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11.06.2013 Views

dell’osservatore è preso da un’estasi dinamica come quando, seduti su una giostra, abbandoniamo la focalizzazione guardando il tutto muoversi attorno a noi, come se fosse nulla, ma un nulla impressionante e perciò con-sistente. L’esperienza di questo stato è il luogo svelato dalla sottrazione. L’esperienza rituale dapprima viene vissuta, con azioni, gesti e movimenti; poi può essere pensata, messa in accordo o in disaccordo con una razionalità che nel momento della festa era abbandonata. In questo modo la riflessione può fare tesoro del fatto esperenziale nudo, non inquinato da alcun analisi concomitante allo svolgersi delle azioni. Ciò che la nudità di questa esperienza può esporre al pensiero è innanzitutto il valore dell’adesione che ha legato il partecipante al tutto, nella forma di un’inerenza. Allora possono apparire i tanti legami che hanno unito i corpi, le tante informazioni sonore e coreutiche che, passando da un luogo all’altro, hanno consolidato le connessioni. Queste sono forze di attrazione che, nello stesso modo in cui irrigano i corpi di forme concrete, allo stesso modo creano le basi pragmatiche per la successiva emersione di nuovi complessi identitari. Non resta che concentrarsi sulla zona di passaggio tra l’«uno» e l’«altro» – estremi non più oggettivati e quindi privi di senso – per trovare lo spazio di questa ricerca, abitata dalle molte forze connettive del rito. L’importanza di questa zona è paragonabile a quella che ha rivestito la sinapsi – zona di contatto anch’essa – negli studi di neurofisiologia. Corpo come diapason Le forze del rito si ripercuotono su tutta la sua cassa di risonanza, che si muove e ondeggia simultaneamente, al pari di una vibrazione sonora. I corpi allora possono essere paragonati a uno strumento musicale che, se toccato, entra in vibrazione. Come per un diapason, le forze passano attraverso i partecipanti, che risuonano essi stessi, mostrando l’architettura complessiva dello strumento che compongono, che è il corpus del rito. Paragonarsi a uno strumento musicale è diverso dal pensare di esserne l’esecutore: non vi è qui l’istituzione di un soggetto che intenzionalmente si risuona. Lo strumento collettivo è simile e allo stesso tempo differente da uno strumento musicale: esso risuona, ma non è suonato da un altro. La messa-in-vibrazione è fornita dagli stessi corpi che lo compongono e che, organizzati, conoscono le possibilità dello strumento. Spaziandosi, questi esplorano la loro corporeità nelle concatenazioni operazionali che contraddistinguono le loro espressioni. Sono i principali operatori del rito: cantanti, percussionisti, danzatori. Il cerchio che si forma attorno a loro risente delle loro espressioni e le arricchisce delle qualità del loro attraversamento. Come una cassa di risonanza, la collettività amplifica le forze degli operatori rituali. Il ritmo, la danza, il canto IL RITO SOTTRATTO 40

toccano i corpi, fornendogli quella vibrazione che questi possono amplificare. L’atto del pizzicare le corde di questo strumento è distribuito e confuso tra tutte le sue parti. Sebbene anche il rito abbia un inizio, un movimento che genera l’architettura dello strumento stesso – individuabile nelle azioni degli operatori centrali – diviene impossibile analizzare la sua struttura seguendo una logica di termini distinti e determinati, nel momento in cui questo si è formato; ad esso non si può applicare il modello dello stimolo-risposta. La realtà del fenomeno è più complessa e va ricercata nella diffusione omnidirezionale delle informazioni: ogni forma espressiva mentre si diffonde tra i corpi partecipanti risuona nel corpo di chi l’ha generata, incrementando simultaneamente le sue gesta e quelle dei presenti, che a loro volta diffondono in tutte le direzioni le loro forze coreutiche e musicali 70 . Queste tra loro si compongono secondo i disegni più disparati, a generare nuove azioni e nuovi incrementi di forza collettiva. Ricercare la causa efficiente per svolgere un filo logico delle connessioni è fuori luogo, lontano dalla realtà della partecipazione rituale su cui si basa il vissuto. È preferibile sostituire questo modello con un altro, elaborato sulla base della somiglianza tra queste dinamiche e quelle acustiche, avvicinando così la costruzione rituale alla diffusione dei suoni in uno strumento musicale. I partecipanti espongono le loro proprietà “acustiche”, sono dei diapason corporei 71 messi in risonanza dal rito stesso, che diffonde le sue note nella sua cassa di risonanza, che è costituita dalla loro corporeità vibrante. Ognuno diviene un tasto di un pianoforte collettivo, una corda di un’arpa corale, che vibra non solo in virtù delle sue proprietà interne, ma risuona nel contempo l’armonia della forma complessiva dello strumento. In questo modo l’atto intenzionale rivela di essere il termine di un intero modello oramai accantonato: esso non descrive più nulla, non è più adatto alla situazione. Il partecipante in quanto tale è uno strumento di cui il rito si serve per amplificarsi: mentre il rito lo percuote, giovandosi della sua risonanza libera da ogni volere, il partecipante a sua volta può godere dell’esperienza che il rito gli dischiude. La sospensione dell’atto intenzionale non è un processo graduale: la soggettività, la sensatezza, ogni strutturazione del pensare, vengono meno nella misura in l’informazione è incorporata attraverso azioni e gesti. Le forze del rito modellano i corpi secondo una pragmatica che è efficace solo a condizione che ogni sua parte sia consegnata all’evento della partecipazione, mostrando di assumere il rito come mondo nel quale inerire, come se il soggetto si togliesse le scarpe per entrare nella dimensione che lo trasforma in strumento risonante, come se 70 Attraverso l’accordo tra il senso e l’ascolto, la riflessione di Nancy giunge alla consistenza del senso, che è quella di un rinvio infinito, continuo e dinamico nella sua stessa essenza, come il suono, che «propriamente si ri-emette nell’atto stesso di “suonare”» [Nancy J. – L., All’ascolto, pp. 13-14]. 71 Che siano diapason, corde tese, o membrane risonanti, qui si vuole marcare il fatto che la pelle dei corpi esposti nell’esser-ci del rito è vibrante, poiché «vive nel rimbalzo del “ci” o nella sua messa in moto, che fa di esso […] un luogo vibrante come il diapason di un soggetto, o meglio come un diapason-soggetto» [Ivi, p. 27]. IL RITO SOTTRATTO 41

