IL RITO SOTTRATTO - DSpace@Unipr
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liberato – se correre sia stato originariamente un fuggire da qualcosa o un giungere a un obiettivo – ma quale è la spaziatura che il corpo ha assunto per proseguire nella corsa, quale tendenza ha dovuto assimilare, che scansione ha assecondato per mantenere quell’andatura. Un simile lavoro è costretto a ribadire la denudazione ad ogni passo che fa, per disciplinare il suo movimento a mantenersi in un ambito sottratto: perciò la riflessione si poggerà di nuovo sul solo corpus ondulatorio che si muove nell’arena del rito. Sono le vibrazioni sonore e le ondulazioni dei corpi a organizzare il venir su del rito, a esporne un’esistenza sottratta, a coinvolgerci nel suo corale partecipativo. L’appartenenza a un tale organismo collettivo si manifesta con una generazione di forme sempre nuove, liberate prima di ogni intenzione individuale, di ogni soggettività e di ogni logica che possa indicare un punto da raggiungere in questo spostamento. Il percorso così tracciato è il luogo di un cammino sottratto: è il solco tracciato da una pressione, da quelle forze che hanno sollevato i corpi in un unico corpus. Il rito è presente – è al mondo – e il suo venir su genera un’onda coreutica che lo porterà a mostrare non l’oricha formato, ma la sua mondanità, la sua residenza nel corpo. La sottrazione sospende il cammino dei santi come se fosse un sentiero già battuto, tracciato e rifinito dalla forma di vita locale, per mostrare quei tratti antropici che rendono possibile il suo continuo rinnovamento, poiché esso viene ogni volta ritracciato, scavato come se fosse il primo solco, proprio in virtù delle forze collettive del rito. Ciò è possibile in quanto i corpi che lo compongono, pur privati delle loro usanze culturali, non possono privarsi delle loro usanze antropiche 261 , che sono movimenti connettivi sufficientemente impressionanti da generare un corpus. Ogni movimento, reiterato in un gruppo, col tempo finisce per depositare uno schema nel sapere corporeo, che poi si veste di un tessuto concettuale, divenendo un modello coreutico, un codice, un nome in un linguaggio, capace di richiamare un’intera prassi non più come uno svolgimento da determinare, ma come un oggetto specifico, completo, che in sé porta l’intero cammino dai suoi primi passi al suo compimento finale. Questa ricerca sottrae tale completezza al sapere del corpo, riferendosi al movimento collettivo come al farsi di un’esperienza sempre nuova e unica, non ancora determinata dalle tante linee di senso che altrettanti studi analitici possono evidenziare 262 . Tali ordini di significato devono il loro statuto ontologico alle forme 261 Queste usanze sono il prodotto di un consolidamento genetico operato dal tempo, che crea delle ampie basi comuni, sulle quali un gruppo costruisce delle varianti locali mutevoli a seconda degli incontri interetnici e degli stravolgimenti della storia [Cfr. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, p. 324]. Ciò che qui si chiama «antropico» è relativo solo a questa base comune. 262 Beneduce raccoglie tutte queste linee di senso all’interno di quattro orientamenti interpretativi: l’asse del potere (senso politico), della cura (senso terapeutico), del sacro (senso religioso), della rappresentazione (senso della conoscenza e della comunicazione) [Cfr. Beneduce R., op. cit., pp. 134-137, ma anche Scarduelli P., op. cit., p. 61]. È bene ricordare, citando Bateson, che tutte queste categorie «non sono suddivisioni reali, presenti nelle culture che studiamo, ma sono pure e semplici astrazioni che ci fabbrichiamo per nostra comodità quando ci mettiamo a IL RITO SOTTRATTO 164
concettuali che l’osservatore si porta sempre dietro come i connotati della sua stessa identità 263 , caratteri che scompaiono non appena egli si immerge nella partecipazione, denudandosi della sua gabbia identitaria. Immersi in una dimensione sottratta, ogni movimento dell’intelletto è sospeso, o comunque incompiuto: le uniche concatenazioni di cui possiamo disporre sono quelle assorbite nella memoria di un corpo non ulteriormente denudabile. Esso libera, come degli istinti, delle operazioni depositate nel suo sapere genetico, formatesi nel corso dell’apprendimento a maneggiare strumenti, nel corso della sua residenza in un mondo scandito da una serie di situazioni, di episodi che esso riflette inizialmente con gesti e motilità archetipiche, poi con comportamenti più raffinati il cui senso è ristabilito in un ordine storico e sociale. Qui non si tratta di riferirsi a uno stadio filogenetico ancestrale della corporeità umana anche perché, seppure disponessimo dei mezzi fantascientifici per compiere una simile analisi, non potremmo comunque sfuggire alla tentazione logica di risalire a un patrimonio mnemonico ancora precedente, radicato nel corpo in virtù di un sapere ancora più antico 264 . Sarà molto più interessante mostrare come un sapere acquisito ogni volta riesca a riattualizzarsi, a mantenere una sua “modernità” non attraverso una conservazione delle forme, ma tramite una trasformazione che ne permetta ogni volta l’adattabilità alla nuova situazione. Così il rito ogni volta rimette in atto il suo farsi, come se questo fosse di nuovo in via di istituzione, come se si stesse facendo ogni volta per la prima volta. Come se non