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POLISCRITTURE Rivista di ricerca e cultura critica Numero prova ...

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‘élite’), riferibile ai gruppi <strong>di</strong> potere in genere (nazionali<br />

o internazionali o oggi transnazionali). Ranajit Guha,<br />

da parte sua, l’ha ridefinito e attualizzato, intendendo<br />

per ‘subalterno’ un gruppo che si trova escluso dai<br />

<strong>di</strong>versi flussi <strong>di</strong> mobilità sociale e che per questo non<br />

risponde più <strong>di</strong> niente.<br />

Un altro stu<strong>di</strong>oso importante è Dipesh Chakrabarty,<br />

che nel suo Provincializing Europe (La provincializzazione<br />

dell’Europa), ha <strong>critica</strong>to lo «storicismo»<br />

<strong>di</strong> origine europea e la sua pretesa <strong>di</strong> or<strong>di</strong>nare<br />

cronologicamente per sta<strong>di</strong> il tempo storico. Per lui<br />

l’esperienza del capitalismo europeo e occidentale non<br />

è riuscita a <strong>di</strong>ventare sistema-mondo (Wallerstein) e<br />

non ha cancellato le «forme <strong>di</strong>fformi» del lavoro riducendole<br />

tutte al lavoro salariato. (Su tale questione - tra<br />

l’altro - fondamentale è la <strong>ricerca</strong> <strong>di</strong> Yann Moulier<br />

Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, pubblicato<br />

da manifestolibri nel 2002).<br />

Chakrabarty sostiene che, proprio nel momento<br />

in cui Europa e Occidente continuano a pensarsi<br />

come «centro» del mondo e pare realizzarsi la sua «occidentalizzazione»,<br />

il loro destinao sarà quello <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare<br />

definitivamente una «provincia». La crisi del<br />

loro dubbio e ambiguo universalismo è <strong>di</strong> fatto riscontrabile<br />

nel fatto che i loro confini <strong>di</strong>ventino sempre più<br />

«porosi» e non fermano più i co<strong>di</strong>ci «coloniali» che<br />

filtrano all’interno dei loro territori una volta «metropolitani».<br />

Sono dunque proprio i tempi storici, che il<br />

moderno capitalismo ha incontrato sulla sua strada e ha<br />

creduto <strong>di</strong> poter relegare al passato, a riemergere oggi<br />

<strong>di</strong>sor<strong>di</strong>natamente in una specie <strong>di</strong> «esposizione universale»,<br />

ibridandosi e coesistendo. E al posto del mitico<br />

Progresso, fondato su presunte leggi storiche necessarie,<br />

Chakrabarty vede la possibilità <strong>di</strong> costruire un<br />

nuovo linguaggio dell’universale, ibrido e meticcio<br />

stavolta, e sgravato dalle ipoteche del dominio coloniale<br />

o postcoloniale solo in una prassi <strong>di</strong> uomini e donne<br />

che abitano il pianeta con la loro irriducibile molteplicità.<br />

2) Il secondo fondamentale filone degli «stu<strong>di</strong><br />

postocoloniali» utilizza il concetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza (materiale,<br />

politica, <strong>cultura</strong>le) per sottolineare tutte quelle<br />

<strong>di</strong>fferenze occultate, appannate o deviate, forse in mo<strong>di</strong><br />

irrecuperabili, dal colonialismo.<br />

Richiamandosi al metodo «genealogico» <strong>di</strong><br />

Foucault in rotta col progressismo storicista, gli stu<strong>di</strong><br />

postcoloniali ritengono la modernità impensabile «senza<br />

riferirsi alla violenza costitutiva, originaria delle colonie».<br />

Era una tesi sostenuta negli anni Sessanta da<br />

Fanon e Malcom X, che oggi viene ripresa accentuando<br />

l’imme<strong>di</strong>ato carattere politico che le <strong>di</strong>fferenze assumono<br />

sulla scena globale contemporanea e mettendo<br />

in <strong>di</strong>scussione «ogni logica binaria e ogni <strong>di</strong>scorso potenzialmente<br />

assoluto o assolutizzante».<br />

Su questa base si muovono le stu<strong>di</strong>ose femministe<br />

postcoloniali come Spivak, Chandra Talpade Mohanti,<br />

Ania Loomba e altre. Esse hanno messo in luce<br />

come il colonialismo, ora in competizione ora in complicità<br />

con il patriarcato presente nei paesi conquistati,<br />

ha occultato le <strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> genere, <strong>di</strong> cui riaffermano<br />