toccano i corpi, fornendogli quella vibrazione che questi possono amplificare. L’atto del<br />

pizzicare le corde di questo strumento è distribuito e confuso tra tutte le sue parti. Sebbene anche<br />

il rito abbia un inizio, un movimento che genera l’architettura dello strumento stesso –<br />

individuabile nelle azioni degli operatori centrali – diviene impossibile analizzare la sua struttura<br />

seguendo una logica di termini distinti e determinati, nel momento in cui questo si è formato; ad<br />

esso non si può applicare il modello dello stimolo-risposta. La realtà del fenomeno è più<br />

complessa e va ricercata nella diffusione omnidirezionale delle informazioni: ogni forma<br />

espressiva mentre si diffonde tra i corpi partecipanti risuona nel corpo di chi l’ha generata,<br />

incrementando simultaneamente le sue gesta e quelle dei presenti, che a loro volta diffondono in<br />

tutte le direzioni le loro forze coreutiche e musicali 70 . Queste tra loro si compongono secondo i<br />

disegni più disparati, a generare nuove azioni e nuovi incrementi di forza collettiva. Ricercare la<br />

causa efficiente per svolgere un filo logico delle connessioni è fuori luogo, lontano dalla realtà<br />

della partecipazione rituale su cui si basa il vissuto. È preferibile sostituire questo modello con<br />

un altro, elaborato sulla base della somiglianza tra queste dinamiche e quelle acustiche,<br />

avvicinando così la costruzione rituale alla diffusione dei suoni in uno strumento musicale. I<br />

partecipanti espongono le loro proprietà “acustiche”, sono dei diapason corporei 71 messi in<br />

risonanza dal rito stesso, che diffonde le sue note nella sua cassa di risonanza, che è costituita<br />

dalla loro corporeità vibrante. Ognuno diviene un tasto di un pianoforte collettivo, una corda di<br />

un’arpa corale, che vibra non solo in virtù delle sue proprietà interne, ma risuona nel contempo<br />

l’armonia della forma complessiva dello strumento. In questo modo l’atto intenzionale rivela di<br />

essere il termine di un intero modello oramai accantonato: esso non descrive più nulla, non è più<br />

adatto alla situazione. Il partecipante in quanto tale è uno strumento di cui il rito si serve per<br />

amplificarsi: mentre il rito lo percuote, giovandosi della sua risonanza libera da ogni volere, il<br />

partecipante a sua volta può godere dell’esperienza che il rito gli dischiude.<br />

La sospensione dell’atto intenzionale non è un processo graduale: la<br />

soggettività, la sensatezza, ogni strutturazione del pensare, vengono meno nella misura in<br />

l’informazione è incorporata attraverso azioni e gesti. Le forze del rito modellano i corpi secondo<br />

una pragmatica che è efficace solo a condizione che ogni sua parte sia consegnata all’evento della<br />

partecipazione, mostrando di assumere il rito come mondo nel quale inerire, come se il soggetto si<br />

togliesse le scarpe per entrare nella dimensione che lo trasforma in strumento risonante, come se<br />

70 Attraverso l’accordo tra il senso e l’ascolto, la riflessione di Nancy giunge alla consistenza del senso, che è quella<br />

di un rinvio infinito, continuo e dinamico nella sua stessa essenza, come il suono, che «propriamente si ri-emette<br />

nell’atto stesso di “suonare”» [Nancy J. – L., All’ascolto, pp. 13-14].<br />

71 Che siano diapason, corde tese, o membrane risonanti, qui si vuole marcare il fatto che la pelle dei corpi esposti<br />

nell’esser-ci del rito è vibrante, poiché «vive nel rimbalzo del “ci” o nella sua messa in moto, che fa di esso […] un<br />

luogo vibrante come il diapason di un soggetto, o meglio come un diapason-soggetto» [Ivi, p. 27].<br />

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