<br />
dell’agricoltura <strong>in</strong>tensiva e con la diffusione sempre maggiore<br />
delle monocolture.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
La <strong>biodiversità</strong> <strong>in</strong> agricoltura (2)<br />
LA BIODIVERSITÀ DELLE SPECIE AGRARIE<br />
L’agricoltura e l’allevamento non sono stati altro che una scelta,<br />
tra l’enorme varietà di forme di vita presenti sul pianeta, di<br />
quelle specie ritenute più utili all’uomo e, successivamente, la<br />
selezione delle “forme” migliori <strong>in</strong> cui si esprime ogni specie.<br />
L’uomo però ha anche contribuito, nel corso dei secoli, alla<br />
selezione di cent<strong>in</strong>aia di nuove cultivar vegetali e di razze animali,<br />
adatte per il tipo di agricoltura e di ambiente locali, aumentando<br />
qu<strong>in</strong>di la diversità biologica. La presenza dell’uomo<br />
nell’ambiente non è sempre stata deleteria: la presenza di<br />
un disturbo moderato negli ecosistemi, come può essere quello<br />
di un’agricoltura rispettosa degli equilibri ambientali, provoca<br />
un aumento della diversità biologica, della complessità ecosistemica<br />
e della stabilità dell’ambiente.<br />
L’enorme ricchezza di razze e varietà locali, però è andata progressivamente<br />
riducendosi con l’avvento dell’agricoltura <strong>in</strong>tensiva,<br />
che ha scelto come criterio quasi esclusivo la produttività.<br />
La varietà locali, ben adattate al loro ambiente, sono<br />
state progressivamente sostituite da nuove varietà ed ibridi,<br />
che massimizzano la produzione e altri fattori quali la lunga<br />
conservabilità e l’idoneità ai trasporti, caratteristiche gradite<br />
al sistema della grande distribuzione. Nel nostro Paese sono a<br />
rischio di est<strong>in</strong>zione, ad esempio, più di 1.500 varietà di frutta.<br />
Analoga sorte è riservata agli animali domestici: nell’ultimo<br />
c<strong>in</strong>quantennio si sono est<strong>in</strong>te c<strong>in</strong>que razze di bov<strong>in</strong>i, tre di capr<strong>in</strong>i,<br />
oltre dieci tra ov<strong>in</strong>i e su<strong>in</strong>i, sette di equ<strong>in</strong>i e quattro di<br />
as<strong>in</strong>i.<br />
La perdita di varietà o razze locale è anche la perdita di sapori<br />
e tradizioni gastronomiche, spesso di mestieri tradizionali e di<br />
culture materiali, di sistemi agricoli sostenibili.<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
fabbisogno alimentare complessivo mondiale<br />
soddisfatto per il 95% da 30 specie di piante<br />
alimenti nella nostra dieta<br />
costituiti per il 75% da 10 specie di piante<br />
grano, riso, mais, miglio, patata, patata dolce e igname,<br />
canna da zucchero, soia, cassava (manioca)<br />
calorie nella dieta di orig<strong>in</strong>e vegetale<br />
ricavate per il 60% da 3 sole specie di cereali<br />
grano, riso, mais<br />
Autori dei testi della mostra: Prof. Mirco Marconi, Prof. Gianni Leonc<strong>in</strong>i,<br />
Prof. Alberto Tagliav<strong>in</strong>i.<br />
Si r<strong>in</strong>graziano per le preziose <strong>in</strong>formazioni fornite: Dott.ssa Crist<strong>in</strong>a<br />
Piazza - Az. Agr. Stuard (PR), Prof. Enzo Melegari - ITAS Bocchial<strong>in</strong>i<br />
(PR), Dott. Luigi Pacchiar<strong>in</strong>i - Ass. Agricoltura Prov<strong>in</strong>cia di Reggio<br />
Emilia, Stefano Meglioraldi - Consorzio Promozione e Tutela dei V<strong>in</strong>i<br />
Reggiani, Prof. Aldo R<strong>in</strong>aldi e Prof.ssa Ester<strong>in</strong>a Caffarri - ex docenti<br />
dell’ITAS <strong>Zanelli</strong>, ed <strong>in</strong> particolare il Dott. Stefano Tellar<strong>in</strong>i - Ricercatore<br />
del Centro Agricoltura Ambiente di Cesena; si r<strong>in</strong>grazia sentitamente<br />
Erica Maioli per le fotografie fornite.
La zucca, appartenente alla famiglia delle Cucurbitaceae, è orig<strong>in</strong>aria<br />
del cont<strong>in</strong>ente americano e venne importata <strong>in</strong> Europa<br />
dopo la scoperta delle Americhe. Le tre specie pr<strong>in</strong>cipali sono la<br />
Cucurbita maxima (es. cappello da prete, mar<strong>in</strong>a di Chioggia,<br />
zucca qu<strong>in</strong>tale), orig<strong>in</strong>aria del Sud America, la Cucurbita moschata<br />
(es. viol<strong>in</strong>a, gialla di Napoli), pare orig<strong>in</strong>atasi <strong>in</strong> aree calde<br />
e paludose nella Colombia, la Cucurbita pepo (zucch<strong>in</strong>i, zucche<br />
di Halloween), nativa del Messico e del sud degli Stati Uniti.<br />
Le zucche del genere Lagenaria (zucca fiasco, zucca del pellegr<strong>in</strong>o)<br />
erano <strong>in</strong>vece conosciute <strong>in</strong> Europa f<strong>in</strong> dall’antichità.<br />
La zucca, malgrado un ruolo marg<strong>in</strong>ale nell’agricoltura attuale,<br />
<strong>in</strong> passato svolse un funzione importante nel regime alimentare<br />
delle comunità rurali <strong>in</strong> molte parti del mondo. Ciò è dovuto a un<br />
complesso di fattori, quali la sua “generosità” alimentare (si può<br />
mangiare tutto e i semi sono molto nutrienti), la grande conservabilità<br />
che la rende commestibile f<strong>in</strong>o a primavera <strong>in</strong>oltrata, la<br />
rusticità della pianta e la sua semplicissima coltivazione anche<br />
<strong>in</strong> terreni poco fertili o non irrigabili.<br />
Per le famiglie contad<strong>in</strong>e della Pianura Padana, <strong>in</strong> passato <strong>in</strong> bilico<br />
tra modesto benessere e sussistenza, le zucche sono sempre<br />
state coltivate negli orti domestici, apprezzate per la loro produttività<br />
e serbevolezza. In annate agrarie buone si poteva darle agli<br />
animali o usarle per la piccola <strong>in</strong>dustria alimentare locale (canditi,<br />
mostarde, ecc.), <strong>in</strong> quelle di carestia potevano rappresentare<br />
una buona <strong>in</strong>tegrazione della razione alimentare.<br />
In Italia oggi la zucca è coltivata soprattutto <strong>in</strong> Lombardia, Emilia<br />
Romagna e Veneto, su di una superficie di circa 2.500 ettari.<br />
Nella nostra Prov<strong>in</strong>cia è una coltura secondaria, nonostante<br />
le eccellenti condizioni pedo-climatiche, relegata ad alcune aree<br />
particolarmente vocate nella bassa, o agli orti familiari.<br />
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
ZUCCHE<br />
Cappello da Prete<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
La zucca, considerata un prodotto agrario m<strong>in</strong>ore, raramente è<br />
presa <strong>in</strong> considerazione da chi <strong>in</strong> passato scriveva di agricoltura;<br />
bisogna ricorrere alla pubblicazione del Casali (I nomi delle<br />
piante nel dialetto reggiano) del 1915, per trovare nomi di zucche<br />
come zucca Barucca (nome veneto della mar<strong>in</strong>a di Chioggia),<br />
zucca Collo Torto (probabilmente l’attuale trombetta di Albenga),<br />
zucca a Fiasco (genere Lagenaria) ed <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e ma non ultima,<br />
zucca della Beretta o Turca (probabilmente riferito alla forma a<br />
turbante), che dovrebbero co<strong>in</strong>cidere con la Cappello da Prete;<br />
questa rappresenta la varietà di più stretta autoctonia per la nostra<br />
prov<strong>in</strong>cia.<br />
La Cappello da Prete è tipica della bassa pianura reggiana, mantovana<br />
e parmense. Ha forma a turbante, con falda <strong>in</strong>feriore più<br />
o meno sviluppata, buccia grigio verde e superficie liscia, con<br />
spesso leggere costolature; l’aspetto è variabile a causa della<br />
scarsa selezione genetica. La polpa giallo-arancio, soda, dolce<br />
e povera di fibra, la rende ideale per il ripieno dei tortelli o la<br />
preparazione dei gnocchi. La varietà ha somiglianze con una delle<br />
cultivar più antiche d’Italia, la Mar<strong>in</strong>a di Chioggia, che però<br />
presenta un colore più verde e la superficie verrucosa. Zucche<br />
con queste sembianze compaiono già <strong>in</strong> dip<strong>in</strong>ti del ‘600.<br />
La Cappello da Prete era molto diffusa nelle campagne f<strong>in</strong>o<br />
all’ultimo dopoguerra, poi venne progressivamente sostituite da<br />
varietà più facili da cuc<strong>in</strong>are, o di pezzatura <strong>in</strong>feriore e più precoci,<br />
qu<strong>in</strong>di più adatte alla grande distribuzione. La sua superiorità<br />
organolettica rimane però <strong>in</strong>discussa. L’Istituto Tecnico<br />
Agrario “<strong>Zanelli</strong>” di Reggio Emilia ha svolto un lavoro di ricerca<br />
e selezione varietale, r<strong>in</strong>tracciando tre diverse accessioni:<br />
una dal basso mantovano, una da Guastalla ed una dal Comune<br />
di Cadelbosco; i semi riprodotti <strong>in</strong> purezza vengono distribuiti<br />
agli <strong>in</strong>teressati.