potesse riferirsi ai suoi passati svolgimenti e perciò l’unica maniera che gli resta per proseguire è quella di prelevare un sapere passato non dal proprio sé – perché il rito in quel momento è in formazione-, ma dai suoi corpi che, riuniti in un organo collettivo, possono riadattare questo sapere all’attualità della nuova situazione rituale. Se ci si concede questa riflessione sarà possibile estendere nuovi campi alla ricerca che, una volta definiti, potranno essere rimessi in gioco con la loro dimensione storica e culturale. È importante notare che ogni elemento nuovo può essere assorbito dalla prassi del corpus. Ciò che non è ancora compreso, non ancora oggettivato, indicibile e sfuggente, sfugge all’intelletto ma viene filtrato nei gesti; è somatizzato, trasposto in articolazioni e movimenti contagiosi, con i quali è possibile interagire, aderendo a un organismo collettivo che, pur non sapendo cosa sta facendo, è preso nella mimesi indeterminata, nella reiterazione di ciò che, sfuggendo al pensiero, si deposita nel corporeo: danza, suono e gesto descrivere a parole le culture. Non si tratta di fenomeni presenti nella cultura, ma di etichette per i vari punti di vista che adottiamo nei nostri studi» [Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976, p. 104]. 263 Queste forme sono, per dirla con Wittgenstein, «come un paio d’occhiali posati sul naso, e ciò che vediamo lo vediamo attraverso essi. Non ci viene mai in mente di toglierli» [Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, p. 64, § 103]. 264 Cfr. Leroi-Gourhan A., Il gesto e la parola,, pp. 321-322. IL RITO SOTTRATTO 165
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liberato – se correre sia stato originariamente un fuggire da qualcosa o un giungere a un obiettivo<br />
– ma quale è la spaziatura che il corpo ha assunto per proseguire nella corsa, quale tendenza ha<br />
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Un simile lavoro è costretto a ribadire la denudazione ad ogni<br />
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riflessione si poggerà di nuovo sul solo corpus ondulatorio che si muove nell’arena del rito. Sono<br />
le vibrazioni sonore e le ondulazioni dei corpi a organizzare il venir su del rito, a esporne<br />
un’esistenza sottratta, a coinvolgerci nel suo corale partecipativo. L’appartenenza a un tale<br />
organismo collettivo si manifesta con una generazione di forme sempre nuove, liberate prima di<br />
ogni intenzione individuale, di ogni soggettività e di ogni logica che possa indicare un punto da<br />
raggiungere in questo spostamento. Il percorso così tracciato è il luogo di un cammino sottratto:<br />
è il solco tracciato da una pressione, da quelle forze che hanno sollevato i corpi in un unico<br />
corpus. Il rito è presente – è al mondo – e il suo venir su genera un’onda coreutica che lo porterà<br />
a mostrare non l’oricha formato, ma la sua mondanità, la sua residenza nel corpo. La sottrazione<br />
sospende il cammino dei santi come se fosse un sentiero già battuto, tracciato e rifinito dalla<br />
forma di vita locale, per mostrare quei tratti antropici che rendono possibile il suo continuo<br />
rinnovamento, poiché esso viene ogni volta ritracciato, scavato come se fosse il primo solco,<br />
proprio in virtù delle forze collettive del rito. Ciò è possibile in quanto i corpi che lo<br />
compongono, pur privati delle loro usanze culturali, non possono privarsi delle loro usanze<br />
antropiche 261 , che sono movimenti connettivi sufficientemente impressionanti da generare un<br />
corpus. Ogni movimento, reiterato in un gruppo, col tempo finisce per depositare uno schema nel<br />
sapere corporeo, che poi si veste di un tessuto concettuale, divenendo un modello coreutico, un<br />
codice, un nome in un linguaggio, capace di richiamare un’intera prassi non più come uno<br />
svolgimento da determinare, ma come un oggetto specifico, completo, che in sé porta l’intero<br />
cammino dai suoi primi passi al suo compimento finale. Questa ricerca sottrae tale completezza<br />
al sapere del corpo, riferendosi al movimento collettivo come al farsi di un’esperienza sempre<br />
nuova e unica, non ancora determinata dalle tante linee di senso che altrettanti studi analitici<br />
possono evidenziare 262 . Tali ordini di significato devono il loro statuto ontologico alle forme<br />
261 Queste usanze sono il prodotto di un consolidamento genetico operato dal tempo, che crea delle ampie basi<br />
comuni, sulle quali un gruppo costruisce delle varianti locali mutevoli a seconda degli incontri interetnici e degli<br />
stravolgimenti della storia [Cfr. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, p. 324]. Ciò che qui si chiama «antropico» è<br />
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262 Beneduce raccoglie tutte queste linee di senso all’interno di quattro orientamenti interpretativi: l’asse del potere<br />
(senso politico), della cura (senso terapeutico), del sacro (senso religioso), della rappresentazione (senso della<br />
conoscenza e della comunicazione) [Cfr. Beneduce R., op. cit., pp. 134-137, ma anche Scarduelli P., op. cit., p. 61].<br />
È bene ricordare, citando Bateson, che tutte queste categorie «non sono suddivisioni reali, presenti nelle culture che<br />
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