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soggetto mascherato, mentre poi questa avesse preso corpo, acquistando una vita propria,<br />
inscindibile dai movimenti, sostituendosi alla persona mascherata. In questo momento ho potuto<br />
notare come la divisa del santo, prendendo vita, avesse sospeso l’idea di una persona danzante,<br />
sostituendola con l’oricha stesso, incarnato. La cura con cui questi operatori rituali ricercavano<br />
questa esperienza è affascinate: essi apparivano totalmente assorti dal movimento, irretiti in un<br />
atteggiamento, un tema, come se il loro corpo avesse preso l’iniziativa, sospendendo la loro<br />
volontà. Nel caso di Changò, che è considerato un oricha lussurioso e goloso, ricordo i gesti di<br />
un ballerino, che addentava una coscia di pollo e subito dopo se la strusciava sul corpo con<br />
passione, alludendo a dei movimenti sessuali. Così il suo corpo imparentava due aspetti diversi<br />
in un unico comportamento, in una modulazione comune, irretendo gli altri e se stesso in questo<br />
gioco: egli infatti era visibilmente influenzato dalle sue stesse azioni: ma chi è il soggetto di<br />
questa esperienza? L’oricha era come una maschera che si stava animando sempre di più, che in<br />
ogni momento acquistava maggiore corporeità. Il gesto eseguito dalle braccia e dalle gambe si<br />
ripercuoteva sul bacino e sul viso, fino al punto in cui il corpo era, per così dire, saturo di questa<br />
motilità. Allora anche la voce veniva fatta propria dalla divisa del santo: in quel momento tutti<br />
riconoscevano la trance, dicendomi che l’oricha era sceso sulla testa del danzatore. Ora il corpo<br />
danzante, ebbro di tensioni, cessava ogni attività, chiamando il silenzio. In questa fase la<br />
maschera era talmente sciolta dalla personalità del ballerino da potersi identificare totalmente<br />
con l’oricha. Allora quel corpo in trance cominciava a parlare, a dare consigli a tutti. Ma il ritmo<br />
di un dialogo impone una corporeità differente da quella finora manifestata, perciò questo stato<br />
sembrava molto difficile da sostenere, poiché non poteva reggersi a lungo in una situazione<br />
mutata, in un nuovo contesto, senza mutare nel contempo le sue forme. Per ristabilirsi, questo<br />
stato necessita dell’ausilio delle forze del rito: della danza, della musica, del ritmo, dei canti.<br />
L’intero circolo partecipante, nel momento in cui taceva le sue espressioni, mutava il suo<br />
equilibrio, la sua estetica, le sue relazioni, esaltando le attività centrali, che però mostravano un<br />
espressione ben più complessa e difficile da mantenere. Questo era il momento in cui si poteva<br />
parlare; una fase che adempiva l’esigenza comune di un dialogo tra il mondo dei vivi e quello<br />
degli antenati, pur esponendo la figura centrale – trasformata sulla base di forze che ora erano<br />
sospese – a una degenerazione graduale della sua pienezza e della sua integrità. In quei momenti<br />
era possibile vedere il ballerino ritornare in sé: egli riprendeva lentamente il possesso del suo<br />
corpo e della sua coscienza, annullando la presenza che c’era prima, ovvero l’oricha, la<br />
maschera incarnata. In poco tempo il viso totalmente inebriato della maschera si trasformava<br />
nello sguardo lucido e un po’ perso della persona che tornava in sé, mostrando di essere ignara di<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 27