Il cocomero (Citrullus lanatus), appartenente anch’esso alla famiglia<br />
delle Cucurbitaceae, è orig<strong>in</strong>ario dell’Africa tropicale,<br />
dove sono presenti ancora i suoi progenitori selvatici. La sua storia<br />
è simile a quella del melone: era coltivato nell’antico Egitto<br />
già nel 2.000 a.C. mentre non era conosciuto dalle antiche civiltà<br />
europee; dall’Africa si diffuse verso oriente lungo le rotte<br />
commerciali, raggiungendo nel X secolo d.C. la C<strong>in</strong>a (che oggi<br />
è il primo produttore mondiale), nel XII secolo; si diffuse qu<strong>in</strong>di<br />
<strong>in</strong> Europa grazie agli Arabi. Probabilmente venne portato nelle<br />
Americhe dai primi coloni o dagli schiavi africani.<br />
Attualmente <strong>in</strong> Italia è coltivato su circa 17.000 ettari, pr<strong>in</strong>cipalmente<br />
<strong>in</strong> Lazio, Emilia Romagna, Puglia e Sicilia.<br />
Nella nostra prov<strong>in</strong>cia è stato ed è tuttora una delle colture ortive<br />
più importanti, tipiche della bassa pianura, <strong>in</strong> particolare tra<br />
Novellara e Santa Vittoria di Gualtieri. Il cocomero di Santa<br />
Vittoria ha goduto nei secoli scorsi di grande fama, grazie al suo<br />
gusto e al non comune contenuto zuccher<strong>in</strong>o, dovuto al sapiente<br />
modo di coltivazione ed alle caratteristiche particolari del terreno<br />
della zona.<br />
Pare che la coltivazione del cocomero <strong>in</strong> quest’area risalga al<br />
Settecento, senza alcun dubbio posteriore a quella del melone.<br />
La coltura del cocomero a Santa Vittoria venne molto <strong>in</strong>centivata<br />
durante il breve periodo Napoleonico, come possibilità per i<br />
più poveri, <strong>in</strong> particolare i braccianti, di <strong>in</strong>tegrare i loro miseri<br />
redditi, sfruttando la frequente disponibilità di terreni per periodi<br />
limitati di tempo, causati da un’economia di “guerra” e “occupazione”<br />
che non permetteva programmi a lungo term<strong>in</strong>e.<br />
Quando una coltura <strong>in</strong>vernale come il grano non riusciva bene<br />
per un andamento climatico avverso, nei mesi primaverili si poteva<br />
piantare il cocomero, che ad agosto era già pronto. La coltivazione<br />
richiedeva pochi <strong>in</strong>vestimenti, molta manodopera che<br />
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
COCOMERO<br />
di Santa Vittoria<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
non mancava e da un profitto economico mediamente buono sui<br />
mercati locali.<br />
La varietà coltivata nel territorio vittoriese veniva chiamata<br />
“Nostrana”, o anche col term<strong>in</strong>e dialettale “Fojasa”, ed era caratterizzata<br />
dalla scorza verde a strisce scure. Si ha memoria di<br />
questa varietà f<strong>in</strong>o agli anni Sessanta.<br />
Nella bassa reggiana era diffusa anche una varietà, probabilmente<br />
di orig<strong>in</strong>e francese, chiamata Ardita. Questa varietà però<br />
altro non era che il cocomero di Bagnacavallo. Le note d’epoca<br />
lo descrivono come di medio periodo e media pezzatura, a<br />
strisce longitud<strong>in</strong>ali alternate chiare e scure ed a seme grande,<br />
biancastro con bordo scuro. Non è possibile dire con sicurezza<br />
se si trattasse di un cocomero reggiano “emigrato” <strong>in</strong> Romagna<br />
o viceversa.<br />
Non si sa nemmeno se la Fojasa di Santa Vittoria e l’Ardita siano<br />
la stessa cosa. Insomma il mistero relativo alle antiche angurie<br />
reggiane è tuttora irrisolto.<br />
Negli anni Sessanta arrivano le prime cultivar straniere e negli<br />
anni ‘70 i cocomeri locali sono già scomparsi dai cataloghi delle<br />
ditte sementiere, sostituiti da Sugar Baby (nera piccola e precoce),<br />
Asahi Miako e Crimson Sweet (grosse e striate). Le nuove<br />
varietà conquistano il mercato perché più serbevoli, o più semplici<br />
da coltivare, quasi sempre più produttive oppure perché<br />
non si rendeva più necessaria l’opera dell’esperto “spiccatore”,<br />
<strong>in</strong> quanto la maturazione non era più scalare.<br />
Le vecchie cultivar sono qu<strong>in</strong>di scomparse da alcuni decenni dai<br />
nostri campi, però è noto che il seme del Santa Vittoria è custodito<br />
da una ditta sementiera statunitense, che lo prelevò nel secondo<br />
dopoguerra; oggi viene commercializzato un ibrido F1 ricavato<br />
da questi semi e chiamato proprio cocomero di Santa Vittoria.
Melone Rampar<strong>in</strong>o<br />
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
MELONI (1)<br />
Rospo, Rampar<strong>in</strong>o e Banana<br />
Il melone (Cucumis melo) appartiene alla famiglia delle Cucurbitaceae,<br />
ed è orig<strong>in</strong>ario, come il cocomero, dell’Africa<br />
tropicale.<br />
Non è nota la zona precisa o l’epoca di domesticazione, ma<br />
si suppone che i suoi primi coltivatori abbiano selezionato tra<br />
le varietà selvatiche quelle più dolci. Le prime testimonianze<br />
storiche risalgono all’antico Egitto, dove semi furono trovati<br />
<strong>in</strong> tombe risalenti a 4.000 anni fa poi, almeno 3.000 anni fa, i<br />
meloni <strong>in</strong>trapresero un lungo viaggio verso est, attraverso la<br />
penisola anatolica ed il Medio Oriente, passando per India e<br />
C<strong>in</strong>a, f<strong>in</strong>o al lontano Giappone. In Europa furono probabilmente<br />
<strong>in</strong>trodotti <strong>in</strong> epoca greca o romana. Colombo portò con<br />
sé semi di meloni nel suo secondo viaggio nelle Americhe, che<br />
diventarono piante nella primavera del 1494 nell’isola di Haiti.<br />
Storicamente i meloni sono stati coltivati da braccianti agricoli<br />
e contad<strong>in</strong>i, come <strong>in</strong>tegrazione del reddito e venduti sui mercati<br />
locali. Frutto molto appetito dai nobili prima e dai benestanti<br />
della piccola borghesia poi. Insomma un prelibato frutto da<br />
ricchi.<br />
Oggi il melone rappresenta un prodotto molto apprezzato, con<br />
grandi consumi nel periodo estivo, di solito abb<strong>in</strong>ato al prosciutto.<br />
In Italia sono attualmente coltivati a melone circa 20.000 ettari,<br />
pr<strong>in</strong>cipalmente <strong>in</strong> Sicilia, Lazio, Puglia ed Emilia Romagna.<br />
Si dist<strong>in</strong>guono 3 pr<strong>in</strong>cipali tipologie:<br />
- Cucumis melo var. reticulatus, i meloni retati oggi molto diffusi;<br />
- Cucumis melo var. cantalupensis, meloni lisci e globosi o costoluti,<br />
oggi meno diffusi di un tempo;<br />
Melone Rospo<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
- Cucumis melo var. <strong>in</strong>odorus, meloni ovoidali e a buccia dura,<br />
con maturazione tardiva, molto serbevoli, tipici del sud Italia.<br />
Alcune cronache storiche danno la presenza del melone nel territorio<br />
reggiano già nel C<strong>in</strong>quecento; un agricoltore di Gualtieri<br />
ne descrisse <strong>in</strong> questo modo le varietà, <strong>in</strong> un modo del<br />
tutto simile a quello impiegato oggi:<br />
- la qualità liscia, dal frutto a buccia o scorza liscia, appunto,<br />
Inverno e di Malta<br />
- la qualità reticolata con buccia e scorza reticolata e rugosa,<br />
il Ret<strong>in</strong>o<br />
- la qualità cantalupo, con frutto a spicchi pronunciati, con<br />
buccia spessa, liscia o reticolata<br />
- la qualità rospo, con frutto grosso a scorza molto rugosa a<br />
bugne e di grosso spessore con rigature-spicchi <strong>in</strong>cavate.<br />
Le pr<strong>in</strong>cipali varietà storiche reggiane, oggi a rischio di est<strong>in</strong>zione,<br />
sono:<br />
Melone Rampar<strong>in</strong>o. Appartenente al gruppo dei meloni retati,<br />
era molto diffuso <strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia f<strong>in</strong>o ai primi anni ’70, quando<br />
si poteva normalmente trovare dai fruttivendoli. Ha piccole<br />
dimensioni, polpa di colore verde molto profumata e dal gusto<br />
<strong>in</strong>tenso e deciso, quasi piccante. È idoneo alla coltivazione su<br />
reti e sostegni, da cui il nome.<br />
Viene citato da Carlo Casali (I nomi delle piante nel dialetto<br />
reggiano. Atti del Consorzio Agrario di Reggio Emilia - 1915),<br />
col nome di mlòun ramparè<strong>in</strong>. Esistono altri riferimenti bibliografici<br />
di meloni rampicanti dalla polpa verde (melone rampich<strong>in</strong>o,<br />
melone rampicante), anche di provenienza francese<br />
(melon vert grimpant), ma non si ha la certezza che co<strong>in</strong>cidano<br />
con il nostro.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
MELONI (2)<br />
Rospo, Rampar<strong>in</strong>o e Banana<br />
Melone banana di Lentigione<br />
Melone Rospo. Appartenente al gruppo dei meloni cantalupo,<br />
ha aspetto che ricorda vagamente una zucca, costoluto e con<br />
superficie verrucosa (chiamato anche “rognoso”). Era diffuso<br />
<strong>in</strong> tutto il territorio emiliano e conosciuto come “melone rospo<br />
di Bologna”. Simile al melone zatta diffuso <strong>in</strong> Toscana, che<br />
però ha la superficie liscia, come gli altri cantalupi francesi.<br />
A Reggio Emilia chiamato anche “Rospa” e <strong>in</strong> dialetto Mlòun<br />
