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IL RITO SOTTRATTO - DSpace@Unipr

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vestizione di senso col tessuto dell’oricha, il cui nome si pone come l’oggetto focalizzato<br />

dall’orientazione della tendenza motoria.<br />

Denudare un archetipo non significa solo privarlo del suo<br />

riferimento oggettivato in una credenza tradizionale, ma anche liberarlo da ogni determinazione<br />

sostanziale. Non resta che descriverlo secondo la sua sola tendenza, che si traduce in<br />

un’affermazione di qualità del movimento, fatta perciò non di sostantivi ma di aggettivi, che<br />

dispongono del doppio vantaggio di non immobilizzare il movimento in un nome e di mostrare<br />

allo stesso tempo la specificità della sua orientazione. Prima ancora di compiersi in un oggetto,<br />

alcuni movimenti manifestano una tendenza archetipica. Questa non è un oggetto ma un vettore<br />

capace di orientare le spaziature areali. Le situazioni possono facilitare questa orientazione<br />

perché danno al corpo una residenza – seppur fittizia – da esplorare, permettendogli di aderirvi<br />

con facilità grazie a una guida che è depositata nella sua memoria esperenziale, nella sua<br />

gestualità acquisita. Il corpo percorre l’archetipo come un cammino, arrivando a raffinare sempre<br />

di più i movimenti, a purificarli, a farli sempre più coincidenti con la modulazione che si sta<br />

perseguendo. Ma la situazione richiamata dal rito ristabilirà la sua natura accordandosi ad esso e<br />

il movimento finirà con l’oltrepassare le necessità situazionali per trattenere in sé solo quella<br />

motilità capace di conservare un’orientazione nel ciclico ritorno alla rispondenza coreutica con le<br />

forze del rito. La situazione è una guida che, incorporandosi, viene sottratta della sua realtà. Essa<br />

cede il passo ad uno spettro del movimento, a una qualità dell’andatura che, come una scansione<br />

ritmica, è più ampia e libera di forme. Se persegue una motilità aggressiva, il corpo mostra una<br />

tendenza al di là delle forme che questo può realizzare di volta in volta. Il muoversi aggressivo –<br />

come aggettivo qualificativo di un movimento in formazione – diviene un riferimento stilistico<br />

della motilità. L’archetipo è quello dell’aggressività, che il corpo tenta di purificare dalle sue<br />

altre qualità dirigendo le danze, i ritmi, i gesti, le espressioni facciali, assieme a tutte le sue<br />

possibilità prosodiche, nel senso sottratto di una simile incorporazione, indeterminata da oggetti<br />

ma orientata nei movimenti. Una simile aggressività, sciolta dalla facoltà di focalizzare,<br />

sospende ogni riferimento alle cause contingenti di un comportamento aggressivo, alle sue<br />

«motivazioni reali». Questa allora non è più un’aggressività “quotidiana”, inserita cioè in un<br />

mondo oggettivo, ma diviene un’aggressività “sottratta” come lo è il rito stesso. Essa ora può<br />

oltrepassare il dominio della situazione – la ricerca dei determinati nemici, per esempioliberandosi<br />

dalla dipendenza dagli oggetti dell’odio ed esporre semplicemente il corpo dell’agireaggressivo,<br />

che fa di sé una qualità motoria sciolta da ogni oggetto del mondo quotidiano. Così<br />

sarà più facile al rito poterla orientare verso la mira di una residenza extra-mondana,<br />

trascendente, religiosa. Il corpus insomma, come il guidatore dell’asino, finisce per dirigerla<br />

verso l’interlocutore sacro, che rappresenta il compimento del rito, l’arrivo del viaggio. L’essere-<br />

<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 184

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