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11.06.2013 Views

sociale? Come difende la propria umanità e la propria dignità? Che chances ha un curato dal cuore pavido nella Milano del XVII secolo? E la moglie velleitaria di un medico nella provincia francese dell’Ottocento? Abbiamo la rara capacità, decennio dopo decennio, di costruirci intorno un modo che di per sé è repressivo e castrante. Questa cosa (questa catena inarrestabile) deve essere indagata dalla letteratura. Il vero epicentro di una simile situazione, a mio parere resta però il dottor Bardamu. Il protagonista del Viaggio al termine della notte, sballottato da una parte all’altra del mondo senza capire perché, da una guerra a una catena di montaggio ai sobborghi di Parigi, preso in qualche cosa di mostruoso molto più grande di lui. Passando alla struttura, Occidente per principianti sembra ripercorrere la Leggenda del Graal: una preparazione al mistero e poi una cerca “epica” del sangue di Cristo, rivisitate in chiave contemporanea. Ovvero mettendo una delle icone moderne per eccellenza, Rodolfo Valentino, al posto dell’icona religiosa, e la sua presunta prima amante al posto della coppa contenente il sangue di Cristo… Sì, una versione un po’ eretica della Leggenda del Graal, se si vuole, ma probabilmente adatta ai nostri tempi. Siamo passati negli ultimi secoli attraverso varie forme di trascendenza: l’ordo ad unum medioevale, la gnosi, lo spirito mercantile settecentesco, le ideologie del XX secolo. Adesso sembra arrivato il turno della “Teocrazia audiovisiva”. La seconda parte del romanzo, “Il viaggio”, più che ai vari “viaggi in Italia”, sembra il necessario sviluppo della tesi proposta nel “Contesto”: non è più solo Roma a essere allo sfascio morale e culturale, ma tutto il Paese. E chi vi abita non se ne accorge, oppure ne va fiero… Torniamo alla faccenda dell’eye wide shut. Se sei al centro del ciclone è difficile riuscire a capire anche di che sostanza sei fatto. Andiamo marzullescamente sul personale. Perché da Bari, dopo vari giri per il Nord dell’Italia, decidere di stabilirsi a Roma? Cosa ti ha fatto propendere per la capitale (immorale) d’Italia e cosa ti ha portato a lavorare come ghost writer, a parte il semplice guadagnarsi la quotidiana sussistenza? In altre parole, scrivevi prima di laurearti in giurisprudenza, quindi hai soltanto scelto di appendere la laurea al chiodo e una città valeva un’altra? Boh, questioni di semplice sussistenza per quanto riguarda il ghost writing. E sempre questioni di lavoro per ciò che riguarda Roma: a una fiera del libro di Torino di otto anni fa, incontrai l’editore Castelvecchi che mi disse: “abbiamo bisogno di un redattore. Perché non ti trasferisci a Roma?” Fatto. Entrato nel gran bordello. Ma un bordello offre parecchi spunti e suggestioni, no? Ho iniziato a scrivere mentre facevo l’università, e non ho mai pensato di intraprendere la carriera forense. Anche se studiare le materie giuridiche mi piaceva molto. Tutte quelle ore passate sui manuali. Un po’ mi mancano. Era quasi una condizione monastica. Marzullo bis. Vedendo la linea editoriale di minimum fax e della collana che dirigi, non si capisce perché Occidente per principianti sia stato pubblicato altrove. È un fatto di correttezza morale? Di “non si può fare, perché scorretto”? No, no, nessuna correttezza morale. In queste cose la concepisco poco, la correttezza morale. Tanto è vero che il prossimo romanzo uscirà per minimum fax, e il prossimo ancora magari per Einaudi, chi lo sa? All’Einaudi ho trovato una editor meravigliosa (Paola Gallo, appunto) che credeva moltissimo in questo progetto, e con minimum fax la storia d’amore continua. Il fatto è che, da scrittore, mi sento libero di fare un po’ come mi pare, tenendo conto delle proposte che volta per volta mi vengono fatte. Sono tutti fidanzamenti, però. Sono tresche. Amour fou. Nessun matrimonio. In un matrimonio di questo tipo, l’editore dovrebbe fare la parte del maschio (offrirti una vera sistemazione) e lo scrittore portare in dote le sue opere d’ingegno. Vedi, quello tra D’Arrigo e la Mondadori fu un matrimonio serio (ti passiamo un mensile finché morte non ci separi, e tu nel frattempo scrivi quello che ti pare). A me, una proposta del genere non me l’ha fatta mai nessuno né probabilmente accadrà mai. Quindi, da questo punto di vista resto una simpatica cocotte perennemente sulla piazza, molto tollerante nei confronti di chi saltuariamente mi mantiere a patto però che la tolleranza sia reciproca. Speriamo solo di non trasformarci in vecchie zitelle acide. Poliscritture/Letture d’autore 76

