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Nel rito si crea un gioco di squilibri corporei – che si bilanciano<br />
nell’equilibrio generale del corpus –, di tensioni, di forze che si contagiano e si rimandano a<br />
vicenda in forme sempre nuove, rompendo la monotonia dei codici stereotipati ma non il loro<br />
riferimento ad essi. Da tale rottura scaturisce un microcosmo di forze e di oscillazioni che il<br />
danzatore incarna nel suo corpo e che il percussionista ripercuote nel suo tamburo. Allora si<br />
potrebbe dire che danza e ritmo giochino allo stesso gioco del corpo. Nel ritmo il corpo usa il<br />
tamburo come amplificatore dei suoi movimenti, caratterizzandone l’espressione come<br />
percussione. Nella danza il corpo usa le sue capacità articolatorie come mezzo: il corpo<br />
stesso è lo strumento amplificatore delle oscillazioni. Esso traduce le vibrazioni in<br />
ondulazioni.<br />
L’amplificazione coreutica, se reiterata in un gruppo, finisce col<br />
vestirsi di forme determinabili attraverso nomi, che la comunità istituisce come codici, come<br />
modelli di riferimento delle loro danze tipiche. Vediamo come potrebbe svilupparsi una tale<br />
vestizione partendo da un movimento denudato nel rito. Il corpo ascolta una scansione ternaria: tre<br />
colpi di batá eseguiti con calma, che ritornano regolarmente a ripetersi, lo accolgono in uno spazio<br />
ciclico simile a una giostra che gira su se stessa. I movimenti confermano l’immissione in questa<br />
rete di scambi distendendo uno spazio scandito da oscillazioni coreutiche, una dimensione che lo<br />
avvolge come una bolla e che si estende ad ogni sua estensione degli arti. Basta un’oscillazione<br />
ciclica poggiata sul centro del corpo, in armonia con i ritmi dei batá, a permettere un primo<br />
tracciato di questo spazio che, diffondendosi tra i partecipanti, gradualmente andrà a distendere la<br />
superficie del rito stesso, conformandolo secondo questa natura oscillatoria. Al suo interno i<br />
movimenti si sviluppano a partire da un perno che è il baricentro del corpo e si estendono ruotando<br />
attorno alla sua posizione iniziale che, come una “danza chiusa” 139 , finisce col disegnare nello<br />
spazio un movimento simile a quello di un pendolo. Il movimento non si estende ad interazioni con<br />
altri corpi, ma rimane concentrato sul nucleo della sua nuda arena vibratoria. Nel rito della santería<br />
non vi sono danze di coppia o di gruppo 140 : ogni ballerino si muove senza osservare gli altri,<br />
concentrandosi sulla sua corporeità in relazione alle vibrazioni musicali che la stanno scuotendo 141 .<br />
Questa sviluppa un movimento che parte dalla colonna vertebrale per estendersi a tutti gli arti e alla<br />
testa. In questa sinestesia dell’oscillazione, in quanto riverbero motorio delle vibrazioni<br />
ascoltate 142 , il corpo è tutto preso in quanto parte di una connessione risonante. In questa fase egli<br />
139 «La caratteristica delle danze chiuse […] consiste piuttosto nel fatto che la loro esecuzione comporta la presenza<br />
di un perno fisso sul quale possa oscillare tutto il corpo o ciascun membro di esso sia in direzione dei due assi, sia<br />
descrivendo un circolo delimitato» [C. Sachs, Storia della danza, Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 52].<br />
140 Cfr. Carbonero G. C., op. cit., pp. 6-7.<br />
141 Cfr. Giannattasio F, op. cit., p. 215 (in particolare si veda la citazione di Kubik G., tratta da “Emica del ritmo<br />
musicale africano”, in Culture musicali, II, 3).<br />
142 Cfr. Rouget G., op. cit., p. 167.<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 87