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11.06.2013 Views

la parola, perché essa è innanzitutto un gesto rarefatto. Così la verbalità compie il cammino di un senso vocale che, non ancora formato, trova nella parola il suo compimento gestuale 282 . La gestualità è il corpo formale di una residenza 283 , che espone però un’inerenza sottratta, che non aderisce alla “vera” situazione ma la proietta in un contesto – che è il rito – del tutto differente. Nel cortile tutte le espressioni del rito, facendo corpus, non possono sottrarsi ai rimandi di senso che esse stesse, per via della loro stessa nudità vibratoria, diffondono tra i partecipanti. Per esempio, una musica può stimolare il danzatore a liberare un’ondulazione lenta, una corporeità distesa e rilassata. Alcuni accenti ritmici in controtempo possono accordarsi a delle forme coreutiche che si esprimono con cambi repentini di direzione del movimento, che rimane comunque ad abitare lo sfondo soffice istituito dalla scansione lenta. Questi tratti, di per sé opposti e tuttavia compresenti nel flusso oscillatorio, possono trovare una più salda unione se vengono ricondotti a una parentela gestuale. Allora il ricordo di un contesto specifico può liberare questi stessi movimenti, unificandoli nella loro aderenza a un senso compiuto nello spazio, per esempio quello di un bosco: la motilità della marcia in una foresta non può essere sicura e spedita come quella di chi corre su un sentiero battuto, perché nel bosco ogni passo va verificato. Il procedere lento e punteggiato di scatti improvvisi può connettersi a una corporeità che cerca, che si nasconde, a un corpo che improvvisamente si abbassa per evitare dei rami. E allo stesso tempo può continuare a esprimere quella dolcezza dei movimenti e degli sguardi di chi contempla, con un certo incanto, la dimensione del “bosco” in cui è immerso. Stabilito il legame con il gesto e la situazione, questa potrà fornire dei suggerimenti ulteriori che il corpo assumerà per proseguire la sua danza, favorendo una densità di senso che, se sviluppata fino al suo compimento rituale, finirà con l’essere istituita dal corpus come la danza del bosco, di una foresta incarnata, fatta persona, non quotidiana ma trascendente, il dio della foresta, che nel linguaggio della santería coincide con Ochosi 284 . Un altro ritmo, lento e spezzato, senza una scansione continua che lo possa rendere fluido, può suggerire al corpo centrale una danza fatta di alternanze tra brevi movimenti e momenti di stasi. Queste possono essere incorporate con una motilità tremante, che freme senza poter compiere l’azione, come se qualcosa la fermasse. Allora può stabilirsi il 282 Ciò è possibile innanzitutto perché «l’oralità non si riduce all’azione della voce. Espansione del corpo, la voce non la esaurisce. L’oralità abbraccia tutto ciò che, in noi, si rivolge all’altro: sia pure un gesto muto o uno sguardo» [Zumthor P., op. cit., p. 241]. Allo stesso modo, ma in senso inverso, un gesto muto può sospendere il suo movimento concreto per farsi voce. 283 «Io comprendo l’altro tramite il mio corpo, come tramite questo corpo percepisco delle «cose». Il senso del gesto […] si confonde con la struttura del mondo che il gesto delinea» [Merleau-Ponty M., op. cit., p. 257]. 284 Verger mostra che l’archetipo legato a questo oricha si realizza proprio con una corporeità rapida e tuttavia attenta nei movimenti, tipica delle persone piene di iniziative e sempre in procinto di nuove scoperte e nuove attività [Cfr. Verger P., op. cit., p. 112]. IL RITO SOTTRATTO 174

legame armonioso con la situazione della malattia, incorporata nella danza a guidare i suoi successivi sviluppi. Con ciò essa diviene la danza della malattia che, in quanto espressione incorporata, favorisce un entificazione antropomorfica del contesto della malattia, istituendo un personaggio che la racchiude in sé, il dio delle malattie, Babalù Ayé. Essa non si riduce mai all’immobilismo di un corpo sconfitto dal malessere ma mostra un movimento che è capace di vincere le pressioni della morte 285 . Un altro ritmo ancora, la cui scansione ternaria diffonde al corpo un’oscillazione lenta, dolce e sinuosa, può far emergere uno schema motorio pragmatico, immerso in una situazione-guida, un contesto sul quale i suoi movimenti si possono poggiare con naturalezza, senza forzature. Questo può essere il contesto della spiaggia con il mare calmo, può essere il luogo dove si dorme, può essere la compagnia della persona amata, ecc. Ognuna di queste situazioni può essere ricordata per poter proseguire l’azione; essa diviene un perno su cui poggiare le proprie composizioni oscillatorie. La danza di Yemayà, oricha associato al mare, non ripropone le azioni che una persona compie nel mare – poiché queste sono guidate dalla percezione del “mare reale” – ma ne esalta solamente la natura coreutica. La situazione simbolizzata dall’oricha guida il movimento non nelle sue finalità quotidiane – quando ci troviamo al mare, a nuotare o a pesca – ma nella sola corporeità esperita in queste azioni. Non vi è il mare attorno al danzatore, ma una superficie duttile di corpi attenti alla sua corporeità. Anche il mare in quanto situazione conosciuta vestirà di senso la danza, che diverrà così la forma corporea del mare 286 . Ma è anche valido – e qui è più interessante – il percorso inverso: quello che va da un corpo sottratto, che si limita a fare danza sulle vibrazioni ascoltate, e giunge al contatto con una situazione. Possiamo dire in questo caso che il corpo si sorprende nell’atto di rievocare un contesto marino, poiché esso stava riverberando solo pressioni oscillatorie. La motilità che ne emerge, sia in un verso che nell’altro, è quella di un corpo immerso sì nel mare, ma in un mare messo tra virgolette. È un corpo che non sta nuotando, ma che sta danzando il mare. La reciprocità di scambi tra danza e situazione mostra la centralità di un corpo che è al mondo fin dal suo concepimento, la cui inerenza con l’ambiente realizza simultaneamente le sue forme di motilità e i territori situazionali che esso va ad esplorare. Una tale residenza qui si svela nuda, in un terreno sottratto, fertile del solo gioco di scambi coreutici e musicali. 285 Secondo Verger, l’archetipo di Babalù Ayé raccoglie una certa tendenza masochista tipica di quelle persone che amano esibire le proprie sofferenze e i loro malori, dai quali ne traggono un’intima soddisfazione [Cfr. ivi, p. 215]. 286 Verger, citando L. Cabrera – che tra l’altro è “figlia di yemayà”- associa a questo oricha il carattere delle persone volenterose, forti, rigorose, protettrici, a volte impetuose e arroganti, tendenti alla magnificenza, anche se non possono permettersi dei beni sfarzosi. [Cfr. ivi, p. 192 (egli cita Cabrera L., “Iemanjà em Cuba” in Seljan, Rio de Janeiro, 1967, p. 52)]. IL RITO SOTTRATTO 175