7 Sulla giostra delle riviste DeriveApprodi n. 23 giugno 2003 a cura di Spartacus Fino agli anni Settanta del Novecento ci sono state grandi lotte di liberazione dei popoli del cosiddetto Terzo Mondo. Esse hanno mutato la situazione che, alla conclusione della Prima guerra mondiale, vedeva Europa e Stati Uniti possessori dell’85 per cento del mondo intero sotto forma di colonie, dipendenze, mandati e domini diretti. Questa verità storica è oggi appannata a causa dei risultati ambigui e spesso deludenti della decolonizzazione e dell’attuale impetuosa mondializzazione del Capitale, che ha reso obsoleto il termine stesso di Terzo Mondo. Se, sostengono dunque alcuni, ogni indipendenza dei paesi del Terzo Mondo si è sciolta come neve al sole, persiste il «sottosviluppo» e la matrice coloniale è ben visibile in tanti conflitti odierni (da quello israelo-palestinese alle cosiddette guerre «etniche» in Ruanda, Timor Est, Sri Lanka, Sierra Leone), non è opportuno parlare di un «neocolonialismo», incardinato oggi sulla politica degli Stati Uniti e in continuità col vecchio modello imperialistico? Non la pensa così un filone di ricerche, in espansione soprattutto nel mondo culturale anglosassone, che va sotto il nome di «studi postcoloniali» o Subaltern Studies. Alla lettura «neocolonialista» del presente, cui abbiamo appena accennato, viene contrapposta una lettura che usa i concetti di «postcolonialismo» o di «condizione postcoloniale», indicanti alla lettera l’epoca che viene «dopo» il colonialismo (in analogia con altre denominazioni “post”: «postmodernismo, «postfordismo», «postcomunismo», ecc.). Gli studiosi «postocoloniali» affermano che il tempo e la realtà geopolitica d’oggi rappresentano una cesura epocale rispetto a quattro secoli di colonialismo. Tuttavia la loro schiera è variegata: in essa troviamo sia i sostenitori di un presente «postcoloniale» inteso come «fine della storia» (Fukujama) e dell’attuale mondializzazione come processo che supera ogni triste eredità del colonialismo sia quanti ritengono invece che, sotto la sua superficie omogeneizzante (o «americanizzazione» o «occidentalizzazione»), la mondializzazione lasci affiorare in forme carsiche (ad es. attraverso le migrazioni o in molte cosiddette guerre «etniche») la spinta all’eguaglianza delle antiche lotte anticoloniali. Per i primi, cioè, la discontinuità tra colonialismo e «postcolonialismo» è assoluta: i discendenti dei colonizzati vivono ormai dappertutto in una sorta di «ibridità» o «meticciato» con gli ex colonizzatori, senza differenze di potere o di cultura. I secondi, invece, ricordano sia l’ambiguità della decolonizzazione sia le diseguaglianze e i plateali squilibri, che la mondializzazione va distribuendo ovunque: nelle grandi «città globali» come nei villaggi agricoli, in un mondo ormai