ròsp (C. Casali, Op. Cit.). Conosciuto anche come melone “satra”<br />
nella bassa e nel mantovano e “Sat” nel cremonese.<br />
Il suo gusto è molto particolare, non molto dolce, sapido e<br />
leggermente piccante, molto più deciso rispetto ai meloni di<br />
oggi. Di questo melone, scriveva nel 1811 il Filippo Re, nel<br />
suo “L’ortolano dirozzato”, “[…] la superficie […] è coperta<br />
di bernoccoli. I Bolognesi la dicono Rospa. La Polpa è la migliore<br />
di tutte le specie di Poponi”.<br />
Il melone rospo di Bologna è stato <strong>in</strong>serito nel repertorio delle<br />
risorse genetiche tutelate, nella legge n° 1 del 29 gennaio 2008<br />
(Legge regionale per la tutela dell’agro<strong>biodiversità</strong>).<br />
Melone banana di Lentigione. Questo melone è il più misterioso<br />
tra gli antichi meloni reggiani. È diverso dalle altre varietà<br />
di meloni chiamati banana, che hanno forma più allungata<br />
ed ovale; il nostro è <strong>in</strong>vece un melone tondo e liscio, senza<br />
costolature, la buccia è verde scuro e a maturazione di colore<br />
giallo/arancio. La polpa è bianca, dolce se raccolto a giusta<br />
maturazione, con profumo di debole <strong>in</strong>tensità. Ci è sembrato il<br />
melone con l’<strong>in</strong>tervallo di maturazione più ristretto: se colto <strong>in</strong><br />
anticipo è poco dolce e poco profumato, se colto appena dopo<br />
la giusta maturazione tende ad essere troppo molle e a liquefarsi.<br />
In base alle notizie <strong>in</strong> nostro possesso era diffuso esclusi-<br />
Melone banana<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
vamente tra Brescello (Lentigione <strong>in</strong> particolare), Poviglio e<br />
Sorbolo (PR), presso alcune famiglie. Non somiglia a nessun<br />
altro melone antico e non vanta alcuna citazione scritta.<br />
I semi sono stati reperiti da un agricoltore di Lentigione, che<br />
ne coltiva poche piante nel suo orto; ricevette i semi da una signora<br />
che lavorava <strong>in</strong> azienda da lui, circa 50 anni fa, la quale<br />
lo coltivava da tempo a livello familiare.<br />
Melone banana. Si tratta presumibilmente del “vero” melone<br />
banana appartenente al gruppo <strong>in</strong>odorus, quello dei meloni tardivi<br />
e cosiddetti “<strong>in</strong>vernali”, ovvero più serbevoli.<br />
La descrizione che una ditta sementiera di Cesena fa nel 1972<br />
del melone banana, che aveva allora <strong>in</strong> catalogo, corrisponde<br />
bene al nostro, salvo per il colore della polpa (che nel nostro<br />
caso è bianca e non gialla, molto dolce e poco profumata):<br />
“frutti molto allungati, buccia leggermente rugosa, di colore<br />
giallastro, polpa di colore giallo, di ottimo sapore, medio tardivo”.<br />
La conservabilità è buona e può arrivare f<strong>in</strong>o a diverse settimane.<br />
Varietà coltivata per il consumo familiare nella bassa<br />
pianura reggiana, parmense, mantovana e cremonese.<br />
Tutti questi meloni, spesso meno dolci e dal gusto diverso rispetto<br />
ai moderni meloni ibridi, sono progressivamente scomparsi<br />
dai campi perché <strong>in</strong>adatti al moderno sistema distributivo:<br />
devono <strong>in</strong>fatti essere raccolti a giusta maturazione, sono<br />
delicati e soffrono il trasporto, durano pochi giorni. Sono però<br />
l’ideale per un orto domestico o per un mercato locale, ai quali<br />
sono <strong>in</strong> grado di regalare l’emozione di sapori perduti.<br />
L’Istituto Tecnico Agrario “<strong>Zanelli</strong>” di Reggio Emilia ha<br />
svolto un lavoro di ricerca e conservazione di questi meloni e<br />
distribuisce i semi agli <strong>in</strong>teressati.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
MELO e PERO (1)<br />
Mele e Pere reggiane<br />
Pera Butirra Mela Zambona<br />
Il genere Malus è probabilmente orig<strong>in</strong>ario di un’area compresa<br />
tra Caucaso, Asia M<strong>in</strong>ore, India Himalaiana, Pakistan e C<strong>in</strong>a<br />
occidentale. Era sconosciuto nelle terre ebraiche all’epoca della<br />
Bibbia, e il frutto proibito era probabilmente qualcos’altro; l’errore<br />
nacque dalla traduzione greca melon dell’ebraico tappuah,<br />
dove il term<strong>in</strong>e <strong>in</strong>dicava semplicemente un frutto rotondo. Il<br />
melo che conosciamo oggi (Malus domestica) è probabilmente<br />
nato <strong>in</strong> un’area prossima alla C<strong>in</strong>a occidentale, poi venne coltivato<br />
nella mezzaluna fertile e nel Mediterraneo. Gli antichi<br />
greci prima ed i Romani poi, misero a punto la tecnica dell’<strong>in</strong>nesto,<br />
che permetteva di mantenere <strong>in</strong>alterate le caratteristiche<br />
varietali. Pl<strong>in</strong>io ne descrive ben 23 varietà diverse.<br />
Il pero (Pyrus communis) è una pianta orig<strong>in</strong>aria dei paesi attorno<br />
al mediterraneo, dall’Europa f<strong>in</strong>o al medio oriente. Era già<br />
ampiamente coltivata nella Magna Grecia, ma probabilmente<br />
il suo consumo è da far risalire ad epoche preistoriche. In Italia<br />
era già utilizzata 4.000 anni fa.<br />
A lungo è stato ritenuto un frutto superiore alla mela e qu<strong>in</strong>di<br />
amato dai nobili. Diderot e D’Alembert nell’Encyclopédie affermano.<br />
“le buone pere, frutti dei benestanti, che per la varietà,<br />
le differenti stagioni di maturazione, il ricco e raff<strong>in</strong>ato sapore<br />
sono <strong>in</strong>f<strong>in</strong>itamente superiori alle migliori mele che abbondano<br />
nei frutteti della gente comune”. Il secolo d’oro delle pere fu tra<br />
il 1750 e il 1850, dove <strong>in</strong> Francia, Belgio e Inghilterra si arrivarò<br />
a selezionarne più di mille varietà, tra cui anche quelle ancora<br />
oggi maggiormente <strong>in</strong> voga, come l’Abate Fetel, la Decana<br />
del Comizio, la Passa Crassana, la Conference, la William e la<br />
Kaiser. In Emilia Romagna oggi si producono il 70% delle pere<br />
italiane.<br />
Nel territorio prov<strong>in</strong>ciale reggiano, come anche <strong>in</strong> quelli limitrofi,<br />
non si è mai sviluppata una filiera frutticola specializzata,<br />
<strong>in</strong> quanto <strong>in</strong> Pianura e nelle prime coll<strong>in</strong>e hanno sempre preval-<br />
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Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
so la zootecnia mirata alla produzione del Parmigiano Reggiano<br />
e la viticoltura. Certo non mancano alcune produzioni frutticole,<br />
soprattutto di pero che <strong>in</strong> Emilia Romagna vanta una denom<strong>in</strong>azione<br />
IGP, ma non si tratta di un settore tra<strong>in</strong>ante della nostra agricoltura.<br />
L’ambiente pedoclimatico è discretamente vocato per la produzione<br />
di frutta, che però storicamente si limitava ad una coltivazione<br />
ad uso familiare o per i mercati locali. La frutta <strong>in</strong> passato<br />
era <strong>in</strong>fatti parte importante della dieta della famiglia rurale, dalla<br />
pianura f<strong>in</strong>o alla montagna. Le piante non erano coltivate <strong>in</strong> un<br />
frutteto specializzato, ma sparse attorno alla casa colonica o utilizzate<br />
come sostegno della vite nella tipica “piantata reggiana”.<br />
Venivano utilizzate varietà antiche, <strong>in</strong> prevalenza autoctone del<br />
territorio, anche se ci sono sempre stati scambi e importazioni da<br />
altre regioni o Paesi. Si trattava di varietà molto rustiche che, nel<br />
caso di mele e pere, producevano frutti <strong>in</strong> genere molto serbevoli<br />
e con epoche di maturazione differenziata, dall’estate (es. pera di<br />
San Giovanni) al tardo autunno, che erano <strong>in</strong> grado di soddisfare<br />
le esigenze alimentari delle famiglie per un periodo molto lungo,<br />
coprendo quasi tutto l’anno anche senza la possibilità di una refrigerazione<br />
artificiale. I frutti raccolti venivano conservati durante<br />
i mesi freddi <strong>in</strong> soffitta, <strong>in</strong> un ambiente asciutto che ne evitava<br />
la marcescenza. C’era <strong>in</strong> passato una grande diversità di varietà<br />
coltivate: nel 1901 il Molon descrive più di 150 cultivar di mele,<br />
molte delle quali di orig<strong>in</strong>e italiana; il Tamaro nel 1929 nel suo<br />
“Frutta da grande reddito”, dove seleziona le cultivar più <strong>in</strong>teressanti,<br />
descrive 48 mele e 38 pere. Col passaggio da un’agricoltura<br />
estensiva ad una <strong>in</strong>tensiva ed il fenomeno dell’<strong>in</strong>urbamento, le<br />
piante da frutto nelle campagne sono andate sempre più riducendosi.<br />
La frutta sul mercato proviene da coltivazioni specializzate che<br />
si basano solo su poche cultivar, tutte di orig<strong>in</strong>e straniera. Anche<br />
nei pochi piccoli frutteti familiari superstiti, queste cultivar hanno<br />
soppiantato quelle locali, che sono andate perdute o sopravvissute<br />
<strong>in</strong> pochi esemplari, soprattutto <strong>in</strong> coll<strong>in</strong>a e montagna.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
MELO e PERO (2)<br />
Mele e Pere reggiane<br />
