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IL RITO SOTTRATTO - DSpace@Unipr

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orichas, la loro invocazione rituale, a cui essi rispondevano manifestandosi nella cerimonia,<br />

“cavalcando la testa” di un loro adepto in trance. Perciò il termine «rito» – tra l’altro sottratto –<br />

verrà usato in riferimento alla dimensione della festa santéra: questa è il dato esperenziale del<br />

vissuto personale e su di essa si muoverà la riflessione.<br />

La dimensione degli scambi reciproci che contraddistingue il<br />

nucleo del rito sottratto rende del tutto improprio l’uso di un modello esplicativo che si basi<br />

sull’istituzione di un osservatore e di un oggetto di studio. Se tentassimo di usare un simile<br />

modello, non potremmo applicarlo a un rito nudo, poiché la nudità stessa è una spoliazione di<br />

soggetto e oggetto come estremi concettualmente separabili, come termini da osservare. Al<br />

contrario, un atteggiamento scientifico si varrà di una tale separazione concettuale, riuscendo a<br />

individuare i tratti sociali, storici e culturali del rito, quei tratti che la spoliazione di senso ha<br />

sospeso dall’esperienza vissuta a Cuba. Questi ora ci appaiono come una veste, un velo intessuto<br />

di ragioni e di tradizioni razionali che determinano sia il guardare di un soggetto che le forme<br />

dell’oggetto guardato. A un simile sguardo il rito apparirà sempre come un qualcosa di esterno,<br />

per via della distanza stessa che istituisce e simultaneamente separa soggetto e oggetto<br />

dell’osservazione. Se questo lavoro adottasse un tale modello, allora l’oggetto di studio non<br />

potrebbe essere la partecipazione, l’essere-parte istituito dal «con»: il vissuto non sarebbe uno<br />

sfondo ma l’oggetto di un’osservazione nella quale il ricercatore non è nel rito, ma si avvicina ad<br />

esso semplicemente per poterlo osservare meglio. Solo l’iniziazione al culto potrebbe, al limite,<br />

aggirare il problema della distanza culturale. Attraverso l’iniziazione lo studioso si<br />

trasformerebbe in un fedele, arricchendo la sua visione del mondo di un bagaglio concettuale che<br />

spesso è inconciliabile con la logica accademica occidentale. Così la tradizione religiosa acquisita<br />

finirebbe col sostituirsi a quella occidentale, divenendo il nuovo sfondo su cui poter focalizzare e<br />

interpretare i singoli fenomeni, i gesti e i comportamenti collettivi. Lo studioso insomma si<br />

liberebbe dai vincoli della sua tradizione razionale, ma solo per legarsi a un’altra forma di vita,<br />

che nel linguaggio di Wittgenstein potrebbe dirsi «passare da una trappola a un’altra»,<br />

dimenticando le pressioni che il nostro linguaggio ci impone e di conseguenza anche l’esigenza<br />

di una filosofia come una strategia di soluzione, di «uscita dalla trappola» 9 . Ma la sottrazione del<br />

velo culturale ci porta in un luogo del tutto diverso ed estraneo a tutti questi assunti: non c’è<br />

oggetto e soggetto poiché non c’è osservazione; la partecipazione diviene la forma su cui si<br />

elabora un nuovo modello teoretico, sospendendo definitivamente la figura del soggetto che<br />

osserva, assieme a tutta la sua razionalità cartesiana o alla sua religiosità. La festa, nel momento<br />

in cui sottrae la figura dell’osservatore esterno, proveniente da una cultura diversa, spoglia<br />

9 Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, p. 137, § 309.<br />

<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 8

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