irrimediabilmente uno e non più a scomparti netti (Nord e Sud del Mondo, metropoli e periferie), com’era ai tempi del «terzomondismo» e della Conferenza di Bandung (1957). Diverse e spesso contrapposte, dunque, sono le risposte che vengono date alle questioni tipiche degli studi postcoloniali e che potremmo così riassumere: i mutamenti culturali nati dall’incontro fra colonialisti europei o occidentali e popoli colonizzati sono stati di dominio, strumentali o di emancipazione? la storia dei colonizzati ha il giusto rilievo nella storiografia moderna di origine europea? il colonialismo ha liberato le donne di colore contrastando i poteri patriarcali incontrati sul suo cammino? «ibridità» o «meticciato» - termini oggi di moda - hanno un significato univoco e positivo o velano nuovi e vecchi antagonismi? Se volessimo indicare poi dei nomi (molti non sempre noti in Italia e che spesso si fa ancora fatica a pronunciare) dei protagonisti di questo filone di ricerca, potremmo fare quelli di romanzieri, come Salman Rushdie, Garcia Marquez, George Lamming, Sergio Ramirez, Ngugi Wa Thiongo, di poeti come Faiz Ahmad Faiz, Mahmud Darwish, Aimé Césaire, di teorici e filosofi della politica come Fanon, Cabral, Syed Hussein Alatas, C.L.R. James, Ali Shariati, Eqbal Ahmad, Abdullah Laroui, Omar Cabezas; e un gran numero di altre figure. Tra i più noti a livello internazionale abbiamo Edward Said, di recente scomparso. Palestinese di origini, in una sua importante opera, Orientalismo, pubblicata nel 1978, Said ha documentato come la conoscenza coloniale dell’Oriente (il Medio oriente attuale), alimentata da varie discipline (filologia, storia, antropologia, filosofia, archeologia e letteratura) e circolata in Europa per secoli, non sia stata neutra o oggettiva come pretendeva, ma un’ideologia che ha fatto da supporto ideale alla violenza materiale del colonialismo moderno. Ma vanno ricordati anche gli studi di Valentine Mudimbe sull’impronta lasciata dal colonialismo nei concetti di «Oriente» e «Africa»; di Jean Loup Amselle e Elikia M’Bokolo, che sempre all’esperienza colonialista e non alla naturalità, come di solito si crede, fanno risalire la categoria di «etnia»; di Arjun Appadurai, che ha studiato il legame tra procedure di classificazione e dispositivi di sfruttamento risalenti al partage coloniale [spartizione territoriale] e la loro influenza sul calendario e l’organizzazione sociale del tempo; e delle femministe Chandra Talpade Mohanti, Ania Loomba e altre che analizzano le interazioni tra differenze «razziali», culturali e di genere. Si tratta di ricerche eterogenee: «un attraversamento dei confini, una sorta di contrabbando incontrollato di idee» tra le specializzazioni accademiche, l’ha definite lo stesso Said. Nate dalla confluenza di Poliscritture/Sulla giostra delle riviste 77