Mela Durello Pera Nobile<br />
Mela Campan<strong>in</strong>o Mela Decio<br />
Negli ultimi anni c’è stato un forte <strong>in</strong>teresse verso le varietà autoctone,<br />
con appassionati che si sono dedicati alla loro ricerca,<br />
Istituti che hanno operato per la salvaguardia creando campi di<br />
collezione, e vivai che si sono specializzati nelle varietà antiche.<br />
Le nostre mele e pere tradizionali stanno progressivamente tornando<br />
nei giard<strong>in</strong>i familiari.<br />
La mela più tipica del reggiano <strong>in</strong> passato era il Pom Campane<strong>in</strong><br />
(Mela Campan<strong>in</strong>o), una delle varietà che sicuramente non<br />
mancava negli antichi broli della zona (term<strong>in</strong>e di orig<strong>in</strong>e celtica<br />
che significa zona rec<strong>in</strong>tata da alberi/frutteto e da cui deriva<br />
il toponimo reggiano di “Broletto”). È una mela che rimanda al<br />
nostro passato e ai nostri nonni che la custodivano gelosamente<br />
nei granai per tutto l’<strong>in</strong>verno e anche oltre. Il Pom Campane<strong>in</strong><br />
veniva impiegato anche per la produzione della mostarda, e delle<br />
fett<strong>in</strong>e di mela essiccata note dialettalmente come fléppi o<br />
sciapélli.<br />
Le mela Ferro è tra le più antiche varietà tradizionali, coltivata<br />
nel reggiano almeno da un secolo, ma presente anche <strong>in</strong> diverse<br />
altre aree del centro nord.<br />
Altre varietà non strettamente autoctone, ma apprezzate nella<br />
zona nei secoli scorsi sono:<br />
Durello, varietà diffusa <strong>in</strong> Emilia-Romagna, tra Reggio e Ferrara<br />
ma presente anche <strong>in</strong> Veneto;<br />
Decio, varietà antica, che si ritiene portata dal generale romano<br />
Ezio quando sbarco ad Adria, poi diffusa nella pianura veneta<br />
ed emiliana;<br />
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Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
Lav<strong>in</strong>a, una mela tipica emiliana, croccante ed acidula, molto<br />
serbevole;<br />
Rugg<strong>in</strong>e, di orig<strong>in</strong>e <strong>in</strong>certa, presente già dal ‘700, soprattutto <strong>in</strong><br />
coll<strong>in</strong>a e montagna, ideale per le torte;<br />
mela Rosa, varietà diffusa <strong>in</strong> tutta la penisola, probabilmente<br />
già dall’epoca romana, e da noi presente con ecotipi locali, era<br />
una delle più diffuse, sia da consumo fresco che da cuocere;<br />
Verdone, varietà coltivata da molto tempo nelle zone coll<strong>in</strong>ari<br />
emiliane, compreso il reggiano;<br />
Zambona, diffusa dal piacent<strong>in</strong>o al bolognese, era mela tenera<br />
e succosa, ottima per il consumo fresco.<br />
Tra le pere le due più importanti, entrambe di antica orig<strong>in</strong>e, erano:<br />
la pera di San Giovanni, molto precoce <strong>in</strong> quanto maturava<br />
tra f<strong>in</strong>e giugno e luglio, poco serbevole, veniva mangiata per dissetarsi<br />
durante la mietitura del grano; la Pera Nobile, tra le tardive,<br />
che era consumata fresca, appena colta oppure anche durante<br />
tutto il periodo <strong>in</strong>vernale grazie alla notevole conservabilità nel<br />
fruttaio. La si cuoceva anche <strong>in</strong>sieme alle castagne o era <strong>in</strong>grediente<br />
per la preparazione della mostarda. Aveva un gusto eccellente<br />
ed era la più gradita dalla nobiltà, da cui il nome. La Pera<br />
Nobile appartiene al gruppo delle pere Gnocco d’Inverno.<br />
Tra le altre ben presenti nel reggiano, ricordiamo la Pera Butirra,<br />
molto diffusa, da consumo fresco ed eccellente qualità, la<br />
Pera Bergamotta, anch’essa ottima ed abbastanza diffusa un<br />
tempo, la Pera Carletto, tipica della coll<strong>in</strong>a, piccola, precoce<br />
e da consumo fresco, la Pera Aval, piccola e anch’essa tipica<br />
della fascia coll<strong>in</strong>are.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
SUSINO<br />
Prugna Zucchella di Lentigione<br />
La coltivazione della prugna, come per quasi tutte le altre piante<br />
da frutto, non è diffusa <strong>in</strong> modo significativo nella nostra<br />
prov<strong>in</strong>cia. C’è però una realtà molto piccola, ma estremamente<br />
importante dal punto di vista della salvaguardia della <strong>biodiversità</strong><br />
e delle tradizioni: la Prugna Zucchella di Lentigione di<br />
Brescello.<br />
Fra le vecchie varietà di sus<strong>in</strong>e europee coltivate <strong>in</strong> Emilia Romagna,<br />
ce ne sono alcune, simili fra loro, che vengono chiamate<br />
Zucchella (o Misch<strong>in</strong>a o Collengh<strong>in</strong>a) tra Piacenza e Reggio,<br />
oppure Damasch<strong>in</strong>a a Modena e Bologna, Favorita del Sultano<br />
a Ferrara. La Zucchella è segnalata da fonti storiche a Parma<br />
ai tempi di Maria Luigia d’Austria, ovvero nei primi decenni<br />
dell’800. Nel reggiano non c’è nessuna citazione storica specifica,<br />
ma la bassa reggiana f<strong>in</strong>o a Guastalla all’epoca faceva<br />
parte del ducato parmense. A Lentigione comunque sono rimaste<br />
ancora molte piante di prugna Zucchella: erano gli alberi<br />
che <strong>in</strong> questa zona si utilizzavano da maritare alla vite per la<br />
piantata e, anche se oggi le viti sono scomparse, molti filari<br />
sono sopravvissuti. Il terreno di Lentigione produce delle<br />
prugne molto dolci, che spuntano ottimi prezzi sul mercato di<br />
Parma e che <strong>in</strong> loco, tradizionalmente, vengono trasformate <strong>in</strong><br />
confetture. La Zucchella è molto adatta per questo utilizzo,<br />
grazie all’elevato tenore zuccher<strong>in</strong>o: basta <strong>in</strong>fatti solo un 10%<br />
di zucchero aggiunto nel prodotto. Questa prugna ha anche la<br />
peculiarità di poter essere usata per produrre un succo di frutta,<br />
cosa che probabilmente ne ha determ<strong>in</strong>ato il nome (zucchella<br />
da sughella).<br />
Recentemente è nata l’Associazione per la valorizzazione<br />
della prugna di Lentigione, costituita dai produttori per dare<br />
nuovo impulso alla coltivazione: sono nati <strong>in</strong>fatti nuovi impianti<br />
e viene prodotta e commercializzata una confettura.<br />
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Tra gli anziani della zona c’è una storia relativa all’arrivo della<br />
prugna Zucchella: si narra che all’epoca di Maria Luigia a<br />
Lentigione ci fu una epidemia che svuotò le campagne e la<br />
duchessa decise di ripopolarle facendo giungere coloni slavi,<br />
dalle terre che allora erano sotto gli Asburgo. Questi contad<strong>in</strong>i,<br />
si ipotizza, portarono con sé talee della loro amata prugna, che<br />
utilizzavano per produrre il distillato ottenuto dalla loro fermentazione,<br />
la Sljivovica. In effetti <strong>in</strong> Bosnia Erzegov<strong>in</strong>a, ad<br />
esempio, esiste una prugna del tutto simile alla nostra Zucchella.<br />
Un agricoltore del luogo, Vaccari Nelso, testimonia dell’orig<strong>in</strong>e<br />
slava della sua famiglia, giunta con un flusso migratorio.<br />
Se si tratti di leggenda o realtà, solo eventuali ricerche storiche<br />
potranno stabilirlo. Per ora il Comune di Brescello ha commissionato<br />
una ricerca ad un gruppo dell’Università di Bologna,<br />
guidato dal Prof. S. Sansav<strong>in</strong>i, volta a determ<strong>in</strong>are se la Zucchella<br />
di Lentigione sia uguale o diversa dalle altre simili sus<strong>in</strong>e<br />
presenti <strong>in</strong> regione. Lo studio è stato basato sia su <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e<br />
fenologica-pomologica, che su <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e genetico-molecolare<br />
(f<strong>in</strong>gerpr<strong>in</strong>t<strong>in</strong>g), ponendo a confronto diverse accessioni: la<br />
Zucchella di Parma, quella di Lentigione, altre del bolognese<br />
e del reggiano e la Favorita del Sultano ferrarese. I risultati ci<br />
hanno detto che la Zucchella parmense e di Lentigione sono<br />
la stessa cosa, mentre le altre <strong>in</strong> realtà derivano dalla cultivar<br />
americana Giant, fatta eccezione per una varietà faent<strong>in</strong>a chiamata<br />
Fiasch<strong>in</strong>a, che risulta a sé stante.<br />
Questo è un risultato molto importante, che dimostra che la<br />
prugna di Lentigione è frutto autoctono; per varietà autoctone,<br />
secondo la legge regionale <strong>sulla</strong> <strong>biodiversità</strong>, si <strong>in</strong>tendono<br />
varietà che, seppure di orig<strong>in</strong>e esterna al territorio emilianoromagnolo,<br />
sono state <strong>in</strong>trodotte da lungo tempo e si sono <strong>in</strong>tegrati<br />
tradizionalmente nell’agricoltura regionale.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
FRUMENTO<br />
Grano Puolard di Ciano<br />
La scoperta e lo sviluppo dell’agricoltura si basò soprattutto su poche,<br />
umili piante: i cereali. La svolta avvenne circa 10.000 anni fa<br />
quando l’uomo selezionò alcune piante di cereali a semi resistenti.<br />
Le spighe delle piante selvatiche dei cereali tendevano a liberare i<br />
