IL RITO SOTTRATTO - DSpace@Unipr
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la storia, vi è l’ombra di una forma rifiutata, gettata via dal corpo coreutico che non può più contenere nulla: esso è una zona di passaggio in cui scorre il flusso di forze che, mentre lo invade, già lo abbandona. L’intensità e la rapidità delle pressioni è tale che esso può arrivare anche a piangere o urlare, quasi fosse un agnello sacrificale 254 , prima di essere abbandonato per l’ultima volta, privato anche del flusso delle forze. L’urlo si impone sulle forze del rito a fermarle: il corpo si libera dal contatto che lo premeva. Ora è talmente carico di vibrazioni che riesce ad andare avanti da solo, risuonando a lungo, diffondendo le sue forme sulla cassa dell’intero corpus. È come se il corpo centrale, come una campana tibetana, continuasse a suonare anche dopo che lo sfregamento della sua superficie si è interrotto, svelando le sole risonanze del suo corpo, senza più altri movimenti o contatti da parte di elementi esterni. Il centro cessa la sua coreutica mostrando la sua sola vibrazione diffusa, il suo corpo che non si muove quasi più, carico di una tensione che il silenzio e il perimetro muto accoglie. La spirale ha realizzato il suo vertice, i suoi estremi ora coincidono in un unico punto che impedisce ogni possibilità di oscillazione. Il raggiungimento del vertice di questo cammino ha liberato una corporeità pura, sciolta da ogni intenzionalità, una risonanza assoluta: è come sorprendersi a cantare senza dirigere il canto, come suonare senza controllare alcunché, senza rispondere di nulla. La simbiosi è stata talmente profonda che ha generato un’amplificazione più grande di tutto il corpus: in quel momento non si è cantanti – né come soggetti né come corpi – ma cantati, non si suona ma si è risuonati, non si può trattenere nulla, ogni forma è lasciata al suo scorrere. Il corpo è preso, paradossalmente, dal suo abbandono, una sottrazione consistente, incarnata. É come se il «con» della connessione, congiunzione inessente che origina gli esseri, fosse il corpo stesso. Le onde delle oscillazioni, che prima attraversavano i corpi, ora sono fatte corpo, non “un corpo ondulante” ma il corpo delle onde. La parte centrale ora esibisce la totalità del rito e lo fa da sé, perché essa è ora il corpo della congiunzione e da sé può mostrare la congiunzione dei corpi. Il centro ora è il tramite, sostantivo, esteso, non un vettore di passaggio tra uomini e dèi ma l’essere TRA che, mentre mostra la finitezza e la singolarità di un corpo umano, esibisce l’infinito della totalità delle parti. La trasformazione di una preposizione in un sostantivo forza a tal punto la grammatica che essa crea un nuovo nome per risolvere ogni ambiguità. Il nome dell’oricha e la sua possessione di un corpo risolvono la contraddizione del «con»: il Tramite, questa volta con la maiuscola – perché sul sostantivo si è già costruito un nome proprio –, è una singolare pluralità, un’assoluta congiunzione, una finitezza infinita, un corpo divino. 254 Da cui può emergere la «logica sacrificale» dei riti di possessione. A tale proposito, cfr. Beneduce R., op. cit., p. 127. IL RITO SOTTRATTO 156
Riformuliamo, per ri-comprendere: questo stato è una delle migliori esibizioni della connessione singolare-plurale, del cum, di una congiunzione spogliata di ogni essere, di ogni sostanza che congiunge. É allora che la grammatica –ma potremmo dire anche la pragmatica, e non solo quella locale- violenta la verità di questo fenomeno per riportarlo all’ordine di un soggetto-predicato, privando il con della sua occasione di farsi sostantivo. Dal «danzare» all’«essere danzati» avviene un cambio fin troppo brusco, che d’un tratto inventa una sostanza, un ente o una causa, e fa nascere un soggetto che compie proprio quell’azione che il corpo sembra subire nella forma passiva affermata dal predicato. Allora si dice che il corpo è in possessione, di nuovo asservito alla volontà di un soggetto o messo in riga da un ordine di idee. Quello che accade è che il danzatore, in quanto parte del rito, diviene come un tutto, esibendo pubblicamente quel co- che è co-mune, che fonda la co-esistenza e la compartecipazione, che fonda e spazia il rito stesso. Così espone la sua apertura come un tutto, non più parte di una struttura relazionale ma la sua totalità ramificata, assoluta, sciolta da ogni nodo. E allora si esibisce anche come un nulla, poiché non vi è più una forza o una sostanza d’essere che faccia da fondo al suo connettersi. In questo momento il corpo centrale è totale e vuoto, esibendo una verità ontologica che il linguaggio riesce a esprimere solo con paradossi. Non si tratta quindi di un problema reale ma della nostra difficoltà di maneggiarlo con gli strumenti della grammatica e dell’intelletto. Non vi è mano che possa padroneggiare efficacemente questo Per gentile concessione di Antonio Baiano IL RITO SOTTRATTO 157
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la storia, vi è l’ombra di una forma rifiutata, gettata via dal corpo coreutico che non può più<br />
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anche a piangere o urlare, quasi fosse un agnello sacrificale 254 , prima di essere abbandonato per<br />
l’ultima volta, privato anche del flusso delle forze. L’urlo si impone sulle forze del rito a<br />
fermarle: il corpo si libera dal contatto che lo premeva. Ora è talmente carico di vibrazioni che<br />
riesce ad andare avanti da solo, risuonando a lungo, diffondendo le sue forme sulla cassa<br />
dell’intero corpus. È come se il corpo centrale, come una campana tibetana, continuasse a<br />
suonare anche dopo che lo sfregamento della sua superficie si è interrotto, svelando le sole<br />
risonanze del suo corpo, senza più altri movimenti o contatti da parte di elementi esterni. Il<br />
centro cessa la sua coreutica mostrando la sua sola vibrazione diffusa, il suo corpo che non si<br />
muove quasi più, carico di una tensione che il silenzio e il perimetro muto accoglie. La spirale ha<br />
realizzato il suo vertice, i suoi estremi ora coincidono in un unico punto che impedisce ogni<br />
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corporeità pura, sciolta da ogni intenzionalità, una risonanza assoluta: è come sorprendersi a<br />
cantare senza dirigere il canto, come suonare senza controllare alcunché, senza rispondere di<br />
nulla. La simbiosi è stata talmente profonda che ha generato un’amplificazione più grande di<br />
tutto il corpus: in quel momento non si è cantanti – né come soggetti né come corpi – ma cantati,<br />
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corpo è preso, paradossalmente, dal suo abbandono, una sottrazione consistente, incarnata. É<br />
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stesso. Le onde delle oscillazioni, che prima attraversavano i corpi, ora sono fatte corpo, non “un<br />
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da sé, perché essa è ora il corpo della congiunzione e da sé può mostrare la congiunzione dei<br />
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ma l’essere TRA che, mentre mostra la finitezza e la singolarità di un corpo umano, esibisce<br />
l’infinito della totalità delle parti. La trasformazione di una preposizione in un sostantivo forza a<br />
tal punto la grammatica che essa crea un nuovo nome per risolvere ogni ambiguità. Il nome<br />
dell’oricha e la sua possessione di un corpo risolvono la contraddizione del «con»: il Tramite,<br />
questa volta con la maiuscola – perché sul sostantivo si è già costruito un nome proprio –, è una<br />
singolare pluralità, un’assoluta congiunzione, una finitezza infinita, un corpo divino.<br />
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