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Io, assieme agli altri partecipanti, sono entrato a farne parte. Un lato di questo circolo era<br />
occupato dai percussionisti e dal sacerdote, il quale svolgeva anche il ruolo di “cantante solista”.<br />
Una volta cominciata la musica, il centro del circolo è stato occupato da alcuni danzatori che si<br />
muovevano seguendo i passi tipici di quegli orichas che i ritmi e i canti di volta in volta<br />
presentavano. Anche qui si è seguito l’ordine formale delle divinità (oru de eyà aranla), una<br />
successione accurata che non mostrava alcuna fretta di concentrarsi sul santo del giorno. Durante<br />
questo momento io mi sono ritrovato a condividere le attività del circolo rituale. La gente attorno<br />
a me si muoveva, ondeggiando, con piccoli passi, una volta a destra e una volta a sinistra, e<br />
muovendo le braccia. Lo facevano tutti. Esserci, stare lì dentro osservando nel contempo il<br />
centro più dinamico, mi ha subito stimolato a muovermi come loro. Non ho nemmeno pensato di<br />
stare fermo: ho semplicemente assecondato questo movimento collettivo. La vicinanza ha fatto sì<br />
che la mia danza sia scaturita in modo naturale, quasi fosse una ripercussione involontaria del<br />
corpo. Più difficile è stato inserirsi nei cori: non conoscendo le parole, la lingua, i significati, mi<br />
sono sentito alquanto inibito. Però l’intensità del canto di alcuni coristi, alcuni dei quali tra l’altro<br />
stonavano spaventosamente, mi ha fatto crollare le inibizioni, molte delle quali si fondavano<br />
proprio su una difficoltà a rispettare un certo canone estetico. Ho iniziato emettendo morfemi<br />
simili alle parole che sentivo, cercando di aderire alle sole qualità vocali: allo stesso tempo<br />
sperimentavo l’armonia con la motilità che nel frattempo si era avviata. Il cantante eseguiva una<br />
frase e il coro la ripeteva; accadeva anche che il cantante proseguisse con frasi diverse mentre il<br />
circolo si soffermava nella ripetizione dello stesso coro. Soltanto una profonda esperienza<br />
avrebbe potuto chiarire le complesse dinamiche dei canti, come questi si articolino e come si<br />
sviluppino in un crescendo che costituisce lo svolgimento musicale del rito. Il repertorio dei canti<br />
è immenso: rispetto ai ritmi, che non sono pochi, i canti li superano di circa 50 o 100 volte 41 . Per<br />
compensare le mie carenze linguistiche, mi sono concentrato sull’“estetica vocale” del cantante<br />
solista, tentando di riprodurne la vocalità nasale e gutturale. Più facile è stato battere le mani: in<br />
certi momenti di intensità il coro non si limitava a muoversi e cantare, ma batteva anche le mani,<br />
seguendo in genere due modelli ritmici che mostrerò più avanti, nel settimo capitolo 42 . Tutto<br />
sommato, non è stato poi così difficile eseguire contemporaneamente una piccola danza, una vocalità<br />
corale e un battito di mani. Facendo ciò percepivo la mia adesione alla festa, mi sentivo a tutti gli<br />
effetti dentro quella cerimonia, nonostante la mia differenza culturale. Se mi fossi pensato come<br />
soggetto culturale, avrei potuto collocare il mio inserimento nella festa in un luogo di confine del rito,<br />
a metà strada tra il coinvolgimento del fedele e la separazione dell’osservatore occidentale: avrei<br />
potuto ridimensionare il mio essere-dentro come un’oscillazione ai margini del perimetro operativo.<br />
41 Per un elenco esaustivo dei canti e dei ritmi della santería, si consulti il sito internet www.santeriadatabase.com<br />
42 Vedi p. 118 del presente lavoro.<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 24