chicchi, spandendoli sul terreno per favorirne la diffusione; il primo<br />
passo, che permise l’utilizzo di questi semi ricchi di sostanze<br />
nutritive e di facile conservazione, fu la selezione di varietà non<br />
caduche.<br />
L’utilizzo del frumento <strong>in</strong> Pianura Padana si fa risalire a circa 6.500<br />
anni fa.<br />
Probabilmente una delle prime specie coltivate fu il Triticum monococcum,<br />
conosciuto oggi anche come farro piccolo, derivato da<br />
forme spontanee. Oltre a questa specie, ha <strong>in</strong>izio anche la coltivazione<br />
delle forme tetraploidi come il Triticum dicoccum, caratterizzato<br />
da spighette portanti 2 cariossidi vestite. Tale specie viene<br />
tuttora coltivata <strong>in</strong> particolare nell’Italia centro meridionale con il<br />
nome di farro medio. Solo successivamente <strong>in</strong>izia la coltivazione<br />
delle specie esaploidi, nelle forme sia vestite (Spelta) che nude<br />
(Triticum aestivum – o grano tenero), derivate probabilmente da<br />
<strong>in</strong>croci accidentali tra diverse specie.<br />
Le due specie di frumento più utilizzate attualmente sono il grano<br />
tenero (Triticum aestivum), <strong>in</strong> regioni dal clima temperato freddo<br />
o freddo, e il grano duro (Triticum durum), nei climi temperatocaldi<br />
e caldi ed aridi. Esiste anche una terza specie, il grano turgido<br />
(Triticum turgidum), detto anche semiduro, la cui coltivazione<br />
è quasi scomparsa.<br />
Ad <strong>in</strong>izio ‘900 si com<strong>in</strong>cio un’opera sistematica di selezione sulle<br />
varietà di grano, al f<strong>in</strong>e di ottenere una maggiore resistenza<br />
all’allettamento (le spighe che si coricano), alle malattie come le<br />
rugg<strong>in</strong>i e per aumentare le rese produttive e la precocità. F<strong>in</strong>o ad<br />
allora nel nostro Paese erano diffuse varietà locali tradizionali, <strong>in</strong><br />
auge da secoli: il Cologna orig<strong>in</strong>ario del Veneto, il Rosso Olona<br />
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<strong>in</strong> Lombardia, il Gentilrosso <strong>in</strong> Toscana (a lungo la varietà più<br />
diffusa <strong>in</strong> Italia), il Rieti orig<strong>in</strong>ario dell’Umbria. Poi erano coltivate<br />
alcune varietà di grani turgidi come il Civitella <strong>in</strong> Toscana, e<br />
il nostro Poulard di Ciano.<br />
La selezione consistette <strong>in</strong> un primo tempo nella scelta di l<strong>in</strong>ee geneticamente<br />
pure delle comuni varietà, ma i progressi più grandi<br />
furono però ottenuti con l’<strong>in</strong>crocio di varietà locali con altre del<br />
centro Europa o del Giappone, il cui <strong>in</strong>iziatore fu l’agronomo e<br />
genetista Nazareno Strampelli. Queste varietà dalle caratteristiche<br />
superiori vennero chiamate razze elette, come ad esempio l’Ardito<br />
(il primo ad essere selezionato nel 1913) e il Virgilio tra i teneri,<br />
il Senatore Cappelli tra i duri; esse rimasero <strong>in</strong> voga f<strong>in</strong>o agli anni<br />
’60, quando furono sostituite da nuove cultivar più produttive.<br />
Negli ultimi anni c’è un ritorno d’<strong>in</strong>teresse verso le vecchie varietà<br />
di grano, sia quelle orig<strong>in</strong>arie come il Gentile Rosso che quelle<br />
selezionate ad <strong>in</strong>izio ‘900, grazie alle loro eccellenti caratteristiche<br />
organolettiche.<br />
L’unico frumento reggiano autoctono venne trovato a Ciano d’Enza<br />
a f<strong>in</strong>e Ottocento dal Bizzozzero, grande agronomo parmense.<br />
Specialisti come il Vilmor<strong>in</strong> a Parigi e il Siemoni a Roma, lo riconobbero<br />
come Poulard, ovvero come Triticum turgidum, ma senza<br />
riuscire ad associarlo ad alcuno degli altri frumenti semiduri allora<br />
conosciuti. Qu<strong>in</strong>di venne ritenuta una nuova varietà autoctona<br />
del reggiano ed ebbe, all’epoca, una grande diffusione <strong>in</strong> tutta la<br />
penisola, stante la sua buona produttività.<br />
Questa varietà pareva est<strong>in</strong>ta, ma proprio quest’anno ne è stata<br />
identificata una probabile accessione <strong>in</strong> un campo di frumenti antichi<br />
appena oltre Enza, <strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia di Parma. Se il grano <strong>in</strong> questione<br />
si dimostrerà realmente il Poulard di Ciano, verrà recuperato<br />
e questa vecchia gloria reggiana si potrà considerare a tutti gli<br />
effetti salvata dall’oblio.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
MAIS<br />
Granoturco nano precoce reggiano<br />
Il mais (Zea mais) è, per volumi prodotti, il secondo cereale al<br />
mondo dopo il frumento. Nonostante provenga dell’America<br />
Centrale, <strong>in</strong> Italia viene anche chiamato granoturco per tradizione<br />
popolare. Alcuni storici sostengono che, dopo una prima<br />
<strong>in</strong>troduzione <strong>in</strong> Italia per merito degli spagnoli, ne avvenne una<br />
seconda, di maggior successo, dall’impero turco. Ha trovato<br />
ampia diffusione mondiale, grazie alla facilità di coltivazione<br />
e alla buona resa. Per questo motivo è stato importato anche <strong>in</strong><br />
Europa, dove si è diffuso rapidamente apportando una nuova<br />
fonte alimentare a popolazioni spesso esposte a carestie.<br />
In Italia arrivò ad <strong>in</strong>izio ‘500 e si diffuse dapprima nel Veneto ed<br />
<strong>in</strong> Sicilia, poi nelle restanti regioni. Oggi rappresenta la seconda<br />
coltura cerealicola del nostro Paese, dopo il frumento. È diffuso<br />
soprattutto nel nord. Tradizionalmente veniva anche chiamato<br />
granone o formentone, <strong>in</strong> dialetto reggiano furm<strong>in</strong>toun.<br />
Nelle regioni del nord Italia il mais è utilizzato sotto forma di<br />
sfar<strong>in</strong>ati per produrre polente. La polenta è stato uno degli alimenti<br />
più importanti per i ceti sociali più bassi nel settentrione,<br />
<strong>in</strong> particolare per i contad<strong>in</strong>i ed i braccianti agricoli, f<strong>in</strong>o al secondo<br />
dopoguerra; rimane uno dei simboli della gastronomia<br />
popolare del settentrione.<br />
Nel nostro Paese dopo l’<strong>in</strong>troduzione del granturco dalle Americhe<br />
si sono differenziate, nel corso dei secoli, diverse varietà<br />
locali, adattate alle differenti condizioni colturali locali. A partire<br />
dagli anni ’60 si sono diffuse nuove varietà <strong>in</strong>ternazionali,<br />
che garantiscono una maggior resa produttiva, le quali hanno<br />
progressivamente soppiantato le varietà locali.<br />
Tra le varietà storiche diffuse <strong>in</strong> Emilia Romagna, troviamo<br />
il granturco ottofile, l’agostano piacent<strong>in</strong>o e il reggiano nano<br />
precoce Succi.<br />
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Il Granturco ottofile proveniva dal Piemonte e aveva pannocchie<br />
strette e allungate, con otto file di chicchi di colore giallo<br />
oro/arancio; su questa varietà di mais c’è oggi un certo ritorno<br />
di <strong>in</strong>teresse, grazie alla sua qualità organolettica elevata.<br />
Il Granturco nano precoce reggiano è <strong>in</strong>vece una piccola<br />
gloria della nostra prov<strong>in</strong>cia. Deriva da una varietà importata<br />
dall’America nel bolognese e da qui portata a Reggio per la<br />
coltivazione nel podere dell’allora Regia Scuola “A. <strong>Zanelli</strong>”.<br />
Il direttore dell’epoca, A. Succi, a partire dal 1905 si occupò di<br />
selezionare nella cultivar due caratteristiche al tempo ritenute<br />
importanti: la precocità e l’altezza ridotta. Nel giro di una<br />
qu<strong>in</strong>dic<strong>in</strong>a d’anni riuscì ad ottenere una varietà nana, molto<br />
precoce e di buona produttività, unica <strong>in</strong> Italia e che ebbe un<br />
grande successo. Era un granturco funzionale al nostro tipo<br />
di territorio, caratterizzato da un’estate calda e siccitosa, <strong>in</strong><br />
un’epoca <strong>in</strong> cui la disponibilità di acqua irrigua era limitata. Il<br />
mais è pianta che esige irrigazioni abbondanti, per cui una varietà<br />
precoce si sviluppava <strong>in</strong> un periodo ancora relativamente<br />
fresco e piovoso; il fatto di essere nano consentiva di sem<strong>in</strong>are<br />
più fitto e sfruttare meglio il terreno. La varietà era adatta <strong>in</strong><br />
generale anche per le sem<strong>in</strong>e tardive.<br />
Il granturco nano precoce reggiano fece la stessa f<strong>in</strong>e delle altre<br />
varietà locali, cadendo nell’oblio. Oggi è custodito <strong>in</strong> due<br />
banche del seme, una <strong>in</strong> Lombardia ed una <strong>in</strong> Veneto, ed attende<br />
solo che qualcuno decida di restituirgli nuova vita, <strong>in</strong> quella<br />
che fu la sua terra d’orig<strong>in</strong>e. Oltre al generale <strong>in</strong>teresse per le<br />
vecchie cultivar, questo tipo di mais potrebbe essere <strong>in</strong>teressante<br />
<strong>in</strong> ottica di un’agricoltura a m<strong>in</strong>or impatto ambientale,<br />
grazie al risparmio idrico che può consentire.
