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quanto era accaduto 47 . Ritornata cosciente, la persona faceva riprendere la musica e ricominciava<br />
a danzare: con ciò essa richiedeva l’ausilio del circolo rituale per afferrare un nuovo stimolo<br />
inebriante, capace di ravvivare ancora una volta la corporeità dell’oricha. Questa fase centrale,<br />
che nella festa santéra può durare anche diverse ore 48 , non fa altro che ripetere una tale<br />
alternanza di momenti: una fase coreutica e musicale che diviene sempre più intensa fino a<br />
quando il ballerino cade in trance; quindi la musica si ferma, si dà spazio alle parole e alle<br />
preghiere, fino a che la musica non riprende a rinvigorire le dinamiche sfuggevoli dell’oricha.<br />
Da ciò si comprende bene la difficoltà di mantenere la trance a lungo, perché questa si<br />
configurava come uno stato molto dinamico e instabile 49 . Poteva capitare di arrivare a un punto<br />
in cui l’oricha non aveva più nulla da dire al suo uditorio e quindi veniva meno l’esigenza di<br />
interrompere la musica: allora questo si limitava a partecipare alla festa mangiando, danzando,<br />
facendosi festeggiare, muovendosi anche in altre stanze assieme ai fedeli che non lo<br />
abbandonavano mai. La gioia percepita in questi momenti era evidente: l’oricha era presente,<br />
aveva partecipato, dispensato consigli, aveva risposto all’invocazione, alla chiamata collettiva.<br />
Per me che assistevo alla cerimonia, queste attività si rivelavano soprattutto contagiose,<br />
rivelando una corporeità complessa e tradizionale che veniva amplificata in particolar modo dai<br />
fedeli che erano più educati a queste forme espressive. È stato per me prezioso intuire che solo i<br />
danzatori più esperti, quelli più preparati alla modulazione di questi stati, riuscivano ad alternarsi<br />
armoniosamente tra il loro sé quotidiano e un’identità religiosa, altra dal loro sé. Questo stato<br />
non veniva raggiunto in maniera incontrollata, ovvero semplicemente “lasciandosi andare” a<br />
corporeità selvagge: rivelava al contrario una forma di disciplina molto accurata della quale io,<br />
con la mia partecipazione, ne avevo appena scalfito la superficie. Quello che sono riuscito ad<br />
afferrare era che i danzatori più esperti utilizzavano dei modelli corporei equilibrati, evitando di<br />
eccedere nell’uso incontrollato della propria corporeità e delle proprie suggestioni. Prima<br />
dell’incarnazione rituale ben riuscita, ho potuto notare un danzatore che interpretava i passi di<br />
Changò con un’aggressività eccessiva. Questa era tale da distruggere il suo equilibrio coreutico,<br />
lasciando esplodere una trance violenta e incontrollata: egli dava testate al sacerdote, si buttava<br />
addosso ai percussionisti, non riusciva a reggersi in piedi. Ebbene, le sue gesta non venivano<br />
associate alla divinità che si stava chiamando. Essa poteva essere intesa come un’altra entità<br />
trascendente, un genio folle, un oricha sconosciuto, un “santo bruto”, una divinità comunque non<br />
47 Cfr. ivi, p. 20.<br />
48 Per conoscere i tempi della trance nei riti di possessione di derivazione africana, cfr. Zaretsky Irving I. –<br />
Shambaugh C., Spirit Possession and Spirit Mediumship in Africa and Afro-America: An Annotated Bibliography,<br />
Garland, New York, 1978.<br />
49 Cfr. Rouget G., op. cit., p. 162.<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 28