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vengono impugnati, a suggerire con l’eloquenza dei gesti la situazione evocata, che verrà messa<br />
in armonia con l’arena vibratoria.<br />
Se si intende lo strumento come un prodotto di forza e materia 290 ,<br />
allora ciò che il danzatore usa è quasi sempre uno strumento immateriale, dissolto nelle forme<br />
del corpo che si assoggetta alle forze di una materialità strumentale incorporata 291 .<br />
L’ondulazione coreutica può finire col ricordare una gestualità strumentale: è questo l’unico<br />
svolgimento con cui un rito sottratto può accedere alla sua memoria extra-rituale, alla sua<br />
estensione di sensi oltre l’arena. Privato di ogni volere, l’unico collegamento che il corpo può<br />
contemplare è quello generato da una danza “astratta”, in armonia con le sole pressioni del<br />
corpus. Prima di ogni oggetto non vi è materia alcuna da focalizzare né tantomeno da modellare<br />
con uno strumento: vi è solo un riverbero coreutico dell’esperienza vissuta. Lo strumento non c’è<br />
nella misura in cui la danza della donna africana non rappresenta delle «eliche che roteano»:<br />
questo lo può dire solo chi conosce già l’aeroplano 292 . La sua danza è una forma generata dal<br />
riverbero, da una ripercussione sul corpo che diffonde nel momento presente “quelle forze” e<br />
“quelle forme” abbozzate con l’esposizione all’esperienza passata. Se non si comprende il senso<br />
di questa possibilità, allora ci si trova costretti a far emergere un uso strumentale solo sulle<br />
premesse di un atteggiamento intenzionale, di un volere e di una finalità. Senza di queste, il<br />
corpo in simbiosi non potrebbe liberare gestualità pragmatiche. E allora la danza non potrebbe<br />
nemmeno avere una delle proprietà figurative, non potrebbe cioè rimandare ad altro da sé, come<br />
fanno le opere d’arte. Il corpo invece si stupisce nel ritrovarsi irretito in quei gesti che già<br />
conosce. Lo strumento qui non è focalizzato da un volere ma nondimeno si finisce col ricordarlo,<br />
incorporandolo in un gesto. Con ciò si rievoca un sapere passato, sostanziato nello strumento, la<br />
cui materia non è fisicamente presente ma trasposta, sostituita dal corpo che mima di<br />
impugnarlo. Qui avviene quello stesso movimento di senso che possiamo ritrovare nel<br />
sincretismo religioso tra il cattolicesimo europeo e la religiosità africana: il prete spagnolo,<br />
porgendo agli schiavi l’immagine di San Lazzaro, si credeva di poter trasmettere con essa tutto il<br />
suo significato pragmatico, tutti i riferimenti della sua prassi religiosa. Ma l’ordine dei tratti<br />
dell’icona è stato inevitabilmente ristabilito dalla percezione degli africani che, per<br />
comprenderla, hanno finito col toccare le corde del loro sapere passato e tradizionale, che è<br />
l’unica memoria accessibile. Allora San Lazzaro, icona del potere salvifico di Cristo, è divenuta<br />
una manifestazione di Babalù Ayé, il signore delle malattie, colui che domina e distribuisce le<br />
pestilenze nel mondo. Allo stesso modo gli strumenti, che condensano in sé la gestualità di un<br />
290 Cfr. Ivi, p. 224.<br />
291 «Perché niente è più malleabile di una materia immaginata, mentre le forze riflessologiche e le pulsioni<br />
tendenziali restano all’incirca costanti» [Durand G., op. cit., p. 43].<br />
292 Vedi nota 269 a p. 167.<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 177