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troppo facile abbandonarsi a una motilità che è cieca anche nei confronti dello stesso ambiente in<br />
cui si muove. Così il corpo danzante si troverebbe a confondere il percorso a spirale con una sua<br />
tangente, che lo porterebbe rapidamente in territori non centrali, rischiando di far vacillare tutto<br />
il corpus che lo segue. È questo il caso di una trance malriuscita: percorrendo la via dei suoni, il<br />
ballerino può trovarsi ad esagerare, ad amplificare a dismisura solo alcune vibrazioni, esplorando<br />
un tratto che, in quanto unico ed amplificato, finirà con lo stonare con il resto del flusso, creando<br />
un disaccordo con le altre forze del corpus. Se il ballerino incarna solo a una tipologia di queste<br />
pressioni, egli si espone a un distacco dal rito, segnando la sua dipartita tangenziale dal cammino<br />
verso il centro. In quel momento egli sta forzando la spirale centripeta, spingendosi oltre la<br />
tollerabilità delle forze perimetrali, che non possono più accoglierlo come elemento centrale, da<br />
proteggere con il loro seguito di corpi in territori che non sono più aderenti alle vibrazioni. I<br />
movimenti del corpo danzante non corrispondono più al tracciato collettivo, che attrae con la<br />
stessa armonia tutte le vibrazioni perimetrali. In quel momento avviene un disaccordo, un<br />
abbandono del contatto, un riverbero eccessivo ed esclusivo di alcuni caratteri: il corpo va in<br />
escandescenza, mostrando un comportamento squilibrato. È come se le sue evoluzioni<br />
coreutiche, nel tentativo di seguire un vettore unico e separato dal resto delle forze,<br />
cominciassero a disegnare un’altra spirale concentrica, con il vertice indicato da quella tangente<br />
e con l’andatura ciclica, e quindi spiraliforme, scandita dalla sola ciclicità insita in quella singola<br />
forza, che così porta il corpo intero in un luogo ben distante da quello verso cui si concentrano<br />
tutte le forze del rito. Pertanto è il rito stesso a interrompere quel cammino sconosciuto, un<br />
tracciato che non viene affatto identificato con la follia – luogo sociale del non-senso 241 ,<br />
comunque fuori dal circolo – bensì viene inteso come una convocazione, un’attrazione da parte<br />
di un santo non ancora determinato 242 . Successivi rituali si occuperanno di esplorare quella<br />
direzione spiraliforme, affinché anche quel cammino trovi il suo vertice portando con sé il<br />
circolo che lo accoglierà nella sua grammatica, istituendo un nome per quel percorso,<br />
coincidente con un il nome di un altro oricha o di un altro tipo di entità. Per il momento questa<br />
esplorazione viene interrotta, perché le forze perimetrali si stanno avviluppando attorno a un<br />
vertice differente e alla loro costruzione serve un centro per andare avanti.<br />
241 La follia è un «luogo» della spazialità corporea, la cui ampiezza dipende dall’incapacità di attrarre nei propri<br />
confini la comunità che ci si trova attorno. Ciò può essere colto anche nelle parole di M. Augé: «fisicamente ogni<br />
individuo può essere definito dalla somma degli spazi che è capace di dominare, in qualche modo dal suo territorio,<br />
a patto di precisare che i limiti di questo variano in funzione del senso che li percepisce» [Augé M., op. cit., p. 64].<br />
La follia allora è un luogo abbandonato, messo al bando, inesplorato e perciò sconosciuto, incommensurabile, nel<br />
senso che non è possibile conoscerne l’estensione.<br />
242 Si rimanda alla nota 52 a p. 29 del presente lavoro.<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 148