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Sulla giostra delle riviste<br />

DeriveAppro<strong>di</strong> n. 23 giugno 2003<br />

a cura <strong>di</strong> Spartacus<br />

Fino agli anni Settanta del Novecento ci sono<br />

state gran<strong>di</strong> lotte <strong>di</strong> liberazione dei popoli del cosiddetto<br />

Terzo Mondo. Esse hanno mutato la situazione che,<br />

alla conclusione della Prima guerra mon<strong>di</strong>ale, vedeva<br />

Europa e Stati Uniti possessori dell’85 per cento del<br />

mondo intero sotto forma <strong>di</strong> colonie, <strong>di</strong>pendenze, mandati<br />

e domini <strong>di</strong>retti. Questa verità storica è oggi appannata<br />

a causa dei risultati ambigui e spesso deludenti<br />

della decolonizzazione e dell’attuale impetuosa mon<strong>di</strong>alizzazione<br />

del Capitale, che ha reso obsoleto il termine<br />

stesso <strong>di</strong> Terzo Mondo.<br />

Se, sostengono dunque alcuni, ogni in<strong>di</strong>pendenza<br />

dei paesi del Terzo Mondo si è sciolta come neve<br />

al sole, persiste il «sottosviluppo» e la matrice coloniale<br />

è ben visibile in tanti conflitti o<strong>di</strong>erni (da quello<br />

israelo-palestinese alle cosiddette guerre «etniche» in<br />

Ruanda, Timor Est, Sri Lanka, Sierra Leone), non è<br />

opportuno parlare <strong>di</strong> un «neocolonialismo», incar<strong>di</strong>nato<br />

oggi sulla politica degli Stati Uniti e in continuità col<br />

vecchio modello imperialistico?<br />

Non la pensa così un filone <strong>di</strong> ricerche, in espansione<br />

soprattutto nel mondo <strong>cultura</strong>le anglosassone,<br />

che va sotto il nome <strong>di</strong> «stu<strong>di</strong> postcoloniali» o Subaltern<br />

Stu<strong>di</strong>es. Alla lettura «neocolonialista» del presente,<br />

cui abbiamo appena accennato, viene contrapposta<br />

una lettura che usa i concetti <strong>di</strong> «postcolonialismo»<br />

o <strong>di</strong> «con<strong>di</strong>zione postcoloniale», in<strong>di</strong>canti alla lettera<br />

l’epoca che viene «dopo» il colonialismo (in analogia<br />

con altre denominazioni “post”: «postmodernismo,<br />

«postfor<strong>di</strong>smo», «postcomunismo», ecc.).<br />

Gli stu<strong>di</strong>osi «postocoloniali» affermano che il<br />

tempo e la realtà geopolitica d’oggi rappresentano una<br />

cesura epocale rispetto a quattro secoli <strong>di</strong> colonialismo.<br />

Tuttavia la loro schiera è variegata: in essa troviamo<br />

sia i sostenitori <strong>di</strong> un presente «postcoloniale»<br />

inteso come «fine della storia» (Fukujama) e<br />

dell’attuale mon<strong>di</strong>alizzazione come processo che supera<br />

ogni triste ere<strong>di</strong>tà del colonialismo sia quanti ritengono<br />

invece che, sotto la sua superficie omogeneizzante<br />

(o «americanizzazione» o «occidentalizzazione»), la<br />

mon<strong>di</strong>alizzazione lasci affiorare in forme carsiche (ad<br />

es. attraverso le migrazioni o in molte cosiddette guerre<br />

«etniche») la spinta all’eguaglianza delle antiche lotte<br />

anticoloniali.<br />

Per i primi, cioè, la <strong>di</strong>scontinuità tra colonialismo<br />

e «postcolonialismo» è assoluta: i <strong>di</strong>scendenti dei<br />

colonizzati vivono ormai dappertutto in una sorta <strong>di</strong><br />

«ibri<strong>di</strong>tà» o «meticciato» con gli ex colonizzatori, senza<br />

<strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> potere o <strong>di</strong> <strong>cultura</strong>. I secon<strong>di</strong>, invece,<br />

ricordano sia l’ambiguità della decolonizzazione sia le<br />

<strong>di</strong>seguaglianze e i plateali squilibri, che la mon<strong>di</strong>alizzazione<br />

va <strong>di</strong>stribuendo ovunque: nelle gran<strong>di</strong> «città<br />

