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11.06.2013 Views

Il corpo che domanda La prima fase del rito, dove si manifestano omaggi verbali e ritmici nella stanza dell’altare, espone la prassi del pregare. Questa può essere riconosciuta in quanto tale anche agli occhi di un partecipante straniero che, pur non capendo «chi» si stia invocando, partecipa a un pregare sottratto dal sistema di credenze locali. Questa prassi a sua volta evoca la corporeità del chiedere, il rapporto intersoggettivo del domandare, trasposto però in una nuova relazione, riferita non a un soggetto umano ma a un’icona. L’oggetto diviene altare grazie all’evocazione che, richiamando il comportamento del chiedere, lo trasforma. Un oggetto viene coinvolto nella corporeità del dialogo, che così stabilisce un nuovo rapporto: il domandare diviene pregare e l’oggetto diviene simbolo, luogo di residenza di un soggetto vivente, cavità vibrante che può far pervenire le parole alle orecchie del referente sacro con il quale è possibile interagire. Per gentile concessione di Antonio Baiano La prassi dello scambio verbale è una situazione che è stata selezionata dal corpo nel momento in cui questo si relazionava ad un altro attraverso la voce. È questa una situazione sociale, quotidiana e comune in ogni comunità umana. La sua universalità indica semplicemente l’esistenza di un’interrelazione verbale tra due soggetti viventi come un IL RITO SOTTRATTO 170

fatto comune alla specie umana. La preghiera allora può essere decostruita come un dialogo di un corpo con un altare, che traspone una situazione conosciuta in un nuovo rapporto, che è quello generato da una diversa tipologia di interlocutore, che non può dirsi “vivente” – secondo una percezione comune – poiché è un oggetto. Questa trasposizione di fatto apre una nuova dimensione di senso, che è quella su cui un dialogo con un’icona diviene ammissibile. L’altare non è più un oggetto inerte tra i tanti della percezione: irretita nel rapporto del dialogo, la rappresentazione sacra diviene il luogo di residenza di un essere vivente, trascendente 273 . Allora l’atto del domandare si immerge nella prassi del «comunicare al di là di una porta», in un canale che è capace di far giungere l’informazione a un corpo invisibile. Così la situazione del dialogo viene rievocata nel momento stesso in cui una nuova situazione viene aperta. È anzi l’apertura stessa di una dimensione di senso a essere possibile grazie alla trasposizione di uno schema operazionale in un rapporto differente. Del resto, ciò è già accaduto quando un ritmo si è legato a una danza, imparentando spaziature differenti attraverso il perno di un ciclo oscillatorio. Questo legame distende ogni spazio su cui il corpus può stabilire un’inerenza. La preghiera all’altare di fatto sprigiona oltre l’arena vibratoria una dimensione interattiva nuova, che istituisce il nuovo rapporto di un senso tutto suo. Così il rito forma il suo luogo di nascita in virtù di un riverbero con una situazione già formata: ciò avviene perché il suo corpo si poggia su un sapere che non può sospendere. Esso si può denudare delle forme tipiche di questo sapere, ma non dello spazio da questo occupato nella memoria. L’evocazione di una situazione avviene con la corporeità della sua esplorazione, sia essa voluta o casuale. Il movimento reclama uno spazio perché lo stesso corpo è una dimensione estesa, la cui percezione in termini di estensione è inscindibile da quella in termini di movimento, dal suo percorrerla con lo sguardo e con i passi 274 . In ogni estensione vi è almeno un gesto – o un’azione che lo istituisce come quel luogo- e viceversa: con essa si può spaziare in un paesaggio, in una distesa di senso. Un’intera situazione è rievocata, riconosciuta come quella situazione, riattivata e rimessa in discussione sulle nuove basi esperenziali. Essa non viene intesa come un territorio reale o quotidiano ma è “messa tra virgolette” – diviene cioè “quella” situazione – in quanto è dispiegata non dalle necessità di uno spazio concreto da abitare ma dai fremiti delle oscillazioni del corpo in una dimensione rituale. Il rito muove un’onda – parimenti al suono – che si diffonde nella memoria situazionale dei partecipanti. Questi si 273 È possibile apprezzare le tante realizzazioni simboliche delle divinità nel bel libro di Thompson R. F., Face of the Gods: Art and Altars of Africa and the African Americas, Museum of African Art, New York, 1993, nel quale sono raccolte molte fotografie di altari e icone religiose di diverse tradizioni popolari. 274 «Quando dico che un oggetto è su un tavolo, con il pensiero io mi pongo sempre nel tavolo o nell’oggetto […]. Senza questa portata antropologica la parola «su» non si distingue più dalla parola «sotto» […] spazio corporeo e spazio esterno formano un sistema pratico» [Merleau-Ponty M., op. cit., pp. 155-156]. IL RITO SOTTRATTO 171

