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11.06.2013 Views

dinamiche di interazione con altri corpi che suonavano, cantavano e lo sostenevano hanno permesso uno sviluppo dinamico delle sue espressioni, fino a generare un movimento talmente denso da poter scatenare la sua vestizione, l’istituzione comunitaria di un nuovo senso, la nascita di una nuova identità incarnata, che il linguaggio locale veste col nome di un oricha. Così come il rito ha ridotto il soggetto a sola corporeità, allo stesso modo il nuovo soggetto istituito, l’oricha, verrà qui sottratto del suo nome, ricondotto alla sola densità della sua informazione, per essere descritto nei termini di un corpo che esplora a fondo una certa forma della sua arealità 66 . Calarsi nello schema corporeo 67 di una danza vuol dire aderire a una forma specifica che non si esaurisce nelle regole capaci di attivarla – nei passi, per esempio – ma che fa di queste un punto d’appoggio per aprire il corpo a un’esposizione più ampia e creativa, a un’esplorazione come danza e a un’evoluzione delle sue forme. L’inerenza corporea nei confronti di uno schema coreutico può essere associata alla relazione che lega le radici alla terra. La danza può crescere ed estendere la sua natura così come avviene per una pianta: se il legame con la terra si mantiene stabile, allora questo può irrigare la forma di nuove estensioni, germogli di esposizioni in nuovi territori. Così si comprende che la corporeità dell’inerenza non consiste nel fissarsi in un punto, ma nel risiedere in un’area che si estende lungo gli spazi di un’infinità di manifestazioni coreutiche. In questo senso la danza è una forma areale, dove per “arealità” si intende l’immenso territorio che il corpo può abitare: danzando, cantando, correndo o scrivendo, il corpo si cala in uno schema operazionale, ossia mette radici dinamiche in una zona del suo potenziale territorio espositivo, della sua arealità. L’osservatore L’osservatore analitico è sospeso, privato della sua postazione esclusiva. Il suo guardare ora ci può svelare la trappola della sua tessitura: come una lente kantiana, il velo culturale confonde la visione con un’autoreferenza intellettuale. Il fenomeno osservato si congela per aderire a un modello astratto, l’osservazione si priva dell’aria per respirare, del suo 66 Altro termine coniato da Nancy, derivato dalla radice di «area» e direttamente connesso al corpo: «“Corpo” deve avere senso […] direttamente nell’estensione», nel territorio delle sue spaziature. Una forma areale è una spaziatura reale, attuale del corpo: «il reale in quanto areale riunisce l’infinito del massimo di esistenza […] e il finito assoluto dell’orizzonte areale» [Nancy J. – L., Corpus, p. 37]. Così si comprende ancor di più la nostra accezione di “corpo”, che è sempre più estranea al dualismo cartesiano che la nostra tradizione razionale ha depositato nel senso comune di questo termine. 67 Compresa l’accezione del termine “corpo”, lo “schema corporeo” non potrà più essere inteso come «una spazialità di posizione» delle membra, ma –nei termini di Merleau-Ponty- come una «spazialità di situazione» [Merleau-Ponty M., op. cit., p. 153] poiché ora il corpo porta con sé, in una modalità assolutamente indissolubile, il suo orizzonte spaziale e temporale. IL RITO SOTTRATTO 38

movimento vitale, dell’attrito e dell’inerzia necessarie a muoversi e vibrare 68 . La visione analitica cancella il rito per porvi uno specchio in cui l’osservatore non può vedere altro che se stesso e la sua storia. Senza consapevolezza, egli ipostatizza nel rito quelle linee di senso e quei significati già acquisiti affinché la sua ragione possa correre a scoprirli 69 . Questa trappola autoreferenziale si consolida come modello teoretico solo se vi è un certo distacco dalla situazione, solo se il soggetto si immerge nella quiete della sua contemplazione. Ben diverso è il coinvolgimento e la confusione del mondo rituale. Al suo interno una tale visione è sospesa, non solo perché c’è dell’altro che eccede il suo senso ma semplicemente perché non è quello il luogo del pensiero teoretico. Il rito immette in sé solo elementi interagenti con danze, canti e ritmi. Agli occhi di uno straniero, ricercare il senso con lo sguardo vuol dire interrompere simultaneamente il flusso di rinvii che lo manteneva all’interno del fenomeno. La stessa interruzione sarebbe avvenuta per qualunque interpretazione che si fosse frapposta tra un gesto e un altro, rompendo la continuità delle parti. Ma l’agire rituale non ha creato il rito come una dimensione chiusa: le forme del suo agire lo hanno sviluppato ed esteso a tutti gli avventori che si assoggettavano al suo movimento. Impegnandosi in tali attività, l’osservatore cessa di essere tale per entrare a far parte del tutto collettivo. Inoltre egli è straniero: non è un fedele, che conosce i codici espressivi e le preghiere yoruba, ma non è nemmeno un turista, che si immobilizza per non far venire mossa la sua fotografia analitica, frontale, separata. L’exosservatore è immerso in una dimensione dinamica e il suo corpo fatica a seguire tutti i movimenti del gruppo: egli non può riprendere la sua funzione analitica poiché è preso dalle ripercussioni di tutte quelle connessioni, è immerso in un mare di onde che lo sollevano, è preso da tutte quelle modulazioni di scambi reciproci che fanno il rito. L’ingresso nel circolo dei partecipanti impone innanzitutto un adeguamento formale. Il soggetto deve mimare i passi, i ritmi e i canti della collettività evitando di razionalizzarli in un modello o una regola da seguire, perché questi poi varieranno e romperanno ogni regolarità formale. Con l’atto della mimesi non mediata da concetti, il soggetto cede il primato al corpo. Il soggetto viene spostato in un luogo scoperto, incustodito, esposto alle intemperie delle dinamiche che scaturiscono dal nuovo centro effettivo, il corpo. In questo momento il soggetto è sottratto perché non è più contemplato come direttore nello svolgersi dei movimenti, non è più l’agente di una volontà. Allora basta una pressione corporea più forte a farlo volare via, a sospenderlo ancora di più. L’occhio dell’osservatore si rilassa, non segue più i movimenti dell’osservazione attenta ma guarda tutto senza riconoscere nulla. Egli non vede più né oggetti né soggetti: tutto per lui è indifferenziato, sfocato, indistinto. L’occhio 68 É ciò che Wittgenstein condanna al pensiero logico. [Cfr. Ricerche Filosofiche, p. 64, § 103, p. 65, § 107]. 69 É ciò che Sini chiama «l’effetto retrogrado del vero» che una mente produce su ciò che descrive: l’osservatore «non si preoccupa affatto, però, della sua mente, con la quale osserva e descrive. Che questa mente sia di fatto presupposta alla descrizione è un pensiero che non lo coglie e non lo turba» [Sini C., op. cit., p. 18]. IL RITO SOTTRATTO 39