con forza il valore, arrivando a <strong>critica</strong>re persino alcuni<br />

canoni del femminismo occidentale, accusato <strong>di</strong> presentare<br />

la «donna del Terzo mondo» o in mo<strong>di</strong> mitici o<br />

secondo il para<strong>di</strong>gma statico della donna vittima.<br />

In particolare Gayatri Chakravorty Spivak, in<strong>di</strong>ana<br />

<strong>di</strong> nascita ma trasferitasi negli Usa, analizzando<br />

la figura della vedova in<strong>di</strong>ana che s’immolava sulla pira<br />

del marito morto nel rito del sati [*], mostra come il<br />

colonialismo, che ha prima stigmatizzato <strong>cultura</strong>lmente<br />

quella pratica e poi l’ha abolita per legge, ha solo<br />

ottenuto che uomini bianchi si potessero presentare<br />

come salvatori <strong>di</strong> «donne scure da uomini scuri». E afferma<br />

che la «donna <strong>di</strong> colore» è stata oppressa sia dal<br />

colonialismo che dall’anticolonialismo entrambi patriarcali.<br />

A ri<strong>prova</strong> del fervido <strong>di</strong>battito presente<br />

all’interno stesso degli stu<strong>di</strong>osi postcoloniali possiamo<br />

considerare un saggio della stessa Spivak, Can the Subaltern<br />

speak? [Può il subalterno parlare?] del 1985.<br />

Esso sottolinea alcuni limiti delle ricerche <strong>di</strong> Said e<br />

Guha. Per Spivak, infatti, è vano interrogare i testi<br />

scritti <strong>di</strong> narratori “imperiali” (come, ad esempio, Conrad)<br />

o i documenti delle amministrazioni coloniali per<br />

trovarvi in<strong>di</strong>zi della resistenza dei subalterni. Per lei<br />

non è più possibile ascoltare la voce dei subalterni, irrime<strong>di</strong>abilmente<br />

alterata o occultata dal dominio coloniale.<br />

E, pur non svalutando l’impegno politico <strong>di</strong><br />

quanti rendono visibile la posizione dei marginalizzati,<br />

la stu<strong>di</strong>osa si mostra ostile a quanti tendono a «romanticizzare<br />

le culture in<strong>di</strong>gene» e <strong>critica</strong> la nostalgia delle<br />

origini perdute, che alimenta tanti risorgenti nazionalismi.<br />

Per Spivak sono le donne proletarizzate del Sud<br />

del mondo la figura emblematica del «nuovo sulbaterno»<br />

nel mondo globalizzato. Per lei e le altre femministe,<br />

dunque, nel «postcolonialismo» le <strong>di</strong>fferenze razziali,<br />

<strong>cultura</strong>li e <strong>di</strong> genere producono «forme nuove e<br />

incomparabili <strong>di</strong> segregazione e assoggettamento» rispetto<br />

ai paesi occidentali, ma anche ine<strong>di</strong>te «pratiche<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza e <strong>di</strong> resistenza al patriarcato, al razzismo e<br />

allo sfruttamento».<br />

Da questa prospettiva, esse <strong>critica</strong>no duramente<br />

anche le forme o<strong>di</strong>erne <strong>di</strong> «imperialismo benevolo»,<br />

come quello delle occidentali che cercano <strong>di</strong> attenuare<br />

le sofferenze dei bambini e delle donne povere o <strong>di</strong><br />

raccogliere storie <strong>di</strong> sofferenze dei bambini, dei sex<br />

workers [lavoratori del sesso a <strong>di</strong>sposizione dei turisti]<br />

o delle donne che lavorano nelle zone <strong>di</strong> libero scambio.<br />

E citano come esempio <strong>di</strong> eurocentrismo duro a<br />

morire l’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> quel gruppo <strong>di</strong> ministre del governo<br />

laburista inglese che, dopo la guerra in Afghanistan<br />

seguita all’attentato alla Torri gemelle, hanno sollevato<br />

la questione del burkha [velo delle donne afghane], in<br />

nome della «solidarietà con le loro sorelle afgane», ma<br />

senza mai aver consultato le donne musulmane.<br />

3) Per ultimo, il saggio introduttivo <strong>di</strong> Mezzadra<br />

e Rahola offre utili chiavi interpretative per <strong>di</strong>stricarsi<br />

nel calderone confuso degli «stu<strong>di</strong> postcoloniali».<br />

Essi definiscono il nostro come «tempo postcoloniale»,<br />

caratterizzato soprattutto dalla trasformazione<br />

del rapporto una volta univoco tra metropoli e<br />

colonie. E danno merito ai classici<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste 79

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