Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema ... - Ruralpini
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(il burro era ben remunerato), mentre le capre restavano più legate alla sfera dell’autoconsumo 259 .<br />
Il consumo alimentare di latte di capra fresco è stato spesso associato alle necessità<br />
dell’alimentazione neonatale ed infantile, ma le testimonianze sono concordi nel riconoscere al latte<br />
di capra, consumato con la polenta o la minestra, un ruolo importante nell’alimentazione degli<br />
adulti 260 . Melchiorre Gioia e Vincenzo Cuoco, nella loro descrizione economica del Dipartimento<br />
dell’Agogna, osservarono che: “Una capra serve a condire la minestra d’una famiglia” 261 . La<br />
preparazione della minestra con latte di capra è ricordata ancor oggi da diversi testimoni dell’area<br />
lariana che, in alcuni casi, continuano a consumarla 262 .<br />
Il consumo del latte non era limitato al desco famigliare. A conferma della grande importanza<br />
della capra nella società tradizionale alpina, si deve osservare che, se, da una parte, era l’animale “di<br />
famiglia”, utile per l’alimentazione degli infanti, dei malati, degli anziani, dall’altra era anche<br />
l’animale di comunità “professionali” costituite da individui adulti di sesso maschile che, a causa<br />
dell’attività svolta, erano costretti a condizioni di isolamento più o meno prolungato. In queste<br />
condizioni il latte fresco delle capra (che, come visto, in qualsiasi zona boscosa o incolta non ha<br />
difficoltà a reperire da sola la propria razione alimentare) forniva, insieme alla farina di mais o ad<br />
altri prodotti amidacei non deperibili, gran parte del fabbisogno nutritivo.<br />
“Fino al nostro secolo anzi non solo i montanari locali hanno valorizzato la capra come sostegno dell'economia<br />
e della sopravvivenza, ma se ne sono valsi anche addetti ad altri mestieri, come i boscaioli, i terebintinai o<br />
raccoglitori di resina, i carbonai che si trasferivano sui monti con un piccolo branco di capre che era facilissimo da<br />
alimentare per avere latte e formaggio. Lo stesso dicasi dei minatori solitari sulle sperdute montagne della valle<br />
Anzasca che riuscivano a superare l'isolamento e le difficoltà di approvvigionamento portando con sé qualche capra<br />
da latte, con le quali ritornavano al basso portando il materiale scavato all'apparire del gelo a fine stagione”.<br />
L’utilizzo delle capre da parte dei carbonai, sino agli anni ’50, è ricordato anche in Val di<br />
Ledro 263 mentre, in Val Mesolcina, vi sono riferimenti contrattuali relativi alla possibilità per i<br />
259 “Anni addietro, si viveva, bene o male, si viveva. C’era il latte, il formaggio. Quando avevo poche bestie , tutto<br />
quello che si produceva si adoperava. A parte un po’ di burro, che quello si vendeva. Il formaggio, il latte, si adoperava<br />
tutto in famiglia. I bambini bevevano latte di mucca e capra, perché avevamo anche le capre, fino al ’70. Tutte le<br />
famiglie avevano una, due, tre capre. Il pastore le portava al pascolo la mattina e le riportava la sera”. Testimonianza di<br />
Eugenio Andreis di Caldes (Tn) in: P.R. RAUZI, A.BRODESCO, V. SBARBINI, op. cit., p. 85. “Il cambiamento è<br />
impossibile descriverlo. Se penso che certe famiglie avevano una vacca e cinque o sei capre e magari cinque o sei figli.<br />
Non so come facevano a vivere. Seminavano patate e non venivano. Seminavano questo po’ di orzo, e segale, per fare i<br />
panetti. Li seccavano e restavano lì un anno. Si comprava solo la farina gialla, che era polenta tutti i giorni”,<br />
Testimonianza di Attilio Dalla Valle, Mezzana (Tn) in: P.R. RAUZI, A.BRODESCO, V. SBARBINI, op. cit., p.86.<br />
260 “ALDO. Si può dire che sono nato nella stalla. Eravamo in dieci dodici in famiglia, io ero il più vecchio dei figli;<br />
venivamo a casa da scuola e si domandava. “mamma che fai di pranzo?” C’era la polenta sul focolare; sul focolare però<br />
non sulla fornela; mi diceva: “Vai a mungere le capre giù sotto”. Allora c’erano le capre. Lei coceva la polenta, la<br />
versava, metteva per terra il paiolo e poi tutti intorno con il cucchiaio si mangiava polenta e latte. MOGLIE Ed eravamo<br />
più sani di adesso. Testimonianza di Aldo Campostrini e moglie, Sabbionara d’Avio (Tn), in: P.R. RAUZI,<br />
A.BRODESCO, V. SBARBINI, op. cit., pp.85-86.<br />
“Fra le sette e le nove ore antimeridiane, a seconda della stagione, fa il suo pasto più abbondante della giornata, e questo<br />
consiste, si può dire indebitamente per tutti, e per tutti i giorni dell’anno, in polenta fatta con farina di zea mais, o di<br />
polygonum fagopirum, detta volgarmente fraina o formentone, e quella polenta è accompagnata da scarso companatico<br />
di formaggio giovane, dolce, o da latte di vacca o di capra. La dose di polenta ingerita da un uomo sano e robusto, sta<br />
fra i quattrocento e gli ottocento grammi, il cacio difficilmente eccederà i cento, ed il latte potrà toccare i quattrocento<br />
[…] Sul mezzogiorno si fa un secondo pasto, detto merenda, ed in questo si mangia un panetello di farina di segale, o di<br />
granoturco, o di polenta fredda […] alcuni vi uniscono piccola quantità di cacio o qualche pezzetto di salsiccia […]”<br />
alla sera il condimento della minestra “è dato da piccola dose di grasso animae o di burro, e spesso da latte di capra o di<br />
giovenca”, IAJ, La classe agricola nella provincia di Sondrio, p. 230.<br />
261 M. GIOIA, V. CUOCO, Il dipartimento dell’Agogna (La Valsesia, l’Ossola, il Lago Maggiore, il Lago d’Orta, il<br />
Novarese e la Lomellina sotto Napoleone), edizione a cura di E.RICCI, Fondazione Arch. Enrico Monti, Anzola<br />
d’Ossola, 1986 p. 65.<br />
262 Di seguito l’indicazione dele testimonianze e degli ortaggi utilizzati: zucca: Lidia Zappa, Caslino d’Erba (Co);<br />
germogli di luppolo selvatico: Miro Puricelli, Sala comacina (Co); Giovanni Cadenazzi; verza: Tramezzo (Co).<br />
263 Testimonianza di Saverio Tiboni, Tirano di Sopra (Tn).