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IL RITO SOTTRATTO - DSpace@Unipr

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intero sapere, spingono la corporeità a inerire a tutto un meccanismo, che è quello che istituisce<br />

la situazione, il contesto pragmatico per cui quegli strumenti servono. La prassi si fa oggetto<br />

nell’utensile. Nel rito invece la materia dello strumento è dissolta nella stessa corporeità che<br />

forma il gesto strumentale. I movimenti sottratti cominciano a raffinarsi, realizzando una serie di<br />

momenti coreutici che sembrano seguire un’orientazione. Ma qui non vi è una meta da<br />

raggiungere quanto una simbiosi da mantenere, una connessione di vibrazioni e ondulazioni che<br />

però non può mantenersi a lungo nelle spazializzazioni astratte, poiché il corpo subisce<br />

l’attrazione di uno schema articolatorio che già conosce. Questo diviene il perno attorno al quale<br />

gravitano tanti sensi già formati, tanti spazi fuori luogo rispetto all’arena connettiva, la cui<br />

simultanea apparizione però ora reclama la ricerca di un luogo comune, dove entrambi possano<br />

trovare la loro residenza e, con essa, la loro ragion d’essere. È così che può generarsi<br />

un’estensione di senso in armonia con le forze del rito. In questo modo il rito proseguirà solo<br />

quella corporeità che è capace di armonizzarsi contemporaneamente con i gesti, le situazioni, le<br />

vibrazioni e le ondulazioni che costantemente fluiscono a sincronizzare questo ventaglio di<br />

situazioni oltre l’arena.<br />

La mimesi sottratta<br />

Nel rito il corpo del danzatore mima lo strumento assente.<br />

L’utensile tecnologico è il depositario di una memoria gestuale che viene incorporata non appena<br />

questo viene impugnato o anche solo ricordato nell’atto di maneggiarlo. Con ciò la mimesi<br />

permette di proiettare nel solo corpo un’intera rete di usanze quotidianamente mediate da<br />

strumenti e situazioni specifiche. Ma è anche possibile cogliere il valore di una mimesi sottratta,<br />

ossia di quel comportamento che, pur non sapendo cosa sta imitando, adotta il riverbero<br />

corporeo come strategia per la comprensione del non compreso. La mimesi in questo caso non<br />

può essere intesa come mimesi di qualcosa – e quindi calata in virtù di questo “di” in un<br />

orizzonte ostensivo che conduce immediatamente all’oggetto denotato – ma è solo una<br />

rievocazione involontaria che il corpo non può trattenere. La corporeità della donna africana<br />

scaturisce dal riverbero della sua esposizione diretta all’evento, non dalla comprensione che<br />

quello che ha visto è un aereo che precipita. Da ciò non ne segue la mimesi dell’aereo, perché<br />

questo ancora non si conosce, non si sa cos’è – e quindi non è mimesi di qualcosa – quanto la<br />

filtrazione di un vissuto nella propria corporeità, che è capace di amplificare l’esperienza passata<br />

in un contesto diverso, rituale. Questa amplificazione si diffonde come un riverbero, a sollevare i<br />

corpi in un corpus in cui non ci si chiede chi è cosa: non solo non si è capaci di distinguere<br />

l’oggetto mimato dal soggetto mimante, ma manca la figura stessa di un osservatore che possa<br />

<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 178

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