movimento vitale, dell’attrito e dell’inerzia necessarie a muoversi e vibrare 68 . La visione analitica<br />

cancella il rito per porvi uno specchio in cui l’osservatore non può vedere altro che se stesso e la<br />

sua storia. Senza consapevolezza, egli ipostatizza nel rito quelle linee di senso e quei significati già<br />

acquisiti affinché la sua ragione possa correre a scoprirli 69 . Questa trappola autoreferenziale si<br />

consolida come modello teoretico solo se vi è un certo distacco dalla situazione, solo se il soggetto<br />

si immerge nella quiete della sua contemplazione. Ben diverso è il coinvolgimento e la confusione<br />

del mondo rituale. Al suo interno una tale visione è sospesa, non solo perché c’è dell’altro che<br />

eccede il suo senso ma semplicemente perché non è quello il luogo del pensiero teoretico. Il rito<br />

immette in sé solo elementi interagenti con danze, canti e ritmi.<br />

Agli occhi di uno straniero, ricercare il senso con lo sguardo vuol<br />

dire interrompere simultaneamente il flusso di rinvii che lo manteneva all’interno del fenomeno.<br />

La stessa interruzione sarebbe avvenuta per qualunque interpretazione che si fosse frapposta tra<br />

un gesto e un altro, rompendo la continuità delle parti. Ma l’agire rituale non ha creato il rito<br />

come una dimensione chiusa: le forme del suo agire lo hanno sviluppato ed esteso a tutti gli<br />

avventori che si assoggettavano al suo movimento. Impegnandosi in tali attività, l’osservatore<br />

cessa di essere tale per entrare a far parte del tutto collettivo. Inoltre egli è straniero: non è un<br />

fedele, che conosce i codici espressivi e le preghiere yoruba, ma non è nemmeno un turista, che<br />

si immobilizza per non far venire mossa la sua fotografia analitica, frontale, separata. L’exosservatore<br />

è immerso in una dimensione dinamica e il suo corpo fatica a seguire tutti i<br />

movimenti del gruppo: egli non può riprendere la sua funzione analitica poiché è preso dalle<br />

ripercussioni di tutte quelle connessioni, è immerso in un mare di onde che lo sollevano, è preso<br />

da tutte quelle modulazioni di scambi reciproci che fanno il rito. L’ingresso nel circolo dei<br />

partecipanti impone innanzitutto un adeguamento formale. Il soggetto deve mimare i passi, i ritmi<br />

e i canti della collettività evitando di razionalizzarli in un modello o una regola da seguire, perché<br />

questi poi varieranno e romperanno ogni regolarità formale. Con l’atto della mimesi non mediata<br />

da concetti, il soggetto cede il primato al corpo. Il soggetto viene spostato in un luogo scoperto,<br />

incustodito, esposto alle intemperie delle dinamiche che scaturiscono dal nuovo centro effettivo, il<br />

corpo. In questo momento il soggetto è sottratto perché non è più contemplato come direttore nello<br />

svolgersi dei movimenti, non è più l’agente di una volontà. Allora basta una pressione corporea più<br />

forte a farlo volare via, a sospenderlo ancora di più. L’occhio dell’osservatore si rilassa, non segue<br />

più i movimenti dell’osservazione attenta ma guarda tutto senza riconoscere nulla. Egli non vede<br />

più né oggetti né soggetti: tutto per lui è indifferenziato, sfocato, indistinto. L’occhio<br />

68 É ciò che Wittgenstein condanna al pensiero logico. [Cfr. Ricerche Filosofiche, p. 64, § 103, p. 65, § 107].<br />

69 É ciò che Sini chiama «l’effetto retrogrado del vero» che una mente produce su ciò che descrive: l’osservatore<br />

«non si preoccupa affatto, però, della sua mente, con la quale osserva e descrive. Che questa mente sia di fatto<br />

presupposta alla descrizione è un pensiero che non lo coglie e non lo turba» [Sini C., op. cit., p. 18].<br />

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