La Pianura Padana è<br />
sempre stata crocevia di<br />
popoli e genti, che portarono<br />
con se anche materiali<br />
vegetali conservabili<br />
su lunghe distanze,<br />
come semi e talee e,<br />
tra questi, sicuramente<br />
le piante di vite. L’<strong>in</strong>sediamento<br />
di una varietà<br />
viticola <strong>in</strong> un’areale<br />
differente da quello orig<strong>in</strong>ario,<br />
dipende dalla<br />
sua capacità di adattamento e molti vitigni selezionati <strong>in</strong> Medio<br />
Oriente o <strong>in</strong> Grecia e trasportati da i Romani nel nord Italia, è<br />
probabile si siano adattati con difficoltà al clima freddo ed umido,<br />
non sopravvivendo e fornendo produzioni scarse e di cattiva<br />
qualità. La loro presenza, anche temporanea, fu però sufficiente<br />
per avere una naturale diffusione di poll<strong>in</strong>e e l’<strong>in</strong>crocio con locali<br />
piante di vite selvatica Vitis v<strong>in</strong>ifera ssp. Silvestris, dando orig<strong>in</strong>e<br />
a nuove varietà più adattate al clima. Probabilmente molte delle<br />
varietà che consideriamo autoctone dell’Emilia Romagna si sono<br />
generate <strong>in</strong> questo modo e sicuramente questo è il caso della famiglia<br />
dei lambruschi: la vite selvatica era presente nella nostra<br />
regione già dal tardo neolitico e spesso veniva def<strong>in</strong>ita dagli scrittori<br />
romani “Lambrusca”. Il term<strong>in</strong>e stesso lambrusco pare <strong>in</strong>dicare,<br />
dal lat<strong>in</strong>o, una vite selvatica che cresce vic<strong>in</strong>o ai muretti che<br />
delimitano le centuriazioni.<br />
Le varietà di uve presenti <strong>in</strong> Italia sono tantissime proprio a causa<br />
degli <strong>in</strong>croci tra quelle importate dall’oriente con le varietà<br />
selvatiche locali, <strong>in</strong>sieme al ruolo giocato dalla grande differenza<br />
di territori e microclimi, che hanno agito da fattori selettivi. Il<br />
frazionamento del Paese <strong>in</strong> tanti stati, f<strong>in</strong>o a tempi relativamente<br />
recenti, ha contribuito poi a preservare le varietà locali. L’Emilia<br />
Romagna non rappresenta un eccezione <strong>in</strong> questo quadro, e<br />
tantomeno il nostro territorio prov<strong>in</strong>ciale. E i lambruschi, <strong>in</strong>tesi<br />
come famiglia di vitigni aff<strong>in</strong>i, sono sicuramente le uve più<br />
strettamente autoctone del nostro territorio.<br />
Nell’800 la viticoltura reggiana è entrata, così si può dire,<br />
nell’epoca moderna, per cui facciamo riferimento alle pubblicazioni<br />
a partire da questo periodo per capire quali siano le varietà<br />
autoctone.<br />
L’agronomo Filippo Re nel 1805 parla di una gran varietà di uve<br />
reggiane, molte di ottima qualità, ma avvertendo che lo stesso<br />
vitigno ha spesso nomi differenti <strong>in</strong> diverse zone.<br />
Nel 1840 Bertozzi detiene una collezione a Baragalla di 110 vitigni<br />
tipici del reggiano.<br />
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
VITE (1)<br />
I vitigni reggiani<br />
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Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
A f<strong>in</strong>e ‘800, nella carta<br />
agronomica redatta<br />
dalla Regia Scuola “A.<br />
<strong>Zanelli</strong>”, le uve più coltivate<br />
a Reggio risultano<br />
le seguenti: Lanzellotte,<br />
Lambrusche, Berzem<strong>in</strong>e,<br />
Sangiovesi e Selvatiche<br />
(da seme) e nella<br />
bassa il Lambrusco<br />
Mazzone (L. Oliva).<br />
Nel 1927 Bertol<strong>in</strong>i riporta<br />
i seguenti dati: tra<br />
i vitigni rossi Lancellotta dom<strong>in</strong>ante <strong>in</strong> tutta la prov<strong>in</strong>cia, poi<br />
Fogar<strong>in</strong>a nella bassa, e lambrusche Salam<strong>in</strong>o, Sorbara, di Montericco<br />
e Mazzone, poi Sgavetta, Scorzamara, e Berzem<strong>in</strong>o; tra<br />
i bianchi Spergol<strong>in</strong>a (Spergola), Malvasia, Occhio di Gatto, seguiti<br />
a distanza da Retica, Trebbiano e Vernaccia.<br />
Si salta al 1965, dove si sta progressivamente <strong>in</strong>sediando una viticoltura<br />
specializzata ed erano già operanti le DOC, che prescrivevano<br />
solo l’uso dei vitigni ritenuti migliori: l’Ancellotta<br />
era il 40% della produzione, seguita da alcuni lambruschi: Salam<strong>in</strong>o,<br />
Marani, Oliva, Nostrano; tra i bianchi la Spergola.<br />
Attualmente l’Ancellotta rappresenta circa la metà dell’uva prodotta<br />
nel reggiano, seguita da Salam<strong>in</strong>o e Marani.<br />
La varietà di uve si è notevolmente ridotta e i cosiddetti vitigni<br />
m<strong>in</strong>ori sopravvivono solo <strong>in</strong> vigneti marg<strong>in</strong>ali, <strong>in</strong> filari isolati,<br />
soprattutto <strong>in</strong> coll<strong>in</strong>a, o <strong>in</strong> campi collezione come quello<br />
dell’Istituto Tecnico Agrario. Non è detto che tutto ciò che venne<br />
abbandonato <strong>in</strong> passato fosse buono, ma sicuramente tra le<br />
varietà dismesse tra gli anni ‘60 e ’70 perché poco produttive<br />
o più difficili da coltivare, ce ne sono alcune di ottima qualità<br />
enologica, come ad esempio la Sgavetta, il Lambrusco Oliva e<br />
l’Occhio di Gatto.<br />
Alcuni vitigni poi, anche se poco produttivi o meno <strong>in</strong> s<strong>in</strong>tonia<br />
con i gusti enologici attuali, rappresentano comunque un patrimonio<br />
di sapori e aromi, legati alla storia e alla cultura della<br />
nostra terra, che non bisogna disperdere.<br />
Molte cultivar a maturazione tardiva, potranno ritornare utili se<br />
davvero si andrà verso un clima più caldo, ricordando che il<br />
mantenimento della <strong>biodiversità</strong> è sempre un <strong>in</strong>vestimento per<br />
le future generazioni.<br />
Seguiranno ora alcune note sui vitigni reggiani considerati più<br />
strettamente autoctoni, limitandoci ai vitigni “m<strong>in</strong>ori” e qu<strong>in</strong>di<br />
tralasciando i vari Ancellota, Malbo Gentile, i lambruschi più<br />
<strong>in</strong> voga e Spergola, autoctoni ma molto coltivati. Sono specificati<br />
i vitigni non a rischio di scomparsa, <strong>in</strong> quanto godono di<br />
una stabile, seppur modesta, diffusione prov<strong>in</strong>ciale.
