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Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema ... - Ruralpini

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Mazzi ha raccolto diverse testimonianze che indicano come, ancora intorno alla metà del XX<br />

secolo, i “monti” 220 fossero abitati anche durante l’inverno in condizioni di isolamento quasi totali,<br />

affrontate anche grazie alle capre. Con un po’ di scorte di farina e di pochi altri generi commestibili,<br />

e con quelle di fieno per le bestie, l’inverno veniva superato senza gravi problemi grazie alla<br />

disponibilità di latte e di carne.<br />

“Al Croso il sole andava via a ottobre e tornava a febbraio […] la mattina regolavamo le bestie nelle stalle, sette o<br />

otto vacche, una quarantina di capre, maiali [..] D’inverno gelava tutto, dalla polenta al caffè. Quando s’ammazzava una<br />

bestia, per conservare la carne la bagnavamo con un secchio d’acqua e l’appendevamo. Si manteneva tutto l’inverno<br />

meglio che in un freezer. Certi anni trascorrevamo tre, quattro mesi prima di rivedere una persona […] Solitamente si<br />

mangiava polenta. La sera, minestra nera: un pugno di riso con patate e un cucchiaio di sugna. Oppure tartiful e càura,<br />

papate e carne di capra. Niente pane. Tutto l’inverno era così”. 221<br />

Anche in questo le capre rappresentavano una risorsa fondamentale dei montanari, non solo<br />

fornendo il latte, ma anche costituendo una “scorta alimentare viva”, che consisteva nel macellarne<br />

qualcuna in funzione del bisogno, conservando la potenzialità riproduttiva del gregge. In questo le<br />

capre presentavano un vantaggio evidente rispetto alle vacche, che contribuisce a spiegarne il ruolo<br />

quasi insostituibile in un’economia di autoconsumo. La vacca rappresentava un capitale “fisso”<br />

molto importante e di onerosa ricostituzione e la sua macellazione per il consumo era legata<br />

prevalentemente ad incidenti o a malattie che non consentivano di vendere l’animale vivo al<br />

macellaio 222 . Le capre, invece, rappresentavano spesso, più un capitale “circolante” che uno fisso e<br />

la ridotta dimensione economica e fisica consentiva decisioni flessibili circa la vendita, l’acquisto e<br />

la macellazione 223 . Gestire la preparazione e la conservazione della carne ricavabile da una capra,<br />

non molta data la scarsa resa di animali a fine carriera (12-15 kg di carne), era certamente molto più<br />

agevole. L’importanza della quantità di carne fornita dalle capre di riforma non deve essere in<br />

alcun modo sottovalutata in un contesto in cui l’ingrasso di un maiale era appannaggio delle<br />

famiglie rurali più ricche e in cui il consumo di carne pro-capite nell’Italia settentrionale (verso la<br />

fine del XIX secolo) si aggirava sui 10 kg annui 224 . Pare importante sottolineare anche che,<br />

durante il periodo invernale, la carne delle capre rappresentava un’importante fonte di proteine<br />

alimentari nel quadro di un <strong>sistema</strong> produttivo fondato sull’autoproduzione. La disponibilità di latte,<br />

infatti, in inverno era sovente ridotta; le capre, legate ad una cadenza riproduttiva strettamente<br />

stagionalizzata sulla base delle caratteristiche fisiologiche della specie, cessavano la lattazione in<br />

settembre-ottobre e partorivano a marzo non potendo quindi fornire latte fino alla primavera (anche<br />

se lo svezzamento dei capretti maschi veniva in passato alquanto anticipato proprio per disporre del<br />

latte) 225 . Anche il latte vaccino era poco disponibile perché le vacche venivano fatte partorire in<br />

autunno avanzato 226 e, in ragione delle limitate produzioni, tutto il latte era utilizzato dai vitelli 227 .<br />

Quanto alle scorte di formaggio si deve osservare che il formaggio migliore, suscettibile di lunga<br />

220<br />

Maggenghi.<br />

221<br />

«D’inverno gelava anche la polenta». Testimonianza di Caterina Barbieri, Craveggia, in: B. MAZZI, Quando<br />

abbaiava la volpe Un secolo di vita alpina nel racconto dei protagonisti., Novara, 2001, p. 82-83.<br />

222<br />

Per utilizzare la carne era necessario, in questi casi, ricorre ai collaudati meccanismi di solidarietà e mutualismo<br />

spontaneo; in alcuni casi i vicini erano moralmente obbligati ad acquistare la carne, in altri la carne veniva donata dalla<br />

famiglia proprietaria dell’animale nell’ambito di un meccanismo di implicita reciprocità.<br />

223<br />

Il ruolo di “scorta alimentare viva” , ma anche di “moneta” e di “assicurazione” ripoperto dal bestiame nelle<br />

economie <strong>pastorali</strong> è noto dall’antichità e rimane d’attualità nelle società <strong>pastorali</strong> e nomadi che tutt’oggi sopravvivono<br />

in Asia e Africa. Nota l’evoluzione del sostantivo latino pecunia che dal significato di “ricchezza in bestiame” ha<br />

assunto quello di “moneta” (da pecus, pecora).<br />

224<br />

H. J. TEUTEBERG, J.L. FLANDRIN, «Trasformazioni del consumo alimentare» in: STORIA, pp. 567-583.<br />

225<br />

Anche sino a soli 10 giorni di vita. Testimonianza di Bernardo Pasinetti, Valle di Saviore (Bs).<br />

226<br />

Oggi, anche in montagna, i parti delle bovine sono largamente destagionalizzati; la specie non presenta, infatti, una<br />

sospensione stagionale dell’attività estrale.<br />

227<br />

In CZO (p. 729) si indica, con riferimento alla Valtellina, un età di macellazione molto precoce di 20-30 giorni per<br />

nonostante precise normative lo vietassero.

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