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possa manifestare la sua presenza nel rito solo dopo un culto ad esso dedicato in spazi e momenti<br />
privati, chiusi al pubblico 44 . Le cerimonie alle quali ho assistito erano delle feste atte a<br />
consacrare dei culti precedentemente svolti, i quali erano incentrati sui tanti preparativi necessari<br />
a “chiamare” ed “accogliere” la protezione dell’oricha.<br />
Finito l’oru, si era formato un tale livello di intensità emotiva – i<br />
canti erano molto forti, le grida del coro erano ben presenti, tutte le mani battevano in un incastro<br />
suggestivo, i suonatori di batá in momenti particolarmente intensi aumentavano la velocità dei<br />
ritmi, il suonatore di iyá scuoteva la sua sonagliera (chaworo) per accrescere ancora di più<br />
l’intensità di questa situazione – da permettere alla festa di passare con naturalezza alla fase<br />
successiva, detta wemilere, dove i danzatori tentavano di incorporare il santo del giorno. In quel<br />
momento tutte le attività espressive si concentravano sull’oricha in questione, che quel giorno<br />
era Changò. I ballerini enfatizzavano la loro danza e, presi dalla loro corporeità, si lasciavano<br />
guidare dai loro movimenti fino a perdere quasi l’equilibrio, per poi ritrovarlo con soluzioni<br />
coreutiche e schemi motori nuovi. Essi non abbandonavano i passi tradizionali della danza di<br />
Changò ma la interpretavano con gesti nuovi, mimiche facciali che a un osservatore occidentale<br />
potrebbero sembrare teatrali, ma che avevano il duplice effetto di convincere non solo gli altri<br />
ma anche loro stessi, assecondando il lavoro di immedesimazione con la “maschera coreutica” 45<br />
di Changò. Il circolo rituale costruiva uno sfondo attorno ai loro tentativi: il cantante sceglieva<br />
quei canti capaci di sviluppare una musicalità adatta alle dinamiche e alle tensioni che<br />
emergevano dalle corporeità centrali; i percussionisti, non abbandonando mai il tempo del canto<br />
e la loro base ritmica, improvvisavano alcune frasi che stimolavano le corporeità dei danzatori; la<br />
collettività tutta rispondeva al canto del solista e modulava le sue attività (ondulazioni del corpo,<br />
battiti di mani, intensità del coro) in interazione con la danza. Tutte le attività centrali venivano<br />
guardate con grande attenzione dagli operatori perimetrali, nella stessa misura con cui venivano<br />
incorporate dal ballerino. Mi sembrava che, a differenza degli elementi perimetrali, il centro<br />
coreutico fosse più esposto a subire l'effetto della musica 46 , rivelando una lunga esperienza nella<br />
gestione di questo influsso, mentre i musicisti sembravano più attenti a controllarlo. Vedremo<br />
più avanti come le poliritmie dei batá forniscano a questo scopo un repertorio eccellente. Nel<br />
loro insieme questi rapporti sostenevano e allo stesso tempo incitavano la ricerca creativa del<br />
ballerino, riuscendo a svolgere anche una funzione di controllo della corporeità espressa. È come<br />
se prima il ballerino avesse indossato una maschera, che potenzialmente è ancora separabile dal<br />
44 Cfr. Bolívar Aróstegui N., Los orishas en Cuba, Ediciones Unión, La Habana, 1990.<br />
45 La maschera è molto usata in tantissime tradizioni e raccoglie una serie di studi molto ampi e complessi: a scopo<br />
orientativo, qui basterà citare i lavori di Henry John e Margaret Thompson Drewal, Gelede. Art and Female Power<br />
among the Yoruba, Indiana University Press, Bloomingtown, 1990.<br />
46 Del resto, la possessione è una relazione di sussunzione a un’entità altra. Cfr. Rouget G., op. cit., p. 52.<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 26