Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema ... - Ruralpini
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una selvicoltura da reddito 145 , determinarono l’avvio di ampi programmi di rimboschimenti con<br />
essenze resinose, attuati anche al di fuori dell’habitat di queste specie, spesso senza valutare la<br />
convenienza di interventi alternativi di ripristino e miglioramento dei pascoli.<br />
La coincidenza dell’avvio di questi programmi con la ricostituzione del Corpo Forestale dello<br />
Stato fu causa di una forte conflittualità che ripercorreva anche le forme della sfida all’autorità<br />
statale del passato 146 . I cambiamenti socio-economici e le trasformazioni culturali che intervennero<br />
negli anni successivi, però, modificarono profondamente i termini della questione boschiva (con<br />
una riforestazione “naturale”, legata all’abbandono della montagna e alla contrazione delle attività<br />
agro-<strong>silvo</strong>-<strong>pastorali</strong>) e determinarono, dopo due secoli, l’attenuazione del <strong>conflitto</strong> tra capre e<br />
boschi. Prima ancora delle trasformazioni dell’economia <strong>silvo</strong>-pastorale, però, erano intervenuti<br />
cambiamenti sociali profondi ad incidere sull’aspetto della “questione <strong>sociale</strong>” legata<br />
all’allevamento caprino; se, ancora fino all’inizio degli anni ’50, a pochi chilometri da Como<br />
potevano esserci ancora famiglie povere che per la loro sopravvivenza dipendevano in maniera<br />
esclusiva dalle capre 147 , con l’istituzione delle pensioni di invalidità e vecchiaia per i coltivatori<br />
diretti, nel 1956, tale necessità divenne meno impellente anche per gli strati rurali più svantaggiati.<br />
Con l’aumento delle possibilità di occupazione nell’industria, nell’edilizia, nel turismo -sia<br />
nell’ambito dello stesso territorio montano che altrove nelle città e in pianura- le attività <strong>pastorali</strong><br />
tradizionali vennero in larga misura lasciate in appannaggio agli anziani, mentre nell’ambito delle<br />
sempre più numerose famiglie che potevano disporre di redditi extra-agricoli, il modo di vivere e di<br />
abitare tradizionali venivano rapidamente abbandonati, in quanto connotati di uno status di<br />
inferiorità <strong>sociale</strong> e culturale. In tal modo, anche le attività precedentemente svolte dai minori e<br />
dalle donne, nell’ambito delle attività rivolte all’autoconsumo e alla piccola produzione, vennero<br />
rapidamente abbandonate. La nuova fisionomia assunta delle abitazioni e dagli insediamenti<br />
tendeva ulteriormente a scoraggiare il proseguimento delle attività agrozootecniche a piccola scala.<br />
Infine, anche nell’ambito delle famiglie dedite all’agricoltura quale attività principale, i<br />
cambiamenti in atto, sia sotto il profilo economico che <strong>sociale</strong> e culturale, assecondati da pressioni e<br />
incentivi di varia natura, spingevano all’abbandono delle attività tradizionali, in favore della<br />
specializzazione produttiva, della meccanizzazione, dell’intensificazione e dell’ampiamento della<br />
scala produttiva. L’allevamento caprino rappresentava il paradigma di un mondo arcaico<br />
(“residuale”), che si voleva lasciare alle spalle per il timore di vedersi attribuire uno stigma di<br />
inferiorità culturale e <strong>sociale</strong> da parte di coloro che avevano già abbracciato i nuovi stili di vita. La<br />
pressione sociopsicologica fu più forte dei “bandi alle capre”.<br />
Al Censimento Generale dell’Agricoltura del 1970 148 il numero di capre allevate era sceso ad un<br />
minimo storico, riflettendo la spettacolare riduzione che si era verificata negli anni ’60 in provincie<br />
145 Le prospettive di reddito erano legate all’elevato prezzo del legname da opera nelle fasi della ricostruzione postbellica<br />
e del boom economico, ma la politica di forestazione era influenzata anche da una cultura selvicolturale<br />
d’oltralpe ad orientamento intensivo che mal si adattava alle condizioni morfologiche e, spesso, anche pedoclimatiche<br />
nelle montagne lombarde (diverso, ovviamente il caso del Trentino dove comunque i boschi di conifere hanno sottratto<br />
grandi superfici al bosco di latifoglie e al pascolo). Molto prima che i popolamenti artificiali di conifere eseguiti con<br />
criteri indiscriminati potessero raggiungere la maturità, il loro valore “in piedi” era divenuto spesso negativo, sia per le<br />
conseguenze sulla qualità dei tronchi delle inidonee condizioni ambientali sia per il crollo dei valori di mercato; ciò ha<br />
disincentivato l’applicazione di cure selvicolturali e determinato, con l’abbandono a sé stesse di queste formazioni<br />
artificiali, un grave danno in termini ecologici e paesistici.<br />
146 Anche se queste forme di <strong>conflitto</strong> non hanno assunto il carattere sanguinoso del confronto tra “canarini” (Guardia di<br />
Finanza) e “spalloni” anche quello tra Corpo Forestale dello Stato e caprai è stato segnato da notevole asprezza almeno<br />
sino agli anni ’60, ma con prolungamento del fenomeno in alcune zone “calde” anche sino agli anni ’80. Tra le forme<br />
del confronto tra allevatori di capre e Polizia Forestale figurava l’immissione volontaria di capre all’interno delle aree<br />
recintate sottoposte a rimboschimento e l’incendio degli stessi boschi artificiali quale deterrente verso nuovi impianti e<br />
quale ritorsione contro le sanzioni amministrative comminate per il pascolo abusivo. Va rilevato che le aree di questo<br />
stillicidio di episodi di tensione erano spesso le medesime del contrabbando (Ossola, Alpi comasche, Val Chiavenna<br />
caratterizzate dalla maggior presenza (e persistenza) dell’allevamento caprino.<br />
147 “La famiglia Barboni a Lemna [piccola trazione di Faggeto Lario nel triangolo lariano] viveva solo di capre”.<br />
Testimonianza di Adriano Puricelli di Faggeto Lario.<br />
148 CGA1970.