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11.06.2013 Views

della musica, finisce col farsi ciclica anch’essa, offrendo le basi per l’istituzione di una sua veste identitaria, che interpreterà i suoi passi come i codici di una danza tipica. La spirale centripeta Al rito sottratto basta la coreutica libera, sciolta dalle dipendenze di una figura determinata, per portare avanti il suo cammino. Le vibrazioni che attraversano il corpo danzante sono le sue informazioni, un flusso ricco di suggerimenti motori, che tuttavia la danza centrale non ripercuote “fedelmente” – o “banalmente” –: ogni singolo accento sonoro non si traduce necessariamente in un singolo movimento sincronico ad esso, ma è l’intera complessità del flusso vibrante a venire assunta come lo sfondo di un’inerenza coreutica. Non a caso le attenzioni del danzatore sono rivolte altrove: egli non si dirige verso gli strumenti vibratori, ma è concentrato anch’esso verso il centro del circolo, in ascolto della sua stessa cavità risonante. Ora il modello bidimensionale necessita di una terza dimensione. Il centro del circolo non è il soggetto-ballerino: questo è solo un elemento più prossimo a una zona che, come un vortice, apre a un percorso ben più esteso, a una spirale centripeta che porterà il corpus a compiere il suo cammino rituale. Le forze del rito puntano al vertice di un cono vorticoso, a un centro che è il punto di fuga di una serie di vettori della motilità, ma che non è ancora raggiunto dal corpo centrale. Per questo anche il centro del circolo può assumere una tendenza centripeta. Il rito tutto, una volta costituito, inizia a muoversi nelle profondità indicate dalle danze centrali, iniziando un cammino che ogni volta scolpisce come se fosse la prima volta. Il danzatore, agente esperto della danza, giunge fino a un tratto di questo cammino, poi è la sua stessa danza che si distanzia da esso, perché la sua supervisione è un bagaglio troppo pesante per proseguire nella direzione indicata dalle forze del rito. Questo stato di passaggio, che fa transitare lentamente il rito sotto la guida di una danza sottratta, è per il corpo centrale uno stato di trance. Questa non è una possessione –un termine che porta con sé il vizio grammaticale di “dire troppo” 236 , collocando in sé dei riferimenti 236 «Questa difficoltà è la condizione della designazione, […] non per effetto di un difetto del linguaggio, ma perché, al contrario, il linguaggio dice troppo» avviando, di conseguenza «la caccia fino all’estremità del suo dire» [Nancy J. – L., Il pensiero sottratto, p. 36]. Questa è una delle problematiche più care a Wittgenstein, che critica profondamente la teoria della raffigurazione –o della denotazione del linguaggio- proposta dal Circolo di Vienna. IL RITO SOTTRATTO 146

ostensivi e delle oggettivazioni che qui sono sospese: «possessione da parte di … nei confronti di…» 237 – ma uno stato di transito 238 in un luogo di nessuno, dove vi è la nudità di un corpo che si muove nella musica, la cui ciclicità ipnotica trasforma il tempo in uno spazio da percorrere. In questo luogo il corpo centrale porta con sé tutto il rito, grazie al contatto mantenuto tra tutti i partecipanti in virtù delle oscillazioni. Il ciclo di attrazione e ritrazione proprio del contatto, diffuso nei corpi, gli dona la forza di un movimento collettivo. Questi permettono al contatto di assumere una direzione, una tendenza orientata da una certa tipologia areale. L’urgenza di una rispondenza del corpo danzante alle vibrazioni continue e sempre differenti delle pressioni perimetrali fa sì che ogni percezione altra da questa simbiosi venga sacrificata. Così il corpo mantiene da sé, in virtù delle sue nude proprietà, l’andatura nel cammino rituale. Questo distanziarsi da ogni intenzionalità, che sospende ogni soggetto attraverso l’atto, può essere compreso meglio se si considera ciò che accade ad ogni corpo quando è sottoposto a pressioni diverse e stancanti. Si pensi al lavoro degli atleti, che devono mantenere uno schema motorio sacrificando tutto ciò che non è utile alle azioni stesse, al loro sguardo in trance durante una maratona e all’importanza di assecondare un ritmo nel respiro, capace di accordarsi all’andatura, per fondersi ancora di più con essa e non sentire più il peso della fatica. Si pensi anche ai tanti studi sul lavoro degli attori e dei danzatori 239 , ai loro tentativi di muoversi in un territorio privo di giudizi estetici, affinché il loro corpo possa liberare gesti e azioni senza il filtro deformante del proprio ego: anche per loro, la comprensione della stanchezza diviene un aspetto fondamentale. Chi non pratica attività del genere si rapporta alla fatica del corpo come a un limite in cui rimanere al di sotto, evitando di superarlo per paura di sentirsi male, ma forse questa è la paura di mandare a morte la propria soggettività, il proprio controllo cosciente nelle azioni. Il lavoro degli atleti, degli attori e dei danzatori invece si basa su una concezione della stanchezza ben differente: questa delimita una zona di confine che è necessario superare al più presto 240 , per fondere il proprio corpo nel ritmo dell’andatura, per renderlo una cosa sola con l’ambiente collettivo, scenico, partecipativo, con il corpus del rito. È comprensibile che un corpo così sottratto, per riuscire a proseguire il cammino rituale, debba aver maturato una grande esperienza. Altrimenti sarebbe fin Come si vede, la denotazione non rimane solo nell’ambito di una logica formale ma i suoi effetti giungono ovunque si tenti una spiegazione. Nel nostro caso, è il termine «possessione» a rivelare un eccesso grammaticale. 237 Rouget definisce la possessione, proprio in virtù dei suoi caratteri ostensivi, come una trance «identificatoria», in cui i partecipanti ricercano il nome della divinità incarnata. [Cfr. Rouget G., op. cit., p. 44]. 238 La trance può anche mantenersi a lungo in questo luogo sottratto da ogni soggetto. In questo caso, molti studiosi qualificano questo stato con il nome di «erè». [Cfr. Ivi, p. 72]. 239 Qui basterà menzionare l’antropologia teatrale di Grotowski e Barba, concentrata sull’individuazione dei caratteri pre-espressivi della corporeità umana, nonché le tecniche per la loro emersione. 240 A tale proposito, è interessante menzionare un commento di Grotowski a tale proposito: «il fatto che il lavoro sia stancante è assolutamente indispensabile. Spesso dovete sentirvi completamente esausti al fine di rompere qualsiasi resistenza mentale e cominciare a recitare con verità» [Grotowski J., op. cit., p. 274]. IL RITO SOTTRATTO 147