Lambrusco di Montericco<br />
Lambrusco Barghi<br />
Lambrusco Corbelli o di Rivalta Una varietà di lambrusco<br />
diffusa un tempo dalla pianura alla coll<strong>in</strong>a reggiana, si ritiene<br />
debba il nome al Conte Corbelli, che lo coltivò estesamente nelle<br />
sue tenute a Rivalta e Castelnuovo Sotto.<br />
Lambrusco Barghi A lungo era stato ritenuto s<strong>in</strong>onimo del<br />
lambrusco Corbelli, ma <strong>in</strong> realtà le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i genetico-molecolari<br />
<strong>in</strong>dicano che probabilmente è un vitigno differente.<br />
Lambrusco dei Vivi (o Perla dei Vivi) Lambrusco su cui si<br />
hanno pochissime notizie orali, e presente solo <strong>in</strong> un vigneto <strong>in</strong><br />
prov<strong>in</strong>cia; nel 2007 è stato però iscritto al Registro Nazionale<br />
delle Varietà della Vite.<br />
Lambrusco Benetti La sua prima citazione risale al 1945 ed è<br />
qu<strong>in</strong>di relativamente recente; è tipico della zona di conf<strong>in</strong>e tra<br />
Modena e Reggio.<br />
Lambrusco Nostrano o a Foglia Frastagliata (non a rischio)<br />
Vitigno storico, rilevato a partire dalla f<strong>in</strong>e della prima guerra<br />
mondiale è diffuso ancora su di una superficie abbastanza ampia<br />
(20 ha); diffuso anche <strong>in</strong> Trent<strong>in</strong>o col nome di Enantio.<br />
Lambrusco di Montericco (non a rischio) Detto anche “lambrusca<br />
selvatica di Montericco”, vitigno tipico di alcuni comuni<br />
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
VITE (2)<br />
I vitigni reggiani<br />
VITIGNI LAMBRUSCHI A PIÙ STRETTA AUTOCTONIA<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
Lambrusco Pjcoll Ross<br />
Lambrusco Oliva<br />
della fascia coll<strong>in</strong>are, nel cui clima cresce meglio, ha una prima<br />
citazione storica del 1891; negli anni ’70 era diffuso su 149 ha,<br />
ora è ridotto a poche aziende.<br />
Lambrusco Oliva o L. Mazzone (non a rischio) Citato la prima<br />
volta nel 1811, era uva molto coltivata <strong>in</strong> tutta la prov<strong>in</strong>cia e ancor<br />
oggi, pur se molto ridotta, ha una discreta diffusione e c’è un<br />
ritorno di <strong>in</strong>teresse nei suoi confronti per la qualità enologica.<br />
Lambrusco Pjcoll Ross (non a rischio) Deve il nome al colore<br />
rossastro del picciolo. Vitigno storico di alcuni comuni della<br />
Val d’Enza (Sant’Ilario, Montecchio e Gattatico), è ancora discretamente<br />
presente nei terreni ghiaiosi prossimi al torrente. In<br />
passato venne considerato erroneamente un clone di lambrusco<br />
Grasparossa, mentre le analisi genetiche hanno dimostrato che<br />
co<strong>in</strong>cide col Terrano del Carso, anche se si tratta di un ecotipo<br />
locale. Non si hanno notizie sul perché e il quando il Picoll Ross<br />
sia arrivato nel reggiano.<br />
Lambruscone o L. di Fiorano (non a rischio) Citato come<br />
Lambruscone già nel 1700, è vitigno orig<strong>in</strong>ario dell’omonima<br />
località modenese. Era diffuso anche nel reggiano, soprattutto<br />
<strong>in</strong> montagna perché resistente al freddo; oggi ne sopravvivono<br />
solo poche piante <strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
VITE (3)<br />
I vitigni reggiani<br />
Uva Fogar<strong>in</strong>a Uva Bersme<strong>in</strong> Pass Uva Scorza Amara<br />
Uva Bisa Il nome deriva dal colore caratteristico della buccia, grigiastro<br />
con trasparenze rossastre. È un’uva di orig<strong>in</strong>e sconosciuta,<br />
era caratteristica della media ed alta coll<strong>in</strong>a reggiana, Produce un<br />
v<strong>in</strong>o di bassa gradazione alcolica, ricchissimo di acidità, utilizzato<br />
come v<strong>in</strong>ello durante i lavori estivi <strong>in</strong> coll<strong>in</strong>a.<br />
Scorzamara Varietà storicamente presente nella prov<strong>in</strong>cia, citata<br />
f<strong>in</strong> dal 1811 è successivamente ripresa da altri autori, anche col<br />
nome di “guscia amara”. Diffusa soprattutto a ovest (Sant’Ilario e<br />
Montecchio), ora è quasi scomparsa e si trovano solo pochi ceppi.<br />
Il nome deriva dal caratteristico gusto amaro della bacca, utilizzata<br />
qu<strong>in</strong>di come uva da taglio per dare gusto particolare al v<strong>in</strong>o.<br />
Uva Tosca Era il vitigno più diffuso della media ed alta coll<strong>in</strong>a<br />
reggiana; impiegata anche come uva da tavola, molto sana, resistente<br />
al freddo, a maturazione tardiva. Ora quasi comparsa.<br />
Citato f<strong>in</strong> dal 1674 da Tanara. A Scandiano una buffa leggenda<br />
vuole che l’uso abbondante e cont<strong>in</strong>uo del v<strong>in</strong>o di Tosca porti alla<br />
pazzia, come sono i montanari di Toano, a causa degli abbondanti<br />
sali presenti nel v<strong>in</strong>o che <strong>in</strong>taserebbero le arterie del cervello.<br />
Posticcia o Postizza Citata per la prima volta da Claudio della<br />
Fossa (1811). Nel 1874-75 il v<strong>in</strong>o della “Società Enologica di<br />
Reggio” è ottenuto con 1/5 di Posticcia ed il resto di Lambrusco<br />
di Montericco (<strong>Zanelli</strong> 1875). Nel 1891 da un’<strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e del Consorzio<br />
Agricolo era tra le 20 uve nere più diffuse. Non è più citata<br />
nel 1970, già a quell’epoca scomparsa.<br />
Uva della Quercia Antico vitigno m<strong>in</strong>ore della coll<strong>in</strong>a reggiana,<br />
su cui non si hanno notizie precise.<br />
Sgavetta Vitigno tipico della prov<strong>in</strong>cia, ma non è molto diffuso<br />
sul territorio, benché sia iscritto a catalogo. Pare sia orig<strong>in</strong>ario del<br />
padovano (ceppo di Schiava?), nel reggiano ha trovato un ottimo<br />
habitat nella zona basso-coll<strong>in</strong>are: Vezzano, Quattro Castella<br />
e Bibbiano. Citata da Ramazz<strong>in</strong>i (1887), Cosmo (1962) ne raccomanda<br />
la diffusione nelle coll<strong>in</strong>e reggiane. attualmente è oggetto<br />
di un ritorno di <strong>in</strong>teresse, per le sue buone qualità enologiche.<br />
VITIGNI ROSSI A PIÙ STRETTA AUTOCTONIA<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
Berzem<strong>in</strong>o Il Berzem<strong>in</strong>o è un vitigno di aspetto molto simile al<br />
Marzem<strong>in</strong>o, ed anche il nome parrebbe una sua storpiatura dialettale.<br />
Sono citate nell’ottocento anche uve chiamate Balsam<strong>in</strong>e<br />
e non è stato stabilito con certezza se co<strong>in</strong>cidano col Berzem<strong>in</strong>o.<br />
Questo era presente nel reggiano con tre tipologie, denom<strong>in</strong>ate<br />
dialettalmente: Bersme<strong>in</strong> selvàdegh, Bersme<strong>in</strong> capolegh e Bersme<strong>in</strong><br />
pass.<br />
Filucca Antico vitigno della media coll<strong>in</strong>a reggiana, su cui non<br />
si dispone di notizie storiche precise. É caratterizzato da elevata<br />
acidità. Ormai scomparso.<br />
Covra (non a rischio) Citata a Reggio Emilia f<strong>in</strong> dal XVI sec., e<br />
poi successivamente da tutti i pr<strong>in</strong>cipali autori. Molto diffusa <strong>in</strong><br />
prov<strong>in</strong>cia nell’800, dava un v<strong>in</strong>o a bassa acidità, idoneo per il taglio<br />
con i lambruschi.<br />
Uva Termar<strong>in</strong>a rossa (non a rischio) Varietà tipica reggiana, è <strong>in</strong>confondibile<br />
grazie alla piccola dimensione degli ac<strong>in</strong>i privi di v<strong>in</strong>accioli<br />
(uva apirena). Storicamente era usata per fare la marmellata,<br />
la “saba”, ma anche come uva da tavola o <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e tagliata con altre<br />
uve per farne v<strong>in</strong>o. Citata per la prima volta da Ma<strong>in</strong><strong>in</strong>i (1851)<br />
Uva Fogar<strong>in</strong>a (non a rischio) La popolare canzone sull’uva Fogar<strong>in</strong>a,<br />
celebrava la f<strong>in</strong>e della vendemmia, <strong>in</strong> quanto quest’uva era<br />
l’ultima ad essere raccolta. La leggenda <strong>sulla</strong> sua orig<strong>in</strong>e la vuole<br />
ritrovata nel 1820 sul greto del fiume Crostolo, vic<strong>in</strong>o alla foce sul<br />
Po, da un agricoltore di nome Simonazzi e denom<strong>in</strong>ata “Fogar<strong>in</strong>a<br />
di Gualtieri”. Ebbe ampia diffusione nei terreni alluvionali del Po<br />
e del basso Enza e s<strong>in</strong>o al 1927 costituiva ben l’80% della produzione<br />
totale della bassa reggiana e circa il 15% del totale prov<strong>in</strong>ciale.<br />
Ha un’acidità molto elevata e nel corso del ‘900 fu progressivamente<br />
abbandonata. Nel 1970 venne cancellata dal Registro<br />
Nazionale <strong>in</strong> quanto ritenuta est<strong>in</strong>ta, anche se <strong>in</strong> realtà era ancora<br />
presente, sparsa nei vigneti della bassa. Negli anni recenti è nato<br />
un progetto di rilancio, per opera della Cant<strong>in</strong>a Sociale di Gualtieri,<br />
è stata iscritta nuovamente al Registro e con essa vengono ora<br />
prodotti un v<strong>in</strong>o passito ed uno spumante.