fatto comune alla specie umana. La preghiera allora può essere decostruita come un dialogo di<br />

un corpo con un altare, che traspone una situazione conosciuta in un nuovo rapporto, che è<br />

quello generato da una diversa tipologia di interlocutore, che non può dirsi “vivente” – secondo<br />

una percezione comune – poiché è un oggetto. Questa trasposizione di fatto apre una nuova<br />

dimensione di senso, che è quella su cui un dialogo con un’icona diviene ammissibile. L’altare<br />

non è più un oggetto inerte tra i tanti della percezione: irretita nel rapporto del dialogo, la<br />

rappresentazione sacra diviene il luogo di residenza di un essere vivente, trascendente 273 . Allora<br />

l’atto del domandare si immerge nella prassi del «comunicare al di là di una porta», in un canale<br />

che è capace di far giungere l’informazione a un corpo invisibile. Così la situazione del dialogo<br />

viene rievocata nel momento stesso in cui una nuova situazione viene aperta. È anzi l’apertura<br />

stessa di una dimensione di senso a essere possibile grazie alla trasposizione di uno schema<br />

operazionale in un rapporto differente. Del resto, ciò è già accaduto quando un ritmo si è legato a<br />

una danza, imparentando spaziature differenti attraverso il perno di un ciclo oscillatorio. Questo<br />

legame distende ogni spazio su cui il corpus può stabilire un’inerenza. La preghiera all’altare di<br />

fatto sprigiona oltre l’arena vibratoria una dimensione interattiva nuova, che istituisce il nuovo<br />

rapporto di un senso tutto suo. Così il rito forma il suo luogo di nascita in virtù di un riverbero<br />

con una situazione già formata: ciò avviene perché il suo corpo si poggia su un sapere che non<br />

può sospendere. Esso si può denudare delle forme tipiche di questo sapere, ma non dello spazio<br />

da questo occupato nella memoria.<br />

L’evocazione di una situazione avviene con la corporeità della sua<br />

esplorazione, sia essa voluta o casuale. Il movimento reclama uno spazio perché lo stesso corpo è<br />

una dimensione estesa, la cui percezione in termini di estensione è inscindibile da quella in<br />

termini di movimento, dal suo percorrerla con lo sguardo e con i passi 274 . In ogni estensione vi è<br />

almeno un gesto – o un’azione che lo istituisce come quel luogo- e viceversa: con essa si può<br />

spaziare in un paesaggio, in una distesa di senso. Un’intera situazione è rievocata, riconosciuta<br />

come quella situazione, riattivata e rimessa in discussione sulle nuove basi esperenziali. Essa non<br />

viene intesa come un territorio reale o quotidiano ma è “messa tra virgolette” – diviene cioè<br />

“quella” situazione – in quanto è dispiegata non dalle necessità di uno spazio concreto da abitare<br />

ma dai fremiti delle oscillazioni del corpo in una dimensione rituale. Il rito muove un’onda –<br />

parimenti al suono – che si diffonde nella memoria situazionale dei partecipanti. Questi si<br />

273 È possibile apprezzare le tante realizzazioni simboliche delle divinità nel bel libro di Thompson R. F., Face of the<br />

Gods: Art and Altars of Africa and the African Americas, Museum of African Art, New York, 1993, nel quale sono<br />

raccolte molte fotografie di altari e icone religiose di diverse tradizioni popolari.<br />

274 «Quando dico che un oggetto è su un tavolo, con il pensiero io mi pongo sempre nel tavolo o nell’oggetto […].<br />

Senza questa portata antropologica la parola «su» non si distingue più dalla parola «sotto» […] spazio corporeo e<br />

spazio esterno formano un sistema pratico» [Merleau-Ponty M., op. cit., pp. 155-156].<br />

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