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Riformuliamo, per ri-comprendere: questo stato è una delle<br />
migliori esibizioni della connessione singolare-plurale, del cum, di una congiunzione spogliata di<br />
ogni essere, di ogni sostanza che congiunge. É allora che la grammatica –ma potremmo dire<br />
anche la pragmatica, e non solo quella locale- violenta la verità di questo fenomeno per<br />
riportarlo all’ordine di un soggetto-predicato, privando il con della sua occasione di farsi<br />
sostantivo. Dal «danzare» all’«essere danzati» avviene un cambio fin troppo brusco, che d’un<br />
tratto inventa una sostanza, un ente o una causa, e fa nascere un soggetto che compie proprio<br />
quell’azione che il corpo sembra subire nella forma passiva affermata dal predicato. Allora si<br />
dice che il corpo è in possessione, di nuovo asservito alla volontà di un soggetto o messo in riga<br />
da un ordine di idee. Quello che accade è che il danzatore, in quanto parte del rito, diviene come<br />
un tutto, esibendo pubblicamente quel co- che è co-mune, che fonda la co-esistenza e la compartecipazione,<br />
che fonda e spazia il rito stesso. Così espone la sua apertura come un tutto, non<br />
più parte di una struttura relazionale ma la sua totalità ramificata, assoluta, sciolta da ogni nodo.<br />
E allora si esibisce anche come un nulla, poiché non vi è più una forza o una sostanza d’essere<br />
che faccia da fondo al suo connettersi. In questo momento il corpo centrale è totale e vuoto,<br />
esibendo una verità ontologica che il linguaggio riesce a esprimere solo con paradossi. Non si<br />
tratta quindi di un problema reale ma della nostra difficoltà di maneggiarlo con gli strumenti<br />
della grammatica e dell’intelletto. Non vi è mano che possa padroneggiare efficacemente questo<br />
Per gentile concessione di Antonio Baiano<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 157