della musica, finisce col farsi ciclica anch’essa, offrendo le basi per l’istituzione di una sua veste<br />

identitaria, che interpreterà i suoi passi come i codici di una danza tipica.<br />

La spirale centripeta<br />

Al rito sottratto basta la coreutica libera, sciolta dalle dipendenze di<br />

una figura determinata, per portare avanti il suo cammino. Le vibrazioni che attraversano il corpo<br />

danzante sono le sue informazioni, un flusso ricco di suggerimenti motori, che tuttavia la danza<br />

centrale non ripercuote “fedelmente” – o “banalmente” –: ogni singolo accento sonoro non si<br />

traduce necessariamente in un singolo movimento sincronico ad esso, ma è l’intera complessità del<br />

flusso vibrante a venire assunta come lo sfondo di un’inerenza coreutica. Non a caso le attenzioni<br />

del danzatore sono rivolte altrove: egli non si dirige<br />

verso gli strumenti vibratori, ma è concentrato<br />

anch’esso verso il centro del circolo, in ascolto della<br />

sua stessa cavità risonante. Ora il modello<br />

bidimensionale necessita di una terza dimensione. Il<br />

centro del circolo non è il soggetto-ballerino: questo è<br />

solo un elemento più prossimo a una zona che, come<br />

un vortice, apre a un percorso ben più esteso, a una<br />

spirale centripeta che porterà il corpus a compiere il<br />

suo cammino rituale. Le forze del rito puntano al vertice di un cono vorticoso, a un centro che è il<br />

punto di fuga di una serie di vettori della motilità, ma che non è ancora raggiunto dal corpo<br />

centrale. Per questo anche il centro del circolo può assumere una tendenza centripeta. Il rito tutto,<br />

una volta costituito, inizia a muoversi nelle profondità indicate dalle danze centrali, iniziando un<br />

cammino che ogni volta scolpisce come se fosse la prima volta. Il danzatore, agente esperto della<br />

danza, giunge fino a un tratto di questo cammino, poi è la sua stessa danza che si distanzia da esso,<br />

perché la sua supervisione è un bagaglio troppo pesante per proseguire nella direzione indicata<br />

dalle forze del rito. Questo stato di passaggio, che fa transitare lentamente il rito sotto la guida di<br />

una danza sottratta, è per il corpo centrale uno stato di trance. Questa non è una possessione –un<br />

termine che porta con sé il vizio grammaticale di “dire troppo” 236 , collocando in sé dei riferimenti<br />

236 «Questa difficoltà è la condizione della designazione, […] non per effetto di un difetto del linguaggio, ma perché,<br />

al contrario, il linguaggio dice troppo» avviando, di conseguenza «la caccia fino all’estremità del suo dire» [Nancy<br />

J. – L., Il pensiero sottratto, p. 36]. Questa è una delle problematiche più care a Wittgenstein, che critica<br />

profondamente la teoria della raffigurazione –o della denotazione del linguaggio- proposta dal Circolo di Vienna.<br />

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