globali» come nei villaggi agricoli, in un mondo ormai<br />

irrime<strong>di</strong>abilmente uno e non più a scomparti netti<br />

(Nord e Sud del Mondo, metropoli e periferie),<br />

com’era ai tempi del «terzomon<strong>di</strong>smo» e della Conferenza<br />

<strong>di</strong> Bandung (1957).<br />

Diverse e spesso contrapposte, dunque, sono<br />

le risposte che vengono date alle questioni tipiche degli<br />

stu<strong>di</strong> postcoloniali e che potremmo così riassumere: i<br />

mutamenti <strong>cultura</strong>li nati dall’incontro fra colonialisti<br />

europei o occidentali e popoli colonizzati sono stati <strong>di</strong><br />

dominio, strumentali o <strong>di</strong> emancipazione? la storia dei<br />

colonizzati ha il giusto rilievo nella storiografia moderna<br />

<strong>di</strong> origine europea? il colonialismo ha liberato le<br />

donne <strong>di</strong> colore contrastando i poteri patriarcali incontrati<br />

sul suo cammino? «ibri<strong>di</strong>tà» o «meticciato» - termini<br />

oggi <strong>di</strong> moda - hanno un significato univoco e positivo<br />

o velano nuovi e vecchi antagonismi?<br />

Se volessimo in<strong>di</strong>care poi dei nomi (molti non<br />

sempre noti in Italia e che spesso si fa ancora fatica a<br />

pronunciare) dei protagonisti <strong>di</strong> questo filone <strong>di</strong> <strong>ricerca</strong>,<br />

potremmo fare quelli <strong>di</strong> romanzieri, come Salman<br />

Rush<strong>di</strong>e, Garcia Marquez, George Lamming, Sergio<br />

Ramirez, Ngugi Wa Thiongo, <strong>di</strong> poeti come Faiz Ahmad<br />

Faiz, Mahmud Darwish, Aimé Césaire, <strong>di</strong> teorici<br />

e filosofi della politica come Fanon, Cabral, Syed Hussein<br />

Alatas, C.L.R. James, Ali Shariati, Eqbal Ahmad,<br />

Abdullah Laroui, Omar Cabezas; e un gran numero <strong>di</strong><br />

altre figure.<br />

Tra i più noti a livello internazionale abbiamo<br />

Edward Said, <strong>di</strong> recente scomparso. Palestinese <strong>di</strong> origini,<br />

in una sua importante opera, Orientalismo, pubblicata<br />

nel 1978, Said ha documentato come la conoscenza<br />

coloniale dell’Oriente (il Me<strong>di</strong>o oriente attuale),<br />

alimentata da varie <strong>di</strong>scipline (filologia, storia, antropologia,<br />

filosofia, archeologia e letteratura) e circolata<br />

in Europa per secoli, non sia stata neutra o oggettiva<br />

come pretendeva, ma un’ideologia che ha fatto da supporto<br />

ideale alla violenza materiale del colonialismo<br />

moderno. Ma vanno ricordati anche gli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Valentine<br />

Mu<strong>di</strong>mbe sull’impronta lasciata dal colonialismo<br />

nei concetti <strong>di</strong> «Oriente» e «Africa»; <strong>di</strong> Jean Loup Amselle<br />

e Elikia M’Bokolo, che sempre all’esperienza colonialista<br />

e non alla naturalità, come <strong>di</strong> solito si crede,<br />

fanno risalire la categoria <strong>di</strong> «etnia»; <strong>di</strong> Arjun Appadurai,<br />

che ha stu<strong>di</strong>ato il legame tra procedure <strong>di</strong> classificazione<br />

e <strong>di</strong>spositivi <strong>di</strong> sfruttamento risalenti al partage<br />

coloniale [spartizione territoriale] e la loro influenza<br />

sul calendario e l’organizzazione sociale del tempo; e<br />

delle femministe Chandra Talpade Mohanti, Ania Loomba<br />

e altre che analizzano le interazioni tra <strong>di</strong>fferenze<br />

«razziali», <strong>cultura</strong>li e <strong>di</strong> genere.<br />

Si tratta <strong>di</strong> ricerche eterogenee: «un attraversamento<br />

dei confini, una sorta <strong>di</strong> contrabbando incontrollato<br />

<strong>di</strong> idee» tra le specializzazioni accademiche,<br />

l’ha definite lo stesso Said. Nate dalla confluenza <strong>di</strong><br />

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