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simultaneamente anche le ragioni dei fedeli e il sistema di credenze locali. Denudati di ogni<br />
volere in virtù di un’azione collettiva, i partecipanti non vengono semplicemente ridotti a corpi,<br />
ma sono sciolti in un corpus unico: non più soli corpi isolati, ma un organismo collettivo che<br />
danza, canta e suona. L’esperienza rituale vissuta da un corpo è simile a un’onda coreutica che<br />
investe l’autonomia dei partecipanti, coinvolgendoli in una serie di attività collettive capaci di<br />
sostenere e organizzare le fasi della festa. Ogni comportamento, se ristabilito nella nuova<br />
dimensione, non può che incrementare le dinamiche del rito, che nel frattempo si dirige verso il<br />
suo cammino abituale – perché le pratiche rituali esistono già nel momento in cui si è nel rito –<br />
ma con l’imprevedibile contributo delle azioni singolari delle sue parti, irriducibili ai modi<br />
stereotipati di una tradizione. L’intenzionalità insomma viene sospesa, o meglio, è spartita,<br />
diviene una facoltà collettiva, distribuita tra tutti i partecipanti: si parlerà allora del volere del rito<br />
stesso in quanto soggetto collettivo, ma solo allo scopo di ribadire l’idea che il rito sovrasta la<br />
volontà di ogni suo singolo operatore. A sua volta il rito deve la sua essenza alle spaziature<br />
originate dalle sue connessioni; la sua stessa volontà è soggetta al gioco continuo di<br />
improvvisazioni e re-identificazioni tra gli estremi del corpo nudo e della veste tradizionale.<br />
L’inserimento nella dimensione partecipativa si caratterizza così nelle forme di un vero e proprio<br />
coinvolgimento: i soggetti, in quanto enti oggettivati, si fondono, vengono sciolti in una<br />
“soluzione rituale”.<br />
Le considerazioni presenti in questo lavoro non nascono<br />
propriamente da un’osservazione: essa è sospesa, ha ceduto il suo primato alla partecipazione.<br />
Pertanto la descrizione dell’esperienza vissuta comincerà con una messa tra parentesi, con una<br />
sottrazione del rito. Nell’atto della partecipazione l’osservazione è sottratta e ogni pensiero<br />
oggettivante, assieme a ogni tradizione razionale, viene messo in sospensione. Così il sistema di<br />
credenze locali si fa rarefatto: ciò che conta è essere presenti alla festa, sciolti da ogni<br />
preconcetto, assecondando l’adesione a un movimento collettivo. Perciò non si può dire che<br />
l’ambito di questo lavoro è un vero e proprio rito, bensì un rito sottratto. Sospendere il pensiero<br />
nell’atto, nell’adesione a una prassi, a un agire concreto, fornisce i primi elementi per intuire che<br />
il senso comune, l’involucro culturale che determina la sensatezza di un gesto, non è la causa<br />
dell’effettivo manifestarsi del movimento: la sospensione di ogni volere mette tra parentesi la<br />
sensatezza ma non cancella lo spazio dell’azione. Il gesto riesce a insinuarsi anche al di qua di<br />
ogni guida culturale, prima di ogni tradizione comune, sia essa quella cubana o quella<br />
occidentale. Ciò che rimane nello spazio sottratto è un amalgama di forze non culturali ma<br />
antropiche, che sussistono prima di ogni concetto e di ogni determinazione di senso 10 . Una volta<br />
10 La riflessione di Sini, mirata a spiegare il fenomeno dell’autocoscienza, coglie dei tratti della gestualità vocale che<br />
qui vengono qualificati come antropici, universali dell’umanità. Concentrato sul “puro accadere” del gesto vocale,<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 9