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
VITE (4)<br />
I vitigni reggiani<br />
Uva Occhio di Gatto Uva Termar<strong>in</strong>a Bianca Uva Dorata di Montericco<br />
Uva Termar<strong>in</strong>a bianca Vitigno ben differente dalla Termar<strong>in</strong>a<br />
Rossa, rispetto alla quale non vanta citazioni storiche. La sua<br />
orig<strong>in</strong>e è sconosciuta.<br />
Uva quasi del tutto apirena, anche se un 10-20% degli ac<strong>in</strong>i è<br />
grosso e provvisto di semi. Molto dolce, adatta per produrre<br />
confetture.<br />
Bianca di Poviglio Si tratta di un vitigno storico del comune di<br />
Poviglio, poco diffuso per la tendenza <strong>in</strong> zona all’impianto di varietà<br />
a bacca nera. Sembra trattarsi di un clone di Trebbiano, uva<br />
storicamente presente sul territorio. In anni recenti è stata oggetto<br />
di un progetto di rivalutazione, con la produzione di un v<strong>in</strong>o monovarietale.<br />
Dorata di Montericco Vitigno scoperto nella zona di Montericco,<br />
<strong>in</strong> comune di Alb<strong>in</strong>ea, ma su cui non si hanno notizie storiche. Ne<br />
rimangono attualmente solo pochi ceppi. Veniva usata oltre che<br />
per la produzione di v<strong>in</strong>o, anche come uva da mensa, per la facile<br />
conservabilità f<strong>in</strong>o alle feste natalizie.<br />
Tognona Nome probabilmente derivato dal dialetto reggiano, che<br />
con questo term<strong>in</strong>e <strong>in</strong>dica animali e persone con caratteristiche di<br />
elevata rusticità e resistenza.<br />
Vecchio vitigno di uva bianca reggiana, di orig<strong>in</strong>e sconosciuta.<br />
Utilizzata come uva da tavola, grazie alla sua capacità di conservarsi<br />
f<strong>in</strong>o a Natale.<br />
Lugliatica Vitigno di orig<strong>in</strong>e sconosciuta, la più precoce tra le<br />
uve antiche bianche presenti nel territorio prov<strong>in</strong>ciale, maturando<br />
<strong>in</strong>fatti f<strong>in</strong>e luglio (da cui il nome).<br />
Retica (Redga) o Graticciana É un antico vitigno bianco reggiano<br />
di orig<strong>in</strong>e sconosciuta, che forse deve il nome agli ac<strong>in</strong>i<br />
che a maturità tendono ad appassire evidenziando <strong>sulla</strong> buccia un<br />
VITIGNI BIANCHI A PIÙ STRETTA AUTOCTONIA<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
reticolo <strong>in</strong> trasparenza. Utilizzata prevalentemente come uva da<br />
tavola, anche da questo può derivare il nome (uva che si conserva<br />
su reti e graticci, affiche non ammuffisca).<br />
Occhio di Gatto Deriva il nome dal fatto che a maturità gli ac<strong>in</strong>i<br />
lasciano <strong>in</strong>travedere <strong>in</strong> trasparenza i v<strong>in</strong>accioli, che sembrano le<br />
pupille di un gatto (occ<strong>in</strong> gatt <strong>in</strong> dialetto). Citato a Reggio f<strong>in</strong> dal<br />
1867. Vitigno di notevole qualità, con buona dotazione aromatica,<br />
aveva il suo areale nella zona coll<strong>in</strong>are. Nella pubblicazione<br />
del 1854 “Catalogo alfabetico di tutte le uve o viti conosciute e<br />
coltivate nelle prov<strong>in</strong>cie di Reggio e Modena secondo i loro nomi<br />
volgari”, si cita la vicenda del notabile Scandianese Avv. Giovanni<br />
Carand<strong>in</strong>i, che piantò ad <strong>in</strong>izio Ottocento uve di Tocai nei suoi poderi.<br />
Il Tocai arrivò <strong>in</strong> Friuli solo 50 anni dopo, cioè a metà secolo,<br />
qu<strong>in</strong>di è probabile che a Scandiano sia arrivato prima. Ma da dove?<br />
E che c’entra il nostro Occhio di Gatto? Il Tocai, è stato dimostrato<br />
dall’analisi genetica, essere con il francese Sauvignonasse (o<br />
Sauvignon Vert). Le stesse analisi hanno recentemente dimostrato<br />
la co<strong>in</strong>cidenza anche tra Tocai friulano e Occhio di Gatto. Qu<strong>in</strong>di<br />
il nostro Occhio di Gatto sarebbe il Sauvignonasse, giunto nel reggiano<br />
dalla Francia mezzo secolo prima che <strong>in</strong> Friuli.<br />
Scarsa Foglia o Squarcia Foglia Vitigno che sembra essere stato<br />
<strong>in</strong>trodotto dalla Grecia dall’Ing. Angel<strong>in</strong>i, a <strong>in</strong>izio ‘800, sui colli<br />
di S. Ruff<strong>in</strong>o. Citato successivamente f<strong>in</strong>o al 1923, oggi è pochissimo<br />
diffuso. Trasmette un caratteristico aroma di rosa al v<strong>in</strong>o e<br />
ciò potrebbe far supporre un qualche legame con la famiglia dei<br />
moscati.<br />
Ci sono poi altri vitigni, molto citati dagli autori <strong>in</strong> passato, che<br />
oggi risultano presenti solo a livello di collezioni ampelografica<br />
(Bermestone, Negrisolo o Nigrisella) e su cui non si hanno<br />
notizie certe. Altri praticamente <strong>in</strong>trovabili, probabilmente est<strong>in</strong>ti<br />
(Giott<strong>in</strong>a, Vernaccia Bianca).
La <strong>biodiversità</strong> agraria a Reggio Emilia<br />
BIODIVERSITÀ DEL PAESAGGIO<br />
La piantata reggiana<br />
La piantata, che f<strong>in</strong>o a pochi decenni orsono occupava la quasi<br />
totalità dei terreni agrari della media ed alta pianura reggiana,<br />
rappresentava una forma di allevamento della vite che utilizzava<br />
quale tutore un sostegno “vivo”, ovvero un’altra pianta quali<br />
l’olmo, l’acero campestre o le piante da frutto.<br />
Questa forma di allevamento è ormai scomparsa a causa di una<br />
malattia (la grafiosi) che provoca il disseccamento dell’olmo<br />
e delle esigenze di meccanizzazione delle operazioni colturali.<br />
Più che di forma di allevamento sarebbe corretto parlare di<br />
“sistema”, <strong>in</strong> quanto esigeva una potatura tipica ed unica <strong>in</strong> viticoltura<br />
: molto <strong>in</strong>tensa ed accurata un anno (pota) e molto più<br />
speditiva e leggera il successivo (frasca). L’olmo campestre,<br />
oltre a svolgere la funzione di tutore, forniva legna da ardere e<br />
da lavoro, mentre il fogliame era utilizzato per l’alimentazione<br />
del bestiame bov<strong>in</strong>o; l’acero campestre, resistente alla grafiosi,<br />
non rispondeva altrettanto bene a quelle esigenze. Il doppio<br />
tipo di potatura si rifletteva anche sulle caratteristiche enologiche<br />
delle uve per cui nella v<strong>in</strong>ificazione era impiegata una mescolanza<br />
proveniente sia dalla vite <strong>in</strong> pota che <strong>in</strong> frasca.<br />
Questo sistema di allevamento è ormai scomparso dalla nostra<br />
campagna, salvo qualche raro filare a volte rimaneggiato<br />
rispetto all’orig<strong>in</strong>ale o posto a ridosso della casa rurale per le<br />
uve ad uso famigliare, perché varietà di pregio o di tradizione.<br />
La piantata era già diffusa <strong>in</strong> epoca etrusca <strong>in</strong> tutta l’area padana,<br />
come scrive il Sereni “...nel dom<strong>in</strong>io etrusco, <strong>in</strong>vece, il<br />
sistema di allevamento consente una coltura promiscua nella<br />
quale - alla vite allevata alta montata all’acero ed all’olmo - si<br />
consocia nello stesso campo la coltura dei cereali...”. È anzi<br />
ipotizzabile che questo sistema fosse praticato già <strong>in</strong> età anteriore<br />
alla colonizzazione etrusca dalle popolazioni <strong>in</strong>digene o<br />
paleoliguri della Valle Padana, le quali - è certo - raccoglievano<br />
ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE “ANTONIO ZANELLI”<br />
Sez. Tecnica Agraria (<strong>in</strong>dirizzi generale, ambientale e zootecnico)<br />
ed utilizzavano le bacche della labrusca , la vite selvatica, “...i<br />
cui tralci spontaneamente dovevano <strong>in</strong>trecciarsi nel particolare<br />
ambiente climatico nelle chiome degli olmi, degli aceri,dei<br />
pioppi…”.<br />
In età romana si usava il term<strong>in</strong>e arbustum gallicum, cioè piantata<br />
all’uso gallico: non perché quelle popolazioni avessero avuto<br />
rilievo nella diffusione di questo sistema ma per il riferimento<br />
geografico all’areale <strong>in</strong> cui era diffuso. Infatti i coloni romani<br />
dovettero ricorrere a questa tecnica per estendere la coltura della<br />
vite nelle terre più umide e fertili e con clima più freddo che impedivano<br />
l’allevamento del vigneto basso “all’uso greco”.<br />
Nella metà del XIII secolo Pietro de’ Crescenzi - il r<strong>in</strong>novatore<br />
della scienza agronomica dell’Italia comunale - def<strong>in</strong>isce <strong>in</strong> modo<br />
tecnicamente molto preciso il paesaggio della piantata parlando<br />
di viti allevate “...su grandi arbori, dist<strong>in</strong>te <strong>in</strong> squadre…” e precisa<br />
che esse “...Si piantano nelle ripe de’ fossati o sopra le ripe,<br />
o per i campi, appresso grandi arbori...” .<br />
Gli elementi costitutivi della piantata, che è giunta come tale f<strong>in</strong>o<br />
a buona parte del Novecento, sono già elaborati nel ‘500 con la<br />
divisione della superficie dei campi di forma regolare, con limiti<br />
segnati da cavedagne e da fossati, lungo cui corrono i filari di alberi<br />
vitati, ovvero nelle zone <strong>in</strong> cui si irriga a scorrimento a delimitare<br />
la spianata.<br />
Questo sistema di coltivazione della vite ha per secoli caratterizzato<br />
il paesaggio e la cultura rurale del territorio reggiano;<br />
per questo è importante salvaguardarne i pochi esempi rimasti<br />
come testimonianze di una millenaria storia agraria, <strong>in</strong> cui la<br />
capacità di utilizzare le risorse ambientali era basata sullo spirito<br />
di osservazione e sull’<strong>in</strong>gegnosità dei coltivatori.