legame armonioso con la situazione della malattia, incorporata nella danza a guidare i suoi<br />

successivi sviluppi. Con ciò essa diviene la danza della malattia che, in quanto espressione<br />

incorporata, favorisce un entificazione antropomorfica del contesto della malattia, istituendo un<br />

personaggio che la racchiude in sé, il dio delle malattie, Babalù Ayé. Essa non si riduce mai<br />

all’immobilismo di un corpo sconfitto dal malessere ma mostra un movimento che è capace di<br />

vincere le pressioni della morte 285 . Un altro ritmo ancora, la cui scansione ternaria diffonde al<br />

corpo un’oscillazione lenta, dolce e sinuosa, può far emergere uno schema motorio pragmatico,<br />

immerso in una situazione-guida, un contesto sul quale i suoi movimenti si possono poggiare con<br />

naturalezza, senza forzature. Questo può essere il contesto della spiaggia con il mare calmo, può<br />

essere il luogo dove si dorme, può essere la compagnia della persona amata, ecc. Ognuna di<br />

queste situazioni può essere ricordata per poter proseguire l’azione; essa diviene un perno su cui<br />

poggiare le proprie composizioni oscillatorie. La danza di Yemayà, oricha associato al mare, non<br />

ripropone le azioni che una persona compie nel mare – poiché queste sono guidate dalla<br />

percezione del “mare reale” – ma ne esalta solamente la natura coreutica. La situazione<br />

simbolizzata dall’oricha guida il movimento non nelle sue finalità quotidiane – quando ci<br />

troviamo al mare, a nuotare o a pesca – ma nella sola corporeità esperita in queste azioni. Non vi<br />

è il mare attorno al danzatore, ma una superficie duttile di corpi attenti alla sua corporeità. Anche<br />

il mare in quanto situazione conosciuta vestirà di senso la danza, che diverrà così la forma<br />

corporea del mare 286 . Ma è anche valido – e qui è più interessante – il percorso inverso: quello<br />

che va da un corpo sottratto, che si limita a fare danza sulle vibrazioni ascoltate, e giunge al<br />

contatto con una situazione. Possiamo dire in questo caso che il corpo si sorprende nell’atto di<br />

rievocare un contesto marino, poiché esso stava riverberando solo pressioni oscillatorie. La<br />

motilità che ne emerge, sia in un verso che nell’altro, è quella di un corpo immerso sì nel mare,<br />

ma in un mare messo tra virgolette. È un corpo che non sta nuotando, ma che sta danzando il<br />

mare.<br />

La reciprocità di scambi tra danza e situazione mostra la centralità<br />

di un corpo che è al mondo fin dal suo concepimento, la cui inerenza con l’ambiente realizza<br />

simultaneamente le sue forme di motilità e i territori situazionali che esso va ad esplorare. Una<br />

tale residenza qui si svela nuda, in un terreno sottratto, fertile del solo gioco di scambi coreutici e<br />

musicali.<br />

285 Secondo Verger, l’archetipo di Babalù Ayé raccoglie una certa tendenza masochista tipica di quelle persone che<br />

amano esibire le proprie sofferenze e i loro malori, dai quali ne traggono un’intima soddisfazione [Cfr. ivi, p. 215].<br />

286 Verger, citando L. Cabrera – che tra l’altro è “figlia di yemayà”- associa a questo oricha il carattere delle persone<br />

volenterose, forti, rigorose, protettrici, a volte impetuose e arroganti, tendenti alla magnificenza, anche se non<br />

possono permettersi dei beni sfarzosi. [Cfr. ivi, p. 192 (egli cita Cabrera L., “Iemanjà em Cuba” in Seljan, Rio de<br />

Janeiro, 1967, p. 52)].<br />

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